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Autore: fervens_gelu_    13/10/2018    1 recensioni
Una stazione. Un giorno di pioggia. Un addio?
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Non credo agli eventi della vita e nemmeno al meteo 




Nessuno riesce a legare un tuono, e nessuno riesce ad appropriarsi dei cieli dell’altro nel momento dell’abbandono.
(Luis Sepúlveda)



Il cielo era grigio, di sera, aveva qualche scintillio luminoso, di quelli rari da vedersi a ottobre, quando ormai l’inverno inchiodava le porte e la salsedine del mare era solo un lontano ricordo. Sapevo di dover dimenticare, di archiviare quei bellissimi momenti in compagnia di Mirco, quell’estate dal sapore agrodolce, che aveva trascinato nelle nostre costole polvere di gioia, malinconia degli attimi e dei gesti che avremmo continuato ad invocare nei mesi invernali, nei passi calpestati dalla neve. Erano le venti e il treno di Mirco sarebbe partito tra un’ora circa, sempre che non tradisse una finta puntualità. Io sarei rimasta in Puglia, mentre Mirco sarebbe tornato in Piemonte dove lo avrebbero aspettato lo studio, gli amici, la famiglia.

Non mi capacitavo di come una così bella estate, in cui pensavo di aver trovato l’amore potesse finire così drasticamente, con un grande ammasso di ruggine che mi avrebbe portato via tutto ciò che agosto mi aveva regalato. Seppure me ne fossi fatta una ragione già da tempo, sapevo che non ce la avrei fatta a sopportare un altro addio, un altro abbandono così drastico. Non volevo tornare alla vita di tutti i giorni, non stavolta. Mi sarei fatta male, che dico, malissimo, a raccogliere i pezzi che nessuno si sarebbe chinato a prendere e incollare uno ad uno, mi avrebbero scheggiato lasciandomi tante ferite e graffi sul cuore. Non lo avrei ammesso nemmeno a gran voce che ero innamorata, che per me quegli occhi nocciola erano tutto, erano il sole che illuminava la mia vita e che avrebbero illuminato anche i più freddi inverni, torturandomi la pelle, scorticando le angosce che mi sarei procurata andando all’Università.

E penso che Mirco lo capisse bene, provava esattamente quello che provavo io, nonostante le solite raccomandazioni e le solite promesse che si dicono a chi si saluta con un addio più che con un arrivederci. Ero terribilmente spaventata. Penso che lo fossimo entrambi, almeno un po’.

Erano le ventuno, il treno stava per partire, la valigia di Mirco portava con sé tanti dolori, tante felicità, tanti piccoli momenti accavallati l’uno all’altro e i nostri corpi su quell’asfalto umido, nonostante fosse sera e la pioggia battesse forte, erano caldi, perché in quell’ultimo abbraccio mi ero sciolta, lasciandogli una parte di me che non avrei più riavuto indietro mentre lui mi aveva lasciato la sua collanina portafortuna che recava un piccolo delfino ed un ciondolo d’argento.


«Sai benissimo che servirà più a te che a me, sei tu tra i due ad essere più inguaiata, ammettiamolo.» mi fece una piccola smorfia e io mi sforzai di sorridere perché in fondo mi bastava quello, mi bastava lui per stare bene.

«E dai, non fare l’antipatico.»

Mi mise la collana soffiando leggermente sul collo per darmi un ultimo delicato bacio. Un bacio d’addio.

 

«Ti ho promesso che per Natale scenderò, se anche lo studio mi causerà qualche problema di certo non sarà invalicabile, non almeno così grande da non potermi permettere di vederti… lo sai quanto puoi significare per me, è stata una bellissima estate, e non posso dimenticarla così facilmente.»


«Lo so lo so, ho solo il timore che tu possa incontrare un’altra ragazza e che ti possa dimenticare di me, di noi.»

In quel momento mi sarei voluta buttare sotto quel treno, sulle rotaie, solo per chiedergli di restare. Ma mi sarei resa solamente ridicola. Non potevo impedirgli di realizzare i suoi sogni, che di certo qui in Puglia non avrebbe potuto esaudire, e solo per dei miei sciocchi capricci, per giunta fin troppo infantili. Eppure in cuor mio, nonostante vedevo nel suo animo una sincera promessa, sapevo che non ci saremmo più rivisti, qualcosa ci avrebbe separato ma non capivo bene ancora cosa, forse la sua famiglia, forse una nuova ragazza, forse solo quella stupida distanza che non faceva altro che lacerare i rapporti e districare i cuori.
In quel momento mi sovvennero anche tutti i ricordi estivi come un fiume in piena, a colorarmi l’addio di lacrime quasi nere, scostanti.
 

«Ma che dici, nessun’altra ragazza prenderà il tuo posto, piuttosto sei tu a dover stare attenta ai ragazzi… ti chiamo appena arrivo a Torino, e ci facciamo una bella chiacchierata. So già che mi mancherai non appena salirò su quel treno.»

