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Autore: LeFleurDuMal    12/07/2009    12 recensioni
“Perché mai sei venuto qui, amico diletto?” chiese ancora e rese la voce più affabile, quasi dolce. Ingannevole in quel modo letale. “Ora avvicinati. Per un istante almeno abbracciamoci e abbandoniamoci al pianto e al dolore”.
Saga sta esercitando il potere al Santuario, dopo avere effettuato il colpo di stato. In preda alla follia e al rimorso, non si addormenta. E Aioros torna dal mondo dei morti a fargli visita.
Una Aioros/Saga che segue una Achille/Patroclo.
Genere: Triste, Dark, Drammatico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Gemini Saga, Sagittarius Aiolos
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Autore: LeFleurDuMal
Genere: Triste, Dark, Drammatico
Personaggi Principali: Saga di Gemini, Aioros di Sagitter
Rating: Giallo
In proposito: Saga sta esercitando il potere al Santuario, dopo avere effettuato il colpo di stato. In preda alla follia e al rimorso, non si addormenta. E Aioros torna dal mondo dei morti a fargli visita. La situazione (seppur modificata per ovvi motivi dal momento che Kurumada forse conosce Omero, ma di certo Omero non ha mai conosciuto Kurumada) segue il modello del pianto di Achille per Patroclo nell'Iliade. Chiunque non l'abbia letto, corra. Io e Aphrodite dei Pesci abbiamo gnaulato tutta la notte.
Disclaimer: I credits a questa roba sono di Kurumada, ma potrei spacciare i personaggi per miei cambiando i nomi. Sarebbe bellissimo.
Cose: Dedichiamola al mio Camus, che mi chiama dal mare leggendomi saggi sui miti Greci e che il giorno successivo piange e mi insulta perchè si becca una vagonata angst con la coppia più epica del Santuario. La dedichiamo ad Aphrodite perchè  cerca con me i passi più belli su Skype e  con me ci  gnaula sopra. Al  nostro Pontefice Shion e  ad Hadessama che di certo apprezzeranno. E a  Philos a  cui spero che piaccia.
Sto usando il plurale maiestatis perchè, oltre che Milo, stasera faccio anche un po' Aioros. .__.  <3
Altre Cose: Sono pessima, lo so. Scusatemi. Per tutti coloro che aspettano Neve e Mele Avvelenate: sto arrivando. Non mi sono dimentocata. E' che d'estate divento pigra e ultimamente ho molto sonno. E poi ho una tesi di laurea complicata. Ma arrivo, ve lo giuro, prestissimo. Inoltre siamo molto attivi di là, nell'account GoldSaints, tra le drabble e l'Heramachia che sta giungendo al primo giro di boa con la fine del prologo. A questo proposito vi consiglio di seguirci anche su GOLD INSANITY. Vi amo.


Non ho vissuto abbastanza



Che amai sempre
 questo ti sia prova:
che per quanto abbia amato
non ho vissuto abbastanza.
Emily Dickinson



Dalla finestra giungeva solo il rumore delle onde del mare che si frangevano sulla battigia.
Il sonno lo aveva quasi vinto e aveva appoggiato la nuca allo schienale del seggio – convinto di non meritare il letto, gli agi che allentano gli affanni dal cuore – quindi credette di sognare quando vide venire a lui l’ombra infelice di Aioros, a Sagitter simile in tutto e per tutto: la figura, gli occhi bellissimi, la voce, gli abiti che vestivano il suo corpo di fanciullo.
Si fermò davanti al trono.
“Perché mai sei venuto qui, amico diletto?” domandò Saga e già stringeva il pugno fino a farsi sbiancare le nocche. Poiché Aioros non rispondeva, odiato Aioros, si sporse in avanti, caricò il pugno e scaricò il colpo contro la povera ombra. Non la ferì più di quanto colpì la penombra della sala. Scoprì i denti in un sorriso ferino e i capelli scuri gli scivolarono in avanti, sul petto.
Sentì l’antico odio montargli dentro come un fuoco, una pira funebre, prendergli il cuore. L’antico desiderio ardente.
