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Autore: Kerberos 1001    13/10/2018    0 recensioni
Circa 1950. Un palazzo signorile che sorge nel bel mezzo di un pittoresco villaggio normanno cambia proprietario. Nulla di particolare, si direbbe, succede tutti i giorni o quasi. Il problema consiste nel fatto che questo palazzo ha una storia. Anche il suo nuovo proprietario ne ha una e stranamente le due vicende sono strettamente intrecciate, tra loro e con i curiosi avvenimenti accaduti alcuni anni prima, al largo della costa atlantica americana. Operazione Die Forelle, atto secondo: si va in scena!
Genere: Drammatico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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1 – NUOVI CURIOSI ARRIVI

Il paese era piccolo, alquanto isolato, arroccato su di una punta conficcata a fondo nel mare; stando alle confidenze che ero riuscito a strappare agli abitanti dei villaggi vicini, la vista che si godeva dalla piazzetta antistante il municipio era meravigliosa, quella che si apriva dal belvedere una decina di metri più avanti mozzava il fiato, tanto che erano ben pochi i coraggiosi che vi si avventuravano una seconda volta. Vie sinuose, veri e propri carruggi delimitati e definiti dalle case addossate l’una all’altra, gli spioventi che quasi si toccavano. Appena arrivato, seppi che non me ne sarei mai più andato: varcata l’unica porta nelle mura che chiudevano a sud-ovest il promontorio, mi avventurai in quel dedalo alla ricerca della mia nuova abitazione: di essa sapevo unicamente che sorgeva verso la metà del promontorio, spostata verso est, giusto di fronte ad una minuscola chiesetta.
Il divertimento consisteva proprio in questo, nel dover battere palmo a palmo le vie, un modo come un altro per esplorare il mio nuovo ambiente. Botteghe tipiche che di tipico non avevano proprio nulla, cresciute com’erano nei secoli, radicandosi al loro posto e mutando in risposta alle circostanze – la morte di un proprietario, la fine di un determinato tipo di commercio – sparse qua e là a casaccio: il concetto di quartiere commerciale, tanto caro all’epoca moderna, entro quelle mura era completamente sconosciuto; circostanza che mi incuriosiva, perché, benché piccolo, non riuscivo a comprendere come il paese avesse potuto crescere e svilupparsi seguendo delle linee tanto anomale. Materia per le mie primissime indagini!, mi dissi, sbucando al sole e al vento dopo aver attraversato almeno tre volte a zig zag tutto il promontorio: si trattava di uno slargo a forma di mezzaluna, al cui centro sorgeva un vecchio pozzo con la vera decorata a motivi floreali – un poco rozzi ma piacevoli – che proseguivano, con ben altra mano, attorcigliandosi lungo i grossi pali di legno che sorreggevano la carrucola e la tettoia.
Proprio di fronte, incorniciato dalle abitazioni di sasso, il primo scorcio del mare ed un rumore curioso, il chioccolio dell’acqua corrente. Mi chiesi perché scavare un pozzo, quando è disponibile una sorgente? Non avendo alcuna fretta, decisi di scoprirlo, girando attorno al pozzo rasente alle facciate, gustandone la grezza bellezza, notando i vicoli che si dipartivano dalla piazzetta, alcuni nascosti alla vista sotto archi e aggetti vari, fino ad affacciarmi alla bassa balaustra che la chiudeva trasformandola in una quinta teatrale: nessuna sorgente! O, più precisamente, nessuna sorgente visibile: sporgendomi un poco, vidi lo sbocco di un canale, quasi cinque metri più in basso, dal quale un sottile filo di acqua cadeva fino in mare, trenta e più metri al di sotto, contrastato dal vento che batteva il promontorio, sollevando sino a me un vago profumo salmastro, niente affatto spiacevole. Voltandomi verso il pozzo, vidi un avvallamento scuro a poco più di un metro dalla sua base, l’imbocco di una stretta scala a chiocciola che scendeva in profondità verso il rumore di acqua corrente, come scoprii avvicinandomi. Una bella idea, non c’è che dire! Unico neo, un suono lugubre che saliva dalla tromba delle scale, echeggiando leggermente contro le pareti: era il lamento prodotto dai refoli di vento che si ingorgavano nel canale di scolo, sfogandosi verso l’alto, intermittente, triste e nostalgico come il canto di una sirena. Soddisfatta per il momento la mia curiosità – non c’era proprio motivo di scendere, in quel momento – tornai a guardare il mare, perdendomi nel via vai di barche all’orizzonte, la maggior parte delle quali, con mia grande sorpresa, spiegavano ancora ampie vele a colori vivaci, solcando le onde in perfetto silenzio. La voglia di salpare e varcare l’orizzonte che mi colse in quel momento, prepotente, quasi irresistibile!
A fatica, mi staccai dalla balaustra, immergendomi tra gli edifici in penombra: curioso come, in assenza di marciapiedi, piccole bocche di lupo bordassero le vie per far defluire l’acqua piovana, incorporate direttamente alla base dei muri al posto della più comune canalina scavata solitamente al centro della massicciata. Riflettendo sulle peculiarità del luogo, continuai il mio vagabondare, sbucai nella piazza del municipio, vidi da lontano il belvedere, svoltai a sinistra e seguendo un viottolo andai a cozzare contro la massiccia doppia porta di una chiesa, disposta quasi ad angolo retto rispetto al mio percorso. Fu soltanto dopo aver rivolto una silenziosa ed alquanto salace invettiva allo sconosciuto architetto che l’aveva pensata a quel modo in quel luogo, che mi resi conto che si trattava della mia chiesetta! Guardandomi attorno, mi bastò un’occhiata per riconoscere la mia destinazione: un palazzo di tre piani fuori terra, la fronte bordata da due mezze torri asimmetriche ad incorniciare una striscia di verde cintato che la separava dalla piazza; ai lati, isolandolo dalle abitazioni vicine, addossate l’una all’altra senza soluzione di continuità, due strettissimi vicoli, delle vere e proprie gallerie che avevano per tetto i piani superiori delle case stesse, aggettanti  e costruiti praticamente a filo della proprietà per sfruttare al massimo tutto lo spazio disponibile: erano veri e propri budelli che lasciavano intravvedere la luce soltanto all’estremità più lontana, affacciata sul ciglio del promontorio, ma decisi che li avrei esplorati con comodo in seguito, ora desideravo unicamente entrare e riposare. Le chiavi scivolarono nella toppa senza alcuna resistenza, sebbene le serrature avessero più anni del mio bisnonno, e le fecero scattare con una serie di schiocchi sordi; era una di quelle porte antiche, con la maniglia posta all’altezza della testa di un uomo normale, massiccia e pesante quanto quella di una fortezza: se i cardini non fossero stati in perfetto ordine, dubito che sarei riuscito a smuoverla da solo! Posata la valigia nell’ingresso, ricavato nella più alta delle torri, cercai come prima cosa il bagno, e ne trovai uno in fondo al lungo corridoio, dall’altro lato della casa. Piccolo ma accogliente e funzionale, tradiva la mano di una padrona di casa attenta nella scelta delle decorazioni e degli arredi, molto femminili; mi chiesi se si fosse trattato della precedente proprietaria, una vedova facoltosa, stando a quanto avevo sentito dire, la quale aveva deciso di partire all’improvviso, chi diceva per un lungo viaggio di piacere, chi per andare a vivere presso dei lontani parenti; qualunque fosse stata la vera ragione, aveva messo in vendita quel gioiello ad un prezzo che persino io avevo potuto permettermi. Chissà perché: in fondo si trattava di una proprietà di pregio, ben tenuta; a rigor di logica, non aveva molto senso liberarsene, ma chi ero io per lamentarmi? Diedi uno sguardo dalla finestra e vidi solamente azzurro e blu scuro, tanto che mi sembrò di essere sospeso a mezz’aria; sporgendomi a metà sul davanzale, vidi il muro esterno scomparire verso il basso, liscio e a strapiombo fino agli scogli bagnati dalla risacca, resi minuscoli dalla distanza: con un vago senso di vertigine, spostai lo sguardo sulle maioliche decorate, decisamente più rassicuranti e terminai di mettermi a mio agio, lavandomi le mani e rinfrescandomi con l’acqua, prima di riprendere l’esplorazione della mia nuova residenza: a forma di elle equilatera, era stata edificata lungo i lati meridionale ed orientale di un ampio giardino interno di forma quadrata; poiché le stanze erano allineate lungo i lati interni, questo significava che ogni singolo ambiente affacciava sul parco e spiegava anche la penombra che riempiva il corridoio che avevo appena percorso. Contigua al bagno c’era la cucina con la sua piccola dispensa, un ambiente di servizio reso piuttosto buio dalle sue piccole e scarse finestre, ma adeguatamente attrezzata per ammannire succulenti banchetti; in un angolo della dispensa, un piccolo montacarichi metteva in comunicazione con un altro ambiente, probabilmente la cantina, ma a sincerarmene avrei pensato in seguito: attraverso una doppia porta che non avrebbe stonato in un grande albergo, passai nella sala sa pranzo, un tale tripudio di lacche e cristalli scintillanti al sole della tarda mattinata che mi chiesi se avrei mai avuto il coraggio di consumarvi anche un solo pasto, per paura di rompere o rovinare qualcosa; e poi, a voler essere sinceri, dubitavo che avrei mai avuto abbastanza ospiti da riempire una simile piazza d’armi! Ritornato nell’ingresso, glissai su quella che immaginai fosse la biblioteca, mi affacciai nel salotto, piccolo e raccolto – giusto uno sguardo – poi giunsi al salone, che occupava interamente l’angolo tra la piazza e il secondo vicolo, oltre che la seconda torre, permettendo agli ospiti di ammirare, a scelta, il panorama della chiesa da un lato oppure di andare a passeggiare nel parco, da quello opposto, traforato da eleganti portefinestre decorate. Le aprii tutte, per fugare l’odore stantio di muffa che stagnava nelle stanze, dopo di che tornai verso la cucina, per imboccare la scala a chiocciola che attraversava in verticale tutta la casa, diretto ai piani superiori – avrei potuto benissimo utilizzare una delle due scalee incorporate nelle torri, ma le trovavo un po’ troppo pretenziose, con i loro gradini di marmo rosato e le balaustre intarsiate. Al piano nobile trovai un secondo salottino, uno studio dalle pareti rivestite in cuoio – la padrona di casa doveva aver avuto soldi a palate per permettersi una simile sciccheria! – e ben quattro camere da letto, ciascuna con il proprio bagno; con mia grande, sorpresa, all’angolo dei corridoi mi trovai di fronte delle pareti, senza porte, soltanto le cornici intarsiate degli antichi stipiti a dimostrare che erano state murate successivamente: mi chiesi per quale motivo, poi, ripensandoci, mi resi conto che quella doveva corrispondere grosso modo alla biblioteca, al piano terra e non potei fare a meno di soffregarmi le mani, pregustando il momento in cui avrei iniziato a leggere, una volta sistematomi a dovere. Quello che non cessava di stupirmi era il fatto che qualcuno avesse deciso di mettere il palazzo in vendita ad un prezzo tanto basso: quello che avevo visto sino a quel momento – arredi, infissi, parati, la mera metratura degli ambienti! – avrebbe strappato un prezzo cento volte superiore persino in un posto sperduto come quello. Fortuna? Forse. O forse c’era qualche altro motivo e l’avrei scoperto col tempo. All’ultimo piano, giusto sotto il tetto, trovai i locali della servitù: una singola camerata dimessa, con giusto un piccolo bagno e uno sgabuzzino, illuminati da abbaini che si aprivano direttamente tra le tegole. Non visitai le soffitte, che occupavano il resto del piano: invece tornai da basso, per vedere di prepararmi qualcosa da mangiare con le provviste che avevo notato in dispensa; era tutto scatolame o quasi, mi dissi, roba che si conserva a lungo – in effetti, non sapevo da quanto tempo la casa fosse disabitata: un anno almeno – ma quando osservai le varie etichette con maggior attenzione dopo averle portate sul tavolo della cucina, decisi di buttare tutto quanto nella spazzatura: alcune avevano più di cinque anni, mentre altre erano talmente rigonfie che non mi sarei affatto stupito di vederle esplodere al minimo urto come granate! Sospirando sconsolato, mi diedi una rassettata, raccolsi le chiavi e mi diressi alla porta; mentre mi accingevo ad uscire, pensai che avrei avuto il mio bel daffare a rimettere in sesto quel posto: tutto era coperto da un fitto strato di polvere, ragnatele ornavano quasi ogni angolo e pesanti teli di stoffa ingiallita coprivano la maggior parte dei mobili; il giardino, poi, era una giungla in miniatura. Comunque, erano incombenze, queste, cui avrei potuto pensare in seguito: prima di tutto, dovevo assicurarmi le necessarie forniture; da casa al municipio c’erano non più di dieci minuti a piedi, era logico, pertanto, prima di tutto recarsi là per comunicare il mio arrivo e prendere accordi per gli allacciamenti fondamentali, così mi avviai con calma, questa volta per l’itinerario più diretto. Pensavo a come mi sarei dovuto presentare, visto che al momento esercitavo ben due professioni distinte, ma non sapevo proprio quale delle due scegliere e così mi lambiccavo il cervello valutando i pro e i contro in relazione all’ambiente circostante; probabilmente ero troppo assorto, sicuramente ero distratto, tanto che andai ad urtare malamente una persona, giusto all’imbocco della piazza: «Mi scusi! Colpa mia! Si è fatta male?» chiesi, afferrandola per un braccio per evitarle di cadere. Era una giovane di poco più che vent’anni, carina, semplici abiti estivi molto ampi, un po’ scarmigliata; ritrovato l’equilibrio, senza dire una parola si liberò della mia presa – non senza gentilezza – e riprese la sua strada, infilandosi nel vicolo da cui io ero uscito. La seguii con lo sguardo fino alla prima svolta, ammirando, lo confesso, la sua snella silhouette delineata dal sole attraverso la stoffa; sospirai e mi diressi alla scalinata che conduceva al municipio. Una placca accanto alla porta esponeva gli orari al pubblico: mancando oltre mezz’ora all’apertura pomeridiana, mi dedicai a cercare un locale in cui pranzare; per mia fortuna, al lato opposto della piazza campeggiava l’insegna di un’osteria con un cameriere che fischiettava mentre puliva un tavolo all’aperto appena sparecchiato: «Buongiorno! È troppo tardi per mettere qualcosa nello stomaco?»
«Per nulla! Prego, si accomodi! Giusto il tempo di stendere una tovaglia pulita …» mi accolse, facendo seguire alle parole il gesto, «e sono subito da lei!» concluse, entrando nel locale per prendere il resto delle posate e la lista. Mi guardai attorno, godendo della vista, delle nuvole, dei colori delle insegne che si affacciavano sulla piazza; in ultimo, mi soffermai sul famoso e famigerato belvedere, una struttura artificiale sospesa a sbalzo sulla punta estrema del promontorio, con il suo gazebo e l’immancabile cannocchiale che puntava verso il mare: mi chiesi se fosse possibile, nelle giornate di bel tempo come quella, vedere il profilo delle isole che sorgevano al largo della costa …
«Eccomi di ritorno! Le lascio il menù, tutta roba genuina, nostrana!» Il cameriere sorrideva a tutti i denti, decisamente era un tipo gioviale.
«Ottimo! Qualcosa da suggerire ad un forestiero appena arrivato?»
«Mi sembrava che non fosse un viso noto! Ha tempo per qualcosa di complicato, oppure deve scappar via subito?»
«Una via di mezzo sarebbe l’ideale: devo presentarmi in comune, ma non ho un appuntamento.»
«Capisco. Allora, se permette, dirò al cuoco di prepararle una porzione abbondante di zuppa di pesce, con del buon pane appena sfornato. Se posso, è qui per lavoro o per diletto?»
«Per l’uno e, spero, anche per l’altro: ho comprato casa qui e intendo trasferire la mia attività. Cosa mi può raccontare del posto? Sino ad ora, tutto ciò che so del paese sono i racconti dei vostri vicini e quello che ho potuto vedere di persona.»
Il cameriere rimase interdetto: «A voler essere sinceri, non saprei da che parte cominciare: questo è un paese davvero molto antico, pare addirittura che i primi insediamenti risalgano a prima della conquista romana; quello che posso dirle per certo è che si tratta di un posto tranquillo, dove il tempo scorre senza apportare grandi cambiamenti, di nessun genere: se lei è il tipo cui piace la calma, qui si troverà come un topo nel formaggio! Adesso però, non le farò perdere altro tempo: la zuppa sarà servita tra una decina di minuti.» mi disse, infilando la porta dell’osteria a passo svelto. Tornai alle mie osservazioni, cercando di scoprire negli edifici che avevo visto le varie stratificazioni delle epoche trascorse: era un mio vecchio gioco, quello, che mi divertivo a fare tra me e me ogni qualvolta mi trovavo a visitare un posto nuovo; con mia sorpresa e grande gioia, mi accorsi che in quel luogo non era per niente facile, considerato che ogni singolo edificio era stato rimaneggiato per secoli, aggiungendo, togliendo o modificando in vario modo, secondo i gusti di ogni epoca, facciate, tetti e strutture, una vera e propria sfida che accettai volentieri.
Puntuale come un cronometro, il cameriere tornò con un vassoio decisamente pesante: tra numerose, larghe fette di pane casareccio, troneggiava una colossale ciotola di profumatissima zuppa, densa e ricca di pezzi di pesce, crostacei e molluschi: «Ecco a lei! Spero che sia di suo gradimento!» disse, posando accanto alla ciotola un bicchiere e un litro di vino rosso «Questo è per gustarla meglio!» concluse e mi strizzò l’occhio, prima di tornare alle sue faccende.
Guardai sconsolato quell’enormità, chiedendomi se sarei mai riuscito a terminarla, poi affondai il cucchiaio per il primo assaggio: altro che finirla! Ne avrei chieste altre due porzioni, se non avessi provato una certa vergogna nel farlo! Soddisfatto e sazio, pagai, lasciando una lauta mancia e mi avviai verso la mia meta; curiosamente, mi resi conto che il profumo della zuppa mi aveva fatto ripensare al mio incontro di poco prima, chissà poi perché. Scuotendo la testa, un sorriso autoironico a stirare le labbra, salii i gradini del municipio e ne varcai le porte.
Tutto fatto, senza problemi di sorta e in un tempo sorprendentemente breve: in meno di un’ora ero di nuovo per le vie. Certo, l’impiegato dell’anagrafe era stato piuttosto curioso, persino un po’ impiccione; d’altra parte, si trattava di un paese piccolo, dove le facce nuove dovevano essere rare quanto un asino in cielo …
Feci spallucce, divertito, e mi ingegnai a rimediare qualcosa per la cena; se la memoria non mi ingannava, avevo notato un negozio di alimentari poco distante dalla chiesa, in uno dei vicoli che si dipartivano dalla piazzetta del pozzo e lo raggiunsi fischiettando, salutando cordialmente i pochi passanti che incontravo: nonostante si riducesse ad un paio di stanze senza finestre, ricavate nel corpo di una vecchia casupola, l’interno era illuminato a giorno da coppie di applique disposte abilmente nei punti salienti, primo fra tutti il bancone con la cassa, dietro cui sedeva il padrone, un omino gioviale che mi accolse con un sorriso: «Buongiorno! In cosa posso aiutarla?» esordì, scivolando giù dal suo sgabello.
«Buongiorno a lei! Sono nuovo del posto, sono arrivato oggi e volevo fare un po’ di provviste.»
«Certamente! Ha qualche preferenza?»
«Le dirò, oggi ho assaggiato una zuppa di pesce fenomenale!»
Lui annuì: «Da Mirò, sulla piazza del municipio. Sbaglio?»
Risi. «Centro al primo colpo! Ovviamente non oso affermare di saper riprodurre un simile capolavoro, ma devo pur mangiare qualcosa, questa sera!»
«Giusto! E anche saggio: Mirò è insuperabile! Comunque, vedrà che riusciremo a rimediarle qualcosa. Prego, mi segua.»
Andò a finire che comprai un mucchio di roba, non solo da mangiare: detersivi, strofinacci, sapone, stoviglie, in attesa di poter rimettere a nuovo ed eventualmente utilizzare quello che giaceva a prender polvere in casa, magari da anni. A proposito …
«Mi scusi, saprebbe indicarmi un’impresa di pulizie, qui in paese?»
«Per la casa nuova? Spiacente, ma non ce ne sono.» mi rispose l’omino, aiutandomi a riporre la spesa.
«Peccato! Vorrà dire che dovrò andare a cercare nei villaggi vicini.»
«Aspetti! Ora che mi viene in mente …»
«Sì?» lo incitai dalla soglia.
«C’è una signora, vicino alla Porta, che di solito si occupa di tenere in ordine gli uffici comunali. Non so se accetti lavoro anche dai privati, sinceramente non ne ho mai avuto bisogno, ma se lo desidera, posso provare a chiedere…»
«Sarebbe davvero gentile, da parte sua. Potrebbe metterci in contatto?»
«Nessun problema! Il suo numero di telefono? Che stupido!» si corresse immediatamente: «Se è arrivato oggi, non glielo avranno ancora allacciato?»
«Purtroppo! Ho fatto richiesta, ma …»
«La burocrazia, ovvio! Facciamo così: le mi lascia il suo indirizzo, io contatto la signora e se lei è disposta ad accettare il lavoro, le dirò di presentarsi per discuterne con lei domani mattina, le va?»
«Perfetto! Lei è davvero troppo gentile.» Misi mano al portafoglio per lasciarli una mancia insieme al foglietto con l’indirizzo, ma lui mi guardò come se lo stessi offendendo: «Come non detto. Vorrà dire che ha acquisito un nuovo e fedele cliente allora!» lo salutai uscendo e avviandomi verso casa.
C’era ancora tanto da visitare, in paese, ma non era certo il caso di farlo con tutte quelle sporte, così scelsi la via più breve e giunsi a casa in pochi minuti; mentre trafficavo con la serratura, colsi un movimento con la coda dell’occhio e mi voltai, giusto in tempo per vedere la porticina laterale della chiesa chiudersi alle spalle di qualcuno. «Certo che è ben tranquillo, da queste parti: sono le sette e sono già tutti in casa!» mi dissi, scaricando con un sospiro le borse nell’ingresso. Come prima cosa, andai in cucina, liberai un angolo del tavolo, lo strofinai col detersivo al punto da renderlo abbagliante ed apparecchiai per uno, usando le stoviglie appena acquistate; poi feci lo stesso con cucina, frigorifero – una vera reliquia! – e lavello. «Per questa sera può bastare!» annuii soddisfatto, mettendomi ai fornelli; cucinare una bistecca e mondare qualche foglia d’insalata non ha mai portato via molto tempo, neppure ad uno come me, incapace di distinguere un mestolo da un cucchiaio, così che alle otto ero a tavola, gustando del buon vino mentre pensavo a dove trascorrere la notte. Aprire una delle camere avrebbe comportato passare due buone ore a pulire e disinfettare tutto quanto ed io proprio non me la sentivo; lavati i piatti, mi ricordai dello studio e del suo divano: per una notte avrebbe fatto al caso mio, tanto più che ero stanco morto, dopo tutto quel camminare per le vie; sorrisi nel vedere le mie impronte impresse nella polvere sul pavimento, cercai di non aggiungerne altra mentre ripiegavo il telo protettivo e finalmente verificai che il mio temporaneo giaciglio non fosse una lastra di pietra, come a volte succede con gli arredi d’epoca: era morbido al punto giusto, tanto che rischiai di addormentarmi sul posto, completamente vestito. Mi scossi, raggiunsi il bagno, godendomi una lunga doccia e feci il giro della casa, assicurandomi che tutte le imposte e le porte fossero chiuse per la notte, precauzione abbastanza inutile, visto che le uniche raggiungibili dall’esterno, sulla facciata e nel vicolo, erano protette da robuste inferriate arabescate; comunque fosse, tranquillizzato, risalii nello studio, mi coricai e mi addormentai come un sasso.

