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Autore: fotone    12/10/2018    1 recensioni
Un filosofo è innamorato di una donna, la quale è prossimo a sposare; improvvisamente, a causa di un incidente, lei muore, a poco tempo dal loro matrimonio. L'unico rifugio che il nostro filosofo trova, per fuggire da questa realtà improvvisamente desolata e decadente, è la filosofia. Con numerosi riferimenti filosofici e letterali, tenta disperatamente di metabolizzare la sua perdita e darvi un senso. In una sorta di escapismo, si affida completamente alla ragione, alla filosofia, a ciò che sa, al suo cervello, per tentare di sfuggire da un sentimento troppo forte per essere adeguatamente affrontato e vissuto. Piuttosto che piangere, il suo amore lo fa pensare a ciò che ha studiato.
Genere: Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Stamattina, mi sveglio. Mancano veramente pochi giorni, al mio matrimonio con Sabrina. La guardo e sorrido estasiato: sono veramente fortunatissimo ad unirmi per sempre a questa incantevole donna. Prima di lavarci e vestirci, andiamo in cucina a fare colazione. Io metto una fetta di pane nel tostapane, la voglio mangiare con un po’ di marmellata. Mentre faccio ciò, Sabrina mette su il caffè e io respiro profondamente – lasciandomi inebriante dall’aroma del caffè che si sta scaldando. Mentre aspetto che il pane sia pronto, mi siedo a tavola, dove Sabrina sta iniziando a mangiare dei biscotti al cioccolato. Inizio a considerare l’esistenza, o almeno ci provo, essendomi appena svegliato e non riuscendo a concentrarmi abbastanza per riflettere. Mi accorgo che il mio pane è ormai bruciato, quindi decido di dare un bacio a Sabrina e scendere al bar sotto casa, dove posso tranquillamente pensare, senza rischiare di che il mio cibo si bruci. Scendo e ordino una brioches alla marmellata e un caffè macchiato. Quando mi servono, li porto ad un tavolo, dove mi abbandono alle considerazioni filosofiche che, da sempre, costellano le mie giornate. Lascio che una di queste, come sempre, nasca spontanea, come collegamento che risulterà da uno degli stimoli che l’ambiente esterno mi offre. Vedo una ragazza, dai capelli rossi e ondulati, che siede davanti ad una mensa di fogli, impegnata a studiare, mentre sorseggia la sua spremuta d’arancia. Vedendola impegnata nell’ammirevole e complesso atto di acquisizione di nuove informazioni, l’unica cosa che mi viene in mente è, “semplicemente”, Renée Descartes – o, come è conosciuto in Italia, Cartesio. Egli parlò molto di conoscenza, che era secondo lui, come secondo i suoi contemporanei Bacone ed Hobbes, accessibile a tutti, come posso vedere chiaramente io stesso – potendo ammirare questa bella ragazza che studia e apprende, mostrandoci il cambiamento di un mondo misogino che, un tempo, non avrebbe neanche mai offerto, ad una donna, l’occasione di studiare. Noto che la ragazza sta studiando medicina e ripenso automaticamente che la scienza in effetti era, per Descartes, niente meno che una sorta di conoscenza evidente. Disse, nelle sue opere, che la conoscenza era tale solo se rispondeva ai requisiti di “certezza” e di “distinzione”. Dava estrema importanza alla ricerca della verità – cosa che, io, spero di mettere abbondantemente in atto – e riteneva che essa fosse possibile solamente tramite l’esercizio del dubbio metodico. Infatti, ogni cosa poteva essere, secondo lui, messa in dubbio, fino alla nostra mera e banale esistenza; era giunto alla risoluzione di questo semplice e complesso dubbio con la sua famosa asserzione “cogito, ergo sum”, ossia “penso, quindi esisto”. Era però stato necessario, per lui, porsi la questione della propria esistenza come dubbio, poiché egli pensava che, solamente dopo aver messo in discussione ogni cosa, un uomo poteva riconoscere l’esistenza di