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Autore: Nat_Matryoshka    05/10/2018    0 recensioni
"Durante una notte di tempesta, un anno dopo la fine della guerra, su Naboo nacque un bambino. Aveva i capelli neri come le nuvole che avevano coperto il cielo per tutto il giorno e occhi brillanti come stelle. Era figlio di una principessa e di una canaglia.
Ben Solo aveva dieci anni quando, nella zona più periferica della capitale, nacque una bambina. I suoi genitori la chiamarono Rey e, una volta che fu abbastanza grande da camminare, la affidarono al Maestro Luke Skywalker, per poi sparire senza lasciar traccia. "

*
[What if || Scritta per la Reylo Fanfiction Anthology 2018, "Two Solitudes That Meet"]
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ben Solo/Kylo Ren, Han Solo, Padmè Amidala, Rey
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 5
 



 


“Hai davvero resuscitato un Tooka, quando eri bambino?”

Ben sbuffò, più irritato dall’essersi fatto cogliere impreparato che dalla domanda in sé. Erano seduti nella cabina di pilotaggio, lungo una rotta tranquilla in cui avevano potuto impostare senza problemi il pilota automatico. Per quanto non le fosse mai capitato di guidare grandi navi, a parte i gli speeder e qualche ferrovecchio, Rey si era sentita immediatamente attratta dai comandi del Falcon, installandosi al posto del secondo pilota. Sulle prime l’euforia l’aveva avvolta, poi si era bloccata, come se qualcosa l’avesse colpita: era sicura che Ben l’avrebbe respinta. Stranamente, però, non era accaduto. Anche se erano in viaggio da una sola settimana, la loro convivenza si stava rivelando sorprendentemente semplice da gestire.

“Sì, l’ho fatto.” Scosse appena la testa, un gesto istintivo che portava i bei capelli mossi a sparpagliarsi sul suo viso, come se stesse inconsciamente tentando di coprirsi il più possibile dal suo sguardo. “Ero piccolo, non mi rendevo conto di quel che mi succedeva… e non me ne sono reso conto per parecchio tempo. Un potere del genere ti sembra incredibile, quasi speciale, finché non ti rendi conto di come ti trasforma agli occhi degli altri.”

Rey si morse il labbro inferiore. Ogni domanda era un azzardo, una ferita ancora fresca che lo faceva sussultare come un animale selvatico, eppure aveva bisogno di risposte. Dopo giorni interi in cui non si erano parlati, proseguendo il viaggio come due perfetti sconosciuti, quelle frasi incerte li aiutavano a ristabilire un contatto, seppur minimo.  All’inizio aveva pensato che quel silenzio imbarazzante non si sarebbe mai sciolto, che avrebbero proseguito fino all’inizio della Via Lattea senza nessun cambiamento, persi ognuno nei propri pensieri.

La verità era che affrontare qualunque discussione le faceva paura, perché non avrebbe saputo come comportarsi, e Ben doveva averlo capito. Si erano persino urlati contro, ricordò mentre si torceva le dita in grembo. Avevano iniziato a discutere per un motivo che nemmeno ricordava e lei gli aveva rovesciato addosso tutta la propria frustrazione, il nervosismo per quel viaggio che si prospettava lungo e snervante, probabilmente senza nemmeno una vera destinazione. Sulle prime avevano solo battibeccato, poi Rey aveva lanciato il primo affondo, con rabbia non calcolata, come quando lottavano: io non sono stata così vigliacca da uccidere qualcuno che mi amava. Ben aveva abbassato la testa, il pugno così stretto che le nocche erano sbiancate fino a diventare più chiare del suo viso, la pelle spaventosamente tesa. Sembrava una scultura, aveva pensato la ragazza, un pensiero così assurdo e casuale da non sembrare nemmeno nato dalla sua mente. L’attimo successivo, le sue parole l’avevano investita come una tempesta.

Sì, ho ucciso mio padre. Pensi che non lo sappia? Pensi che l’abbia fatto con gioia, premeditandolo per mesi?  Tu non sai cosa significa vivere con una voce come quella di Snoke nella testa. Aveva scosso la sua, in un moto di agitazione controllata ma disperata. Tu non sai… non immagini cosa significhi cercare di chiuderla fuori, ma non riuscirci in nessun modo, nemmeno aiutato dal tuo Maestro, perché ha paura di te e del tuo potere. Provi a chiedere aiuto a tua madre, ma lei non c’è mai. Tuo padre non può, forse non vuole nemmeno capirti. E quella voce resta lì, sussurra cose, ti consola, ti promette che diventerai migliore… solo se cederai a lui. Non sai cosa significa.