2 – MOLTI INCONTRI, MOLTE STORIE

Il mattino seguente, scostate le tende, lasciai che il sole ravvivasse l’ambiente: una brezza tesa, salmastra, si ingolfava nei vicoli, allargandosi e turbinando nella piazzetta, portando con sé il profumo delle piante del giardino. Ne approfittai per spalancare tutto, in modo da arieggiare per bene le stanze. Canticchiando, preparai la colazione, mi lavai con calma, indossai abiti puliti:
non mi rimaneva che attendere la visita della signora, la sua valutazione delle ore necessarie a rendere di nuovo vivibile quella …  villa? Improvvisamente, mi resi conto che non sapevo neppure come si chiamasse la mia nuova casa: non ricordavo che sul contratto fosse riportato altro che l’indirizzo, seppure in modo vago, e la descrizione, incompleta, dell’immobile; curioso, ma facilmente rimediabile: uscito di casa, mi misi ad ispezionare la facciata in cerca di una targa o uno stemma, un indizio da cui iniziare le mie ricerche, ma rimasi deluso e decisi di soddisfare la mia curiosità del giorno innanzi, ispezionando i due vicoli: quello a meridione era in discesa, pavimentato con lastre di pietra a tutta larghezza, ormai consunte dall’uso, come se per secoli qualcuno avesse fatto scorrere carichi pesantissimi verso il mare che si intravvedeva laggiù in fondo; una strisciolina di cielo riusciva a filtrare qua e là tra gli spioventi, fornendo un minimo di luce a quel budello, al termine del quale, come mi aspettavo, non c’era protezione, solo un salto di decine di metri fino agli scogli sottostanti: i muri delle case erano stati eretti a filo dello strapiombo, dopo aver livellata appena la roccia che faceva da basamento. «Tutti quanti, in paese, devono esserne a conoscenza, altrimenti non si sarebbero permessi di lasciare incustodito un passaggio tanto pericoloso! Però il panorama è fantastico!» pensai, risalendo faticosamente fino alla piazza: «Accidenti! È più ripido di quanto appaia dall’alto!» sbuffai, il fiato corto per lo sforzo.
A cosa poteva servire? mi chiesi avvicinandomi all’imbocco del secondo vicolo, se possibile ancora più stretto del primo: il tratto iniziale, appena oltre la sporgenza della torre più bassa, rasentava il muro perimetrale del salone, cieco, dal quale sporgeva la canna fumaria del camino; lo stesso dicasi della casa dirimpetto, i cui mattoni si intravvedevano sotto l’intonaco scrostato a larghe chiazze. Anche da quel lato, per tutta la lunghezza, le abitazioni si susseguivano fino al ciglio della scarpata – c’era una porta d’ingresso all’incirca ogni quattro metri, segno che doveva trattarsi di ben miseri bugigattoli, con tetti e ammezzati che si allungavano fino a pochi centimetri dalla sommità del muro di cinta del mio giardino, tanto che risultava evidente la necessità delle punte avvolte nel filo spinato sul coronamento, come misura di sicurezza. Arrivato in fondo, notai due cose: una balaustra in tutto simile a quella che chiudeva lo slargo del pozzo e una nicchia ricavata nel muro dell’abitazione a sinistra, completamente nascosta alla vista per chi proveniva dalla chiesa, che conteneva una vertiginosa rampa di scale scavata nella roccia; anche qui, la somiglianza con quella che portava verosimilmente alla sorgente alla base del pozzo era lampante. Stavo per iniziare a scendere, con l’intenzione di scoprire qualcosa di più al riguardo, quando mi ricordai del mio probabile appuntamento: vero è che non avevo un orario preciso, ma neppure potevo permettermi di essere tanto scortese da non farmi trovare in casa, così mi accinsi a tornare indietro e sbucai nella piazza in contemporanea all’arrivo, dalla viuzza accanto alla chiesa, di una robusta donna di mezza età, la quale sembrava diretta proprio al mio portone. Ci incontrammo davanti all’ingresso, mi presentai e la feci accomodare nel salottino da basso: «Dunque, signora Leichte, come le avrà già accennato il droghiere, avrei l’intenzione di dare una vigorosa pulita a tutta questa casa, di cui sono recentemente entrato in possesso. Se è d’accordo, le farei visitare la proprietà, in modo che, da esperta del settore, possa valutare la situazione e decidere in merito.» Le offrii una tazza del caffè forte che avevo preparato per colazione; lei lo sorseggiò in silenzio, guardando la facciata della chiesa attraverso la porta aperta e le inferriate: sembrava sulle spine, come se fosse venuta a trovarmi suo malgrado, spinta dalla necessità? Non mi sembrava possibile, anzi, dava l’impressione di essere una persona piuttosto florida. «Signora Leichte, c’è per caso qualcosa che la turba? Se non desidera l’incarico, non c’è problema: mi rivolgerò a qualche impresa fuori paese …»
«Signor Morris …» iniziò, cercando un posto per posare la tazzina vuota.
«Mi dica.» la incitai, togliendola dall’imbarazzo.
«Ecco, non è che non voglia l’incarico – ci mancherebbe, è il mio mestiere! – ma devo confessarle che non mi trovo propriamente a mio agio, qui.» Sembrava decisamente imbarazzata, nel confessarmelo.
«C’è qualche storia popolare che riguardi questa casa, per caso?»
Lei mi guardò, sorpresa, poi ridacchiò: «Nessuna superstizione, signor Morris, almeno che io sappia: è soltanto che io conoscevo la precedente proprietaria. Non eravamo amiche, ma ci frequentavamo e quando se n’è andata … Lei capisce.»
«Stando a quanto ho sentito, la signora si è trasferita all’estero per stare vicino ai suoi parenti.» buttai lì, tanto per verificare la meno improbabile delle dicerie che mi avevano riferito «Per questo ha messo in vendita la casa, anche se, a mio parere, avrebbe potuto chiedere una somma ben maggiore.»
La Leichte mi guardò sorpresa: «All’estero dai parenti? Ma la signora …»
«Mi lasci indovinare: non aveva parenti.» conclusi per lei. La faccenda cominciava ad assumere un senso. Quale, era ancora da stabilirsi.
«Non che io sappia, almeno: tutti i suoi familiari vivevano qui o nei dintorni, mi aveva confidato di avere un fratellastro nel meridione, ma all’estero! Scusi se mi permetto, ma chi le ha raccontato questa storia?»
Non c’era motivo di tacere: «Quattro mesi fa, ho iniziato a cercare casa in questa regione, perché mi sembrava adatta a portare avanti alcuni miei progetti che ho in corso – per inciso, sono un architetto, oltre che un storico.» Parlando, ero andato a sedermi accanto a lei sul divano. «Svolgendo qualche ricerca tramite la mia agenzia di fiducia, ho vagliato alcune proposte, fino a trovare questa abitazione, proprio dove la cercavo e ad un prezzo concorrenziale. Poiché quest’ultimo particolare mi aveva lasciato un po’ perplesso, chiesi altre informazioni che il direttore mi fece pervenire in busta chiusa, pochi giorni dopo. Non trovandoci nulla di strano, mi sono deciso per l’acquisto, e questo è quanto.»
La signora Leichte annuì: «Sono tre anni che questa dimora è chiusa, come può ben notare.» La smorfia involontaria di disgusto che le attraversò il viso mi fece sorridere, mentre un altro brandello d’informazione andava al suo posto «Precisamente da quando, un bel mattino, ci rendemmo conto che la proprietaria era sparita durante la notte, armi e bagagli. Giorni prima era stata depositata in municipio a suo nome una busta contenente le chiavi e l’atto di proprietà.»
«Sapete chi la consegnò?» chiesi, sempre più incuriosito.
«Non la signora, questo è certo!» fu la brusca risposta. «A quanto ho sentito, fu un uomo distinto, un forestiero che era stato ospite della signora per tutta la settimana precedente.»
«Ed ecco perché nessuno si è preoccupato più di tanto, quando la padrona è partita. A parte lei, ovviamente!» precisai.
«A dirle la verità, inizialmente non me ne preoccupai neppure io: era il periodo della villeggiatura, per la signora, che era solita partire per lunghi viaggi, della durata di mesi. Solo quando seppi che la casa era in vendita …»
«La cosa le sembrò strana, non è così?»
Mi fissò a lungo in silenzio, con quei suoi occhi color mogano, il tratto più bello del suo viso. «É proprio sicuro di essere un architetto?»
«L’ultima volta che ho controllato sì.» risposi «Ma sono anche uno storico, ricorda?»
«Potrei avere ancora un po’ di caffè?»
«Certamente! Però sarà freddo, temo!»
«Non importa: a furia di parlare mi è venuta sete!»
«Vado a prenderlo in cucina.»
«La seguo. Dovrò pur cominciare la mia valutazione! Ho anche altri impegni, sa?» mi stuzzicò.
«Non ne dubito, signora Leichte! Prego, faccio strada.»
Impiegammo un’ora per fare il giro della casa, cantina e giardino esclusi e un’altra mezz’ora seduti al tavolo della cucina per accordarci sui particolari e sul pagamento. Prima di andarsene, si voltò verso di me come per un ripensamento: «Signor Morris, quanto conta di rimanere?»
Mi aveva colto in contropiede: «A dire il vero non lo so. Perché me lo chiede?»
Lei si strinse nelle spalle: «Bè, stavo pensando, la casa è grande e di certo non rimarrà pulita da sola, una volta che avremo finito... Che ne direbbe se le trovassi del personale di servizio?»
«Oddio! Non saprei nemmeno come trattare con tanta gente …»
 La signora rise: «Non sto parlando di schiere di servitori: dovrebbe bastarle un tuttofare, che tenga in ordine e che magari cucini, mentre lei è occupato con il suo lavoro.»
«Sarebbe l’ideale. Conosce qualche agenzia di collocamento?»
«Non ce n’è bisogno: ho io la persona adatta!»
«E quanto mi costerà?» Credevo di sapere dove volesse andare a parare. Risultò che mi sbagliavo di grosso.
«Questo dovrà contrattarlo direttamente con l’interessata: io mi limiterò a presentarvi, una volta terminato di rendere di nuovo abitabile questo cumulo di polvere!» Sogghignò: «Confessi! Credeva che le avrei chiesto la percentuale!»
«Lungi da me!» mi schermii
La signora mi fissò a lungo: «Lo sa, signor Morris? Sarà anche un ottimo architetto, ma è un pessimo bugiardo!» chiosò, lasciandomi impalato sulla soglia. La guardai allontanarsi per la strada da cui era arrivata, finché non svoltò un angolo confondendosi con la gente che si avviava per la messa; scossi la testa divertito e rientrai in casa.
Essendo domenica, non avevo altro da fare se non aspettare il lunedì; decisi di completare l’esplorazione della villa, armandomi di una lampada da campeggio a cherosene, una scatola di fiammiferi e tanta pazienza e mi diressi alla scala di servizio che attraversava la casa, diretto verso il basso, questa volta. La conversazione con la signora Leichte mi accompagnava come un ritornello ripetuto ad nauseam, stimolando la mia curiosità, mentre sbucavo in un ambiente cavernoso, sostenuto da spesse crociere di conci; faceva quasi freddo, laggiù, ma non c’era traccia di muffa o umidità: muovendo attorno la lampada, vidi delle piccole feritoie in alto sui muri perimetrali, dalle quali filtravano correnti che facevano vacillare la fiamma. Nell’angolo più vicino alle scale, una colossale caldaia a tubi d’acqua troneggiava nella mezza luce che fiottava dall’alto, una reliquia vecchia almeno di cinquant’anni e recentemente convertita dal carbone al gas naturale, fronteggiata da una fila di robusti scaffali di quercia, pieni di scatolame, stracci e secchi delle più svariate dimensioni. Proseguendo verso il fondo, dietro un sottile tramezzo trovai la cantina vera e propria, con otto grosse botti, quattro per lato e due rastrelliere al centro per le bottiglie, alcune delle quali di annate di molto antecedenti la mia nascita. Il pavimento di pietra faceva risuonare i miei passi come colpi di pistola, che riecheggiavano dal soffitto, distorti e irriconoscibili; a prima vista, sembrava proprio che tutto quell’ambiente fosse stato scavato nella viva roccia e rivestito internamente di un strato di mattoni che erano serviti più che altro a pareggiare le pareti, aumentandone l’isolamento. Probabilmente, il pavimento del piano superiore, spesse travi di quercia antica tirate a lucido, poggiava direttamente sulle volte e sui piloni laterali, che sporgevano come lesene dalle pareti, ad intervalli regolari.
Proseguii la mia visita, senza trovare alcunché d’interessante, a parte qualche vecchia cassa sfondata in un angolo e tracce di fango ormai essiccato proprio contro la parete di fondo, evidentemente portate da qualcuno che non si era poi curato di ripulire a dovere … pazienza! Ci avrei pensato io, quando mi fossi sistemato per bene. Per il momento, tornai con tutta calma al piano terra, afferrando una bottiglia a caso dalla rastrelliera, con la ferma intenzione di scolarmela a cena; mentre spegnevo la lanterna nella tromba delle scale, mi sorpresi a considerare una vera e propria stranezza: sapevo che il gas ancora non era disponibile e infatti avevo cucinato sulla vecchia cucina economica che qualche anima gentile aveva provvidamente mantenuto in funzione accanto a quella più moderna e funzionale ma del tutto inutilizzabile, senza il combustibile adatto; non avevo il telefono – meglio, ne avevo almeno un paio, ma non potevo conversare con nessuno senza linea! – e non avevo corrente, tanto che avevo passato una romantica serata a lume di candela. E allora com’era possibile che il frigorifero funzionasse? Non ci avevo fatto caso, sino ad allora, abituato com’ero a vederlo come un banale elettrodomestico, ma ora … da dove diavolo prendeva l’energia necessaria? In corridoio, provai un interruttore, poi un secondo e un terzo, nel caso fossi stato tanto sfortunato da incocciare in una serie completa di lampadine fulminate, ma niente: la corrente effettivamente mancava. Trovato il quadro elettrico principale, accanto alla caldaia, rimasi di stucco: la maggior parte era effettivamente alimentata dalla rete cittadina, interrotta in ingresso; c’era però un secondo, spesso cavo proveniente da qualche derivazione lungo il vicolo a meridione, che non passava attraverso il blocco: evidentemente, era quello ad alimentare il frigorifero, per quanto assurda fosse quella scelta. “E se in realtà alimentasse anche qualcos’altro?” mi chiesi, ma abbandonai quasi subito l’idea: se era vero che la padrona di casa aveva l’abitudine di fare lunghi viaggi, era plausibile che avesse chiesto ed ottenuto di sistemare l’impianto a quel modo per evitare sgradite e sicuramente sgradevoli sorprese al suo ritorno. “Meglio per lei” mi dissi “E meglio per me: non dovrò mai preoccuparmi dello stato delle scorte!
Pranzo da Mirò, una lunga passeggiata in ogni singolo anfratto del paese, la graditissima sorpresa della totale assenza di veicoli a motore: laggiù tutti si muovevano a piedi, al massimo in bicicletta; per i viaggi più lunghi, una corriera, quella che mi aveva lasciato alla Porta, faceva servizio due volte al giorno fermandosi nel piazzale antistante le mura e le merci seguivano la stessa strada, portate entro la cerchia con graziosi carretti a pedali oppure dal porticciolo alla base del promontorio per mezzo di una piattaforma mobile di legno: arcaica ma perfettamente adatta allo scopo, percorreva in una mezz’ora i venti metri scarsi che separavano, in quel punto, l’acqua dalla base delle mura. Un tempo azionata a mano, ora era servita da un robusto argano diesel che si prendeva cura dei carichi più pesanti; devo ammettere che vedermi superare da quel marchingegno in movimento mentre scendevo le rampe che portavano alle banchine mi diede i brividi: e se il cavo si fosse rotto a metà strada? Non vedevo freni di alcun genere, per cui … decisi di accelerare la discesa e di andare a rilassarmi in riva al mare, sulla stretta spiaggia che costeggiava per un tratto la base della scogliera. I gabbiani veleggiavano al largo in attesa dello scarto del pescato, tuffandosi di tanto in tanto in cerca di chissà che; alcuni, abituati alla presenza umana, si avvicinavano a distanza di braccio per osservami, sperando che avessi qualche buon boccone da spartire; delusi, dopo una decina di minuti tornavano in volo, subito sostituiti da nuovi accattoni. Sorrisi al mare imbronciato – in lontananza si scorgevano nuvoloni neri e densi, forieri di tempesta – e giocai per qualche altro minuto con la sabbia, tracciando col dito schizzi che il vento montante si divertiva a cancellare; un brivido di freddo mi riscosse dal torpore, ormai il vento era talmente teso che persino le imbarcazioni più grandi tendevano a rientrare per ancorarsi al sicuro, così mi avventurai nuovamente lungo la scala che portava alle mura, con la viva speranza di riuscire a trovare riparo prima che il diluvio universale decidesse di concedere un bis! A passo svelto, mi avviai tra le case, lungo le vie già deserte, inseguito dai primi tuoni; passando finalmente davanti alla chiesa, udii il salmodiare lento e corposo dei fedeli che assistevano alla messa, incuranti dei rombi sempre più forti che provenivano dall’esterno e augurai loro che il servizio serale terminasse dopo il temporale. Quanto a me, le prime, pesanti gocce mi colsero con la mano sul pomello: chiusami la porta alle spalle, feci il giro delle stanze per serrare le imposte, accesi la mia fidata lampada a cherosene e mi scaldai con un buon the bollente, seduto in un angolo della cucina, a leggere vecchi appunti che mi servivano per la relazione che dovevo stendere sulla regione per conto dell’università. Nel mentre, all’esterno il vento fischiava tra i rami del giardino, facendo da contrappunto alla pioggia battente, in una perfetta atmosfera da romanzo gotico di terz’ordine; non mi avevano mai dato fastidio il silenzio o la solitudine, anzi, devo ammettere che li trovavo gradevoli per molti versi, primo fra tutti perché lo stare solo, in silenzio, mi permetteva di concentrarmi su ciò che stavo facendo. Oddio, non ero un misantropo, mi trovavo a mio agio con la maggior parte delle persone che incontravo, anche le più antipatiche, però … ecco! Diciamo che stavo meglio in mia compagnia, c’erano di sicuro meno motivi per discutere o litigare. L’aroma della miscela filtrava col vapore dal beccuccio della teiera, piacevole e caldo, aiutandomi a scorrere le pagine ricoperte di date e numeri in cerca di tracce lasciate da personaggi tutt’altro che gradevoli, a partire dal tribuno che si era rifugiato in questa zona dopo essere caduto in disgrazia presso il regime tardo-imperiale. Di lui si sapeva quasi tutto, era una delle poche celebrità di quella regione che aveva trasformato in una corte dei miracoli, accogliendo tutto e tutti per assicurarsi la difesa contro le legioni che un tempo comandava: personaggio interessante, secondo la tradizione e i pochi manoscritti ritrovati nelle abbazie, era riuscito a sopravvivere alla caduta dell’impero, alleandosi con i barbari che scendevano dal nord lungo la costa, probabilmente perché condivideva i loro stessi gusti sanguinari. Lui era stato il primo a sfruttare in maniera strategica quella regione, fondando una cittadella immersa nella foresta, pochi chilometri a sud di dove mi trovavo e gli scavi effettuati tra le due guerre mondiali ne avevano comprovato l’esistenza; nei circoli accademici si vociferava di un’intera rete di fortificazioni ramificata per chilometri, con fortini distribuiti lungo le principali linee di comunicazione, a difendere e tenere un regno sicuramente piccolo ma florido e ben organizzato. Leggenda? Forse: dopo il passaggio di innumerevoli orde dirette oltre foreste e montagne ad occupare le fertili regioni affacciate sul Mediterraneo, non ne era rimasto poi molto, solo quegli edifici semidiroccati che nei secoli erano diventati eremi e piccoli villaggi sperduti. Peccato. Comunque non ero venuto per quello, c’erano intere … orde di storici e archeologi che vi si dedicavano anima e corpo, persino durante la guerra. Sorseggiando il the, riflettei che era difficile credere che solo pochi anni prima tutta quella zona fosse stata occupata da un nuovo invasore: più a ovest, era possibile visitare i canali intasati di macerie del porto di Brest, bombardato a ripetizione dagli Alleati per impedire alla Kriegsmarine di usufruirne; a est, stavano bonificando le spiagge e smantellando le installazioni del Vallo Atlantico, ma qui …
Nessuno dei villaggi circostanti era stato minimamente toccato, dopo l’invasione le divisioni inglesi, troppo poco numerose per presidiare aree tanto vaste, avevano bellamente evitato di infilarsi in quello che era a tutti gli effetti un cul de sac, dirigendosi per la via più breve verso bersagli di importanza strategica, come Parigi e le principali vie di comunicazione che conducevano verso oriente e la pianura tedesca. Da cosa era dipesa questa decisione? Da un’attenta valutazione delle forze in campo, no di certo: potevano esserci intere armate, nascoste nelle foreste e nelle forre attigue, pronte a piombare alle spalle dei liberatori e data la conformazione di quel particolare tratto di costa, nessuno avrebbe potuto scoprirlo prima che fosse stato troppo tardi. Questa era una delle questioni che desideravo investigare, certo, ma solo per mia curiosità personale: l’università mi pagava profumatamente per portare avanti un studio comparato sull’architettura, sulla sua generale estraneità alle correnti che avevano plasmato il nord della Francia; il palazzo in cui abitavo, ad esempio, possedeva un suo stile unico, gradevole e al tempo stesso inquietante, fatto di legno scuro, muri spessi e mattoni a vista nella maggior parte delle stanze, come se si trattasse di decorazioni, quanto di più diverso potesse esistere dalle case intonacate a calce, con i tetti di paglia tipici della regione. L’intero villaggio si discostava dalla norma, un’enclave più simile a Genova che a Caen; perché? Forse avrei potuto trovare qualche indizio nelle biblioteche, quella civica e quella che avevo avuto la fortuna di ereditare con la casa, ma preferivo farmi un’idea mia, girovagando quanto più possibile tra gli edifici e osservando tutti i particolari che ero in grado di scovare, prima di ricorrere alle osservazioni di altri. La campana della chiesa batté l’ora di cena, mentre rimuginavo e buttavo giù qualche vaga linea d’azione per il futuro: già che ero accampato in cucina, caricai di legna l’apposito scomparto e accesi il tutto, miracolosamente con un solo fiammifero; non avevo molta fame, così mi limitai a preparare un piatto di spaghetti olio e sale, semplici e gustosi, almeno a mio parere: misurai ad occhio, sbagliai la dose e per non essere costretto a sprecare quel ben di Dio, mi imbottii di pasta, sperando che un buon bicchiere di vino mi aiutasse ad alleggerire lo stomaco gonfio e appesantito. Decisamente, sbagliai anche in quel caso, oppure il vino, pur ottimo, era più forte di quanto pensassi, perché riuscii a malapena a raggiungere il divano, prima di sprofondare in un sonno colmo di sogni che non ricordai minimamente al mio risveglio.