un qualcosa di indubitabile. Questa esistenza fu ancora data per scontata, dopo che Cartesio la provò, per molti secoli: ognuno era ormai abituato a considerare reale l’esistenza, dopo lo storico “cogito, ergo sum” di Descartes. Nel corso del secolo scorso, i filosofi perlopiù europei si occuparono principalmente del significato dell’esistenza, ora che la sua essenza era stata ormai da Cartesio asserita, così che si diffusero movimenti filosofici quali il nichilismo, l’esistenzialismo e l’assurdismo, i quali, avendo già ormai abbandonato il religioso periodo del medioevo, avevano avanzato un’argomentazione anticristiana sostenendo che “la conoscenza non avesse alcun significato” e, addirittura, che “Dio fosse morto”. Una volta conclusa la mia colazione, porto riporto il piattino e la tazzina sul bancone, dove pago, prima di andare. Torno in casa, e arrivo al nostro appuntamento. Metto le chiavi nella serratura, le giro continuando a pensare al pensiero cartesiano, e finalmente apro la porta. Mentre la chiudo alle mie spalle, abbasso lo sguardo e vedo Sabrina, per terra. Spaventato, trasalisco, sbianco e mi getto su di lei. Cosa succede? La guardo, preoccupato, con le lacrime agli occhi. È ormai bianca, ha la bocca aperta, è circondata da biscotti. Piango convulsamente, confuso, le faccio una disperata respirazione bocca a bocca e premo più volte sul suo addome, facendo solo uscire alcune briciole del biscotto che pare avere in gola. Ancora piangendo, chiamo un’ambulanza, che arriva assieme ai carabinieri. I paramedici controllano il corpo di Sabrina, controllano se c’è qualcosa da fare, mente io rimango in un angolo, in lacrime. Mi dicono che pare sia morta da un po’, che non possono fare niente. Un biscotto le ha ostruito la trachea, portandola ad un’asfissia che le ha causato ipossia, ossia una letale carenza di ossigeno nei tessuti, che si ripercuote soprattutto sui tessuti e gli organi più sensibili alla scarsità di ossigeno, come il cervello. Piango, piango ininterrottamente. È tutta colpa mia, lo so. Questa cosa è stata possibile solamente perché mi trovavo lontano da lei, mentre mangiava quei biscotti di cui uno le è chiaramente andato di traverso, strozzandola… avrei potuto anche sentire le sue urla, se fosse stata in grado di emetterle. È chiaro che ha tentato in ogni modo di fare qualcosa, ogni cosa, per sopravvivere, ma non poteva fare niente, neanche chiamare un ambulanza. I paramedici mi informano del fatto che, in queste situazioni, dopo un breve periodo di apnea descritto come “fame d’aria”, i tessuti più importanti iniziano immediatamente a smettere di funzionare, a partire dal cervello, che deve averla portata a perdere la coscienza in poco tempo, facendola morire in meno di un minuto; perciò, la sua sofferenza non deve essere stata prolungata. Ciò mi consola solamente in parte: Sabrina non è potuta coesistere a lungo con il suo dolore, per fortuna, però adesso lei non esiste più e mi ha abbandonato all’alba del nostro matrimonio… mi sento svuotato, disarmato, inerme. Sabrina… non penso di averla mai abbracciata abbastanza. Non penso di averla mai baciata abbastanza. Questi pensieri, dopo la morte di qualcuno che si ama e con cui si era felici, sono naturali, ma è certo che ricorderò sempre con orrore l’ultimo bacio che le ho dato: quell’inquietante e terribile bacio che ho posato sulle sue fredde labbra cadaveriche nel mio disperato tentativo di riportarla a me, con della respirazione bocca a bocca. Se solo fossi stato qui… se solo fossi stato presente nel momento del terribile incidente che me l’ha strappata, in un modo così codardamente crudele, all’alba del nostro matrimonio, all’alba del giorno in cui avremmo celebrato insieme la nostra unione, per iniziare la nostra dolce e luminosa vita insieme… allora, forse sarebbe