Genere: Triste, Dark, Drammatico
Personaggi Principali: Saga di Gemini, Aioros di Sagitter
Rating: Giallo
In proposito: Saga sta esercitando il potere al Santuario, dopo avere effettuato il colpo di stato. In preda alla follia e al rimorso, non si addormenta. E Aioros torna dal mondo dei morti a fargli visita. La situazione (seppur modificata per ovvi motivi dal momento che Kurumada forse conosce Omero, ma di certo Omero non ha mai conosciuto Kurumada) segue il modello del pianto di Achille per Patroclo nell'Iliade. Chiunque non l'abbia letto, corra. Io e Aphrodite dei Pesci abbiamo gnaulato tutta la notte.
Disclaimer: I credits a questa roba sono di Kurumada, ma potrei spacciare i personaggi per miei cambiando i nomi. Sarebbe bellissimo.
Cose: Dedichiamola al mio Camus, che mi chiama dal mare leggendomi saggi sui miti Greci e che il giorno successivo piange e mi insulta perchè si becca una vagonata angst con la coppia più epica del Santuario. La dedichiamo ad Aphrodite perchè cerca con me i passi più belli su Skype e con me ci gnaula sopra. Al nostro Pontefice Shion e ad Hadessama che di certo apprezzeranno. E a Philos a cui spero che piaccia.
Sto usando il plurale maiestatis perchè, oltre che Milo, stasera faccio anche un po' Aioros. .__. <3
Altre Cose: Sono pessima, lo so. Scusatemi. Per tutti coloro che aspettano Neve e Mele Avvelenate: sto arrivando. Non mi sono dimentocata. E' che d'estate divento pigra e ultimamente ho molto sonno. E poi ho una tesi di laurea complicata. Ma arrivo, ve lo giuro, prestissimo. Inoltre siamo molto attivi di là, nell'account GoldSaints, tra le drabble e l'Heramachia che sta giungendo al primo giro di boa con la fine del prologo. A questo proposito vi consiglio di seguirci anche su GOLD INSANITY. Vi amo.
Non ho vissuto abbastanza
questo ti sia prova:
che per quanto abbia amato
non ho vissuto abbastanza.
Emily Dickinson
Dalla finestra giungeva solo il
rumore delle onde del mare
che si frangevano sulla battigia.
Il sonno lo aveva quasi vinto e aveva appoggiato la nuca
allo schienale del seggio – convinto di non meritare il
letto, gli agi che allentano
gli affanni dal cuore – quindi credette di sognare quando
vide venire a lui
l’ombra infelice di Aioros, a Sagitter simile in tutto e per
tutto: la figura,
gli occhi bellissimi, la voce, gli abiti che vestivano il suo corpo di
fanciullo.
Si fermò davanti al trono.
“Perché mai sei venuto qui, amico
diletto?” domandò Saga e
già stringeva il pugno fino a farsi sbiancare le nocche.
Poiché Aioros non
rispondeva, odiato Aioros, si sporse in avanti, caricò il
pugno e scaricò il
colpo contro la povera ombra. Non la ferì più di
quanto colpì la penombra della
sala. Scoprì i denti in un sorriso ferino e i capelli scuri
gli scivolarono in
avanti, sul petto.
Sentì l’antico odio montargli dentro come un
fuoco, una pira
funebre, prendergli il cuore. L’antico desiderio ardente.
“Perché mai sei venuto qui, amico
diletto?” chiese ancora e
rese la voce più affabile, quasi dolce. Ingannevole in quel
modo letale. “Ora
avvicinati. Per un istante almeno abbracciamoci e abbandoniamoci al
pianto e al
dolore”.
Si sporse in avanti ancora, gli occhi riarsi dalla follia e dalla
febbre,
arrossati dai capillari in tensione. Li puntò verso
l’ombra defunta del
bastardo che nel sole di Atene gli sorrideva ottuso, lo toccava con la
mano di
un compagno d’arme, senza mai concedersi.
Senza mai capire, Aioros di Sagitter, povera triste ombra
tornata dall’Ade.