“Perché mai sei venuto qui, amico diletto?” chiese ancora e rese la voce più affabile, quasi dolce. Ingannevole in quel modo letale. “Ora avvicinati. Per un istante almeno abbracciamoci e abbandoniamoci al pianto e al dolore”.
Si sporse in avanti ancora, gli occhi riarsi dalla follia e dalla febbre, arrossati dai capillari in tensione. Li puntò verso l’ombra defunta del bastardo che nel sole di Atene gli sorrideva ottuso, lo toccava con la mano di un compagno d’arme, senza mai concedersi.
Senza mai capire, Aioros di Sagitter, povera triste ombra tornata dall’Ade.
Ah, ma c’era modo di fargli intendere tutto, adesso. L’avrebbe afferrato, strattonato per i capelli - morbidi riccioli come di Febo Apollo – piegato con forza, l’avrebbe sbattuto a terra, sul pavimento. E che ringraziasse, che non stava domandando soddisfazione appieno, altrimenti avrebbe dovuto sdraiarlo nel fango, nella polvere, nel liquame.
L’avrebbe sopraffatto, umiliato, smembrato, usato violenza fino a farlo gridare e sanguinare. L’antico odio, l’antico desiderio ardente. “Ora avvicinati, Aioros”.
Così disse e tese le braccia, ma non strinse nulla.
Tale fu l’impeto con cui lo fece che sibilò quando chiuse le membra su se stesso, affondando le unghie nella carne delle proprie costole.
Ruggì, gli occhi secchi e doloranti, la testa che gli pulsava dolorosamente imponendogli l’unica urgenza di sottomettere Aioros. Sì girò a cercarlo.
Il ragazzo defunto lo guardava sereno di rimando. Ombra nell’ombra rivolgeva lo sguardo con gli occhi colmi di una tristezza ancestrale, che ha conosciuto la rassegnazione e poi la pace. Gli sarebbe balzato addosso e l’avrebbe preso con la forza, pretendendo il piacere che Sagitter non gli aveva mai dato.
“Tu dormi e di me ti sei dimenticato, Nobile Saga”.
“Dimenticarti?” latrò il Pontefice “Credi sia possibile?”
Sentì il dolore sgorgargli nel petto come se Sagitter il maledetto – nella polvere, deve stare nella polvere – ci avesse piantato la daga d’oro capace di uccidere gli dèi. Sentì la mente che minacciava di strappare il suo grigio, delicato tessuto. Sentì le lacrime sulla soglia delle palpebre.
“Non mi trascuravi da vivo” mormorò Aioros “Non ti curi di me ora che sono morto”.
“Aioros”.
“Dammi la mano. Mai più tornerò dall’Ade, dopo che ti avrò detto quello che ho da comunicarti, Nobile Saga. Mai più nella vita, come accadeva nei giorni degli allenamenti nel sole, ci scambieremo consigli. Mai più sarò tuo modello e mai più tu lo sarai per me. Mi ha inghiottito, ormai, la morte che ebbi in sorte alla nascita. Anche per te è destino, Saga di Gemini, pari degli dèi, morire sotto queste sacre mura.”
Saga strinse i denti.
La collera si sgonfiava, la sentiva abbandonare il suo corpo come l’acqua delle terme nascoste quando si sollevava, fiero e potente, dopo avere preso il bagno quotidiano. Non c’era niente di autorevole, adesso, nel proprio fisico tremante, le spalle larghe incassate, le braccia modellate dalla guerra abbandonate ai fianchi. Si maledisse per la propria debolezza. Maledisse Aioros perché anche da morto riusciva a fare ciò che aveva sempre fatto da vivo: trasformare il suo acciaio in languore.
“Ti odio” disse all’ombra dell’Ade, ma ormai le lacrime – umilianti e sincere – scivolavano sulla sua guancia di uomo. Erano passati anni da quando era stato fanciullo, al fianco di Sagitter che ancora viveva. “Mio Aioros”.
Singhiozzò.
Mio Aioros.