ancora viva. Forse, sarebbe sopravvissuta. Forse, adesso sarebbe ancora qui, per ridere con quei suoi meravigliosi denti bianchissimi e agitare i suoi dolcissimi ricci neri. Forse, sarebbe qui, per alzare gli occhi al cielo, di fronte ai miei soliti e incorreggibili giri mentali. Forse, sarebbe qui, di fronte a me, per sorridere e darmi un pugno scherzoso sulla spalla. Ho sempre saputo che lei era il mio punto fermo nel mare mosso dell’esistenza. Ho sempre saputo che lei aveva i piedi per Terra, mentre la mia testa viaggiava per le sue innumerevoli circonferenze mentali, fra le nuvole, e che quindi, mi avrebbe mostrato le meraviglie del mare aperto che potrei trovare se sapessi stare al mondo; desideravo semplicemente, in cambio, portarla a vedere le Stelle, le Stelle del mio mondo. L’avrei indicato le costellazioni sopra la nostra testa, le avrei mostrato il passaggio del Sole, sul suo carro alato. Le avrei mostrato gli Dei, le avrei permesso di sedersi fra di loro. Lei, mia Dea, superiore ad ogni Dea. Più bella di Afrodite, più intelligente di Atena, più importante è familiarmente rassicurante di Era. Più coraggiosa e spontanea di Artemide. Più buona e generosa di Demetra. Più graziosa di Ebe. Più affascinante di Eos. Più dolce di Estia. Più speranzosa di Iris. Migliore di tutte, impareggiabile, in grado di vincere qualsiasi paragone. Potrò mai trovare un’altra donna che possa ispirarmi qualcosa di divino? Era quasi come se la semplice essenza di Sabrina… suggerisse la sua divinità. Ora, ora che ogni cosa è stata distrutta da uno stupido malfunzionamento corporeo, la mia mente deve ovviamente torturarmi facendomi pensare ai figli che avremmo potuto avere… facendomi venire in mente alcuni nomi, per le bambine. Gaia, Aurora, Iris, o, come già avevo pensato, Sofia… nomi che sono collegabili alla cultura greca, nomi che sono semplicemente molto belli… Come mai potrei chiamare una figlia che avrei da un’altra donna? La mia stupida mente riesce solo a ridere, tra le lacrime, pensando al nome “Federica” che sarebbe una versione italiana e femminile del nome di Friedrich Nietzsche, del cui pessimismo mi sento ora, di fronte alla morte della donna che amavo da anni, pieno. Ovviamente, chiamare una bambina con un nome che mi ricorda la donna che avrei amato prima di amare la sua ipotetica madre… è decisamente una pessima idea. Ma, d’altronde, potrei mai amare un’altra donna, ora? Una donna che non abbia il suo profumo? Una donna le cui labbra non abbiano lo stesso sapore? Una donna con un differente modo di porsi, con una differente aura, con un differente modo di camminare, o di parlare? Potrei mai amarla davvero, senza che paragoni con Sabrina mi vengano spontanei? Non lo so. Nel Simposio, Pausania esposte l’esistenza di quelli che lui chiamava eros celeste – elevato e puro – ed eros terrestre – legato alla mera e semplice attrazione fisica. Sabrina era il mio eros celeste ed il mio eros terrestre. Era la mia metà, la metà che mi mancava e alla quale mi ero ricongiunto, se faccio riferimento al mito degli androgini presentato da Aristofane. In parole povere, la amavo. Cosa farò ora, ora che ho perso di nuovo la mia metà, che avevo ritrovato? Come raggiungerò di nuovo quello stato di perfezione e completezza in cui mi trovavo prima, sapendo di avere lei? Mi sento… svuotato. Se prima avevo ritrovato quella meta di me della cui mancanza avevo sofferto per tutta la vita, ora mi è stata tolta dal fato. Esiste una qualsiasi ragione per vivere? Già da molto tempo, io so di dipendere da lei, io so che la mia storia non ha senso di continuare senza la mia Sabrina. Cosa dovrei fare? Andare avanti a girare per il mondo, con due sole gambe e due sole braccia, inesorabilmente e per sempre incompleto? Devo continuare ad esistere in questa situazione che non