Anche allora, si era morsa un labbro. Era pronta a ribattere, ma Ben l’aveva preceduta.

Credi davvero che mi imbarcherei in un viaggio del genere, se non fossi davvero disperato? Se fossi rimasto a Theed ad aspettare la mia sorte, probabilmente mi avrebbero risparmiato.
Come puoi anche solo pensare che sia semplice?

E poi si era fermato, le guance rosse, gli occhi che brillavano della stessa confusione dolorosa della notte in cui erano fuggiti. Rey l’aveva guardato in viso, forse per sfidarlo, forse per studiare la sua espressione e provare a capirlo, ora che sentiva di aver sbagliato. Lui, però, si era girato per allontanarsi. In qualche modo, doveva aver percepito i suoi pensieri.

Non ho mai chiesto comprensione, aveva mormorato a denti stretti.

Girandosi di scatto, era tornato nella cabina in cui trascorreva le sue notti senza riposo e, poche ore dopo, Rey l’aveva sentito agitarsi nel sonno. Si era avvicinata senza farsi sentire alla sua figura addormentata, l’aveva guardato stringere i denti e rigirarsi, mormorare dei no, no sommessi. Sudato e spettinato, somigliava così tanto ad un bambino spaventato che, per un attimo, le aveva fatto pena.
Stava per sfiorargli i capelli con una carezza leggera, ma la paura di svegliarlo l’aveva fermata. La nave si muoveva piano, avanzava tra le stelle che li osservavano senza giudicarli dall’alto della loro saggezza, e non facevano rumore.
Era rimasta lì, in piedi, ad aspettare, finché non si era finalmente calmato e le braccia avevano smesso di agitarsi sotto al lenzuolo e quelle parole spezzate si erano fermate, inghiottite dalle sue labbra stanche.

Il giorno dopo non si erano rivolti la parola. Quello ancora successivo, a Ben era caduto un utensile con cui stava sistemando il sedile di guida, e quando Rey si era precipitata a raccoglierlo i loro sguardi si erano incontrati con un minuscolo sorriso. Grande abbastanza da riparare, almeno in parte, quel che era successo giorni prima.
Inspirò profondamente, abbandonando quei ricordi. La verità era che le piaceva ascoltare la voce di Ben che parlava, ma non l’avrebbe ammesso nemmeno a se stessa. 

Si era abituata alla sua presenza discreta, aveva memorizzato il suono dei suoi passi sul pavimento del Falcon tanto che, se per un qualunque motivo le loro strade si fossero improvvisamente divise, ne avrebbe sentito la mancanza. Controllavano le rotte insieme, ogni tanto scherzavano lasciandosi andare al ricordo di un allenamento e Ben faceva l’imitazione di Luke, portandola a ridere in maniera incontrollabile, la testa che crollava all’indietro mentre le risate le sfuggivano dalle labbra senza che riuscisse a fermarle. Quando l’eco della risata si spegneva entrambi ricordavano lo scopo della missione, eppure qualche traccia di quel momento restava tra loro. Rey le conservava nel cuore, sperando significassero davvero qualcosa.

“Ero solo un bambino che non sapeva nulla di quel che stava succedendo” tagliò corto. “Poi, crescendo, mi sono reso conto che avrei dovuto tenere per me quel potere. La gente sapeva che ero un Sensibile e già sospettava di me… non c’era motivo di renderli ulteriormente diffidenti.”

Rey alzò gli occhi, e si stupì nel vedere che anche Ben la guardava. I loro sguardi si incontrarono a metà, e lo capì come mai le era capitato prima di quel momento. La solitudine, il timore di non essere accettato, non erano gli stessi sentimenti che provava anche lui, in fondo?  I suoi genitori l’avevano abbandonata perché era una Sensibile e quelli come lei non erano facili da gestire. Forse aveva sperato di trovare amore e comprensione nel suo Maestro, ma Luke non l’aveva mai abbracciata quando aveva paura del buio, non aveva sussurrato parole gentili perché si sentisse a suo agio se l’allenamento si faceva troppo duro… era abile, forte, ma distaccato come se un dolore troppo antico avesse trasformato il suo cuore di eremita in pietra. Ben era l’unico ad aver vissuto quelle situazioni prima di lei, e le stava tendendo la mano, non importava se per aiutarla o per essere aiutato a sua volta.