Ah, ma c’era modo di fargli intendere tutto, adesso.
L’avrebbe afferrato, strattonato per i capelli - morbidi
riccioli come di Febo
Apollo – piegato con forza, l’avrebbe sbattuto a
terra, sul pavimento. E che
ringraziasse, che non stava domandando soddisfazione appieno,
altrimenti
avrebbe dovuto sdraiarlo nel fango, nella polvere, nel liquame.
L’avrebbe sopraffatto, umiliato, smembrato, usato violenza
fino a farlo gridare e sanguinare. L’antico odio,
l’antico desiderio ardente.
“Ora avvicinati, Aioros”.
Così disse e tese le braccia, ma non strinse nulla.
Tale fu l’impeto con cui lo fece che sibilò quando
chiuse le
membra su se stesso, affondando le unghie nella carne delle proprie
costole.
Ruggì, gli occhi secchi e doloranti, la testa che gli
pulsava dolorosamente imponendogli l’unica urgenza di
sottomettere Aioros. Sì
girò a cercarlo.
Il ragazzo defunto lo guardava sereno di rimando. Ombra
nell’ombra rivolgeva lo sguardo con gli occhi colmi di una
tristezza
ancestrale, che ha conosciuto la rassegnazione e poi la pace. Gli
sarebbe
balzato addosso e l’avrebbe preso con la forza, pretendendo
il piacere che
Sagitter non gli aveva mai dato.
“Tu dormi e di me ti sei dimenticato, Nobile Saga”.
“Dimenticarti?” latrò il Pontefice
“Credi sia possibile?”
Sentì il dolore sgorgargli nel petto come se Sagitter il
maledetto – nella polvere, deve
stare
nella polvere – ci avesse piantato la daga
d’oro capace di uccidere gli
dèi. Sentì la mente che minacciava di strappare
il suo grigio, delicato
tessuto. Sentì le lacrime sulla soglia delle palpebre.
“Non mi trascuravi da vivo” mormorò
Aioros “Non ti curi di
me ora che sono morto”.
“Aioros”.
“Dammi la mano. Mai più tornerò
dall’Ade, dopo che ti avrò
detto quello che ho da comunicarti, Nobile Saga. Mai più
nella vita, come
accadeva nei giorni degli allenamenti nel sole, ci scambieremo
consigli. Mai
più sarò tuo modello e mai più tu lo
sarai per me. Mi ha inghiottito, ormai, la
morte che ebbi in sorte alla nascita. Anche per te è
destino, Saga di Gemini,
pari degli dèi, morire sotto queste sacre mura.”
Saga strinse i denti.
La collera si sgonfiava, la sentiva abbandonare il suo corpo
come l’acqua delle terme nascoste quando si sollevava, fiero
e potente, dopo
avere preso il bagno quotidiano. Non c’era niente di
autorevole, adesso, nel
proprio fisico tremante, le spalle larghe incassate, le braccia
modellate dalla
guerra abbandonate ai fianchi. Si maledisse per la propria debolezza.
Maledisse
Aioros perché anche da morto riusciva a fare ciò
che aveva sempre fatto da vivo:
trasformare il suo acciaio in languore.
“Ti odio” disse all’ombra
dell’Ade, ma ormai le lacrime –
umilianti e sincere – scivolavano sulla sua guancia di uomo.
Erano passati anni
da quando era stato fanciullo, al fianco di Sagitter che ancora viveva.
“Mio
Aioros”.
Singhiozzò.
Mio Aioros.
“Ma un’altra cosa ti dico e ti chiedo, se vuoi
ascoltarmi”
domandò ancora la misera anima, innocente e crudele
com’era stata da viva,
limpida e feroce come acqua di ruscello, che esisteva e non si curava
del
dolore di Saga, come il sole non si cura dell’ombra che
scaccia.
“Parla”.