prevede mai più la completezza di un tempo? Sapendo che la realtà è regolata da una scienza che non permette soluzioni, non permette di tornare indietro e cambiare le cose? Ma perché non posso tornare indietro nel tempo e salvare Sabrina? Perché? Potrei salvare Sabrina, potrei salvare Clementine, così tante vite sono state distrutte e svuotate del loro valore, quando non hanno addirittura raggiunto un termine, e noi non possiamo fare niente! Perché? Respiro. Ripenso a ciò che ho letto nei saggi di fisica che ho letto. Noi, in quanto esseri dotati di massa, non possiamo tornare indietro nel tempo. I nostri corpi non possono abbandonare le loro masse e noi non possiamo abbandonare i nostri corpi, in quanto la nostra coscienza e la nostra percezione dipendono in modo diretto dal nostro cervello, che è appunto una parte del nostro corpo dotata di massa. Tornare indietro nel tempo ha il solo scopo di percepire ancora ed eventualmente cambiare lo cose; in questo caso cambiare gli incidenti capitato a Sabrina e alla piccola Clementine. Ma le cose sono già state cambiate dalla legge fisica fondamentale che regola il tempo, ovvero la seconda legge della termodinamica, la quale asserisce che qualsiasi sistema isolato tenderà sempre ed inevitabilmente a raggiungere il livello massimo di “entropia”, di disordine, di equilibrio. Infatti se abbiamo, in una tazza, del latte freddo e del caffè caldo, essi si mescoleranno sempre, raggiungendo una sorta di “disordinato” equilibrio che non potrà mai diminuire in quanto latte e caffè non si separeranno mai. Così, le cose cambiano e noi le seguiamo nel loro cammino, viaggiando sempre nel futuro – essendo indissolubilmente legati ad un corpo materiale e soggetto all’azione del tempo. Il tempo non è dunque come un enorme orologio che scorre e fa cambiare le cose, bensì è proprio il principio secondo il quale le cose, avendo una causa, cambiano. Se guardiamo dritto davanti a noi, possiamo vedere cosa accade in quel punto in questo momento, ma se guardiamo una galassia lontana milioni di anni luce, vedremo ciò che vi accadeva tanti anni fa quanti anni luce che ci separano – ovvero quegli eventi sui quali non possiamo più in alcun modo influire. Possiamo perciò dedurre che il tempo ha la “velocità della luce” e che, se ci potessimo muovere più velocemente di essa, potremmo arrivare in un punto prima che l’evento da noi osservabile nel nostro presente accada. Non possiamo viaggiare nemmeno ad una velocità identica a quella della luce e possiamo capire il perché se analizziamo l’equazione più famosa di Einstein, la più famosa della fisica, la quale non si limita solamente a E = mc^2. Essa infatti, come pochi sanno, descrive solamente gli oggetti dotati di massa che non si muovono. L’intera equazione è E^2 = (mc^2)^2 + (pc) ^2. Tale equazione si può ottenere collegandola al teorema di Pitagora. In tale equazione, la lettera p indica la quantità di moto – o “momentum” – dell’oggetto. Nei casi di particelle prive di massa, come la luce, la lettera m corrisponderà a 0 e la formula sarà dunque semplificabile a E^2 = (pc)^2, quindi E = pc. La quantità di massa di un oggetto è dunque inversamente proporzionale alla sua velocità, a pari energia. Quindi noi non possiamo, in quanto esseri dotati di massa, raggiungere la velocità della luce, semplicemente proprio per tale fondamentale principio di proporzionalità inversa. La velocità di un oggetto in fondo non è che la velocità della luce moltiplicata per il rapporto tra la quantità di moto dell’oggetto e la sua energia – ovvero V = C x pc/E. Man mano che la sua quantità di moto aumenta, il rapporto pc/E si avvicina sempre più ad essere 1 e, di conseguenza, la velocità (V) si avvicina sempre più ad essere uguale a quella della luce (C). Se osserviamo di nuovo la formula di prima