 “La gente non capisce mai” mormorò ancora il ragazzo, chinando appena lo sguardo, un po’ per imbarazzo, un po’ perché le piaceva perdersi nelle sue riflessioni. “Gli basta tenere lontano chi è diverso e fingere di capirlo, ma a distanza. Per questo nascono sempre meno Sensibili… Luke diceva sempre che, piuttosto che appartenere ad una minoranza, preferiscono ignorare il loro vero potenziale.”

Rimase seduto davanti a lei, le braccia strette al petto, e in un attimo Rey sentì di non potersi trattenere: le parole uscivano dalle sue labbra senza quasi controllarle, aveva solo voglia di parlare e di spiegare tutto, di raccontargli quelle parti della loro infanzia che si somigliavano tanto e di offrirgliele perché la comprendesse, perché si sentisse meno solo e non le urlasse più contro come qualche giorno prima.

“Mi ha parlato” esordì. “Ha parlato anche a me quando ero piccola, poi quando ci allenavamo insieme. Snoke. Non sapevo chi fosse all’epoca, ovviamente… era solo una voce cattiva, sinistra, che mi sussurrava cose. Ho provato a non ascoltarlo, ma più cercavo di ignorarlo più mi invitava a fare quello che non avrei mai voluto fare, faceva leva sulle mie debolezze. Avevo paura, ma non l’ho mai detto a Luke… non so nemmeno perché. Forse non volevo creargli problemi, o magari mi vergognavo di me stessa, di non essere in grado di resistergli.” Si torse le mani in grembo. “Ma quando hai parlato di lui, di quello che ti ha fatto fare, ho riconosciuto quella sensazione. Non l’avrò sentito nella testa per tanto tempo come te, ma…” si trattenne di nuovo. La gola le faceva male come se stesse per scoppiare a piangere, un groppo doloroso di lacrime che non riusciva a mandare giù in nessun modo. “… ma ti capisco. Capisco quel che è successo. Non avrei dovuto reagire come ho reagito.”

Cadde il silenzio, e si permise di prendere un respiro per scacciare le lacrime che stavano per scendere. Accanto a lei, Ben non era più rigido, ma non emanava quella serenità che sperava.

“Ne avevi tutto il diritto.” L’occhiata triste che le lanciò era insopportabile. “Non sei tu a doverti vergognare di quello che sei diventata. Quel privilegio spetta solo a me.”
 

*
 

Quando fu l’ora di andare a letto, lo seguì piano verso la sua cabina. Ben non cercò di fermarla, non rifiutò la sua compagnia, nemmeno dopo essersi disteso e averla vista restare lì, seduta accanto a lui, come se non sapesse bene nemmeno lei come comportarsi. Nemmeno quando sentì le dita di Rey sfiorargli i capelli neri e morbidi si lamentò: forse cercava anche lui quel contatto, in fondo. Era troppo orgoglioso, troppo timido per chiederle espressamente di dormire con lui, ma Rey capì la richiesta muta dietro i suoi occhi. Alla fine si addormentarono vicini come due bambini stremati da una giornata di gioco, Rey con la testa appoggiata sul lato del letto e le gambe sul pavimento, Ben disteso senza grazia, le braccia che penzolavano verso terra. Il mattino dopo ricordava poco o niente di quella notte, a parte di aver sussurrato per calmare il sonno del ragazzo, che continuava ad agitarsi e a mormorare frasi senza senso. Shh, shh faceva, e le labbra impastate di sonno reagivano inconsciamente ai suoi lamenti, finché Ben non si era addormentato di nuovo.