“Ma un’altra cosa ti dico e ti chiedo, se vuoi ascoltarmi” domandò ancora la misera anima, innocente e crudele com’era stata da viva, limpida e feroce come acqua di ruscello, che esisteva e non si curava del dolore di Saga, come il sole non si cura dell’ombra che scaccia.
“Parla”.
“Non dare il tormento al tuo cuore più di quanto il fato ne abbia già messo sulle tue spalle. Nei momenti in cui le tenebre ti abbandonano stremato, smetti di darti pena per il mio destino. Non pensare noi due nella notte che ingannò il Santuario di Athena Glaukopis. Pensa a me e a te nei pomeriggi di luce e di pioggia, fanciulli, o al giorno in cui giungesti al Tempio con tuo fratello. A come i tutori e il Sommo Shion ci allevarono con dedizione perché, una volta ricevuta l’investitura a Cavaliere, ci prendessimo cura l’uno dell’altro”.
Saga singhiozzò ancora, sinistro: il riferimento al fratello che aveva annegato a Capo Sounion lo fece tremare, eppure annuì. Le lacrime che piangeva erano dolci e lenitive, pulivano l’occhio e lo rinfrescavano, dando sollievo ai capillari. La mente più lucida gli offriva pace dall’emicrania. Con il respiro affannoso si rese conto che si andavano schiarendo i suoi capelli neri, mutando nel colore familiare che era stato della sua fanciullezza, quando ancora nessun demone gli albergava nel cuore.
Benedisse Aioros perché anche da morto riusciva a fare ciò che aveva sempre fatto da vivo: trasformare il suo dolore in quiete.
“Come puoi chiedermelo? A me che sono stato la tua rovina e la mia? Quella di tutto il Tempio?”
“Te lo chiedo, Nobile Saga, perché mi tengono lontano le ombre, i fantasmi dei morti. Non lasciano che passi il fiume e che a loro mi unisca”.
“Come puoi chiedermelo, mio Aioros, amato Aioros?” sussurrò il Sacerdote e cadde sulle ginocchia davanti al trono, davanti all’ombra fredda del fanciullo guerriero. “Come puoi pretendere che il mio peccato non mi dilani?”
“Vado errando davanti alla dimora di Hades dalle ampie porte”. Sembrò preda del dolore e del gelo, mentre glielo diceva.
“Cosa ti trattiene? Non ti favorisce il mio rimorso? La colpa che dilania il tuo assassino?”
“No. Mi trattiene l’averti sorriso senza capire, nel sole di Atene. Il toccarti con la mano di compagno d’arme senza concedermi come un amante”.
“Taci!”
Saga spalancò gli occhi, blu come il mare, non nella follia demoniaca da cui era invaso, ma nella collera del giusto. Afferrò da terra il bruciatore di olii sacri e lo scagliò contro l’ombra di Sagitter. Il recipiente andò a sbattere contro al trono, in un rumore metallico che risuonò dolorosamente, poi fracassò a terra, rimanendo basculante sul marmo.
Aioros non si era mosso, perfettamente calmo e innaturale. La compostezza dei morti.
Saga sentì il petto pieno di lacrime e ne pianse ancora.
Come per metterlo più a suo agio, Aioros sedette sul seggio. Occhi dell’uno appoggiati negli occhi dell’altro.
“Taci! Non sei tu Sagitter, ma un ombra ingannevole venuta a gettar sale sulle ferite aperte! Vattene adesso!” Saga si spinse verso l’ombra, camminano sulle ginocchia nella tunica pontificia scomposta. “Vattene, sirena incantatrice! Ombra degli inferi, mi torturerai quando sarò morto!”
“Non ti inganno. Non ti torturo. Devi smettere di piangere perché io trovi pace, Nobile Saga”.
“Taci!”
“Mio Saga”.
“Taci, che il Padre Zeus abbia pietà di te, ombra, taci”. Le parole di Saga scivolarono in un pianto sconnesso, virile, seppur in quell’assenza di consolo. Crollò disperato, la fronte sulle ginocchia del fanciullo Aioros, seduto sul trono che il Sommo Shion aveva a lui affidato.