possiamo però constatare che E è uguale a pc solo se m è uguale a 0. Perciò, perché qualcosa vada alla velocità della luce, deve avere una massa uguale a 0, o essere privo di massa. Non potrò mai tornare al fugace attimo in cui Sabrina ha iniziato a tossire, con quel biscotto in gola, perché le conseguenze sono ormai avvenute e hanno reso quell’attimo per me irraggiungibile. È fuggito, come il tempo fa sempre, come una serie di granelli di sabbia che fra le mani, che passano abilmente fra le mie dita e scappano, lontane da me. Così, il passato sfugge davanti ai miei occhi. Il presente di ora non sarà mai più visto ancora dai miei occhi. Numerosi filosofi, così come fisici, si sono preoccupati della natura del tempo, tantissimi di essi. Essa è ancora poco chiara, ci sono ancora dei buchi nella descrizione intuitiva che possiamo darne, ma una cosa che chiunque sa per certo, ad intuito, è proprio che il passato è ciò che il nostro presente è destinato a divenire, e il futuro è quel misterioso stato in cui le cose si troveranno un giorno. Se guardo un fiore, so di non poter mai più tenere il seme che era quel fiore tra le mani; potrò tenere altri semi, ma quel seme in particolare che il fiore era in passato non esiste più. Non posso guardare quel fiore appassito, se non aspetto che la natura segua il suo corso, che i cicli della vita e della morte si completino. Un giorno anche io – come Sabrina – cesserò di esistere, un giorno diventeremo entrambi cenere senz’anima. Un giorno, sia io che lei siamo stati bambini e non torneremo mai in quel meraviglioso stato, pieni di futuro e di potenziale. Il me bambino non esisterà mai più, così come la Sabrina bambina non esisterà mai più, o la Sabrina viva non esisterà mai più, o la Clementine che non era mai stata investita non esisterà mai più. Ognuno di noi è in costante cambiamento, ognuno di noi si avvicina irrimediabilmente ed inesorabilmente alla propria scomparsa, ogni secondo che passa. Per quanto ne sappiamo, l’ossigeno – o azoto, non lo so – che respiriamo potrebbe essere, di per sé, velenoso e nocivo per il nostro organismo, e ci uccide lentamente sin dal nostro primo respiro. Alcuni di noi, possono avere un destino “più emozionante” morendo improvvisamente, come Sabrina, prima che la terza tra le nostre Parche decida che è giunto il momento di tagliare il filo della nostra vita, di porre al nostro cammino una svolta radicale. Le Parche sanno che l’universo non viene disturbato, dalla morte di un umano, allora perché la morte di Sabrina dovrebbe mai essere importante? Perché la mia lo dovrebbe essere? Non lo so, suppongo semplicemente lo sia per me. La mancanza di Sabrina, non è tanto dannosa per lei quanto lo è per me. Come disse infatti il filosofo Epicuro, e in seguito ripeté Lucrezio in De rerum Natura, non dobbiamo temere la morte, in quanto lei non esiste quando noi esistiamo e noi non esistiamo quando lei esiste. Secondo tale visione meccanicista della realtà, io non ho motivo di temere la mia morte, come non ho motivo di pensare che sia un peccato, per la povera Sabrina. È finita, non c’è niente da dire. Quando qualcuno ci abbandona, chi rimane soffre più di chi se ne è andato, ma ciò è scontato. Amavo Sabrina. Mancava di quella ridondante superficialità che permea ovunque… ovunque; che posso vedere chiaramente nei miei studenti, come nei miei colleghi, come nei miei amici, come nelle sue amiche. Non aveva la sottile ed impercettibile incapacità di percepire veramente e capire i dettagli più importanti, di vedere quelli infime e vitali variazioni delle espressioni facciali, quelle infime e vitali variazioni nel tono della voce di una persona. Conosceva in mondo dell’infinitamente piccolo come le sua tasche, riusciva a cogliere le più cose più piccole e reagire ad esse con dolcissima