Si assomigliavano come due foglie dello stesso ramo: quel viaggio glielo faceva capire ogni giorno di più. A volte le capitava di percepire una tristezza più grande di lei avvolgerla, e iniziava a chiedersi cosa ne fosse stato dei suoi genitori una volta che l’avevano lasciata da Luke senza dirle nulla, il mantello che frusciava nel buio e i loro passi che si allontanavano. Altre volte rideva a crepapelle e più niente importava, se non quella sensazione inebriante di gioia pura che la scuoteva da capo a piedi come una tempesta. Se si girava, si accorgeva che quegli stessi sentimenti erano dipinti anche sul viso di Ben: se lei soffriva, lui ricordava il dolore. Quando lui sorrideva, un’allegria sottile le allargava il cuore.

Chandrila, Serenno, Hoth, Mustafar: i nomi dei pianeti scorrevano sotto i suoi occhi come parole misteriose. Rey leggeva le mappe, provava ad immaginare scenari, ma Ben respirava lì accanto con calma regolare e lei non riusciva a pensare ad altro che al modo in cui l’aveva calmato la notte prima, ai suoi occhi che scrutavano vecchi diari di bordo, mentre una piega al lato delle labbra tradiva un piccolo sorriso.

Forse erano legati da prima della loro nascita, forse no, ma era davvero importante? Sapeva solo che, nell’incertezza del mondo, Ben Solo era l’unico ad avere le risposte che lei cercava, e che lei rappresentava lo stesso per lui.
 



 



Quando la Regina iniziò ad ammalarsi, l’intero pianeta trattenne il fiato.

Le notizie si rincorrevano di bocca in bocca, nessuno riportava la stessa versione di un altro, ma una cosa era certa: Padmé Amidala veniva consumata dalla malattia giorno dopo giorno, e non c’era nulla da fare. Invano guaritori e saggi avevano raggiunto Theed da lontano per assisterla, ma tutti quanti lasciavano la stanza in silenzio dopo averla visitata, con lo stesso responso sulle labbra. Nessuno avrebbe potuto salvarla, ripetevano, mentre Anakin Skywalker stringeva i pugni e malediceva la sorte che l’aveva preso in giro fino all’ultimo.

Quando nacquero i suoi figli gemelli, tutti tirarono un sospiro di sollievo, persino Anakin. Erano due bambini sani e Padmé non smetteva più di baciarli e di stringerli al petto, felice come il marito non la vedeva da tempo. Ma si trattò di una breve tregua: dopo qualche giorno, la sua salute era di nuovo peggiorata. La Regina deperiva giorno dopo giorno, tanto che non riusciva più nemmeno ad allattare Luke e Leia, né ad alzarsi dal letto per raggiungere la culla e prenderli in braccio. Dopo un mese dalla nascita dei gemelli, le sue condizioni apparivano disperate.

Nella folla di guaritori che si alternavano al capezzale della moglie, Anakin Skywalker si confondeva. Camminava avanti e indietro, disperato, il viso tra le mani: si sentiva impotente. Erano giorni che i consiglieri scuotevano la testa e gli suggerivano di rassegnarsi ad accettare l’inevitabile, ma lui non voleva perdere sua moglie, non poteva. Amava Padmé più di se stesso, e non l’avrebbe mai abbandonata.

I giorni passavano, e una forza oscura tramava alle spalle della corte, senza che nessuno se ne accorgesse. Darth Sidious e Snoke sedevano uno a destra e uno a sinistra di Anakin, sussurrando promesse seducenti che fingevano di alleviare le sue sofferenze. Vuoi davvero salvare tua moglie? Vuoi che Padmé torni dal regno dei morti e ti sorrida, priva di dolore, libera dalla malattia? Possiedi il potere per farlo. Devi solo fidarti di noi, e del Lato Oscuro. Mormoravano incoraggiamenti, lo elogiavano e in silenzio Anakin Skywalker meditava una decisione, si addestrava.

Le notti trascorrevano e morivano all’alba, e con loro le speranze del regno.

Quando al tramonto la Regina si era spenta, tutto il popolo era rimasto in silenzio. Tutti tranne suo marito: un ghigno gli deformava il viso mentre le prendeva una mano, un misto di dolore e rabbia, e di soddisfatta rivincita. Ce l’aveva fatta. Avrebbe sconfitto la morte, e più nessuno avrebbe osato sottrarre chi amava dalle sue mani.
Quella notte, oltre alla Regina, anche l’anima di Anakin aveva lasciato il suo corpo.

Darth Vader rideva istericamente, mentre le lacrime gli riempivano gli occhi.
 
 
   
 
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