Aveva piovuto tutta la notte, lasciando le vie e i palazzi luccicanti nel primo sole del mattino; l’acqua gorgogliava scaricandosi nelle bocche di lupo che avevo già notato al mio arrivo, per raccogliersi in qualche cisterna sepolta chissà dove, come precauzione in caso di assedio; perlomeno, questa era stata l’idea per tutto il medioevo: a cosa potesse servire, al giorno d’oggi, proprio non riuscivo a immaginarlo! Comunque, avrei dovuto occuparmene in seguito: cinque minuti esatti dopo aver terminato una parca colazione, qualcuno bussò all’ingresso con il vetusto battacchio di bronzo, facendo rimbombare l’anticamera; aperta la porta, mi trovai di fronte una coppia di robusti uomini di fatica in salopette, da dietro i quali spuntava il sorriso della signora Leichte: «Buongiorno, signor Morris! Ha visto che acquazzone, stanotte?» mi salutò facendosi largo tra i due colossi per stringermi la mano.
Le sorrisi di rimando, invitandoli ad entrare: «In realtà, non ho visto nulla: sono stato a passeggio tutto il giorno, ieri, e mi sono addormentato come un sasso! Posso offrirvi qualcosa, del buon caffè caldo e dei toast, magari?»
«La ringrazio, ma no: abbiamo molto da fare, prima di sera! Le ci paga a ore, se lo ricorda, vero?»
Annuii: «Certamente, come potrei dimenticarmene? Con quello che mi ha chiesto, potrei comprarne altri due, di questi palazzi!» Le strizzai l’occhio: se avevo inquadrato bene il tipo, mi avrebbe risposto per le rime!
«In Antartide, forse, rubandoli ai pinguini, proprio come ruba il pane di bocca a me e alla mia famiglia! Tirchio di un inglese!»
«Canadese, prego! Si capisce dall’accento!» puntualizzai ridendo.
«Mi scusi, signor Morris: ha intenzione di sgomberare la soffitta?» Il gigante biondo platino si era guardato attentamente attorno per tutto il tempo, valutando altezza e larghezza dei corridoi e dei passaggi, in previsione di accatastarvi mobili, casse e cianfrusaglie varie.
«Non al momento, no: ho tutto il tempo che voglio.» risposi «Per ora, sono interessato a rendere abitabile il pian terreno, il primo piano e quella parte del secondo che non è soffitta.» Guardai la signora Leichte, cercando conferma: «Si era parlato di questo, o mi sbaglio?»
«Esatto! Ma già che c’eravamo …» buttò lì la signora «Comunque, il padrone è lei: ci rimettiamo volentieri alla sua decisione!»
«Piano terra, primo piano e parte del secondo, oltre al giardino, quindi.» Questo era il secondo colosso, quello fulvo e barbuto: «Da dove vuole che cominciamo?»
Bella domanda! «Se iniziassimo dalla parte più facile, l’ultimo piano, e proseguissimo a scendere?»
«Significa che vuole partecipare anche lei?» Tutti e tre mi fissarono scettici.
Sorrisi timidamente: «É che non saprei che altro fare, nel frattempo: immagino che creerete un bel po’ di trambusto …» abbozzai.
La signora Leichte era una persona eminentemente pratica: «Perché non ne approfitta per andare a dare la sveglia in municipio e si fa allacciare luce, gas e telefono? Per fortuna l’acqua ce l’abbiamo, anche se non ci servirà per qualche tempo!»
«Ha ragione.» mi rassegnai «Ci andrò subito! Solo il tempo di prendere il giubbino.»
Le vie erano decisamente più animate, quel lunedì mattina, con gente che andava e veniva sfiorandosi – più spesso scontrandosi! – nei punti più stretti. Feci un giro piuttosto largo, perché era mia intenzione acquistare altre provviste che non avevo visto nel negozietto il sabato precedente: album da disegno, un assortimento di matite, colori e pennelli e poi pellicola per la mia macchina fotografica; tutta roba necessaria a documentare la mia ricerca e i successivi studi urbanistici che mi erano stati commissionati. Nel frattempo, stavo dandomi dell’imbecille perché avevo lasciato degli estranei soli in casa, liberi di rovistare ovunque: ero quasi tentato di tornare indietro, poi però mi resi conto che sarebbe stato del tutto inutile, considerando che i due operai della Leichte avrebbero potuto tranquillamente annodarmi attorno a un albero in giardino, senza neppure interrompere le loro altre attività; oltre tutto, se mi fossi sbagliato, avrei potuto guastare un rapporto amichevole ancor prima che iniziasse, offendendoli tutti e tre con la mia mancanza di fiducia …
Ero talmente preso a ruminare questi ed altri pensieri che mi resi conto all’ultimo momento di essere sbucato sulla piazza del municipio e di non aver trovato quello che cercavo; un po’ abbacchiato, feci il mio ingresso all’anagrafe, sedendomi di fronte all’unico impiegato libero. Dopo dieci minuti durante i quali quello aveva continuato a badare alle sue faccende senza mai alzare lo sguardo dalla scrivania, mi schiarii educatamente la gola: lo strizzare che fece con quei suoi occhietti scialbi prima di mettermi a fuoco avrebbe fatto disperare una talpa! Con tutta probabilità, avrebbe avuto bisogno dei proverbiali fondi di bicchiere per riuscire a distinguere un’ombra dall’altra, davanti a sé, ma per vanità o per scelta, non indossava gli occhiali che gli spuntavano dal taschino, limitandosi a poggiare il naso direttamente sui documenti che stava compilando. Madre santa! «Buongiorno! Potrebbe aiutarmi, per cortesia?» lo salutai, cercando di apparire meno sconfortato di quanto fossi in realtà.
L’impiegato mugugnò qualcosa a fior di labbra, lasciò andare un pesante sospiro ed inforcò gli occhiali: strizzò gli occhi una volta di meno, e questo fu l’unico miglioramento. «Buongiorno a lei! Desidera?»
«Sono Arthur Morris. Ho acquistato il palazzo della signora Voirniere; sono arrivato sabato dall'estero e ho fatto richiesta presso questo ufficio per gli allacciamenti essenziali. Ovviamente, non pretendo di ottenerli immediatamente, però …»
«Vorrebbe sapere quanto tempo dovrà aspettare.» mi interruppe «É così, sì?» Possibile che mi stesse soppesando sospettoso? Troppa fantasia? Poteva anche darsi.
«Corretto.» sorrisi, cercando di accattivarmelo, ottenendo in cambio un sonoro sbuffo.
«Attenda qui, per favore. Vado a cercare la pratica.»
«Grazie. Lei è davvero gentile.» dissi alla sua schiena irrigidita e mi misi comodo ad osservare l’ufficio: era stato ricavato nell’ala orientale del municipio, un vetusto palazzotto a pianta quadrata dei primi anni del Rinascimento, affacciato sul cortile interno; straordinariamente, aveva subito pochissimi rimaneggiamenti – un tramezzo qui, un soppalco là per aumentare lo spazio, qualche controsoffitto – ed era un vero piacere cercare di capire a chi fosse appartenuto, a quali scopi fosse stato destinato in passato. Un tremendo cigolio mi distolse bruscamente dalle mie osservazioni: l’omino era tornato, presumibilmente dagli archivi, ed aveva fatto stridere la sedia sul pavimento: «Lei è fortunato, monsieur Morris. A quanto pare, c’è poco lavoro di questi tempi: il suo intervento è stato pianificato per domani, in tarda mattinata. È soddisfatto?»
«Molto! Anzi, direi che è perfetto! Grazie e arrivederci!» risposi, passando sopra il suo evidente sarcasmo come un carrarmato; tesi la mano per salutarlo ma lui era tornato a premere il naso sulle sue scartoffie, incurante di tutto il resto; feci spallucce e mi avviai all’uscita, dove incrociai un uomo vestito elegantemente di scuro, con un’aria familiare. Dove l’avevo già visto? Forse all’agenzia immobiliare? E anche in quel caso, cosa ci faceva qui? Lo seguii con lo sguardo mentre svoltava al primo angolo. «Catasto.» lessi, uscendo sui gradini a respirare un po’ d’aria fresca dopo tutta la polvere e l’odore di carta irrancidita che stagnava negli uffici. Da Mirò stavano riportando fuori i tavolini dopo la burrasca della notte, il cameriere che mi aveva accolto mi vide e mi salutò frettolosamente con una mano, continuando a lucidarne la superficie con l’altra avvolta in un panno. Avevo giusto voglia di un caffè; entrato nel locale, mi trovai di fronte un uomo imponente e aggrondato, decisamente brutto, che mi rivolse un cenno interrogativo piuttosto eloquente: «Buongiorno. Un caffè, per favore.» salutai «Se la macchina è accesa.» aggiunsi, per buona misura.
«È accesa. Questo è anche un bar.» rispose bruscamente. Dopo cinque minuti, mi pose davanti una generosa tazza di caffè nero, accompagnata da una zuccheriera d’argento massiccio. La rimirai per qualche minuto, mentre lasciavo raffreddare un poco la bevanda.
«Qualcosa che non va?»
«Assolutamente! Stavo ammirando la sua zuccheriera: è proprio un pezzo magnifico! L’ha acquistata da un antiquario?»
Il cipiglio del barista si spianò un poco: «Lei se ne intende? Di argenteria, intendo.»
«Un poco, monsieur Mirò. È lei, vero? Il padrone.»
Guardingo: «E anche se fosse? Perché le interessa?»
«Nulla di particolare.» spiegai «Volevo solo poter stringere la mano all’artista che mi ha servito una zuppa di pesce
indimenticabile, sabato a pranzo.»
«È di famiglia.» borbottò allungando la destra verso di me attraverso il bancone.
«La zuppa?» chiesi sbalordito
«Anche. Io però mi riferivo alla zuccheriera: l’ho ereditata da mia nonna.»
«Bè, le assicuro che, qualora avesse bisogno di soldi, potrebbe ricavarne un bel po’ vendendola!»
«Non potrei mai, ci sono troppo affezionato.»
«Immagino. La mia era soltanto una valutazione.»
«Già. Una valutazione. E come valuta il mio caffè?»
Scossi la testa in segno di diniego: «Mi spiace, ma non è all’altezza della sua cucina. È troppo amaro, sembra quasi che ci sia una traccia di sale, come piace ai marinai di lungo corso …»
Mirò prese un sorso con un cucchiaino pulito, lo assaggiò e si affrettò a sputarlo nel lavandino: «Dannazione! Un’altra volta! Juan!» urlò, torvo, trasformando il nome dello sguattero che si affacciò prontamente dalla cucina in un’imprecazione.
«Che c’è stavolta?»
«Da dove hai preso l’acqua per la caldaia del caffè?»
«Dalla solita cisterna, dove se no?»
«E i sacchi di sale che si sono rotti, dove li avevi messi?»
Lo sguattero impallidì di colpo, perdendo tutta la sua spocchia: «Nel capanno a fianco …» mormorò
«E non ti è nemmeno passato per l’anticamera del cervello che con tutta la pioggia che è venuta, il sale potesse essere filtrato nella cisterna?»
«Il filtro …» balbettò Juan
«Il filtro serve per la sporcizia, non per i soluti, razza di imbecille!»
Osservazione ineccepibile, persino per me che ero praticamente digiuno di chimica. Povero Juan! L’aveva proprio combinata grossa: se il salato si avvertiva sotto l’aroma corposo e pungente del caffè, significava che l’intera cisterna era ormai imbevibile.
«Lo sai cosa dovrò fare adesso?! Lo sai?!» Mirò, furioso, faceva decisamente paura. «Dovrò vuotare tutta la stramaledetta cisterna, lavarla e riempirla nuovamente! Hai idea di quanto mi costerà, asino che sei?!»
Cercai di distrarlo con una domanda che, dopotutto, interessava anche me: «Mi scusi, sta dicendo che c’è penuria d’acqua, da queste parti? Non si direbbe, a giudicare da quello che ho visto venendo qui.»
Mirò mi fissò a lungo in silenzio, rosso d’ira; sbuffò, scacciando lo sguattero con la mano, come avrebbe scacciato una mosca, e rispose, pacato: «Non c’è penuria, avrà visto la sorgente sotto il pozzo. È solo che quassù è piuttosto difficile stendere delle condutture degne di questo nome, tra i maledetti vincoli architettonici, le vie strette e il labirinto di sotterranei e cunicoli che riempie l’intero promontorio. Così, negli anni, ci siamo adattati ad utilizzare le vecchie cisterne medievali come bacini di riserva e di emergenza, dotandole di filtri appositi. E questo è quanto.» concluse, grattandosi pensieroso un orecchio. «Posso offrirle qualcos’altro, visto che di caffè non se ne parlerà almeno fino a stasera?»
«Spiacente, no: ho gli operai in casa e si è già fatto tardi. Quanto le devo?»
«Nulla, ovviamente: non ha consumato!»
«D’accordo, vorrà dire che ripasserò per la zuppa di pesce. Arrivederci.»
«Arrivederci. Juan! Torna subito qui!»
Uscii ridacchiando, avviandomi vero casa. Il cielo si era coperto di nuovo, dal mare spirava un vento freddo e umido che invogliava a mettersi al più presto al coperto, portando odore di pioggia. Avevo dimenticato quanto potesse essere bello un tempo simile mentre si cammina a passo svelto per le vie! La luce del sole basso all’orizzonte, sbucando sotto il tetto di nubi, svelava particolari nascosti delle facciate che sfiorava, tracce del trascorrere di lunghi anni condensati in una crepa, un fregio parzialmente corroso dalle intemperie, un affresco sbiadito cui di solito non si fa caso. «Chissà se anche casa mia è così, con il suo giardino pieno di rovi … A proposito! Dovrò al più presto sistemare quelle due strisce piene di erbacce dietro la cancellata!» Rimuginavo a voce alta quando, con la coda dell’occhio, colsi dei movimenti in fondo a due delle viuzze che convergevano nello slargo che avevo appena attraversato: a destra, uno sfarfallio di gonne sollevate dal vento a metà di un passo, a rivelare un paio di caviglie ben tornite e decisamente notevoli; a sinistra, un’ombra che si ritrasse in un androne, per sfuggire alla vista? O perché invece era giunta alla sua destinazione? Non ebbi il tempo di indagare ulteriormente, in alcuna delle due direzioni, visto che cominciò a diluviare all’improvviso, gocce grosse e pesanti che rimbalzavano al suolo sollevando il tipico odore di silice; arrivai a casa zuppo dalla testa ai piedi, dopo un paio di ingloriosi scivoloni che mi avevano coperto di lividi e fanghiglia; la signora Leichte mi attendeva sulla soglia, pronta ad andarsene: «Signor Morris! Come si è ridotto?»
«Un piccolo incidente di percorso, mentre correvo sotto la pioggia: sono scivolato. I suoi uomini? Sono ancora in casa?»
«Alle sette di sera?! Ma lei da dove viene?»
Guardai l’orologio: aveva ragione! Evidentemente, assorto com’ero nelle mie fantasticherie ed osservazioni, avevo perso un mucchio di tempo a girovagare per il paese: «Signora Leichte, mi dispiace immensamente! Ha dovuto aspettarmi fino ad ora, mentre avrà di certo avuto altre cose da fare! Va da sé che la ricompenserò per il disturbo …»
Ma la signora mi interruppe con fare perentorio: «Non si preoccupi per così poco: non è certo la prima volta che mi capita! Piuttosto, è riuscito ad ottenere qualcosa, da quei posapiano del municipio?»
Annuii: «Secondo l’impiegato che mi ha seguito, gli addetti dovrebbero uscire domani.»
«Per tutto? Luce, gas, telefono?»
«Così ha detto; secondo lui, sono stato fortunato, perché è un periodo di calma.»
«Fortuna o no, è un’ottima notizia. Bene! È ora che vada! Eccole le chiavi: domani saremo qui alla stessa ora, se per lei va bene.»
«Benissimo! Quanto prevede che occorrerà, ancora?»
«Senza soffitta, un paio di giorni, per pulire di fino: abbiamo impiegato quattro ore soltanto per rimuovere le ragnatele dai soffitti!» Si mise il cappello, mi strinse la mano ed uscì, come se per lei si fosse chiuso un capitolo: strana donna. Fissai a lungo la cortina di pioggia oltre la soglia, finché un poderoso starnuto mi fece comprendere che era venuto il momento di qualcosa di caldo ed asciutto!
«La casa è di nuovo abitata.»
«L’ho saputo. Un architetto. Inglese, mi sembra di aver capito.»
«Canadese. Si direbbe una brava persona.»
«Può darsi benissimo che lo sia. Perché è qui?»
«A quanto ho saputo, è stato incaricato da un’università estera di condurre un qualche studio di architettura comparativa, o qualche altra baggianata del genere …»
«Evviva la praticità! Qualche idea in proposito?»
«Per ora no: attendo conferme.»
«Ottimo! Questa pioggia è rilassante: mi ricorda il passato.»
«Anche a me. Sinceramente, avrei preferito dimenticarmene!»

3 – UN’OSPITE A CENA

La signora Leichte aveva fatto miracoli: tutto il primo piano era stato sgomberato, ripulito da cima a fondo e risistemato com’era in origine. Tutto tranne la biblioteca: quella avrebbe scoraggiato un dio! Entrandoci, il secondo giorno, ero rimasto sconvolto, trovandomi di fronte a ben quattro interi piani di scaffalature, le travi di quercia spesse quanto un braccio incurvate sotto il peso di migliaia di volumi. Ad interrompere la marea di dorsi, delle alte finestre affacciate sul giardino e i ballatoi che marcavano i piani stessi. Al centro di tutto questo, un tavolino ottagonale, una comoda poltrona di cuoio con il suo poggiapiedi e una semplice lampada a stelo, circondati da un semicerchio di schedari alti poco più di un metro, presumibilmente l’archivio.
Quel martedì mattina curiosavo lungo le pareti, leggendo titoli a casaccio sin dove arrivava lo sguardo – non avevo voglia di spingermi più su lungo le scalette mobili, una coppia per ciascuna parete – e mi beavo alla vista di ciò che scoprivo.
Non ebbi molto tempo per farlo, ovviamente: la signora e i suoi due colossi arrivarono puntuali, accompagnati dagli operai che dovevano eseguire gli allacciamenti. «Buongiorno a tutti voi, signori!» salutai, aprendo loro la porta: «Signora Leichte, lei è un vero angelo! Dormire in un letto è anche meglio di quanto mi ricordassi, sa? Avete svolto un lavoro egregio! Grazie di cuore!»
Lei mi guardò in modo strano: «Signor Morris, sicuro di sentirsi bene? Dopo quella doccia di ieri sera, non è che per caso ha un febbrone da cavallo senza neppure rendersene conto?»
«Al contrario! E anche se fosse, dovrei ringraziarvi comunque, quindi …» conclusi con una spallucciata, prima di rivolgermi agli operai: «Sono Morris, il padrone di casa: sapete già come muovervi?»
«Purtroppo no: i colleghi che chiusero quando il palazzo fu messo in vendita sono andati in pensione – beati loro! – e così l’unica cosa che abbiamo in mano è il diagramma dei vari servizi, depositato al catasto. Mi duole ammetterlo, per l’orgoglio professionale, ma è un po’ poco.»
«Nessun problema: se non vi dispiace iniziare dalla cantina, credo di aver intravisto il contatore del gas e quello dell’elettricità, là sotto.»
Il giovanotto a capo del terzetto sorrise cordiale: «Perfetto, signor Morris! Prego, faccia strada.»
«Accidenti! Che razza di mostro!» Il più giovane dei tre, probabilmente un apprendista che lavorava come attrezzista per l’occasione, si stava grattando una precoce calvizie sotto al basco di origine militare.
Eravamo tutti e quattro in piedi di fronte alla mia vetusta caldaia, illuminata a stento dalle loro lampade a carburo.
«Già! Sembra pronta ad esplodere al minimo sbalzo di pressione!» Questo era il secondo operaio, piuttosto anziano, un ometto tutto nervi dalla cui tasca destra sporgeva un assortimento di pinze e pinzette da elettricista che non vedeva l’ora di sprofondare nel ventre del mio povero quadro elettrico, posto nell’angolo a sinistra della ex-carbonaia.
Il giovanotto mi rassicurò con un sorriso complice: «Non si preoccupi, signor Morris: prima di mandarla a pieno regime, controlleremo tutte le tubature, le guarnizioni e le giunzioni. Se dovesse esplodere, moriremo insieme.» concluse a tradimento, dandomi di gomito. «Ha detto che aveva visto il contatore …»
«Certo. Da questa parte.» Mi portai a destra della caldaia, dove un grosso blocco di ghisa verniciata alla bell’e meglio mostrava un quadrante a lancette degno di un campanile, giusto in mezzo a due tubi più larghi della mia coscia: il primo spuntava direttamente dal muro in prossimità del soffitto; il secondo sprofondava nelle viscere della caldaia. «È questo, vero?» chiesi, divertito dall’espressione dell’addetto.
«Dio mio! È questo, non c’è alcun dubbio: impossibile non riconoscere l’archetipo di tutti i contatori!»
«Vedo che si diletta di filosofia, nel tempo libero! Immaginavo che non si trattasse proprio dell’ultimo modello in commercio, ma non pensavo che fosse così malridotto!»
«Non è malridotto, non sarei ancora qui, se lo fosse!» commentò, chinandosi ad armeggiare con i sigilli delle valvole a sfera. Consolante, davvero! «Comunque ha ragione lei, Morris: è davvero l’ultimo modello in commercio … della sua specie!» ridacchiò
«Con uno spirito come il suo, è sprecato come operaio comunale: dovrebbe dedicarsi al cabaret.»
Lui non batté ciglio, nonostante il mio tono volutamente tagliente: «Fatto! Ma non mi entusiasmava più che tanto. E poi la paga fa schifo!»
Scoppiammo a ridere insieme, facendo rimbombare le volte, tanto che i suoi compagni vennero a controllare: «Tutto bene, capo?»
«Tutto benissimo: stavamo facendo cabaret!» rispose, strizzandomi l’occhio «A voi quanto manca?»
«Il telefono è allacciato: la borchia era dentro il quadro elettrico. Roba da matti!»
«E la corrente?»
«Ancora un quarto d’ora: sto verificando i fusibili. Signor Morris, lei sa di avere una seconda alimentazione separata dal quadro principale?»
Annuii: «Me ne sono reso conto domenica, quando ho aperto il frigorifero. Sabato sera ero troppo stanco per il viaggio e la novità del momento, per farci caso. C’è un cavo che proviene da fuori, se non sbaglio. Altro però non so dirvi in proposito.»
«Sta dicendo che qualcuno ha dotato la casa di una seconda linea di alimentazione senza curarsi di avvertire il municipio? Perché quel cavo sulle mie cianografie non c’è!»
«Ed è un problema, Fran?»
«Per me no, ma chissà che guai potrebbe creare a qualcuno, se dovessi tagliarlo! Non so nemmeno dove sia la derivazione da cui parte!»
«E se non lo tagliassimo?»
«Tanto lavoro risparmiato, capo: cercare e riallacciare alla linea ufficiale tutto quello che potrebbe – dico potrebbe – esserci collegato, anche solo qui in casa, richiederebbe giorni.»
«Quindi, se lo lasciassimo allacciato?»
«Sarebbe illegale …»
«Ma se nessuno sa che è stato effettuato …» suggerii, guardandomi modestamente la punta delle scarpe «Sulle cianografie non risulta, avete detto.»
Fran si massaggiò il mento: anche lui aveva scoperto quanto fossero interessanti le calzature che indossava «In effetti. Se tutti fossero d’accordo, si potrebbe soprassedere.» disse, occhieggiando verso il suo capo.