appropriatezza. Il suo modo di guardare, il suo modo di ascoltare, il suo modo di muoversi, il suo modo di parlare… queste cose vincevano qualsiasi confronto con qualsiasi donna, con qualsiasi persona. Mi sono domandato varie volte se avesse senso dire che la amavo, e sono sempre giunto alla stessa conclusione. Sabrina aveva una saggezza non comune, una profondità di pensiero unica, una spontanea e quasi data per scontata capacità di analisi che la rendevano speciale; mi sono chiesto troppe volte se non mi stessi auto convincendo della sua importanza per me, perché il nostro legame potesse essere irreale. Sabrina era una delle poche cose reali della mia vita. E se qualcosa ora non mi sembra reale, è la sua morte: quando mi guardo allo specchio, dopo essermi lavato il viso, e sprofondo nelle mie iridi, sono travolto dalla sensazione che questo recente avvenimento sia un’illusione, che non sarebbe mai dovuto succedere. Mai. Avevo veramente la sensazione che non mi avrebbe mai lasciato. Eppure, lo ha fatto, e questo fatto sembra sbagliato, incorretto, irreale, sembra non essere parte della nostra storia. Sartre aveva detto, nelle sue riflessioni, che la vita inizia a sembrare reale solamente quando diventa “una storia”. Nel momento in cui siamo qui e gli avvenimenti accadono, intorno a noi, siamo lontani da essi. Dobbiamo sederci e raccontare quello che è successo e quello che è la nostra vita, per percepito davvero come reale. Riconosco che ciò non possa essere valido per chiunque, ma lo è per me, come lo è per il filosofo francese Sartre. In questo momento, sono schiacciato da un opprimente e disarmante senso di surrealtà che mi rivolta le viscere; anzi, no, non esattamente… me le lascia… vacue. Spaventosamente vacue. Credo di essere, da anni, contingente a Sabrina, alle sue piccole cose, e mi sento ora svuotato della mia “necessarietà”, senza di lei, quasi non avessi un reale scopo per il quale dovrei esistere. Io, come corpo, come mente, non sento più uno scopo finale per stare qui. Capisco lo scopo causale, da un punto di vista biologico, ma lo scopo finale? Qual è, ora, lo scopo della mia esistenza? Se non posso sposare Sabrina, se non posso amarla, se non posso costruire una famiglia con lei? Quando la avevo, era quasi spontaneo che dessi una visione metafisica all’amore. Le mie relazioni precedenti sono state tutte improntate da un dubbio fondamentale, dal dubbio che forse l’amore che io provavo non fosse reale. Dal dubbio che esso fosse, come spiegato nel De rerum natura, niente più che un desiderio di possesso di una cosa non definita, di una cosa astratta e poco identificabile. Non dico di non aver mai amato nessun’altra, ma non ho mai amato indubbiamente nessun altra. Non avevo dubbi razionali da avanzare, con lei. Era più di un bel corpo, come erano forse le mie fidanzatine dell’adolescenza. Era più di un’amicizia mista ad attrazione, come anche sono potute essere quelle venute più avanti. Era… una sorta di amicizia fortissima con una persona verso la quale ero attratto. Era come avere un’amicizia lunga anni, con una donna bellissima. La confortevole sensazione che riusciva ad emanarmi non era nulla di focoso, nulla di esplosivo, nulla di impetuoso come gli amori carnali di tutti i giovani Werther a cui insegno. Ormai, dopo anni di relazione, il mio cervello si era abituato di potersi fidare di quanto Sabrina faceva per me, emotivamente. Mi suscitata piacevoli, calme, confortevoli sensazioni di pace – era come l’autunno, era come guardare la pioggia mentre si è in casa con una cioccolata calda. Ora mi chiedo, vivere sarà ancora altrettanto semplice, ora che mi hanno tolto la mia dolce cioccolata calda e la mia tiepida casetta accogliente, in cui proteggermi durante ogni temporale?
   
 
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