“Non dare il tormento al tuo cuore più di quanto
il fato ne
abbia già messo sulle tue spalle. Nei momenti in cui le
tenebre ti abbandonano
stremato, smetti di darti pena per il mio destino. Non pensare noi due
nella
notte che ingannò il Santuario di Athena Glaukopis. Pensa a
me e a te nei
pomeriggi di luce e di pioggia, fanciulli, o al giorno in cui giungesti
al
Tempio con tuo fratello. A come i tutori e il Sommo Shion ci allevarono
con
dedizione perché, una volta ricevuta l’investitura
a Cavaliere, ci prendessimo
cura l’uno dell’altro”.
Saga singhiozzò ancora, sinistro: il riferimento al fratello
che aveva annegato a Capo Sounion lo fece tremare, eppure
annuì. Le lacrime che
piangeva erano dolci e lenitive, pulivano l’occhio e lo
rinfrescavano, dando
sollievo ai capillari. La mente più lucida gli offriva pace
dall’emicrania. Con
il respiro affannoso si rese conto che si andavano schiarendo i suoi
capelli
neri, mutando nel colore familiare che era stato della sua
fanciullezza, quando
ancora nessun demone gli albergava nel cuore.
Benedisse Aioros perché anche da morto riusciva a fare
ciò
che aveva sempre fatto da vivo: trasformare il suo dolore in quiete.
“Come puoi chiedermelo? A me che sono stato la tua rovina e
la mia? Quella di tutto il Tempio?”
“Te lo chiedo, Nobile Saga, perché mi tengono
lontano le
ombre, i fantasmi dei morti. Non lasciano che passi il fiume e che a
loro mi
unisca”.
“Come puoi chiedermelo, mio Aioros, amato Aioros?”
sussurrò
il Sacerdote e cadde sulle ginocchia davanti al trono, davanti
all’ombra fredda
del fanciullo guerriero. “Come puoi pretendere che il mio
peccato non mi
dilani?”
“Vado errando davanti alla dimora di Hades dalle ampie
porte”. Sembrò preda del dolore e del gelo, mentre
glielo diceva.
“Cosa ti trattiene? Non ti favorisce il mio rimorso? La colpa
che dilania il
tuo assassino?”
“No. Mi trattiene l’averti sorriso senza capire,
nel sole di
Atene. Il toccarti con la mano di compagno d’arme senza
concedermi come un
amante”.
“Taci!”
Saga spalancò gli occhi, blu come il mare, non nella follia
demoniaca da cui era invaso, ma nella collera del giusto.
Afferrò da terra il
bruciatore di olii sacri e lo scagliò contro
l’ombra di Sagitter. Il recipiente
andò a sbattere contro al trono, in un rumore metallico che
risuonò
dolorosamente, poi fracassò a terra, rimanendo basculante
sul marmo.
Aioros non si era mosso, perfettamente calmo e innaturale.
La compostezza dei morti.
Saga sentì il petto pieno di lacrime e ne pianse ancora.
Come per metterlo più a suo agio, Aioros sedette sul seggio.
Occhi dell’uno appoggiati negli occhi dell’altro.
“Taci! Non sei tu Sagitter, ma un ombra ingannevole venuta a
gettar sale sulle ferite aperte! Vattene adesso!” Saga si
spinse verso l’ombra,
camminano sulle ginocchia nella tunica pontificia scomposta.
“Vattene, sirena
incantatrice! Ombra degli inferi, mi torturerai quando sarò
morto!”
“Non ti inganno. Non ti torturo. Devi smettere di piangere
perché io trovi pace, Nobile Saga”.
“Taci!”
“Mio Saga”.
“Taci, che il Padre Zeus abbia pietà di te, ombra,
taci”. Le
parole di Saga scivolarono in un pianto sconnesso, virile, seppur in
quell’assenza di consolo. Crollò disperato, la
fronte sulle ginocchia del
fanciullo Aioros, seduto sul trono che il Sommo Shion aveva a lui
affidato.
Mio Saga, mi ha chiamato.
Mio Saga.