«Dobbiamo anche considerare che Fran è piuttosto esperto nel suo lavoro: se ha detto che ci vorrebbero dei giorni per rimettere a posto eventuali danni …» insinuò l’attrezzista.
«Che potrebbero esservi imputati e addebitati, tra l’altro!» rincarai io.
«Giusto! Non ci avevo pensato.» interloquì Fran
«In effetti, messa così, la faccenda mi pare chiara, ragazzi: io un rischio del genere, per i pochi spiccioli che prendiamo, non me lo prendo! E voi?»
«Manco per sogno!» rispose subito Fran, deciso.
«E che siamo, matti?»
«Okay, allora è deciso! Signor Morris, ovviamente lei non farà la spia …?» chiese, tendendomi la destra.
«Lungi da me! Posso offrirvi qualcosa, per ringraziarvi della vostra cortesia?»
«Volentieri! Tanto, qui direi che abbiamo finito, no?»
«Giusto il tempo di quel famoso controllo ai fusibili, capo!»
«Bene! Nel frattempo, noi potremmo accendere la caldaia …» sorrise il capo, rivolto a me.
«Signore, abbi pietà di me e di questo tuo figlio che ha perso la ragione!»  pregai, rivolto verso le volte un metro sopra di noi, avviandomi con lui verso il fornello.
Ala fine, non esplose niente, anzi, risultò che nonostante l’apparenza, la mia era una signora caldaia, potente e affidabile nonostante tutti i suoi anni. Ne discutemmo per una mezz’ora al piano superiore, davanti ad un bicchiere di ottimo rosé dono della mia cantina. «E così ha cercato di farci fuori a nostra insaputa, signor Morris! Cos’è, non voleva più pagare i nostri servizi?»
«Signora Leichte, mi permetto di ricordarle che se la caldaia fosse esplosa, a lasciarci la pelle sarei stato io: con ogni probabilità, voi vi sareste salvati. Dico bene?»
Gli operai municipali annuirono: «A meno che non si foste trovati direttamente sopra, al massimo vi sareste bruciacchiati un po’, per il vapore.»
«E dice niente! Ha mai provato a versarsi addosso dell’acqua bollente?»
Le posai una mano sul braccio, cercando di tranquillizzarla: «Non è successo nulla, signora Leichte e mi scuso per averla offesa. Pace fatta?»
La signora mi guardò storto per due minuti buoni, prima di ammorbidirsi: «D’accordo, d’accordo, la perdono. Ma solo se mi promette di non fare mai più una sciocchezza del genere!» concluse, ingollando d’un colpo il vino restante.
«Comunque sia, sarà contento di sapere che abbiamo praticamente finito: all’interno, rimangono da spolverare la biblioteca ed eventualmente le soffitte. Ora il grosso del lavoro è all’aperto.»
«Il giardino.» dissi, versandole un secondo bicchiere.
I suoi operai confermarono, cupi: «È una giungla, là fuori! Da quanto non vede un giardiniere?»
«Tre anni, per quel che ne so, da quando la padrona se n’è andata. Se non se curava neanche prima, potrebbe essere molto di più.» Guardai di sottecchi la Leichte, mi era parso che avesse sussultato, ma probabilmente era solo un’impressione dovuta alla penombra che cominciava ad invadere la cucina. «Bene! Posso invitarvi a celebrare la rinascita del palazzo con una cena casalinga?»
«Che equivarrebbe ad una frittata con fagioli in scatola, da quanto ho visto nella dispensa.» commentò a tradimento il colosso fulvo.
«Sarebbe un’ottima frittata, in ogni caso!» ribattei piccato.
«Ne siamo convinti, ma per noi si è già fatto tardi.» interloquì il capo degli operai «Sarà per un’altra volta. Buona serata e grazie per il vino.» Alzandosi assieme ai suoi compagni, mi salutò con una stretta di mano che ricambiai volentieri. «Lo sa, signor Morris, è stato davvero piacevole fare la sua conoscenza. Dovremmo rivederci, una volta o l’altra.»
«Concordo!» mi rivolsi agli altri tre: «Voi restate?»
La signora scosse il capo: «No: dobbiamo andare a depositare l’attrezzatura, tra le altre cose.»
«Peccato. Non avete idea di cosa vi stiate perdendo!» mi arresi. «Allora vi accompagno.»
Salutai tutti sulla porta, contento di essermi fatto quelli che ritenevo dei nuovi amici, almeno un poco; soddisfatto, attesi di vederli sparire nelle viuzze che costeggiavano la chiesa, ciascun gruppo diretto alla sua destinazione, respirai a pieni polmoni l’aria pulita della sera, profumata di salmastro e mi voltai per rientrare, visto che non intendevo rinunciare alla mia frittata.
Però tornai immediatamente a scrutare la piazza, colto dalla sgradevole sensazione di essere osservato: non vidi nessuno – probabile che chi mi spiava si nascondesse nelle ombre gettate dagli edifici, dietro qualche angolo – ma la sensazione non mi abbandonò, segno che neppure lui mi aveva abbandonato; avviarmi noncurantemente per una passeggiata, cercando di coglierlo in flagrante? Perfettamente inutile, perché si sarebbe allontanato alla prima avvisaglia di pericolo o, peggio, avrebbe colto al volo l’occasione per danneggiarmi, se questo era il suo scopo ultimo. L’unica azione sensata era quella di rientrare in casa, sbarrando ben bene tutto quanto e cercare di rilassarmi, magari pensando ad un modo pratico e indolore per evitare ulteriori sorprese. Raggiunta la cucina, accesi i fornelli e la vista del fuoco, nella penombra, contribuì a risollevarmi il morale; mentre amalgamavo le uova con i fagioli, decisi di chiedere agli operai, l’indomani, se avessero notato qualcosa di strano, nella piazza, o qualcuno, mentre si allontanavano. Sì, avrei fatto così, mi dissi, accompagnando con gusto il primo boccone di frittata con un bel bicchiere di rosso. Per fortuna, il vino risultò essere abbastanza corposo da coprirne il sapore, come dire, inconsueto!
«No, non abbiamo visto nessuno, ieri sera. Per lo meno, io non ci ho fatto caso. Voi, ragazzi, avete notato qualcosa?»
«Nulla, signora.» Gli uomini della Leichte stavano calzando robusti stivali sopra le tute da lavoro di saia; dalle tasche sporgevano guanti da giardiniere bisunti che facevano il paio con inquietanti roncole e falcetti di varie misure infilati nelle cinture porta-attrezzi. Cinture che mi incuriosivano alquanto.
«Scusate, so di sembrare importuno, ma quelli non sono cinturoni militari con le relative giberne?»
I due si guardarono l’un l’altro, poi scoppiarono a ridere all’unisono: «Direi che ci ha beccati, Anton!»
«Eh, già! Con le mani nel sacco!» Anton, il biondo, si esibì in un saluto da manuale, guastato solo in parte dal suono smorzato e pochissimo soddisfacente dei tacchi in gomma. «Fante scelto Anton Riesler, per servirla!» esclamò sorridendo «E lui è Stefan Brueder, un marinaio.» presentò l’amico, dandogli di gomito.
«Quando la guerra è terminata, sei anni fa, mi sono ritrovato letteralmente a terra, sulle spiagge ad una decina di chilometri da qui, perché il comandante dell’unità su cui prestavo servizio decise di autoaffondarsi piuttosto che subire il disonore della resa.» raccontò Brueder «Era uno della vecchia scuola, capisce, credo che avesse addirittura servito nella Marina Imperiale, in gioventù, però era davvero un buon ufficiale e ci ha permesso di scegliere: io e altri dieci abbiamo preso una delle scialuppe e ci siamo diretti a riva.»
«Mi spiace, non volevo risvegliare ricordi dolorosi.»
Ma lui scosse la testa: «Non fa nulla: è stata una loro scelta ed io l’ho sempre rispettata. Fatto sta che una volta a riva, quasi tutti gli altri si sono incamminati mogi mogi verso oriente, contando di scroccare un passaggio fino in patria, fino a casa. Logico, visto che avevano famiglia, non crede?»
«Certamente. Mentre lei …»
«Indovinato! Essendo libero come l’aria, ho deciso di rimanere: il posto non è male, si respira aria buona e si mangia bene, quindi …»
«L’ho incontrato in un’osteria, ciucco tradito, che stava cercando di scroccare al padrone il bicchiere della staffa!» gli diede sulla voce Anton. «La mia colonna si era appena sbandata in questa stramaledetta regione dimenticata da Dio. Io avevo qualche soldo e molta fame, così mi sono unito alla compagnia. Una gazzarra mai vista! Neanche fosse stato il saliente di Kursk! Però ci siamo divertiti un mondo.»
«Ma se ho dovuto portarti fuori a braccia, come un pugile suonato! Verme di terra!»
A quel punto la signora Leichte si schiarì rumorosamente la gola: bastò quello per far tornare seri i due all’istante. «Bene! Basta con le vecchie storie: ci pagano – pardon! Volevo dire lei ci paga – a ore, quindi meglio darsi da fare!» Riesler infilò a passo rapido la prima porta finestra, seguito a ruota da Brueder.
«Signora mia, i miei complimenti: un generale a tre stellette non avrebbe potuto ottenere di meglio! Come ha fatto?»
«Sette fratelli minori e quattro figli, tutti maschi. Le basta come risposta?»
«Più che sufficiente! Potrebbe insegnarmi come si fa?»
Le strappai una risata, giuro! «A parte gli scherzi, signora, come preferisce essere pagata? Posso farmi accreditare dei contanti dalla mia banca, ma ci vorrebbe del tempo, temo. Altrimenti, se si fida, le posso staccare un assegno.»
«Signor Morris, voglio essere sincera con lei: preferirei i contanti …»
«Ottimamente! Provvederò subito a …»
«Non mi interrompa, la prego! Stavo dicendo che comprendo benissimo la situazione: vada per l’assegno. Purché sia coperto!»
Le strinsi la mano, in segno di buona fede: «Telefonerò oggi stesso alla banca e mi farò inviare per cablo il rendiconto!»
«Lei è proprio un bel tipo, lo sa? Comunque, per quanto riguarda quell’altra faccenda …»
«Quale altra faccenda? Oh sì, ora ricordo: doveva presentarmi una persona che fosse disposta ad aiutarmi con le faccende domestiche! Ha già in mente qualcuno in particolare?»
La signora annuì: «Credo che sia proprio il tipo giusto, adatto a lei!» annuì nuovamente, soddisfatta: «Quando posso dirle di venire a presentarsi?»
«È una donna, quindi?» mi informai.
«Perché me lo chiede? Non mi sembra un misogino!»
«Ma certo che no!» sbuffai, seccato «Se è una donna, certe cose non potrò farle, è ovvio!»
La Leichte sogghignò, sorniona: «Tipo?»
«Tipo andare in giro in mutande, per esempio! Contenta?»
«Felice! Come dicevo, credo che andrete veramente d’accordo! Tornando a bomba, domani mattina le andrebbe bene?»
«Solo se mi giura che lei non sarà presente, con il suo sarcasmo!» la rimbrottai, per altro bonariamente.
Lei si portò una mano sul cuore: «Parola di scout! È così che si dice, no?» Si guardò attorno, come se cercasse qualcosa o qualcuno: «Ora smettiamola con le chiacchiere e mi lasci andare a vedere che diavolo stanno combinando quei due sfaticati! Scommetto che stanno cazzeggiando allegramente con l’ennesima sigaretta in bocca!» brontolò, dirigendosi verso il giardino a passo di marcia.
«Signora, Leichte! La prego! Moderi il linguaggio!» la sgridai, un po’ per rifarmi dei suoi sfottò, un po’ per vedere la sua reazione: non dovetti aspettare neppure un secondo.
«Mi moderi questo …» per fortuna il resto si perse contro i muri spessi, era già uscita.
Finalmente solo, mi dedicai ad esplorare la biblioteca: un’impresa a dir poco titanica, visto il numero di volumi che vi erano stati stipati nel corso di chissà quanti decenni! Per il momento, decisi che mi sarei limitato a compulsare l’archivio, tanto per scoprire se c’erano un ordine e un metodo, in tutto quel marasma, e se sì quali. Spalancate le porte per fugare almeno in parte l’odore di chiuso, le fermai con la prima cosa che mi capitò sotto mano, un pesante e assolutamente scialbo porta vaso di bronzo, poi raggiunsi quello che avevo ribattezzato “ponte di comando”, estrassi il primo cassetto dallo schedario e mi accomodai in poltrona. La cosa che notai immediatamente era la presenza di innumerevoli schede compilate a mano da diverse grafie – abbastanza logico, in effetti – e di molti divisori in ordine alfabetico, che sembravano invece scritti dalla stessa mano, con uno stile decisamente femminile; il fatto che questi ultimi sembrassero tutti molto recenti mi lasciò perplesso, perché significava che … no, possibile? La precedente padrona si era davvero dedicata a riordinare lo schedario? TUTTO lo schedario? Una vera bibliofila! Oppure una maniaca dell’ordine, ad un grado davvero estremo …
Certo era che in quegli scaffali erano conservati dei veri e propri tesori: prime edizioni, volumi rari, in folio, manoscritti autografi di autori noti e meno noti; ripensai con una punta di nostalgia alla biblioteca della facoltà, dove trascorrevo lunghe e piacevoli ore da studente e in seguito da associato: facendo i debiti paragoni, la trovai assolutamente insufficiente, carente in maniera indecorosa! Una volta di più mi chiesi quale pazzo avesse deciso di vendere quel ben di dio ad un prezzo tanto irrisorio: che motivo potevano avere eventuali eredi per disfarsi di una proprietà che poteva valere milioni? E perché nessuno in paese l’aveva trovato strano? Tutti quelli con cui avevo parlato, in quei primi giorni, erano decisamente più sorpresi del fatto di avere uno straniero tra i piedi. Anzi, sembrava quasi che neppure sapessero che il palazzo era in vendita. Messo da parte lo schedario, decisi di uscire a pranzo – mancava poco all’una – così mi gettai addosso la prima cosa vagamente decente che trovai nel guardaroba e mi affacciai dal salotto: la signora Leichte non c’era, ma vidi Riesler e Brueder comodamente seduti su una panchina, intenti a godersi la pausa pranzo: «Io esco per andare a mangiare. Volete che vi porti qualcosa?»
«Grazie per il pensiero, ma siamo a posto.» Brueder alzò trionfalmente una bottiglia di birra e un panino imbottito di rispettabili dimensioni, subito imitato dal compagno.
«Vedo che vi siete dati da fare!» mi complimentai, notando l’erba perfettamente falciata fin sotto gli alberi nell’angolo più lontano «La Leichte vi ha per caso incoraggiati, stamane?»
L’espressione di entrambi si fece acida: «Grazie per avercelo ricordato! Cosa le ha fatto per far uscire il suo lato bestiale a quel modo?»
«Io? Niente, assolutamente niente! Anzi, a voler essere sinceri, è stata lei a farmi uscire dalla grazia di dio!»
Loro risero: «È la sua specialità. Buon appetito!»
«Altrettanto a voi! E buon lavoro!» Salutando allegramente, li lasciai al loro pasto e mi diressi da Mirò, sperando di trovare un posto all’aperto, per potermi godere quella splendida giornata gustando una delle sue meraviglie. Con l’occhio del critico, ripresi ad osservare le linee architettoniche degli edifici che superavo, scoprendo e memorizzando piccoli particolari che avrebbero contribuito a corroborare la mia tesi iniziale, oppure avrebbero potuto costituire l’ossatura portante di una nuova che ancora non avevo elaborato. Non ero ancora riuscito a visitare la sorgente situata sotto il pozzo che avevo visto il giorno del mio arrivo, cercando casa: dopo pranzo, magari, avrei fatto una capatina nella piazzetta, avrei osservato il panorama e poi sarei sceso in miniera, curioso di scoprire tutto quello che c’era da scoprire. E poi c’era la scala che si perdeva nella scogliera in fondo al vicolo occidentale: sicuramente conduceva ai piedi del promontorio, ma perché? Che motivo c’era di costruirla proprio in quel punto, sottraendo spazio all’abitazione confinante? Ecco un’altra domanda la cui risposta avrebbe potuto rivelarsi davvero interessante. E poi … Già. E poi. Il belvedere. Il luogo che sembrava spaventare un po’ tutti quanti in paese, per la sua vista mozzafiato, secondo l’opinione popolare. O per qualche altro motivo? Nel corso delle mie ricerche, avevo imparato che spesso la realtà si nasconde e si diverte ad ingannarti, giocando con te ogni minuto una partita dalle regole variabili come il tempo atmosferico: chissà quali erano, questa volta! Comunque fosse, fantasticando avevo raggiunto la piazza principale, con il suo traffico abituale di gente comune ed impiegati che si affrettavano per il pranzo; come avevo temuto, tutti i tavoli all’aperto di Mirò erano occupati – con quella bella giornata di fine estate, fresca ma non fredda, era prevedibile – e mi dovetti accontentare di un tavolino d’angolo all’interno, giusto di fronte ad una finestra; peccato. Chiamai con un cenno il cameriere, che mi raggiunse immediatamente con le liste: «Desidera mangiare, monsieur? O preferisce un aperitivo?»
«Niente aperitivo, grazie! Ho una fame che mangerei il tavolo!»
«Credo di aver capito, monsieur. Le porto il piatto del giorno, abbondante. Qualche preferenza sul vino?»
Scossi il capo: «Mi affido a lei.»
Fece un piccolo inchino: «Grazie per la sua fiducia, monsieur. Torno subito.» e si voltò, diretto verso la cucina.
«Ehi! Un momento! Qual è il piatto del giorno?»
«Crostacei e frutti di mare saltati con pane, verdure miste di stagione e salse di accompagnamento, monsieur» mi rispose compassato, girando su un tacco, prima di avviarsi nuovamente.
«Ottimo!» commentai tra me e me, guardando fuori dalla finestra la facciata del municipio: da quel punto del locale occupava di sbieco quasi tutta la visuale, lasciando intravvedere uno spicchio di cielo soltanto dal lato rivolto verso il mare; stavo contemplandone la decorazione, decisamente pacchiana per i miei gusti, quando notai un movimento con la coda dell’occhio, lungo il muro che dava verso l’interno del paese: un uomo alto, anziano, vestito con cura, si era acceso una sigaretta e per farlo aveva dovuto voltare la schiena al vento che aveva iniziato a spazzare la piazza; per questo lo avevo notato, visto che sembrava tenere particolarmente a passare inosservato, seminascosto com’era in una rientranza in ombra del palazzo. Ebbi l’impressione che stesse aspettando qualcuno, una persona in particolare … me? No, impossibile! Si poteva dire che non conoscessi ancora nessuno, laggiù: ero lì da neanche una settimana! Eppure …
«Ecco a lei, monsieur! Buon appetito!» il cameriere giunse ad interrompere le mie elucubrazioni vacillando letteralmente sotto il peso di un vassoio stracolmo di piatti.
Lo guardai allibito: «Sarebbe tutto per me?!»
«Con gli omaggi dello chef!» annuì lui, versandomi il primo bicchiere di vino.
Alle sue spalle, appoggiato con noncuranza allo stipite della cucina, Mirò mi rivolse un sorriso beffardo. Era una sfida! Lo salutai con un cenno, presentai le armi – in questo caso, coltello e forchetta – e mi apprestai a gustare quello che avevo davanti: armeggiai qualche minuto con il guscio dei mitili, giusto per liberarne a sufficienza per il primo boccone, quindi li raccolsi su di un crostone di pane, dopo averli rivoltati ben bene nella loro salsa. Divini! Semplicemente divini! Mai mangiato nulla di così saporito, con il pane poco salato che contribuiva ad esaltare il gusto dei molluschi e del prezzemolo di cui erano ancora cosparsi. Sorpreso, dopo un sorso di vino decisi di creare un certo contrasto, attaccando il granchio intero che troneggiava sul vassoio: dividere il carapace non era semplice, ma ci riuscii, pescando un poco di polpa e mischiandola con uno dei molluschi avanzati.
Contavo di sbrigarmi in poco tempo: quando mi alzai, lasciando dietro di me un cimitero di gusci e corazze svotate, erano quasi le tre del pomeriggio! Mi sentivo satollo, ma soddisfatto come ben poche altre volte mi era capitato in vita mia; raggiunto il bancone del bar, chiesi un caffè.
Mirò mi guardò in maniera strana, probabilmente convinto che volessi sfotterlo tirando fuori nuovamente la storia del sale nella cisterna, ma non ne avevo minimamente l’intenzione e glielo dissi: «Voglio solamente quello che ho chiesto: un buon caffè, degno di quel paradiso che ho appena gustato. Complimenti, lei è un vero artista ai fornelli; mi spiace che abbia perso la sfida.»
«Chi dice che abbia perso? Le sue lodi le ho ricevute.» mi rispose seccamente armeggiando con la macchina espresso.
«Vero, ma lei si aspettava che lasciassi tutto a metà, perché mi ha fatto servire cibo a sufficienza per un reggimento!»
«Sa com’è: avendo sentito dire che il suo piatto preferito è una frittata con i fagioli, ho pensato che il suo stomaco non fosse poi così pieno e soddisfatto, di questi tempi …»
Sorrisi: «I dipendenti del comune vengono a pranzo da lei, o sbaglio?»
Mi servì il caffè, fumante e con un dito di schiuma: «Non dovrebbero?»
«Per carità! Però dovrebbero imparare che cos’è la riservatezza.»
«Certo! E le vecchie comari del paese dovrebbero tacere all’uscita dalla messa!» Asciugò il bancone con uno straccio: «Ma lei da quale posto sperduto è uscito, signor Morris?»
Non risposi, stavo sorbendo il mio caffè. «Quanto le devo?»
«Quanto ha con sé?»
«Abbastanza, credo.»
«Vedremo.» Scribacchiò qualcosa su di un notes di quelli che i suoi camerieri usavano per raccogliere le comande e me lo porse. «Un prezzo onesto, mi pare.»
Concordai: «Anche basso, se penso a quello che ho mangiato!» risposi passandogli il dovuto che fece sparire nelle capaci tasche del grembiule.
«Adesso devo andare: ho gli operai in casa e sono già in ritardo.»
«Brueder e Riesler? I ragazzi della signora Leichte? Non ha di che preoccuparsi: li conosco, è gente seria.»
«È parso anche a me, ma non vorrei che fossero costretti ad aspettarmi inutilmente, quando magari hanno altri impegni.» 
«Sono a contratto presso di lei, per riattare il vecchio palazzo? Allora non se ne andranno sino a quando la signora Leichte non dirà loro di farlo, a lavoro finito.»
Sorrisi: «La signora Leichte ha un po’ del generale prussiano, vero?»
Mirò fece una smorfia: «Assomiglia di più al Kaiser, di gran lunga … ma non le dica che l’ho detto io!»
«Non si preoccupi, il suo segreto è al sicuro.» Con questo, stavo avviandomi all’uscita, quando ebbi un ripensamento: «Mi scusi, conosce per caso un uomo anziano, alto, piuttosto distinto? L’ultima volta che l’ho intravisto, indossava un completo grigio scuro di taglio classico …»
«Non mi pare, no. È un suo conoscente?»
Come rispondergli? A scanso di equivoci, meglio essere prudenti: «Ad essere sinceri, non saprei: mi pare un volto familiare, ma sa com’è quando non riesci assolutamente a focalizzare.»
«Mmh! Sì, può essere molto fastidioso. Se dovessi vederlo, devo avvertirla?»
«Sarebbe molto gentile da parte sua, grazie, ma no: non vorrei fare una brutta figura, nel caso mi sbagliassi.»