Mio Saga, mi ha chiamato. Mio Saga.
“Ti ho amato quanto tu hai amato me, mio Saga. Sulle colline sacre, negli uliveti, sulla costa a strapiombo io ti amavo del tuo stesso amore. Ma per quanto ti abbia amato, non ho vissuto abbastanza”.
Gemini che era diventato Pontefice con la forza pensò alle luci dell’alba che avevano visto insieme, aurora dopo aurora, agli allenamenti nell’arena, alle mattine di sole ad ascoltare i mentori declamare Omero ed Eschilo, alle missioni che Shion affidava loro a Rodorio, ai pomeriggi di pioggia, dopo gli allenamenti, in cui si sdraiavano negli alloggi l’uno di fianco all’altro, seminudi. Aioros chiudeva gli occhi con un sorriso sulle labbra piene, i riccioli abbandonati sul cuscino, una mano sul ventre l’altra appoggiata al lato del viso. Ascoltava la pioggia cadere. Saga lo guardava come si sarebbe guardato un dio e fremeva dalla voglia di toccarlo – amante e non compagno d’arme – e invece non lo faceva, mordendosi le labbra.
Ti amavo del tuo stesso amore.
“Taci, ombra. Se sei davvero il mio Aioros, taci.” Gemette.
Aioros tacque.
Saga sospirò abbandonato sul suo grembo. Non lo sentiva nemmeno più freddo, come un’ombra sarebbe dovuta essere. Sotto la guancia, appoggiata sulle sue cosce, adesso sentiva quasi calore.
Pensò a quello che avevano perso – uno la vita, l’altro l’anima – e si sentì tremare.
Gli sarebbe bastata una parola di Sagitter, la sua luce, per scacciare il buio che lo divorava. Aioros che era al suo fianco, ma guardava l’orizzonte e non lui, non l’ombra nei suoi occhi.
Non avrebbe dovuto lasciarlo. Morendo aveva incrinato il patto tacito che li vedeva uno modello dell’altro. Aveva spezzato l’equilibrio. Aveva interrotto quello che Saga aveva aspettato da sempre, sdraiato sulla branda sotto al temporale accanto caro, caldo corpo di Sagitter.
“Non avresti dovuto, Aioros” disse soltanto.
“Perdonami, mio Saga”.
“Tu devi perdonare un folle”. Lo disse rapidamente, prima che il demone tornasse a prenderlo, prima del sorgere del sole, prima dei suoi capelli scuriti, da affondare sotto all’elmo. “Ma io non posso non versare lacrime per te, amico mio amatissimo, che ora giaci con il corpo straziato, perché io non patirò mai più dolore più grande, finché sarò in vita. Ho incrinato il patto tacito che ci vedeva uno modello dell’altro. Ho spezzato l’equilibrio. E adesso piango per te, mio Aioros, che sei sempre stato così dolce”.
Ancora strinse i pugni facendo sbiancare le nocche. Affondò il viso nelle cosce di Aioros, amato e amante che si riconoscevano dopo l’abisso della morte e pianse ancora, a lungo. 
“Dammi la mano, adesso” domandò Sagitter, fanciullo defunto, che era venuto ad affermare l’amore per Saga “Un’ultima volta, perché anche se veglierò sul Tempio, mai più tornerò dall’Ade ora che ti ho detto ciò che dovevi sapere”.
Il Pontefice singhiozzò senza vergogna, sollevò il viso a quello dell’amato che gli sorrideva, col terrore di vederlo dissolversi sotto ai propri occhi.
“Certo, ti obbedirò, farò tutto quello che chiedi. Ora, però, avvicinati. Per un istante almeno abbracciamoci e abbandoniamoci al pianto e al dolore”.
Così disse e tese le braccia, ma non strinse nulla.
Come fumo scomparve l’anima sotto la terra. Se ne andò sibilando.
Saga afferrò con le mani sbiancate il seggio vuoto e gemette, solo con il rumore delle onde del mare che si frangevano sulla battigia, dalla finestra.

   
 
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