“Ti ho amato quanto tu hai amato me, mio Saga. Sulle colline
sacre, negli uliveti, sulla costa a strapiombo io ti amavo del tuo
stesso
amore. Ma per quanto ti abbia amato, non ho vissuto
abbastanza”.
Gemini che era diventato Pontefice con la forza pensò alle
luci dell’alba che avevano visto insieme, aurora dopo aurora,
agli allenamenti
nell’arena, alle mattine di sole ad ascoltare i mentori
declamare Omero ed
Eschilo, alle missioni che Shion affidava loro a Rodorio, ai pomeriggi
di
pioggia, dopo gli allenamenti, in cui si sdraiavano negli alloggi
l’uno di
fianco all’altro, seminudi. Aioros chiudeva gli occhi con un
sorriso sulle
labbra piene, i riccioli abbandonati sul cuscino, una mano sul ventre
l’altra
appoggiata al lato del viso. Ascoltava la pioggia cadere. Saga lo
guardava come
si sarebbe guardato un dio e fremeva dalla voglia di toccarlo
– amante e non
compagno d’arme – e invece non lo faceva,
mordendosi le labbra.
Ti amavo del tuo
stesso amore.
“Taci, ombra. Se sei davvero il mio Aioros, taci.”
Gemette.
Aioros tacque.
Saga sospirò abbandonato sul suo grembo. Non lo sentiva
nemmeno più freddo, come un’ombra sarebbe dovuta
essere. Sotto la guancia,
appoggiata sulle sue cosce, adesso sentiva quasi calore.
Pensò a quello che avevano perso – uno la vita,
l’altro
l’anima – e si sentì tremare.
Gli sarebbe bastata una parola di Sagitter, la sua luce, per
scacciare il buio che lo divorava. Aioros che era al suo fianco, ma
guardava
l’orizzonte e non lui, non l’ombra nei suoi occhi.
Non avrebbe dovuto lasciarlo. Morendo aveva incrinato il
patto tacito che li vedeva uno modello dell’altro. Aveva
spezzato l’equilibrio.
Aveva interrotto quello che Saga aveva aspettato da sempre, sdraiato
sulla
branda sotto al temporale accanto caro, caldo corpo di Sagitter.
“Non avresti dovuto, Aioros” disse soltanto.
“Perdonami, mio Saga”.
“Tu devi perdonare un folle”. Lo disse rapidamente,
prima
che il demone tornasse a prenderlo, prima del sorgere del sole, prima
dei suoi
capelli scuriti, da affondare sotto all’elmo. “Ma
io non posso non versare
lacrime per te, amico mio amatissimo, che ora giaci con il corpo
straziato,
perché io non patirò mai più dolore
più grande, finché sarò in vita. Ho
incrinato il patto tacito che ci vedeva uno modello
dell’altro. Ho spezzato
l’equilibrio. E adesso piango per te, mio Aioros, che sei
sempre stato così
dolce”.
Ancora strinse i pugni facendo sbiancare le nocche. Affondò
il viso nelle cosce di Aioros, amato e amante che si riconoscevano dopo
l’abisso della morte e pianse ancora, a lungo.
“Dammi la mano, adesso” domandò
Sagitter, fanciullo defunto,
che era venuto ad affermare l’amore per Saga
“Un’ultima volta, perché anche se
veglierò sul Tempio, mai più tornerò
dall’Ade ora che ti ho detto ciò che
dovevi sapere”.
Il Pontefice singhiozzò senza vergogna, sollevò
il viso a
quello dell’amato che gli sorrideva, col terrore di vederlo
dissolversi sotto
ai propri occhi.
“Certo, ti obbedirò, farò tutto quello
che chiedi. Ora,
però, avvicinati. Per un istante almeno abbracciamoci e
abbandoniamoci al
pianto e al dolore”.
Così disse e tese le braccia, ma non strinse nulla.
Come fumo scomparve l’anima sotto la terra. Se ne
andò
sibilando.
Saga afferrò con le mani sbiancate il seggio vuoto e
gemette, solo con il rumore delle onde del mare che si frangevano sulla
battigia, dalla finestra.