«La saggezza fatta uomo! Bè, allora la saluto e torni a trovarmi.»
«Sicuro! Arrivederci, Mirò!»
Nella piazza tirava ora un vento teso che mi fece rimpiangere di non aver indossato qualcosa di più pesante; i gabbiani si divertivano a giocare innalzandosi sulle correnti per poi lasciarsi cadere a piombo quasi fino a terra, le ali strette attorno al corpo; ogni tanto, qualcuno si allontanava verso il largo, compiendo ampie circuitazioni in attesa del ritorno dei pescherecci, stridendo forte per superare il sibilo del vento attorno agli edifici. A passo svelto, raggiunsi la piazza della sorgente, fortunatamente riparata dal vento, e mi diressi dall’altro lato del pozzo: la tromba delle scale era in penombra, ma c’era luce sufficiente per non rischiare di cadere; non mi vergognai di procedere lentamente, la mano appoggiata alla parete, perché i gradini, col passare degli anni, si erano consumati al passaggio di innumerevoli persone, finendo col diventare lisci e scivolosi. Come immaginavo, attorno alla sorgente era stata scavata una vasca profonda un metro e mezzo, esattamente sotto la gioia del pozzo, al centro di una sala dal soffitto basso; si entrava dal lato rivolto verso il mare – il canale che spurgava la vasca passava accanto al piede delle scale – e l’acqua sgorgava da una fenditura nella roccia, proprio di fronte all’ingresso: probabilmente si trattava di un torrente sotterraneo, intercettato e deviato in quella sala chissà quando, chissà da chi. Soddisfatta la mia curiosità, stavo per andarmene quando mi cadde l’occhio su di un oggetto curioso, sul fondo della vasca: sembrava una mostrina, di quelle realizzate appositamente come distintivo per uno specifico reparto. Essendo d’oro, non si era minimamente ossidata, stando immersa e rifletteva debolmente la luce che proveniva dal pozzo sopra di essa. Qualche soldato doveva essere capitato là sotto, magari spinto dalla mia stessa curiosità, e aveva perso la mostrina, senza neppure accorgersene: niente di più facile, in effetti; e nulla di più strano, al limite dell’impossibile, perché sapevo bene che non c’erano reparti stanziati in zona durante tutta la guerra, solo qualche pattuglia inviata ad intervalli irregolari per accertarsi che i commandos alleati non tentassero di infiltrarsi in Francia per quella via, peraltro difficile da praticare. Certo, c’erano da considerare gli sbandati come Brueder e Riesler, ma dubitavo che uomini desiderosi solamente di tornare a casa si prendessero il lusso di visitare una sorgente sotterranea al centro di un villaggio isolato! E poi quella era una mostrina da ufficiale. Rimasi a fissarla per cinque minuti buoni, incerto su come agire; alla fine, guardandomi attorno, scorsi seminascosti in un angolo un retino e un rastrello «Messi lì per recuperare gli oggetti caduti accidentalmente nel pozzo, ovvio!» commentai a voce alta, trasalendo al rimbombo sordo prodotto dall’eco: in poco tempo, manovrando maldestramente l’uno e l’altro, mi ritrovai per le mani la sagoma di un serpente attorcigliato su sé stesso, la testa in primo piano appoggiata sulle proprie spire, il tutto non più lungo del mio pollice. Un serpente marino, oltretutto, dato che riuscivo a scorgere la sottile pinna dorsale che lo percorreva dalla testa alla coda. «Apparteneva ad un ufficiale, perché questo è oro a 24 carati, e nessuno ha mai usato oro puro per decorare la bassa forza; ed è troppo particolare per essere un’onorificenza, ma che io sia dannato se so quale reparto si fregiava di questo stemma!» La infilai in tasca, riproponendomi di dedicarle la massima attenzione una volta tornato a casa, e mi avviai lungo le scale; ero quasi arrivato in cima quando un’osservazione improvvisa quasi mi fece perdere l’equilibrio e rotolare rovinosamente da basso: con la fame sopravvenuta nel primissimo dopoguerra, quei pochi grammi d’oro avrebbero potuto sfamare una famiglia intera per una settimana, come minimo! In effetti, c’era stata gente che aveva ucciso per molto meno. Avevo in tasca un’impossibilità fisica, a meno di non considerare uno smarrimento volontario, e molto più recente: qualcuno aveva lasciato quel gioiello nella sorgente per un motivo ben preciso, non molto tempo prima della mia visita, perché mi rifiutavo di credere che nessuno avesse messo piede là sotto per più di cinque anni. Ergo …
«Ma per quale motivo?» mi chiesi, sbucando nuovamente nella piazza, «Per mettere alla prova l’onestà del nuovo arrivato? Assurdo!» Fortunatamente, non c’era nessuno in giro ad ascoltare le mie farneticazioni: il vento aveva rinforzato, rendendo difficile persino camminare se non rasente i muri. Guadagnai la porta di casa battendo i denti nonostante fossa estate, le ossa doloranti per l’umidità; si era fatto tardi, tutte le luci all’interno erano spente: immaginai che se ne fossero andati tutti. Sulla porta, un discreto appunto mi avvertiva che la signora Leichte aveva chiuso tutto, portandosi via le chiavi di riserva, che mi avrebbe reso l’indomani. Ringraziai mentalmente la signora, non potendola biasimare se non mi aveva aspettato: il pranzo, l’esplorazione, il faticoso ritorno mi avevano portato via molto più tempo di quanto avessi potuto prevedere e lei aveva di sicuro faccende sue cui badare. Entrato in casa, finalmente al riparo, mi precipitai al piano superiore, disfacendomi degli abiti lungo il tragitto fino alla mia camera da letto. Recuperai in fretta e furia un cambio asciutto, sospirando di puro piacere al tepore della lana sulla pelle. Rinfrancato, tornai da basso, raccogliendo quello che avevo seminato, dirigendomi verso la cucina: l’idea era quella di accendere la cucina economica e stenderci ad asciugare tutto quanto; fischiettando, imboccai il corridoio, passai davanti alla sala da pranzo in penombra e mi fermai di botto davanti alla porta socchiusa, la mano libera sulla maniglia: un filo di luce filtrava dall’uscio, insieme al borbottio dell’acqua bollente, segno che dopo tutto non ero solo in casa. Forse la Leichte ci aveva ripensato, dimenticando l’avviso che mi aveva lasciato sulla porta? Conoscendola, era poco probabile: più verosimile che fossero i suoi due compari, intenti a riscaldarsi con del buon caffè dopo aver passato tutto quel giorno all’aperto mentre il tempo virava al peggio. «Buonasera ragazzi! Sono tornato, finalmente! Brr, che freddo, tutto d’un colpo, eh?» Mi annunciai ad alta voce, spalancando la porta con gesto un po’ teatrale, convinto di sorprenderli; ma ad essere sorpreso fui io: non si trattava affatto di Brueder o Riesler, proprio per niente. Seduta accanto al fuoco di legna della cucina, spalle alla porta, una figura diafana al confronto dei due ex-militari stava sfogliando un volume probabilmente preso dalla biblioteca; il mio ingresso la fece sussultare, tanto che riuscì ad impedire solo all’ultimo che il libro le cadesse dalle ginocchia. Capelli lunghi, appena mossi, del colore del rame, sopra spalle sottili; messo in salvo il volume posandolo a terra, si voltò a guardarmi, evidentemente agitata: «Mi ha spaventata! Le sembra il modo di presentarsi?» mi rimproverò, prima di aggiungere a voce decisamente più bassa: «Non lo faccia mai più, per favore.»
Rimasi di stucco: una completa estranea stava comodamente leggendo nella mia cucina ed ero IO ad aver spaventato LEI?! «Chi è lei?» Lasciai cadere i vestiti sul pavimento e mi avvicinai, deciso a venire a capo della situazione; dovetti sembrarle particolarmente minaccioso, perché lei si ritrasse, col rischio di andare a sbattere contro la cucina e scottarsi malamente. «Attenta!» l’avvertii, tendendo istintivamente una mano … piena di panni sporchi!
Lei si voltò appena in tempo, evitando l’ostacolo con un aggraziato passo laterale: era riuscita a mettere la cucina tra lei e me, avvicinandosi alla pentola che bolliva sul fuoco, dalla parte del mestolo. Mi guardava a metà tra lo spaventato e il minaccioso, sicura di potermi tenere a bada con una buona mestolata di liquido bollente.
«L’avverto sin da ora: non sono quel tipo di ragazza.» puntualizzò dalla sua posizione di vantaggio.
E questo cosa diavolo doveva significare? Sentii letteralmente le braccia ricadermi lungo i fianchi: «Quale tipo di ragazza? Di che diamine sta parlando, adesso? Io non so nemmeno chi lei sia! Perché è qui? Chi l’ha lasciata entrare? La Leichte?»
«La signora Leichte, prego!» puntualizzò lei, con sussiego «E comunque, la signora dovrebbe averne già ampiamente discusso con lei, signor Morris … sempre che lei sia il signor Morris!» Lo sguardo che mi rivolse a quel punto rese dubbioso persino me.
«Certo che sono Morris! Chi altro dovrei essere?»
«Allora dovrebbe sapere anche chi sono io!»
«No che non lo so!»
«Comincio a pentirmi di avere accettato, lo sa?»
«Che cosa?»
«Di lavorare per lei, ovvio!»
«Lavorare … Lei sarebbe la mia collaboratrice domestica?»
«La cosa la stupisce?»
«Ma avrebbe dovuto cominciare domani! Io l’aspettavo per domani mattina!»
Mi guardò perplessa, uscendo dall’angolo: «Quindi lei non sapeva …»
«Certo che no! Mi aspettavo di essere solo in casa, o al massimo di trovare i ragazzi che la Leichte aveva lasciato a sistemare il giardino, quando ho visto la luce filtrare da sotto la porta!»
«Strano! A me ha detto che lei sapeva già tutto e che non dovevo fare altro che presentarmi. Visto che lei non era a casa, ho pensato di mettere sul fuoco qualcosa per cena. Spero di non aver sbagliato!» Parlando, era tornata ad avvicinarsi, anche se con cautela.
Sorrisi «Le piace il libro?» chiesi, indicando il pavimento.
«Prego?» Lei seguì con lo sguardo il mio dito, poi si strinse nelle spalle: «L’ho scelto a caso, nel mucchio in salotto. Se devo essere sincera, l’ho trovato un po’ farraginoso: non credo che l’autore avesse le idee molto chiare quando si è messo trattare quell’argomento!»
«Lei crede? Ne terrò conto per il prossimo saggio!» Era difficile notarlo nel riverbero del fuoco, ma era arrossita.
«Le chiedo scusa. Io non sapevo …»
Mi avvicinai, sempre sorridendo e mi chinai per aspirare il vapore che usciva dalla pentola: «Che buon profumo! Stufato?»
«Zuppa. Verdure, carne di pollo a tocchetti, del pane raffermo. Spero le piaccia.»
«Sicuro! Però sarà meglio toglierla dal fuoco, adesso, altrimenti rischiamo che si attacchi al fondo.» Afferrai uno strofinaccio e lo avvolsi attorno alla pentola, al che lei si riscosse, protestando: «Lasci! Faccio io!»
«Se vuole aiutarmi, prenda i piatti da quel canterano e li metta in tavola: questo affare pesa!»
Sul momento, la vidi irrigidirsi, le labbra strette, quasi si fosse offesa; fu solo un attimo, prima che cedesse con uno sbuffo: «Oh! D’accordo, a modo suo allora!» commentò, dirigendosi impettita verso l’altro lato della stanza.
Poco dopo eravamo seduti uno di fronte all’altra, sui lati lunghi del tavolo, davanti ad un piatto fumante di zuppa densa e corposa; incredibile a dirsi, avevo dovuto insistere, perché lei si ostinava a volermi servire e cenare in un secondo momento, da sola; non sapevo come fosse stata educata, e probabilmente i suoi precedenti datori di lavoro erano dei tipi estremamente ligi all’etichetta, ma di sicuro io non avrei mai preteso tanto da lei. «Allora? Lo trova così spaventoso?» chiesi, tanto per avviare la conversazione.
«Cosa dovrei trovare spaventoso?» Non alzò lo sguardo dal piatto, si limitò a mescolare una presa di sale che aveva aggiunto dopo aver assaggiato il primo cucchiaio.
«Essere seduta qui, con me, a gustare questa bontà!»
«Non è niente di che! Fatta con quello che ho trovato nella dispensa.» si schermì lei.
«Non è vero! È ottima! Grazie.» Fosse stato per me, avrei ripulito il piatto in pochi minuti per poi servirmi un’altra porzione, forse anche due, ma una vocina mi diceva che a quel modo avrei soltanto ottenuto di farla ulteriormente chiudere in sé stessa; così mi trattenni e sorbii lentamente la mia cena, accompagnandola con del buon vino e grandi fette del pane che era avanzato. La osservavo, nel frattempo – non avrei potuto farne a meno, anche volendo – rendendomi conto di quanto fosse minuta e delicata. «Gradisce un po’ di vino?» chiesi, dopo aver fatto il giro del tavolo, cosa che la fece sbuffare una seconda volta: «Dovrei essere io a servire lei!»
«Non se ne parla! Non stasera, almeno! Mi dica quanto.» replicai, iniziando a versare.
«Basta, grazie!»
Non ero arrivato a metà bicchiere! «Non le piace il vino?»
«Non è che non mi piaccia: non lo reggo bene, ecco tutto!» Sorseggiò piano, posando il bicchiere davanti al piatto: «É ottimo! Ed è forte!» sorrise, mentre una vampata le arrossava il collo.
Risi: era davvero buffa! «Vorrà dire che staremo molto attenti con i brindisi, d’ora in poi, che ne dice?»
«Mi sta prendendo in giro?»
«No! Giuro!» protestai, ma lei continuò a guardarmi storto per almeno cinque minuti, passati i quali tornò ad immergere il cucchiaio nella zuppa: «Antipatico!» borbottò a mezza bocca.
«Ma se mi conosce da mezz’ora!» Di sicuro credeva di essere stata discreta perché lasciò ricadere il cucchiaio nel piatto, schizzandosi con il liquido bollente: incurante delle sue proteste, mi precipitai a bagnare uno strofinaccio nel lavandino e presi a tamponarle le scottature, lavando via nel contempo la minestra; aveva una pelle chiarissima, appena scurita dal sole in un’abbronzatura che sarebbe scomparsa nel giro di pochi giorni. «Le fa male?»
Fece cenno di no con la testa: «Non è nulla, solo una banale disattenzione. Per favore, la smetta e torni a mangiare!» Tentava ancora di tenermi a distanza? Forse. E forse no, perché subito dopo aggiunse: «Altrimenti si fredda.» a voce ancora più bassa di prima.
«Mi piace la zuppa fredda!»
«Stupido!» Lo disse sorridendo, d’impulso, prima di rendersene conto e coprirsi la bocca con la mano: «Mi scusi! Non volevo! Non era mia intenzione offenderla!»
«Mangia! Scommetto che a te la zuppa fredda non piace!»
Paonazza, riprese a mangiare in silenzio, evitando in tutti i modi di guardarmi. A piatto vuoto, si alzò per riporlo nell’acquaio, poi si volse vero di me: «Mi scuso ancora per la mia scortesia, signor Morris. Per favore, dica alla signora Leichte che mi dispiace di averla delusa. Grazie per la cena.» Stava già infilando la porta quando mi decisi a chiederle: «Non ti ricordi di me?»
Lei non si volse, ma si fermò, in attesa. «Ci siamo incontrati – pardon! Scontrati è più corretto – sabato scorso, mentre vagavo in cerca di questa casa.»
«Nel vicolo, quando mi hai travolta.»
«Ti ho anche afferrata al volo, per impedirti di cadere. Scusa.»
«Non fa nulla, capita spesso, da queste parti e non tutti sono così gentili verso gli sconosciuti.»
«È che quando sono alle prese con una ricerca, posso diventare molto distratto: a dirla tutta, stavo passeggiando con lo sguardo rivolto alle abitazioni del paese, facendo raffronti e confronti, come un’oca!» Feci tintinnare il collo della bottiglia contro l’orlo del bicchiere, versandomene un po’: «Brindiamo al nostro secondo incontro?»
«Perché? Tanto non lavorerò qui: ho appena dimostrato di non essere la persona adatta!»
«Questo devo essere io a deciderlo.»
Andò a finire che scolammo la bottiglia e demmo fondo alla zuppa rimasta nella pentola; tra una cucchiaiata e l’altra, ci accordammo per la sistemazione e le mansioni, gli orari di massima, le giornate libere e tutte le altre minuzie connesse: era bello poter chiacchierare con qualcuno, anche se decisamente brillo, verso la fine della serata, tanto che dovetti portarla a letto di peso perché era crollata sulla sedia nel bel mezzo di una frase. La osservai dormire tranquilla per quasi un’ora, riflettendo su quanto ci eravamo detti a cena, poi, sbadigliando, raggiunsi la mia camera e mi infilai sotto le coperte, piombando in un sonno senza sogni. L’ultimo, vago pensiero che attraversò la mia mente nel dormiveglia fu per la signora Leichte e per la sua lungimiranza.
«Sembra davvero una persona per bene.»
«Solo perché viene spesso nel tuo locale?»
«Di sicuro è un elemento a suo favore! E poi è pure un’ottima forchetta.»
«Allora bisognerà erigergli un monumento …»
«Non c’è alcun bisogno di essere tanto sarcastici! Comunque, questo pomeriggio l’ha vista, vicino al municipio.»
«Ne sei certo?»
«Non al cento per cento, ma prima di andarsene, mi ha chiesto se conoscevo un uomo anziano che rispondeva perfettamente alla sua descrizione.»
«Potrebbe essere un bene.»
«Che l’abbia riconosciuta? Ha detto che gli pareva un volto familiare.»
«Dubito fortemente che sappia chi io sia; d’altra parte, tutto il nostro lavoro era coperto dal più stretto riserbo.»
«Allora perché preoccuparci? Risolviamo il problema eliminandolo prima possibile!»
«Troppo rischioso: è qui su incarico di qualcuno. Quella della ricerca universitaria potrebbe essere un’ottima copertura per un agente.»
«In proposito, i nostri agenti in loco che dicono?»
«Non hanno trovato nulla di compromettente … non ancora.»
«Se fosse stato mandato qui per indagare su quella faccenda, potrebbero sorgere problemi.»
«Esattamente: tu sai che cosa c’è in ballo, naturalmente.»
«È proprio un bel dilemma: se lo lasciamo fare e scopre qualcosa, siamo nei guai; se lo eliminiamo e qualcuno viene a cercarlo, siamo pure nei guai. Dannazione!»
«Calma! Non è ancora il momento di preoccuparsi: i rappresentanti del governo arriveranno entro la fine del mese per le trattative; dobbiamo solamente pazientare e tenere d’occhio il nostro soggetto – a prescindere dalle simpatie personali!»
«Parla bene lei! Sul campo ci sono io, questa volta!»
«Anche questo è vero. Per consolarla, mi permetta di offrirle il bicchiere della staffa!»
«Con piacere: un bicchiere di quello buono non si rifiuta mai! Prosit!»

4- MAYA

Mi svegliavo sempre di buon ora, e quel mattino ne approfittai per scendere in cucina e preparare una sostanziosa colazione per due, cui aggiunsi un bicchiere colmo del rimedio contro le sbronze che avevo ereditato da mio nonno: un intruglio amarognolo quasi bevibile, fatto di comuni erbe aromatiche, capace di rimettere in piedi un beone in pieno coma etilico, lasciandolo fresco come una rosa; aveva un unico, spiacevole effetto collaterale: ottundeva completamente il senso del gusto per almeno mezza giornata, tanto era forte. Meglio fare colazione prima di ingerirlo, quindi. Barcollavo leggermente, salendo al primo piano, parte per il peso del vassoio, parte per la quantità d’alcool che ancora mi circolava in corpo. Bussai delicatamente sullo stipite della sua stanza – avevo dimenticato di chiudere la porta la notte prima – e mi affacciai, cercando con lo sguardo un tavolino su cui appoggiare il tutto: «Permesso? Ho portato la colazione! Hai fame?» chiesi, senza ottenere risposta; guardando meglio, mi resi conto che il letto era vuoto, perfettamente rifatto, e che la porta del bagno era socchiusa. «Disturbo? Va tutto bene?» Domanda stupida: dai rumori che filtravano, nulla stava andando bene, era evidente; mi ritirai in buon ordine, scegliendo una poltroncina accanto alla toletta e attesi, sorseggiando una tazza di caffè. Dopo una decina di minuti, sentii scorrere l’acqua e subito dopo me la trovai davanti, pallida come un cencio, gli occhi cerchiati di rosso. «Bevi, rifatti la bocca.» la invitai, porgendole la sua tazza fumante: «É bello bollente, ti farà sentire meglio.»
Lei annuì distrattamente, prese la tazza e la portò alle labbra, assaporandone il profumo. La svuotò quasi per intero, prima di rivolgermi la parola: «Perché è qui?»
Mi strinsi nelle spalle: «Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere fare colazione: in compagnia, il cibo si assapora meglio. Alcuni dicono che abbia persino un gusto diverso.»
«Per favore, non mi parli di cibo per almeno una giornata!»
«Esagerata! Devi mangiare, altrimenti ti sentirai peggio.»
«Sembrano consigli dati da un esperto …»
«Touché! Non sono un ubriacone, questo no, ma neppure completamente astemio; diciamo che ho avuto la mia parte di disavventure con vini e liquori, ecco!»
«E questo ci porta dritti alla mia seconda domanda: perché io sono qui?» chiese, indicando la camera da letto.
«Semplice: ieri sera sei crollata sulla sedia; dormivi così saporitamente che sarebbe stato un peccato svegliarti, così ti ho portata a letto. Ho fatto male?»
«Questa non è la mia camera!»
«Se non ti piace, puoi sempre sceglierne un’altra: ce ne sono altre due disponibili, su questo stesso piano.»
Lei posò la tazza sulla toletta, spazientita: «Questa è una camera padronale!»
Giuro che non capivo: «E allora?»
«Io sono …»
«Non dire fesserie!» sbottai «Mi sembrava di aver già chiarito la faccenda ieri sera: qui non ci sono padroni e non c’è servitù!»
«Ma …»
«Niente ma! Siamo in due, la casa è anche troppo grande, quindi non vedo perché dovrei lasciarne tutto il peso sulle tue spalle!»
«Perché io sono pagata per sostenerlo! Da lei!»
Era la prima volta che la sentivo urlare. «Mangia quello che riesci e bevi tutto quello che c’è nel bicchiere, dopo. Se mi cerchi, mi troverai in biblioteca, serva.» Era meschino, lo so, ma in quel momento non ragionavo: ero troppo infuriato, stanco e sbalestrato dal cambiamento di ambiente per anche solo tentare di essere ragionevole con lei; la cosa migliore da farsi era troncare sul nascere quella che si presentava come una discussione penosa, che avrebbe finito per influenzare tutti i nostri rapporti futuri, cosa che volevo assolutamente evitare. Me ne andai chiudendomi la porta alle spalle, giusto in tempo per sentire un «Signor Morris …» soffocato dallo scatto della serratura. Mi sentivo un verme. E non avevo neppure bevuto il miracoloso rimedio del nonno!
Trascorsi le successive otto ore chiuso in biblioteca, letteralmente: nonostante lei cercasse a più riprese di entrare a parlarmi, bussando, strattonando le porte, imprecando, ero deciso a non darle retta, almeno per un po’. Mi immersi nella lettura dei miei appunti, cercando di non pensare ad altro se non al lavoro di cui ero stato incaricato.