Ma quella chiamata non arrivò mai, nonostante io me ne stessi sul cuscino a fissare intensamente il telefono, come se con il pensiero potessi far sì che un messaggio apparisse, anche solo uno, per dirmi che stava bene, per dirmi che non mi avrebbe più voluto vedere, per lasciarmi un sorriso da attaccare alla mia maschera di cartapesta. Ma i sorrisi erano caduti a terra in stazione. Le lacrime le accompagnò il ritmo fresco della pioggia che da due giorni, incessante, voleva solo sfogare assieme a me la frustrazione di averlo perso. Fui una sciocca anche solo a pensarlo. Ci sperai, sperai che le mie preghiere potessero riportarlo in vita. Ma si sa, proprio nei momenti in cui chiedevo al cielo di riportarmi qualcosa indietro, quando chiedevo solamente di esserci, non di esistere, questo mi abbandonava in fondo ad un baratro, mi ci lanciava dentro senza curarsi troppo di me; e nessuno fino a ora si era preoccupato per me se non Mirco, se non lui, che mi aveva fatto vivere un’estate diversa, in cui per la prima volta mi ero sentita davvero felice. Lui e nessun altro.

 I miei erano troppo occupati con le carte per il divorzio, mia sorella, molto più grande di me, se ne era andata a vivere a Londra dopo essersi sposata.


 Io in questa vita come potevo abitarci senza farmi male? Non ero mai stata una carta fortunata in questo gioco che è la vita, ma la meschinità delle persone, la loro aggressività, il loro squadrarmi dall’alto in basso solo perché non ero come loro, mi faceva male, di un male cane che non riuscivo più a digerire. Sentivo le ossa sgretolarsi. Sentivo la vita colare a picco. 

Non avrei più riacceso il televisore, rivedere quelle immagini, i treni che si scontravano, tutto quel sangue che sgorgava da ferite aperte, tutti quei bambini innocenti, tutte le vittime che qualcuno al ritorno avrebbe voluto accogliere con un abbraccio, che avevano lasciato un bacio, un addio, una lacrima dietro di sé, avrebbero solo trovato una nera, sporca tomba ad aspettarli. Un crudele gioco del destino. Un viaggio senza pretese si era trasformato in un gioco al massacro. Come poteva accadere che nel 2018 ci fossero ancora incidenti del genere, che si lucrasse ancora sulla vita delle persone, che si mangiasse sulle tavole della gente che non aveva fatto altro che salire su un treno. Io avevo perso un uomo, il mio, ma c’era chi aveva perso suo figlio. E ci avrei scommesso la mia vita, che l’amore dei suoi genitori era stato più grande del mio, che quei solchi nelle loro vite non si sarebbero poi ricuciti con grande facilità, che non si sarebbero mai nuovamente aperti alla vita, ma solo inorriditi di fronte a tanta crudeltà.

Se adesso, con la pioggia che rumoreggia in segreto a macinare un pianto senza fine, sparissi, mi piantassi un coltello nella giugulare fino a far schizzare il sangue su quei vetri bagnati, il rosso si mescolerebbe con l’azzurro che l’indomani comparirebbe in cielo come a dimenticare tutte quelle vittime, di cui Mirco per me rappresentava la più grande perdita.

Se adesso aprissi l’acqua della vasca da bagno e la riempissi fino all’orlo, e facessi scivolare il mio corpo senza più alcun significato fino a tapparmi la bocca di scuse rimandate e suicidi scampati, la pioggia non smetterebbe di cadere, i miei non si accorgerebbero sicuramente di nulla perché intenti a litigare, nemmeno delle mie grida mute soffocate dal silenzio vaporoso del dolore.

Se adesso il mondo venisse a prendere anche me e mi portasse al largo, dove non so più nuotare, mi pentirei per tutto quello che non potrò mai essere, di tutti i rimorsi mai risanati.

Piansi, piansi forte come se qualche brandello di carne di Mirco potesse sentirmi, lo pensai forte, pensai ai tre mesi che aveva trascorso con me, pensai che mi potesse sentire mentre sbattevo forte le mani sui vetri, mentre nel letto mi divincolavo, mentre gridavo e nessuno mi accarezzava, mentre stringevo il piccolo delfino al petto.

Nessuno mi aveva chiesto come stessi, cosa facessi, chi fossi, se non te, e sono più che certa che nessuno più lo farà.


Da te Mirco sta ancora piovendo? Perché qui ha appena smesso.


























Nota dell'autore: all'inizio questo racconto doveva essere un altro racconto, ma vista la mia mente sadica si è tramutato in qualcosa di completamente diverso. Non so nemmeno a me se piace e ammetto che il finale possa lasciare qualche piccolo dubbio su come sia andata veramente a finire (per me non ne lascia eh, ma effettivamente pensando da lettore sì)  - anzi credo che chiunque possa pensarla come più ritiene opportuno, dalle sensazioni che ha provato leggendo. Ringrazio in anticipo tutti coloro che vorranno recensire e mando un caloroso abbraccio a quelli che invece sono arrivati fin qui.  

   
 
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