Sulla base di quanto era descritto, tracciai un primo grafo approssimativo su di una mappa stesa sul pavimento: nelle mie intenzioni, ognuna di quelle mappe avrebbe dovuto rappresentare una fase dello sviluppo della regione, le sue radici economiche, sociali, storiche e culturali; una volta comprese a fondo, queste mi avrebbero permesso di valutarne l’effettiva influenza sulle architetture, affinando l’analisi; due o tre passaggi del genere e le mie rappresentazioni grafiche sarebbero state sufficientemente precise da poter essere utilizzate per valutare futuri investimenti da parte dei committenti; erano almeno dieci anni che procedevo a questo modo e potevo affermare senza tema di essere smentito che si trattava di un metodo efficace.
Nel caso specifico, mi accorsi che non era per niente facile ricostruire quella prima fase: troppe delle informazioni in mio possesso erano basate sui sentito dire – sulle leggende addirittura! – perché la mia mano tracciasse simboli con la consueta scioltezza; i pastelli si inceppavano ora su uno ora sull’altro punto della mappa, incerti, malsicuri. L’idea che mi ero fatto pochi minuti prima si scontrava con un torrente, la presenza di un fitto bosco ora in gran parte scomparso, qualche collina, così che mi toccava tornare indietro a cercare nuove fonti più sicure, rielaborare le mie convinzioni e riprendere a tracciare lungo una nuova direzione. Un vero e proprio tormento! Ma anche la parte per cui amavo il mio lavoro: sviscerai le pagine della dispensa che avevo raccolto, cercando di capire quali parti fossero ancora valide in quel marasma, fino a rendermi impossibile guardarle un secondo di più; fu per cercare sollievo che alzai lo sguardo alle scaffalature che mi circondavano, gustando la luce piena che le rendeva di un colore prossimo al miele di castagno: «Perché no?» mi chiesi, arrampicandomi sulle scale che portavano al primo ballatoio; ovviamente era un’idea folle, la mia, sperare di trovare qualche antica chronica là in mezzo, per di più cercando a caso, senza nemmeno la linea guida dell’archivio, ma sentivo il bisogno di una pausa, di distogliermi dai miei dubbi per qualche tempo. Sfiorando i dorsi, feci il giro della stanza, soffermandomi ogni tanto a leggere titoli noti, titoli curiosi, titoli sconosciuti, fino a tornare al punto di partenza. Mi affacciai alla balaustra, guardando a volo d’uccello la mia odiata mappa: le due valli che delimitavano lo sperone su cui sorgeva il paese erano chiaramente visibili, da lassù; o meglio, una valle, quella più ampia che allo sbocco sul mare ospitava il porticciolo, e una forra, sull’altro lato, più stretta di una fessura, che avevo intravisto durante i miei vagabondaggi per le vie: i fianchi scoscesi coperti di fitta sterpaglia non invogliavano certo ad esplorarla e comunque, l’unica cosa che c’era da vedere, là sotto, sembrava essere il tortuoso rigagnolo che si era aperto la strada nella roccia nel corso di decine di migliaia di anni. Oltre, la costa proseguiva in una serie di falesie, poco più basse del promontorio, che custodivano i resti di antiche fortificazioni costiere – niente di particolarmente complesso o imponente, stando alle informazioni che avevo reperito, perché la zona era sufficientemente impervia da spezzare le ossa ad una capra e quindi decisamente poco adatta ad uno sbarco di qualsiasi genere.
Oltre a macchie di alberi e ginestroni, non c’era altro per chilometri, tutti i villaggi del circondario essendosi sviluppati ad occidente, con le sue vie di comunicazione verso Brest e la costa atlantica: persino i sentieri erano mal delineati, semplici carrarecce che collegavano poche fattorie isolate con il paese; cominciavo a capire perché durante la guerra nessun comando si fosse preoccupato soverchiamente di presidiare la regione! Eppure, qualcuno aveva trovato rifugio su quelle scogliere ed aveva prosperato, sino ad innalzare quel piccolo gioiello in cui ero venuto ad abitare. Sceso dal ballatoio, mi ero inginocchiato al centro della mappa, tracciando cerchi concentrici al belvedere, minuscolo sulla punta protesa sull’acqua, scoprendo che le diverse fasce architettoniche corrispondevano grosso modo alla mia suddivisione in corone circolari; restavano ovviamente delle incongruenze – i tumuli ospitanti le primitive fortificazioni romane, alcuni dei primissimi insediamenti romano-barbarici – ma lo schema era evidente: il nucleo principale degli insediamenti era stato sempre lassù, sul quel brullo pendio a schiena d’asino che guardava in faccia il mare. Interessante. Qualcosa c’era, al di là della facilità difensiva, che aveva attirato per secoli l’attenzione degli abitanti, li aveva spinti ad inerpicarsi fino in cima, ad erigere capanne, castelli, chiese e palazzi, virtualmente indisturbati da chiunque: a ben guardare, infatti, anche le mura che chiudevano il promontorio a valle erano soltanto un palliativo, qualcosa che era stato edificato unicamente per accontentare la smania di uno sconosciuto signorotto trascorso come un temporale estivo – i bastioni naturali di colline e collinette che si allungavano verso sud risultavano decisamente più efficaci nell’arrestare un’eventuale invasione. Ragionando tra me e me, cercai di sviscerare la questione, finché un cupo brontolio non ruppe la mia concentrazione: stupito, alzai lo sguardo per scoprire quale belva famelica fosse riuscita ad introdursi in biblioteca e risi fino alle lacrime quando mi resi conto che si trattava del mio stomaco, che protestava vigorosamente sotto lo stimolo della fame; guardando l’orologio, mi accorsi che era ormai ora di cena, così mi stiracchiai e mi diressi in cucina, pensando a qualcosa di veloce per la cena: «Magari è avanzata della zuppa … ma no! Stupido, l’abbiamo spazzolata ieri sera!»
La luce del tramonto creava un’atmosfera particolare nei corridoi e lungo le scale, che decisi di non rovinare accendendo la luce; in cucina non c’era nessuno, solamente un messaggio fermato con l’oliera sul tavolo, al posto che avevo occupato la sera precedente. Lo lessi mentre mettevo a scaldare una pentola d’acqua per lessare qualche patata: se n’era andata, probabilmente offesa dalla mia reazione di quella mattina e dal mio ritirarmi in biblioteca; a dire il vero, quest’ultima era solo una mia supposizione, perché il biglietto si limitava ad una sola riga, ma era alquanto verosimile: «Perfetto! Il mio caratteraccio ha colpito ancora!» Gettai il biglietto nella spazzatura e tornai alla mia cena: «Devo aver stabilito un nuovo record: meno di ventiquattr’ore, questa volta!» mi dissi, sbucciando le patate bollenti sotto l’acqua fredda, «Peccato! Vorrà dire che farò da solo, come sempre. Ormai è diventata un’abitudine, uno stile di vita!»
Un giro d’olio, sale, pepe, uno spruzzo d’aceto: non sporcai nemmeno il piatto, mangiando direttamente dalla terrina in cui le avevo affettate e condite, accompagnandole con un buon formaggio e della birra.
Non ne sentii nemmeno il sapore: riflettevo su quanto era accaduto, sul perché e sul come, dicendomi che io desideravo soltanto una collaborazione, non una servitù – non ero il tipo da servitù, io! – mentre lei intendeva il nostro rapporto esattamente all’opposto, abituata, educata a lavorare in un determinato modo che io, per parte mia, avevo spiazzato.
Ero stato un barbaro? Ero stato un barbaro, certo, ma non durante quell’unica cena insieme: il mattino seguente, quando l’avevo metaforicamente schiaffeggiata con il mio rifiuto di ascoltarla, quando l’avevo respinta. «Sono in torto, non c’è ma che tenga.» Asciugavo la terrina con uno strofinaccio da almeno dieci minuti, passando e ripassando la superficie lucida quasi volessi consumarla, «E sono stato un anche un imperdonabile cafone. Scusa.»
«Non lo farai più?»
«Non lo farò più. Prometto.»
Nel corso delle mie elucubrazioni, avevo distintamente udito la porta di casa aprirsi e richiudersi il più silenziosamente possibile, ma è difficile che un portone del genere non rimbombi almeno un po’; sapevo che mi stava ascoltando, in piedi sulla soglia, ma non mi importava, anzi, volevo che mi sentisse, che sapesse che non ero quello che l’aveva maltrattata durante tutta la giornata appena trascorsa. «Pace fatta?»
Lei scosse la testa: «Sei ancora in prova.»
Annuii, poi vidi la valigetta ai suoi piedi: «Sei andata a prendere le tue cose. Hai solo quella?»
«Le altre sono all’ingresso.» Si guardava le mani, le scarpe, l’orlo dell’abito, ancora a disagio: «Pesano.»
«Immagino» Misi da parte strofinaccio e terrina e mi avvicinai: «Dai, fammi strada: ci penso io a portarle di sopra.»
La seguii lungo il corridoio: aveva indossato lo stesso abito del nostro primo incontro, un paio di semplici sandali che facevano risaltare le sue caviglie, una catenina d’oro che scintillava nell’ultimo sole. «Quell’abito ti sta benissimo, sai? Mi fa piacere che te ne sia ricordata anche tu.» Non so perché ne parlai, forse perché era vero, forse perché ci tenevo davvero ad avere un buon rapporto con lei; fatto sta che lo dissi e lei sussultò, arrossendo sino alla radice dei capelli.
«Smettila! Non è carino mettere in imbarazzo la gente!»
«Non puoi impedirmi di dire la verità, non è nel tuo contratto.»
«Al diavolo il contratto! L’hai bruciato stamattina, ricordi?»
«Certamente! È per questo che non puoi …»
Lei si era voltata di scatto, furiosa: «Sei insopportabile! Basta! Questa volta me ne vado sul serio!»
Io sorrisi: «Sei bellissima!» le dissi, «E comunque dubito che tu possa andare da qualche parte: le tue valige le ho io!» 
Scosse la testa, sconsolata: «Quando mai ho accettato di lavorare per uno come te! Ti odio!»
«Non fa nulla, ci sono abituato.» minimizzai «Adesso però smettila di tenere il broncio e seguimi: dobbiamo scegliere una stanza adatta.» Mi avviai per le scale, ansando un poco: «Ma cosa ci hai messo dentro? I mobili di casa?»
Lei rise: «Solo le cose necessarie, mollaccione!» mi schernì, superandomi lungo la rampa. Arrivati al primo piano, io stavo imboccando uno dei due corridoi, diretto alla camera da letto che aveva già abitato, ma lei mi fermò, sfiorandomi il braccio: «No. Di sopra è più adatto.»
«Ma di sopra ci sono soltanto …» protestai
«Le stanze della servitù.» completò lei quietamente.
 «Ancora con questa storia?! E, tanto per la cronaca, io mi stavo riferendo alle due soffitte!»
Ero di nuovo arrabbiato, ma lei non fece una piega: «È meglio così, per adesso. Per favore, assecondami.»
«Umpf! Sai che faticaccia sarà dover trasferire tutto tra qualche giorno?»
«Chi ti dice che non passeranno mesi?»
«Nessuno resiste così tanto al mio fascino discreto …» ammiccai.
Lei aggrottò la fronte: «Hai ragione! Ecco cos’era quella porcheriola che ho scovato sotto lo stuoino, tornando a casa! Poverino! Si nascondeva per la vergogna! Dovresti davvero fare qualcosa per la sua autostima …»
Rimasi a bocca aperta: era più velenosa di un cobra! «Lo sai che per offese come questa, nell’antica Roma saresti stata flagellata e poi gettata in pasto alle murene?» la minacciai, affrontando la seconda rampa di scale.
«Ottimo! Mi piace nuotare e adoro il pesce!»
«Eccoti a casa, come desideravi!» la canzonai, aprendo la porta: le stanze della servitù, come avevo appurato il primo giorno, consistevano in un unico vano con annesso bagno e uno stanzino che fungeva da armadio a muro, il tutto direttamente sotto il tetto e ad un tiro di schioppo dalla scala che scendeva sino in cantina; non so perché ma mi davano l’impressione di essere bollenti d’estate e gelide d’inverno e terribilmente umide nelle due stagioni rimanenti. «Soddisfatta?» chiesi, dando un’occhiata in giro per accertarmi che non ci fossero sorprese nascoste, tipo un nido di topi o qualche pipistrello annidato tra le travi: non trovai nulla, segno che la signora Leichte e i suoi due moschettieri si erano meritati ogni centesimo pattuito. Anche lei si stava guardando attorno: probabilmente, cercava di stabilire quale dei quattro letti allineati lungo la parete fosse il più comodo, il meno freddo d’inverno e il più vicino al bagno …
«Maya.» rispose distrattamente, sottovoce.
«Prego?»
«È il mio nome.»
«Bello! Molto piacere, Maya: puoi rivolgerti a me come Vostra Signoria e Padrone.»
«O come stupido.» Lo disse sorridendo: un progresso!
«Non mi rispetti nemmeno un po’, vero?» Cercai di assumere la mia migliore espressione supplichevole da cane bastonato.
«Quando ti comporti così, no.»
«Sei davvero senza cuore. Hai cenato?»
«No. Ma tu sì: non preoccuparti.»
«Un’altra stupidaggine del genere e ti caccio fuori a calci! Andiamo!» La presi per mano e me la trascinai dietro; ridevo e Maya rideva con me.
«Non correre! Mi fai cadere!» protestò, cercando di non inciampare.
In effetti, scapicollarsi giù per una scala a chiocciola a quel modo era pericoloso; arrivato al primo piano rallentai, lasciai la sua mano e con un inchino la invitai a passare avanti: «Prego, madame! Dopo di lei.»
Giunti in cucina, preparammo insieme un leggero spuntino con tutto ciò che riuscimmo a reperire in dispensa: «Bisognerà fare un po’ di provviste, domani; che ne dici?»
Maya annuì, inghiottendo un boccone d’insalata: «Ci penso io: tu dovrai rinchiuderti nuovamente in biblioteca, immagino …»
Mi sentii un verme: «Maya, io …»
«Non hai scusanti: l’hai fatto apposta.» Strano a dirsi, non sembrava arrabbiata; al contrario, dava l’impressione di essere la calma personificata. «Non è così, forse?»
«Ero … non so nemmeno spiegarlo a me stesso, figuriamoci se riesco a spiegarlo a te.»
«Te l’ho detto: sei in prova. Stiamo a vedere come va nei prossimi giorni.»
«A te sta davvero bene così?»
«Sono stata io a proporlo, quindi sì, a me sta bene così.»
«Grazie.»
Lei scosse la testa: «Mangia, che si fredda!» mi rimproverò.
«Un tagliere di affettati e avanzi?!» sbottai; solo dopo mi accorsi del sorriso furbesco che le illuminava lo sguardo.
«Se continui a prendermi in giro, ti metto a pane e acqua, vedrai se non lo faccio!»
Lei si rabbuiò un poco: «Mi è già capitato, in passato.»
Mi morsi la lingua: «Scusami, non volevo offenderti.»
«Non potevi certo saperlo, non preoccuparti.» mi rassicurò «E non provarti ad indagare, ti avverto!»
«Okay.»
Mi guardò, perplessa: «Solo okay? Nient’altro?»
«No.»
«Bene!» e continuò a mangiare con gusto.
Dopo cena, rassettato tutto quanto, l’accompagnai di sopra, le augurai la buona notte e scesi in biblioteca: non avevo sonno, non molto almeno, e cercai di concludere il lavoro di quella giornata. L’idea che mi frullava per la testa era elusiva, anche se decisamente suggestiva: non poteva essere il porto, troppo piccolo per garantire un volume di traffici sufficiente a sostentare l’intero contado; miniere? Non se ne parlava, non nei documenti conosciuti. Quindi, di cosa si trattava?
Esaminai la mappa per ore, fino a farmi bruciare gli occhi: l’unica caratteristica notevole che trovai fu un bassopiano aperto al mare ad una decina di chilometri ad est, occupato da poche capanne di pescatori, a prima vista. Importante? Forse, ne avrei saputo di più quando fossi andato a curiosare.
Sbadigliando, chiusi le porte e mi trascinai in camera, crollando addormentato sul letto.

5   -  TRAN-TRAN QUOTIDIANO

A svegliarmi, piuttosto sul tardi, fu il fruscio di una ramazza sulla passatoia appena fuori della porta: Maya canticchiava a bocca chiusa, forse per non disturbarmi, mentre puliva il piano. Mi affacciai sulla soglia, gli abiti tutti stazzonati – ci avevo dormito dentro! – cercando di non fare rumore: non volevo spaventarla, desideravo soltanto sentirla cantare; lei era pochi metri più avanti, girata di spalle, completamente assorbita dal lavoro e dai suoi pensieri. Sorrisi e mi avviai da basso per una meritata colazione.
Ero giusto arrivato a metà, quando Maya entrò in cucina: «Che ci fai tu qui? Credevo stessi ancora dormendo!»
«Buongiorno anche a te, mia cara! Dormito bene?»
«Bene grazie.» mi rispose borbottando «La colazione …»
«L’ho preparata io. Vuoi favorire? E non dirmi di no solo perché lo ritenevi compito tuo!»
«Ma è compito mio!»
«A volte sì, a volte no: questa è una delle volte no. Pane e marmellata? O preferisci le uova?»
Si sedette al solito posto, imbronciata, prendendo del pane dal cesto: non era freschissimo, ma dopo averlo passato per qualche minuto nel forno, aveva un aspetto decisamente invitante. «Perché ti comporti così?»
Mi strinsi nelle spalle: «Io sono fatto così. Tu perché ti comporti così? Centra forse quel commento di ieri sera?»
Maya mi guardò perplessa per qualche istante, prima di ricordare: «Anche. Forse.» mi rispose, confusa e imbarazzata «Il fatto è che …»
«Ti hanno educata a servire.» conclusi a mezza voce.
Lei annuì, sbocconcellando il pane.
«È un po’ triste, non ti pare?» Presi una forchettata di uova dal piatto, accompagnandole con un sorso di caffè: «Uh!» sibilai «Scotta, maledizione!»
Maya sorrise, soffiando delicatamente sulla tazza: «Dovresti stare più attento: rischi di farti male sul serio!»
«Non ti piacerebbe fare qualcos’altro? Provare qualcosa di diverso?»
Mi fissò interdetta: «Cosa? Cosa dovrei provare?»
Aprii bocca per risponderle, ci pensai un attimo, la richiusi. «Non lo so! Cosa ti piacerebbe fare, da grande? Avrai dei sogni, dei desideri!»
La sua risposta mi agghiacciò: «Smettere di soffrire.» disse, quieta, spalmando sul pane un velo marmellata.
Un paio d’ore più tardi, verso mezzogiorno, uscimmo per la spesa: con mio grande disappunto, Maya aveva insistito per non cambiarsi d’abito; la divisa le donava, questo era indubbio, ma avrei preferito che indossasse qualcosa di meno formale!
Inoltre, si ostinava a seguirmi a cinque passi di distanza, con una grande sporta di vimini appesa al braccio: dopo tre tentativi andati a vuoto, avevo rinunciato ad affiancarla, quasi che potessi contagiarla o rovinare la sua reputazione nel paese, passeggiandole accanto. «Tu hai paura di me!» l’accusai; camminavo all’indietro, per poterla guardare in faccia.
«Un poco, sì. D’altra parte, non sono mai stata una persona molto socievole.»
A questo non potei ribattere in alcun modo, così tentai un approccio diverso: «Parlami del paese. Ne saprai di certo più di me, avendoci vissuto.» Mi ero avvicinato di almeno tre passi, fermandomi per non urtare un paracarro che sporgeva nella via; Maya se n’era accorta, ovviamente, ma sarebbe stato scortese indietreggiare, così si limitò a fissarmi là dove si era fermata, uno sguardo severo con più di un pizzico di riprovazione. «Guarda che questi trucchetti non mi piacciono!»
«Quali trucchetti, scusa? Preferivi vedermi lungo disteso per terra?! Grazie tante!» m’indignai. «E comunque non hai risposto alla mia domanda!»
 «Preferisci perdere tempo in chiacchiere oppure procacciarti il cibo?»
Ripresi a camminare a passo svelto verso il centro, borbottando. Se credeva di scoraggiarmi, a quel modo, si sbagliava di grosso! Io sapevo attendere, la pazienza era la base del mio lavoro, avrei combattuto e vinto! Avrei trionfato su di lei, avrei …
«Ehi! Aspettami, per favore! Non riesco a starti dietro, se corri a quel modo!»
Ecco, appunto! Le avrei dimostrato per l’ennesima volta di essere uno stupido totale. Perfetto!
Mi fermai di nuovo, questa volta per aspettarla: «Conosci qualche negozio in particolare cui rivolgerti? Io ne ho trovato uno in un vicolo vicino le mura, quando sono arrivato: il gestore mi è sembrato cortese e onesto – tra parentesi, è lui che mi ha messo in contatto con la signora Leichte.»
Maya annuì: «Monsieur Comte. Lo conosco. Un tipo a posto, ma non ha tutto quello che ci può servire al momento.»
«Come fai ad esserne così sicura?»
«Hai visto la sua bottega: non ha magazzino, le sue scorte si limitano a quello che c’è sugli scaffali; se non vogliamo ripetere la nostra passeggiata ogni due, massimo tre giorni, dobbiamo fare una buona scorta di tutto il necessario.»
Sorrisi: «Perché fare la spesa ogni due giorni dovrebbe essere un problema? A me piace passeggiare, soprattutto in tua compagnia!»
Lei sbuffò: «Cascamorto!» mormorò.
«Oh, no! Questo proprio no: sappi che sono molto selettivo, in fatto di donne, al punto che sono rimasto solo fino ad ora!» 
Maya mi guardò, paonazza, poi pestò un piede per terra e riprese a camminare spedita, lasciandomi ad ammirare la sua graziosa figura di spalle. Risi di gusto e in pochi minuti la raggiunsi, prendendola per mano: «Se la lasci, che penserà la gente?» la ammonii sotto voce.
«Ti odio!» mi sussurrò di rimando, le labbra quasi a contatto con il mio orecchio.
«Esagerata!»
«Sei un bruto, lo sai? Maltrattare una ragazza è un atto barbaro!»
«Io Attila!» la schernii, portandomi al contempo la sua mano alle labbra per un rapido quanto discreto baciamano: la sentii tremare, letteralmente, mentre si sforzava di mantenere lo sguardo fisso davanti a sé. Sorrisi, scuotendo la testa e la lasciai andare: «Allora! Vuoi dirmi qual è la nostra meta, oppure dobbiamo continuare a camminare finché morte non ci separi?»
«A destra, alla prossima. Là, in quel vicoletto.» Stava sulle sue, camminando rigida, stizzita, ma con la coda dell’occhio vidi che si teneva le dita che avevo sfiorato con le labbra, carezzandole piano con l’altra mano nascosta sotto la sporta: l’avevo sorpresa, evidentemente e ne ero immensamente felice.
«Credo di non essere ancora mai passato da qui! Stiamo andando verso la sorgente, se non sbaglio …»
Questa volta mi guardò in modo strano: «Quale sorgente?» chiese
«Quella al centro della piazzetta a ovest, affacciata sul mare, con il pozzo direttamente sopra!»
«Oddio! Non starai parlando del pozzo dei suicidi, per caso?»
«Dal nome non sembra promettere bene …»
 «Tu che ne dici? La gente si reca al pozzo per le sue ultime volontà, prima di gettarsi oltre il parapetto: la risacca, là sotto, è talmente forte che non hanno mai ritrovato neanche un cadavere da seppellire, vengono subito portati a fondo e poi in mare aperto dalle correnti!»
«E nessuno fa niente per impedirlo? Con tutte le abitazioni che circondano la piazza, ci sarà pure qualcuno che se ne cura!»
Maya scosse la testa: «Io non ho mai …» iniziò, mordendosi la lingua quando si rese conto di quello che stava per dire.
Incurante delle sue proteste, l’abbracciai: «Non hai mai visto nessuno, quando hai tentato, vero? Però, che razza di grandissimi bastardi vivono da queste parti!»
Lei non rispose, limitandosi a singhiozzare. Rimanemmo lì, fermi in mezzo alla strada, attirandoci gli sguardi incuriositi dei pochi passanti, fintanto che Maya non si fu sfogata. «Va meglio, adesso. Grazie.»
«Non c’è bisogno di ringraziamenti tra amici. Fazzoletto?»
Si asciugò il viso, rassettandosi per quanto poteva: «Sarò un disastro, adesso. Ed è tutta colpa tua!» brontolò, semiseria.
«Non più di tanto: sei ancora passabile, credimi.»
«Passabile?! Carogna! Tu la cavalleria non sai nemmeno dove sta di casa! Rivolgersi così ad una ragazza in difficoltà!»
Rimasi impassibile: «Finito? Possiamo andare a fare provviste, prima della fine del mondo?»
Maya rise, poi mi prese a braccetto, seppure esitando e, tirandomi a sé, arrivò persino a baciarmi sulla guancia. «Che non diventi un’abitudine, però!» precisò subito dopo «Andiamo?»
«Dove vuoi tu.»
Di nuovo paonazza, si incamminò per la via: «Adesso esageri!»
«Che posso farci? Altrimenti fai orecchio da mercante!»
«A proposito di mercanti …»
Bisticciammo a quel modo per tutto il tragitto.
La bottega di monsieur June – nome ben curioso per un tizio magro e allampanato che tutto aveva, nel suo aspetto, fuorché qualcosa di estivo! – era decisamente più grande di quella del Comte e molto più fornita: andò a finire che dovetti affittare il carretto di monsieur per portare a casa la decina e più di scatoloni colmi che Maya aveva ammassato sul bancone prima di dichiararsi soddisfatta. «Guarda che non abbiamo un esercito ad attenderci, a casa: siamo solamente noi due!» la sgridai sudando come un mulo su per le stradine in pendenza.
«E io che pensavo che tu fossi un uomo virile! Che delusione!»
«Vedrai quando arriveremo a casa!»
«Che farai? Vuoi punirmi?» Mi sfotteva! Aveva il coraggio di sfottermi proprio lì, in strada! La cosa più triste era che non si rendeva nemmeno conto di tremare come una foglia per la paura che fosse tutto vero, che io intendessi veramente punirla in chissà quale maniera. Provavo una gran pena per lei: avrei voluto … non sapevo nemmeno io cosa avrei voluto. «Dai! Smettila adesso, andiamo a casa!» la incoraggiai «Ti va di darmi una mano?»
Maya rabbrividì, poi sorrise: «Sì, arrivo: fammi posto.» Prese una delle stanghe e si mise a spingere, piegata in due.
«No! Così ti farai male: devi stare più dritta.»
«Così va meglio? Sai, da che mi ricordi, non ho mai fatto il cavallo da tiro.»
«Nemmeno io: al massimo ho maneggiato qualche carriola nei cantieri; una cosa che ho imparato dai muratori veterani, però, è che se non spingi nella maniera corretta, te ne vai a casa a fine giornata con la schiena a pezzi!»
«Ti è mai capitato?»
Annuii: «La prima volta: mi sono stirato e ho passato a letto i cinque giorni successivi. Bocconi, perché era l’unica posizione accettabile.»
«Terribile! Mi stai prendendo in giro, vero?»
«Assolutamente! Se lo desideri, ti posso mettere in contatto con il capomastro che è venuto a verificare le mie condizioni il secondo giorno: era malfidente e prevenuto proprio come te!»
«Si tratta di legittima difesa! È tutto il giorno che mi prendi di mira!»
«Che bugiarda! Un ultimo sforzo, dai, che siamo quasi arrivati.» Proprio mentre lo dicevo, sbucammo nella piazza di fronte alla chiesa, dalla parte del vicolo in pendenza che sfociava dritto in mare: «Senti, Maya, tu sai per caso perché questo vicolo non ha parapetto? Io lo trovo alquanto pericoloso: se un bambino dovesse rincorrere una palla e volasse oltre il ciglio …»
Maya scosse la testa: «Poco probabile: ti sei già chiesto perché non hai visto un cimitero, qua attorno?»
La guardai allibito: «Vuoi dire che … No! Impossibile! È contro la legge, la tradizione, la …»
Sorridendo divertita, mi poggiò una mano sul braccio ad interrompermi: «Ricordi l’editto che vietava di scavare cimiteri entro le mura cittadine?»
«Certamente! Ma che centra questo con il gettare a mare i cadaveri?»
«Funerale in mare.» rispose lei quieta.
«Ma questo è un promontorio, non una nave!» protestai «Attenta a non scivolare: quel gradino è consumato!»
Lei spostò la scatola di lato, guardando ai suoi piedi: «Tarmato, più che consumato, direi! Ma chi ha fatto su e giù dalla cantina, un elefante?! Comunque, se ci pensi, era l’unica soluzione logica, tenuto conto che il cimitero sorgeva proprio qui!»
Mi guardai attorno, osservando le volte: «Bello! Ho acquistato una catacomba! Immagino che le tombe fossero allocate in giardino …»
Maya fece spallucce, sistemando la scatola nello scaffale: «Immagino di sì; io so soltanto quello che raccontano gli anziani del luogo.»
«Immagino che la scala in fondo all’altro vicolo conduca alla base della scogliera, che servisse nel malaugurato caso in cui un corpo si fosse incuneato tra le rocce. Lascia! È pesante, questa: la porto io.»
«Come vuoi. Vorrà dire che io porterò le scorte di farina.» Avevamo quasi terminato di riporre le provviste, quello era il penultimo viaggio: devo ammettere che cominciavo a sentirmi a pezzi. «Che altro raccontano, gli anziani?»
«Poca roba: il cimitero venne chiuso, non senza proteste dei benpensanti, ovviamente; purtroppo per loro, la legge era chiara e dovettero adattarsi.»
«D’accordo. Ma perché non costruirne uno nuovo a ridosso delle mura, dico io! Non avrebbe accontentato tutti quanti?»
«Non lo so, probabilmente sì; fatto sta che per qualche motivo decisero di non farlo ed iniziarono a far scivolare i morti in mare. Dove vuoi che metta la farina?»
«Vicino alle scale, c’è meno strada da percorrere fino alla cucina!» risposi, strizzandole l’occhio.
«Sfaticato! Tutto comodità e niente sudore! Tutto …»
«Chi sarebbe lo sfaticato?!» mi inalberai, ridendo. Lei infilò a razzo le scale, fingendo di sfuggirmi spaventata.
Ci ritrovammo in cucina, seduti ai nostri soliti posti, ansanti e sudati: gli ultimi tre pacchetti attendevano sulla madia, ma li liquidai con un gesto: «Basta! Per oggi abbiamo sfacchinato anche troppo! Quelli possono aspettare domani.»
Maya si sporse in avanti, sfiorandomi la mano: «Sfa-ti-ca-to!» sillabò, rossa in viso, non avrei saputo dire se per la corsa o per la timidezza. Ricambiai il suo tocco –un evento! Era stata lei ad iniziare, questa volta! – e mi alzai per prendere dal frigorifero una grossa bottiglia di birra che avevo messo in fresco appena rientrati. «Ne vuoi?»
«Non dovrei, ma sì, ho una sete tremenda!»
Sorseggiammo per un po’ in silenzio la birra gelata, persi nei nostri pensieri.
«Trascorsero alcuni anni perché il cimitero venisse definitivamente sconsacrato e il lotto reso disponibile.» Maya riprese a parlare fissando l’orlo di schiuma rimasto nel suo bicchiere. «Recuperate o trasferite le salme delle famiglie più abbienti, i resti delle altre vennero scavati e raccolti nella cripta della chiesa qui di fronte, mentre il comune bandiva l’asta per il terreno e tutto quanto vi era rimasto.» Vuotò il bicchiere in un ultimo sorso. «Almeno, così è riportato nei pubblici registri: il mio primo padrone era un notaio, nel ’38, e mi lasciava curiosare nel suo archivio, quando avevo del tempo libero.»
«Maya, quanti anni avevi? Sedici?»
«Quattordici. Mi prese a servizio per aiutare la moglie nelle faccende domestiche: questa era la ragione ufficiale, ma ovviamente aveva altre intenzioni …»
Impallidii: «Ti ha …»
Maya mi rivolse uno sguardo strano, a metà tra il sollevato e l’irritato: «Non sarebbero affari tuoi, ma no, non ci è riuscito: l’ho preso a calci, quando ci ha provato! Vorresti provaci tu, adesso?» Non attese la mia risposta, quale che fosse: «Quando si è ripreso, mi ha battuto fino quasi ad ammazzarmi e mi ha cacciato di casa, così com’ero.»
«E dopo? Sei tornata dai tuoi?»
Scosse la testa: «Mi avevano mandato loro dal notaio, perché potessi rendermi utile …»
«Sono ancora qui?»
«In mare.» fu l’immediata, secca risposta, «Spero che i granchi li abbiano rosi prima ancora che toccassero il fondo!»
Con questo, non potei che concordare. «Scusami, Maya; ti ho obbligata a rivivere dei brutti momenti.»
Lei fissava il piano del tavolo, le dita di entrambe le mane allargate di piatto come se volesse suonare un pianoforte … oppure come se volesse impedirsi di torcerle fino a cavarne sangue; non rispose direttamente alla mia affermazione: «Quello che è successo oggi, per strada … Io non l’avevo mai fatto con nessuno, prima.»
«Intendi spingere una carriola?» scherzai, per allentare la tensione.
Sorrise alla mia misera battuta, nonostante tutto, anche se solo per un istante: «Lo sai cosa intendo.»
No. Non lo sapevo, più che altro lo immaginavo e non sapevo cosa potesse significare, per noi, quello che immaginavo. Potevo soltanto chiedere: «Ti è dispiaciuto?»
«No. Io … credo che potrei rifarlo, in futuro.»
Sorrisi: «Quando vuoi, io sono qui.» la rassicurai e sorrisi di nuovo quando la vidi arrossire: «Hai fame? Io sì: preparo la cena.»
Quella sera, tornai in biblioteca per portare avanti le mie ricerche. La discussione che avevamo avuto Maya ed io sulle sepolture in mare mi aveva stuzzicato al punto che fremevo dalla voglia di verificare, così cominciai a spulciare l’archivio in cerca di ogni possibile briciola di informazione che potesse aiutarmi a far luce sulla questione. Non era semplice, questo l’avevo immaginato da subito, ma era un qualcosa che andava approfondito, perché poteva influire – pesantemente – sulle prospettive di sviluppo dei miei committenti. Mentre sfogliavo un volume sulla storia locale, l’occhio mi cadde sulla spilla che avevo trovato nel pozzo; anche quello era un bel mistero: chi l’aveva perso o lasciato laggiù, doveva essere un militare o parente di un militare … tedesco, probabilmente. Avrei potuto chiedere a Brueder o a Riesler, ma era probabile che avrebbero saputo dirmi ben poco e malvolentieri, quindi avrei dovuto cercare altre fonti anche su quel fronte: il lavoro cominciava a diventare monumentale, accidenti a me che l’avevo accettato! Accantonai momentaneamente la questione della mostrina e tornai a dedicarmi al cimitero, leggendo fino a farmi cadere gli occhi una sequela infinita di fatti e fatterelli che non avrebbero interessato neppure il santo patrono e protettore del paese, ma dai quali riuscii a trarre alcuni spunti e una scarna, succinta bibliografia per ampliare, forse, le mie conoscenze. Sentendo la pendola battere le due, mi stiracchiai, facendo scricchiolare tutte le giunture e decisi che era decisamente ora di infilarmi sotto le coperte. Prima però, salii all’ultimo piano, affacciandomi appena alla porta socchiusa della camera di Maya: mugolava e si agitava nel sonno, in preda ad un incubo, probabilmente; senza pensarci due volte, entrai e mi stesi accanto a lei, accarezzandola e mormorando frasi senza senso, come si fa con i bambini: poco alla volta, si calmò, al punto di girarsi e rincantucciarsi contro il mio petto. Dormiva, naturalmente, un’espressione serena sul volto finalmente disteso; avrei potuto alzarmi e andarmene, ma avrei corso il rischio di svegliarla, così rimasi lì, in bilico sull’orlo del letto, fino a crollare e sprofondare in un sonno senza sogni.
«Come sta andando?»
«Come al solito: comincio a dubitare che quello sia venuto qui per altri motivi.»
«Ha comprato la proprietà …»
«Certo che l’ha comprata! Quale cretino non l’avrebbe fatto, a quel prezzo?»
«Il cretino che l’ha messa in vendita …»
«Quello non è più un problema: ripieno per squali.»
«I vecchi metodi sono i migliori, lo dico da sempre.»
«Sì, mi ricordo benissimo: alle volte avrei voluto strozzarla. Anche adesso.»
«Sa benissimo che non lo farebbe mai: le piace troppo discutere con me, tanto che veniva apposta a trovarmi per farsi una bella litigata, lo ammetta!»
«Io venivo a trovarla perché era in colossale ritardo sul programma e lei non si faceva mai trovare!»
L’altro rise: «Quelle povere intendenze! Che scarpinate, si sono fatte!»
«Beato lei che lo trova divertente! A proposito di programma: a che punto siamo con il refitting?»
«Nessun refitting.»
«Prego?!»
«Non ce n’è mai stato bisogno: ho curato il nostro pargolo come e più di un figlio!» Si interruppe per mezzo minuto: «A pensarci bene, è proprio vero: a mio figlio ho dedicato molte meno attenzioni …»
«E se ne vanta?»
«Non dovrei? Quel figlio di buona donna ha cercato di denunciarmi per farsi bello con gli Alleati! Voleva salvarsi la pelle a scapito della mia!» urlò, poi, sornione: «Ma io l’ho beccato per primo e l’ho scuoiato vivo. Letteralmente.»
«Disgustoso! Se l’avessero scoperta?»
«Poco probabile: ho fatto trasportare il cadavere in un campo, in Germania, da alcuni amici fidati. Morto più, morto meno … E comunque lei era già in Argentina, all’epoca.»
«Non è una buona scusa per commettere una simile imprudenza! Dovrei farla fucilare!»
«Magari più tardi: adesso dobbiamo occuparci del nostro obiettivo, non crede?»
Il vecchio grugnì: «Come avranno saputo della nostra precedente operazione? Gli ordini erano tassativi: mantenere il segreto a vita!»
L’altro si strinse nelle spalle: «Poco importa come l’abbiano saputo: se l’affare va in porto, verremo tutti riabilitati e accolti come eroi!»
«Si rende conto che non potremo farci vedere in giro comunque, vero? Anche se questo nuovo governo ci riabilitasse.»
«E perché mai? Nessuno, al di fuori dei funzionari che ci hanno contattato, ha anche solo il sospetto di quello che abbiamo fatto in passato e che rifaremo a breve: noi siamo innocenti, ai loro occhi.»
«I nuovi committenti …»
«Ci pensi bene: hanno tutto l’interesse a starsene zitti, perché altrimenti ci metteremmo un amen a tirarli in ballo e abbiamo molte più prove del loro coinvolgimento di quante ne abbiano loro del nostro.»
«Siamo in botte di ferro, dunque?»
«No! Le botti di ferro affondano: noi possiamo sempre riemergere …»
A quella battuta, il vecchio lo guardò storto: «Possibile che lei riesca sempre ad essere fuori luogo?» commentò, prima di congedare l’ospite.

6 – PIC-NIC IN GIARDINO

Mi svegliai poco dopo l’alba, tutto anchilosato per la posizione che avevo dovuto mantenere per ore; fortunatamente, sembrava che ad un certo punto Maya si fosse girata, allontanandosi un poco, così mi alzai riuscendo a non svegliarla e uscii. Non aveva senso andare in camera mia, quindi scesi direttamente in cucina per una buona tazza di caffè: fisicamente, mi sentivo a pezzi, un po’ per la sfacchinata del giorno prima, un po’ perché a conti fatti non avevo dormito tutta la notte. Da un altro punto di vista, però, mi sentivo bene, benissimo anzi: Maya … lei cominciava a fidarsi di me, al punto di confidarmi episodi estremamente personali della sua vita e questo, non sapevo bene neppure io perché, mi rendeva felice. Magari stavo soltanto fantasticando, mi illudevo, però … «Però forse mi sbaglio, forse non mi sto affatto illudendo: stiamo diventando amici.» Sorseggiai il caffè bollente, aggiungendo un cucchiaino di zucchero perché era decisamente troppo amaro: «O forse più che amici …?» sussurrai, assaporando l’aroma che saliva dalla tazzina. Il tempo avrebbe risposto alla mia domanda; per quel giorno, invece, avevo altri progetti: preparare i panini per la nostra gita, ad esempio! «Già! Ho intenzione di invitarla a visitare quel villaggio di pescatori … È probabile che protesterà, come al solito, perché lei è soltanto una cameriera e quindi deve essere trattata come tale, nessun dubbio in proposito; ma io non ne ho alcuna intenzione, e poi una giornata di libertà è prevista dal contratto: a questo non potrà obbiettare in alcun modo!»
«Chi non potrà obbiettare a cosa?»
Sussultai: non l’avevo sentita arrivare! «Potresti fare un po’ più di rumore, quando cerchi di assalirmi alle spalle? Per poco non mi è venuto un infarto!» Mi voltai per fronteggiarla, senza pensarci.
«Scusa. Non l’ho fatto apposta!»
Seguendo il suo sguardo spaventato, posai il coltello che brandivo sul tagliere. «Scusami tu: ho esagerato. È che mi hai fatto prendere un colpo, dannazione!» Mi pulii le mani su uno strofinaccio e le versai una tazza di caffè: «È ancora caldo. Dormito bene?»
Lei si portò la tazza al petto, annusando, prima di rispondermi: «Sì. Dopo sì. Grazie.»
 Grazie? Vuoi vedere che …? Arrossii come un ragazzino, interpretando lo sguardo che mi stava rivolgendo: «Non c’è bisogno di ringraziamenti: per te lo rifarei in ogni momento e …» Mi impappinai, rendendomi conto di quello che stavo dicendo; per togliermi dall’imbarazzo, tornai a preparare il cesto del pic-nic. La sentii ridere sommessamente alle mie spalle, una risata gentile, per nulla offensiva, quasi un segno di affetto, oserei dire, mentre scostava una sedia e si accomodava al tavolo per fare colazione. «Che stai facendo? Hai intenzione di fare una gita fuori porta, per caso?» mi sentii chiedere dopo una decina di minuti.
«Abbiamo intenzione.» precisai; era bellissima, nella luce del mattino che filtrava dal giardino. Socchiuse gli occhi, masticando lentamente un boccone di pane: «Allora era su questo che non avrei dovuto o potuto obbiettare!» Sorrise: «E se invece lo facessi? Ci sono così tante faccende domestiche da sbrigare!»
Non mi lasciai abbindolare: «Vorrà dire che mi mangerò tutto quello che c’è nel cestino e che tu avrai perso un’occasione per svagarti e forse divertirti, tutto qui.»
Subito Maya si portò le mani alle guance: «Una minaccia terrificante, paragonabile alle piaghe bibliche!» Sorrise, maliziosa: «Povera me! Come farò a sventarla?»
«Hai finito?»
«Forse. Ti dà fastidio, per caso?»
«Un po’.»
«Davvero?»
«Davvero!»
«Allora smetto. Per ora …» E riprese la colazione che aveva interrotto. Dopo qualche minuto, chiese: «Dove vorresti condurmi, contro la mia volontà?»
Decisi di punzecchiarla a mia volta: «Contro la tua volontà soltanto giù da un dirupo!» Per tutta risposta, Maya mi fece una pernacchia. «Se invece mi seguirai di tua spontanea volontà, potrai accompagnarmi nell’esplorazione di un grazioso villaggio di pescatori, ad una decina di chilometri da qui.»
A quelle parole, lei spalancò gli occhi: «Quale villaggio di pescatori? Di che stai parlando?»
«Il villaggio verso il passo di Calais, situato oltre quel tratto di colline accidentate a oriente! Non lo conosci?»
«Guarda che non c’è alcun villaggio a oriente, né di pescatori, né di contadini, né di boscaioli o che altro!»
«Le foto della ricognizione aerea dicono il contrario.» ribattei «E anche la mappa catastale.» La dispiegai sul tavolo, prestando attenzione a non farla finire nei rimasugli di cibo. Maya mi venne vicino, accigliata: «Dove sarebbe questo tuo villaggio?»
Glielo indicai col dito: «In fondo a questo vallone.»
«Ma quello è soltanto un cumulo di sassi! Non ci sono case!»
«Ci sei già stata?»
«Un paio di volte, quand’ero piccola: avrò avuto sei o sette anni e siamo andati a fare una gita. Era già abbandonato all’epoca!»
Strano. Molto strano: nelle foto si vedevano chiaramente tracce di movimento, tra le case e sul mare antistante, piccole imbarcazioni che andavano e venivano dalla rada: «Non potrebbe darsi che qualcuno abbia deciso di tornare ad abitarci? In fondo sono passati quasi vent’anni!»
«Grazie per avermi ricordato la mia età! Sei un vero gentiluomo!» sbuffò lei «Comunque, tutto può essere, anche se non saprei proprio quale derelitto possa aver scelto di seppellirsi in un posto tanto desolato!»
«Se non vuoi venire, non fa niente: andrò da solo.»
Abboccò immediatamente: «Così rischieresti di finire ammollo, sbadato come sei!»
«Ti preoccupi per me?! Sono lusingato!»
Divenne di fuoco: «Hai … hai frainteso: se ti capita qualcosa, perdo l’unico impiego che sia riuscita a rimediare da un anno a questa parte!» sbottò, a sua discolpa.
«Sì, sì, come no!» motteggiai, chiudendo il cesto. «Allora? Andiamo?»
«Ti odio!» rispose, prendendomi a braccetto e tirandomi verso il corridoio. Sorrideva, svagata, come se stesse pensando a qualcosa di piacevole.
Venti minuti più tardi eravamo per strada, diretti alla porta della cittadina. Maya indossava un abito estivo che non le avevo ancora mai visto, molto semplice ed elegante, forse poco adatto alle passeggiate in aperta campagna: «Sei sicura di voler indossare proprio quello? Mi dispiacerebbe se si rovinasse impigliandosi in un rovo …»
«Poco male: se dovesse accadere, me ne comprerai uno nuovo! Sarà la tua giusta punizione per avermi costretta a seguirti!»
«Benissimo! Vorrà dire che ti porterò su e giù per le montagne ogni giorno e ti rifarò il guardaroba!»
Maya si impuntò, cercando una frase, una parola, qualunque cosa di sarcastico e pungente per ribattere; arrivò al punto di lasciarmi proseguire per una decina di metri, per ricomporsi, prima di raggiungermi e sferrarmi un pugno nelle costole: «Non osare mai più!» sibilò, furiosa.
«Che cosa?»
«Insinuare che io … che abbia bisogno di …»
«Io intendevo letteralmente quello che ho detto, che mi farebbe estremamente piacere regalarti degli abiti nuovi adatti a te; mi dispiace che tu mi abbia frainteso. Pace fatta?»
Lei mi fissò per un minuto, prima di distogliere lo sguardo, paonazza: con la sua carnagione lattea, il rossore spiccava quasi come un faro. Proseguimmo in silenzio fino alle mura, io osservando le abitazioni che sorgevano lungo quelle poche vie che non avevo ancora percorso, Maya persa nei suoi pensieri, tenendosi stretta al mio braccio, vai a capire per quale motivo, visto che era tanto offesa e arrabbiata con me! Varcata la porta, svoltammo a sinistra, inoltrandoci lungo una carrareccia che procedeva più o meno nella nostra direzione; il sole era caldo a sufficienza da contrastare la brezza marina che ci portava i profumi dei prati misti all’aroma di iodio delle alghe e della salsedine. Dal vero, le falesie e le colline che mi avevano incuriosito erano persino più aspre di quanto apparissero sulla mappa: la forra, ad esempio, iniziava a poco più di un chilometro dalla porta, oltre un ponticello che scavalcava il torrente, dando l’impressione che un gigante avesse spaccato in due la roccia con la sua spada, tanto per provarne il filo; un viottolo strettissimo costeggiava il letto del torrente per qualche centinaio di metri, spesso scambiandosi di posto con esso, così che risultava difficile distinguerli l’uno dall’altro, soprattutto là dove intrichi di rovi con tralci e rami spessi come un braccio coprivano entrambi con gallerie che facevano impallidire la vergine di Norimberga …
«Sembra che il giardiniere abbia disatteso le proprie incombenze per un bel pezzo, non trovi anche tu?» scherzai, indicando quel groviglio mentre ci passavamo accanto.
Maya alzò lo sguardo un momento, seguendo il mio dito: «Nessuno va laggiù da … da secoli, ormai, credo. È un luogo maledetto.» Parlava in tono mesto, avvilito. «La usavano per le esecuzioni.»
«Una specie di rupe Tarpea! Curioso, nessuno dei testi che ho consultato ne fa il minimo cenno.»
Lei scosse il capo: «Non gettavano i condannati dall’alto: li conducevano alla foce del torrente, laggiù, in fondo alla forra; spezzavano loro tutte le ossa e le articolazioni degli arti e li lasciavano sulla spiaggia, in attesa dell’alta marea …»
«Se non morivano per shock ed emorragia, annegavano.» Rabbrividii. «Efficiente, non c’è che dire. E capisco anche perché la storia ufficiale non ne parli. Ma tu come hai fatto a venirne a conoscenza?»
Scosse le spalle: «Molti in paese lo sanno: basta chiedere ai vecchi. Da bambini, giocavamo a spaventarci a vicenda con le storie dei condannati e dei loro fantasmi che risalivano dalla forra per venirci a prendere e scappavamo a nasconderci. Cose così.»
Fissai lo sguardo nel folto: ero convinto di aver visto luccicare qualcosa nella penombra, ma non avevo alcuna intenzione di rimetterci i vestiti per assicurarmene, così mi incamminai lungo il sentiero per continuare la nostra gita. La strada terminava mezzo chilometro più avanti, svoltando bruscamente a sud per raggiungere una piccola fattoria. Indicai il sentiero dissestato che partiva dal gomito, perdendosi nell’erba: «Temo che dovremo tornare indietro.»
«Perché?» Maya, ancora … imbronciata?, avvilita? vai a saperlo!, stava osservando i cespugli di rose inselvatichite che crescevano qua e là, il cielo, le nuvole, insomma tutto pur di non incontrare il mio sguardo.
«Credi di riuscire a camminarci con quelle?» le chiesi, indicando le ciabatte aperte di sughero e cuoio che evidentemente si era dimenticata di cambiare uscendo. «Secondo me, inciamperai e ti farai male dopo neanche venti passi!»
Questa volta mi fissò a lungo, prima di rispondere: «Scommettiamo?»
Non era arrabbiata, non più, almeno: credo che si sentisse sottovalutata da me, in quel preciso momento, cosa che era lungi dalle mie intenzioni: io volevo soltanto evitare che si facesse male sul serio! Solo che se glielo avessi detto, avrei di sicuro peggiorato la situazione: «Laverai tutta l’argenteria entro domani, se ho ragione?»
Per quanto incoerente fosse la mia richiesta, Maya accettò prontamente: «Contro una settimana di paga?»
«Andata!» Giunti all’imbocco del sentiero, mi feci da parte, invitandola a proseguire con un inchino: «Madame …»
Vedendola caracollare sin dalle prime asperità su quel tribolo per carrarmati, avrei voluto raggiungerla e fermarla, ma non potevo: cominciavo a comprendere meglio il suo carattere e la sua personalità e sapevo che avrebbe accettato solo a cose fatte, dopo averci sbattuto contro il naso, come si suol dire. Testarda come un mulo, fino all’ultimo!
Come volevasi dimostrare, dopo una quindicina di passi vidi – e udii, dannazione! – la sua caviglia torcersi e slogarsi, dopo che aveva messo il piede in fallo, facendola ruzzolare a faccia in giù sui sassi. Corsi da lei, sollevandola di peso: «Cosa dovrei fare con te adesso, eh? Me lo spieghi? Possibile che tu non riesca ad accettare una gentilezza che sia una?» le urlai contro, tamponando delicatamente con un fazzoletto il sangue che le sgorgava dal labbro e dalla fronte; la caviglia, violacea per l’ematoma, era già il doppio del normale.
«Non sono inciampata! La ciabatta …» tentò di difendersi.
«La ciabatta è intatta! Sei tu che non vuoi saperne! Mi odi così tanto? E allora perché sei tornata?»
Ecco. L’avevo chiesto. La domanda che mi tormentava incessantemente dal primo giorno era uscita dalle mie labbra e rimaneva sospesa tra noi, seduti in mezzo all’erba sul ciglio di quella trappola. Ero convinto che, se avesse potuto farlo, a quel punto Maya se ne sarebbe andata davvero e per sempre, che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avremmo potuto parlare perché, qualora l’avessi incontrata per strada, si sarebbe limitata a rivolgermi un saluto educato, niente di più, forse di meno.
Stavo lì, continuando a tenere premuto il fazzoletto sulla sua fronte – perché continuava a sanguinare? Non poteva essersi fatta così tanto male! – senza accorgermi del suo sguardo stupito fisso su di me: «Arthur? Arthur!» Era la prima volta che mi chiamava per nome, non sapevo nemmeno come facesse a conoscerlo, visto che mi ero presentato come mr. Morris. A meno che … Ma certo, che stupido! La signora Leichte doveva averle pur detto per chi avrebbe lavorato! «Che idee ti sei messo in testa?»
Che domanda assurda! Quasi più assurda della mia. Era così evidente: l’avevo appena dichiarato apertamente, quello che mi passava per la mente!
«Io non ti odio. Non ti ho mai odiato.»
Perché parlava a voce così bassa? Faticavo a sentirla, nonostante fossimo così vicini, tanto che il tepore del suo alito mi intiepidiva la guancia. «Anzi, tutto il contrario …» Un altro flebile sussurro.
«Davvero?»
Mi rispose annuendo e stringendosi a me: «Non so perché, però è così.»
«Resterai?»
«Certo!»
«Non per lavoro?»
«Non soltanto per lavoro. Cosa penserebbe la gente, altrimenti?» rispose, con quel suo sorriso che sfoggiava per prendermi in giro: «Ora ti spiacerebbe smetterla di premermi quella cosa sulla fronte? Mi fai male!»
«Scusa. È che il sangue non … Fammi vedere.» Scostato il fazzoletto, mi resi conto con sollievo che l’emorragia si era arrestata: c’era un brutto taglio appena al di sotto dell’attaccatura dei capelli, ma per fortuna non necessitava di punti; lo lavai alla meglio con dell’acqua, disinfettandolo con la grappa che avevo portato per vivacizzare il pic-nic.
«Ahi! Attento: quella roba brucia come l’inferno!» si lamentò lei, cercando di allontanarmi la mano.
«Ferma! Direi che per oggi hai già fatto abbastanza di testa tua, no?»
«E va bene! D’accordo! Avevi ragione tu e io torto! Contento?» mi rimbeccò «Ho perso la scommessa: appena saremo tornati a casa, luciderò l’argenteria come promesso!» Detto questo, fece per alzarsi, appoggiandosi alla mia spalla, solo per ricadere immediatamente a terra appena poggiato il piede ferito.
Scossi il capo, disperato: «Certo che ce ne vuole per far entrare un poco di sale in quella zucca! Cosa credevi di fare, di tornare indietro sulle tue gambe, magari?»
«Ce la faccio! Basta soltanto …»
«Con quella caviglia?! Siamo fortunati che non si sia rotta!» commentai, sfilandole anche l’altra ciabatta e riponendole entrambe nel cesto. Poi mi chinai a prenderla in braccio: «Tieniti, mi raccomando!»
Lo sguardo di Maya era … stupito, preoccupato, spaventato, tutto insieme: «Non … Mettimi giù: mi basta potermi appoggiare! Zoppicherò, ma ce la farò!»
Scossi la testa: «Non ho intenzione di farti da stampella.» ribattei, calmo.
«Ma non puoi portarmi così per più di un chilometro! Ti spezzerai la schiena!»
«Se ce ne sarà bisogno, mi fermerò a riposare.»
«Tu … tu sei uno stupido!»
Annuii: «Probabilmente hai ragione, ma mai quanto te!» conclusi, baciandole la fronte, stando attento ad evitare la ferita.
Arrivammo a casa poco prima delle undici solo perché, giunti sullo spiazzo della corriera, trovammo dei conoscenti di Maya che furono ben lieti di prestarci un triciclo: accomodata lei nel cassone da carico, li ringraziai, promettendo di riportarlo indietro il prima possibile, dopodiché partii di gran carriera scegliendo i vicoli più ampi per non rischiare di rimanere incastrato alla prima svolta; fisicamente ero a pezzi: nonostante fosse minuta e avesse cercato in tutti i modi di alleggerirmi il lavoro, non era stato facile portare Maya per tutto il tragitto, soprattutto lungo il tratto in salita dalla forra allo spiazzo e pestare sui pedali di quel trabiccolo antidiluviano tutto arrugginito aveva rasentato la tortura per le mie povere gambe. Dentro, però … Non osavo nemmeno pensarci, non ancora, perché avevo paura di aver sentito male, di aver male interpretato le sue parole, i suoi gesti: Maya sedeva nel cassone davanti a me tenendo stretto in grembo il cesto da pic-nic, lo sguardo fisso sulla strada; aveva accomodato le gambe in modo da lasciare libera la caviglia slogata e ogni tanto la sfiorava appena con la punta delle dita, sibilando di dolore. Smontando di sella, per poco non caddi, i muscoli che tremavano letteralmente per la fatica, ma mi consolai al pensiero che presto avrei potuto riposare, comodamente allungato sul divano del salotto. «Eccoci arrivati! Madame desidera scendere?» chiesi con sussiego, allungando le braccia per sollevarla.
«Non serve. Ce la faccio: non mi fa più tanto male …»
Facendo orecchio da mercante, le infilai un braccio sotto le ginocchia, l’altro dietro la schiena e la tirai fuori dal cassone: «Non mi sono mai piaciuti i bugiardi.» commentai, «Non mi fido di loro, sai?»
«Io … Oh! Va al diavolo, tu e i tuoi bugiardi! Mi arrendo: se vuoi spaccarti la schiena senza motivo, arrangiati!» brontolò lei «Testardo che non sei altro!» Sorrideva, mentre lo diceva, appoggiandosi a me, rilassata.
«Perché sorridi?» chiesi, sorridendo a mia volta.
«Non sono affari tuoi!» fu la risposta stizzita: «Dove hai messo le chiavi?»
«Sono nel cesto, vicino alle bottiglie.»
Maya frugò inutilmente per qualche minuto tra tovaglioli e panini: «Dove diamine … Oh, eccovi, piccole pesti!» concluse, tirando fuori trionfante la coppia di spesse chiavi che chiudevano le due serrature. Pochi, secchi scatti e la frescura dell’anticamera ci avvolse; stavo già avviandomi verso le scale, per portarla in camera sua, quando sentii la sua mano sulla guancia: «Dove credi di andare, adesso?»
«Di sopra: devo medicarti e poi devi riposare, almeno finché quella non si sgonfia.» risposi, accennando alla sua caviglia.
«Assolutamente no! Non se ne parla nemmeno!»
Ero stanchissimo e cominciavo davvero a spazientirmi: «Maya …»
Lei mi zittì con un bacio; era un bacio timido, quasi riservato e sapeva di sangue, sudore e terra, ma lo trovai dolcissimo e al tempo stesso vagamente inquietante per quello che sembrava risvegliare dentro di me: «Arthur, ammettilo: anche tu devi riposare. Non voglio che ti faccia male a causa mia, non ora che …» non terminò la frase, si limitò ad abbracciarmi ancora più stretto. «E poi mi devi ancora un pic-nic! Qualche idea?» scherzò, baciandomi di nuovo.
In effetti, io un’idea ce l’avevo. Uscimmo in giardino: c’era ancora molto lavoro da fare, per farlo tornare al suo aspetto originario, ma per i miei scopi l’erba tagliata e innaffiata di fresco assieme agli alberi liberati dai rami morti erano più che sufficienti; giunti a ridosso della cancellata che dava sul mare, feci accomodare Maya su una panchina, apparecchiai sull’erba e la feci sedere sulla coperta: «Torno subito!» dissi e mi affrettai in casa, per quanto potevo. Alle mie spalle sentii ridacchiare, ma non vi feci caso. Tornando con ghiaccio, alcool e cerotti, trovai tutto ben disposto nei piatti, pronto per essere gustato.
 «Bentornato, signore! Posso servirle il pranzo?»
«Prima devo medicarti. E comunque oggi tocca a me servire!»
Maya guardò storto la bottiglia del disinfettante: «Non avrai intenzione di ripetere la tortura della grappa con quello, vero?»
«È per il tuo bene.» spiegai «Non vorrai rischiare di finire in ospedale per un’infezione: chissà chi e cosa è passato su quelle pietre!» Le allungai lo strofinaccio nel quel avevo avvolto il ghiaccio frantumato: «Mettilo sulla caviglia: anche se è troppo tardi per impedirle di gonfiarsi, dovrebbe darti un po’ sollievo.»
Le sedetti accanto, armeggiando con la scatola dei cerotti: «Va meglio?»
«Sì. Che stai combinando? Dammi, faccio io!» Mi prese la scatola delle mani e l’aprì senza sforzo: mi sentii un idiota. «È soltanto questione d’abitudine, sai?» commentò, passandomene uno adatto, «Ne ho dovuti usare così tanti, nel corso degli anni, da potermi considerare un’esperta in materia!» Il suo tono era allegro, la sua espressione, al contrario, non lo era affatto, i suoi occhi pieni di lacrime dicevano tutt’altro: al diavolo il pic-nic, la ricerca, i committenti! In quel momento, c’era un’unica cosa che mi premeva: lei. L’abbracciai stretta, cercando le sue labbra, trovando nuovamente il sapore del nostro primo bacio, solo che stavolta non c’era alcuna timidezza, nessun riserbo: eravamo soli di fronte al mare, al di là della cancellata, nessuno poteva vederci, e anche se avesse potuto, dubito che avrebbe avuto importanza in quel momento; sotto il sole caldo di mezzogiorno, l’abito di Maya si sfilò quasi da solo. Impiegammo molto tempo, non avevamo alcuna fretta, solo il desiderio di renderlo perfetto per entrambi, mentre imparavamo a conoscerci. Avrei voluto che durasse per sempre, ma quando, dopo, Maya rimase distesa sull’erba al mio fianco, accarezzandomi pigramente, mi consolai pensando che era stata soltanto la prima volta, che ce ne sarebbero state molte altre perché io e lei saremmo rimasti insieme.
«Ho fame.»
«A dirtela tutta, anch’io. Ho una fame tremenda!» Le accarezzai il fianco, lentamente, prima di passarle un piatto e versarle un bicchiere di buon vino.
«Che fai?» Maya mi guardava stupita e un poco spaventata.
«Esaudisco i tuoi desideri. Perché me lo chiedi?»
«Non qui! E se ci vedessero?»
Scoppiai a ridere: «Maya, tesoro, direi che è un po’ tardi per preoccuparsi dei guardoni, ti pare?»
Color mattone, lei cercò di sferrarmi un calcio, ma si fermò a metà strada, trattenendo a stento un lamento: aveva scelto la gamba sbagliata.
«Calma, calma! Se ti preoccupa così tanto, vorrà dire che completeremo la nostra scampagnata in cucina!»
In dieci minuti, avevo sistemato lei e la sua gamba su una comoda sedia con degli spessi cuscini e avevo riapparecchiato dentro; un rapido controllo, un paio di ritocchi e avevo potuto inchinarmi alla mia dama come ogni perfetto cameriere: «Et voilà, madame! Il suo tavolo è pronto! Posso prendere la comanda?»
Maya ridacchiava, incapace di smettere.
«Si può sapere che hai da ridere a quel modo? Ho forse dimenticato qualcosa di importante in giardino?»
«Nulla di che! Soltanto …» un lungo respiro, in cerca d’aria «soltanto i vestiti!» concluse, scoppiando a ridere fragorosamente, abbandonata contro la spalliera della sedia, tenendosi la pancia.
Quando si fu calmata, mi avvicinai e la baciai, felice di quel riso, di quelle lacrime così diverse da quelle di un paio d’ore prima, in giardino, grato di averla incontrata. «Allora era vero!» le sussurrai all’orecchio, baciandole il lobo.
«Cosa era vero?»
«Che non mi odi, anzi il contrario.»
«Vedi di non farmene pentire!» mi minacciò, spingendomi via e mettendosi a mangiare per coprire il suo imbarazzo.
Sorridendo, feci il giro del tavolo e mi sedetti al mio posto, per farle compagnia.

7 – INGRASSANDO LE GANASCE

Dieci giugno 1944. L’Operazione Overlord, pianificata con tanta cura per quasi un anno, parte con quattro giorni di ritardo. Inglesi e canadesi sbarcano nei punti prefissati, stabiliscono teste di ponte, chiudono sacche, avanzano cautamente in territorio francese, sbaragliando, con l’aiuto della Resistenza locale, la difesa tedesca. I pochi reparti di volontari statunitensi si limitano ad offrire supporto logistico, per quanto in loro potere con le scarse munizioni di cui dispongono. Il conflitto è comunque durato troppo a lungo per le forze dell’Asse, la loro capacità industriale, logorata dai continui bombardamenti, è ormai al collasso ed è soltanto questione di tempo prima che la guerra termini. Però la vittoria lascia ad alcuni degli Alleati l’amaro in bocca: non tutto è andato come avevano pianificato, come avrebbero voluto …
L’enclave alleata a Berlino, ridotta a pochi isolati attorno all’aeroporto Tempelhof, era un luogo piuttosto squallido, circondata com’era da pattuglie perennemente in servizio, soprattutto dopo la crisi del blocco conclusasi appena l’anno precedente. Pensare al fasto di cui l’intera città si era ammantata sino ad una decina di anni prima, alle vie ricche di storia, di cultura, poneva quel particolare visitatore in uno stato d’animo misto di tristezza profonda, rabbia e rassegnazione; vedere i ristretti confini della Zona, marcati dai posti di blocco organizzati sulle arterie principali, cancellava rapidamente gli eventuali dubbi che la sua coscienza di gentiluomo vecchio stampo sporadicamente faceva riemergere.
«Dannazione! È indegno! Sto diventando veramente un sentimentale!» borbottò, svoltando l’angolo di un vicolo e infilandosi nell’androne di un palazzo rimesso in piedi chissà come.
Il cortile interno, il primo di una coppia, era tetro, nonostante il giardinetto corredato di panchine che ne abbelliva il centro, rimandandolo, con la memoria, a quel buco dimenticato da Dio in Argentina dove tre anni prima qualcuno l’aveva attirato con un pretesto per darlo in pasto ad una squadra di sicari: ridacchiò al ricordo nitido dell’espressione assunta da quelle mezze tacche quando avevano finalmente notato i distintivi delle SS che le sue guardie del corpo ostentavano sul bavero degli impermeabili, neanche avessero visto il diavolo in persona! Purtroppo per loro, per tendere l’imboscata quegli idioti avevano scelto un cortile con un’unica uscita …
Tentennando il capo, infilò il secondo portone alla sua destra, salendo fino all’appartamento d’angolo al primo piano; stranamente, la porta era aperta: per mezzo minuto, temendo l’ennesima trappola, rimase immobile sul pianerottolo, indeciso se entrare oppure tornare direttamente all’aeroporto. A risolvere l’impasse pensò una giovane donna, praticamente una ragazzina, che uscì con un bambino in braccio, avviandosi per le scale al secondo piano: «Oh, buongiorno! Cerca qualcuno?»
«Sì, anche se temo che mi abbiano fornito indicazioni sbagliate. Sarebbe così cortese da dirmi se il signor Faber abita qui?» Sorrise, levandosi il cappello in segno di saluto; la giovane sorrise di rimando: «Certamente! Il signor Faber occupa la stanza in fondo al corridoio, subito prima della lavanderia!»
«Mille grazie, signorina! E complimenti per il bellissimo bebè!»
Il sorriso della donna si allargò, fece una carezza al bimbo e riprese a salire. “Ovvio! Hanno suddiviso i vecchi appartamenti in altri più piccoli ed economici, mantenendo il corridoio e alcuni ambienti di servizio in comune. Avrei dovuto arrivarci da solo! Si vede che sto proprio invecchiando.”, pensò mentre percorreva il lungo e ampio corridoio fino in fondo, cercando il più possibile di evitare di invadere, sbirciando attraverso le porte aperte, la privacy dei piccoli monolocali. Giunto a destinazione, bussò educatamente alla porta chiusa che si trovò di fronte. Venne ad aprire un uomo massiccio, dai modi spicci tipici di un ex-militare, che lo esaminò a lungo prima di spiccicare parola: «Desidera?»
«Vengo dalla Normandia. Posso accomodarmi? È stato un viaggio piuttosto lungo e faticoso.»
«Io non …»
«Sono venuto per incontrare Faber. Spostati dalla porta, se non vuoi che ti deferisca alla Corte Marziale, idiota!» Doveva ancora possedere tutto il carisma che aveva caratterizzato la sua carriera di ufficiale perché l’uomo si irrigidì istintivamente sull’attenti e si fece da parte, spalancando la porta su di una squallida stanzetta arredata con mobili da poco prezzo: «Signore! Mi scusi, signore, non volevo arrecarle offesa! I miei ordini …»
Il vecchio lo liquidò con un gesto, rivolgendosi all’uomo di mezza età che lo osservava dal divano sotto la finestra: «Bene, bene bene! Noto con piacere che ha fatto carriera, in questi ultimi cinque anni, capitano! Un’ufficiale della Royal Navy, nientemeno!»
L’altro annuì, sorridendo, alzandosi per stringere la mano al nuovo venuto: «Ammiraglio, vedo che non ha perso la sua grinta.»
«La ringrazio per aver molto cortesemente mentito: sappiamo entrambi che non è vero!»
Si accomodarono e il capitano fece gli onori di casa offrendo un bicchiere di scotch all’ospite: «Purtroppo non ho altro, signore.» spiegò, «Ho dovuto contrabbandarlo in una valigia diplomatica, si figuri! Quanto ai bicchieri, poi …» Alzò il vetraccio decorato da poco prezzo in un brindisi: «Ai vecchi commilitoni!»
L’ammiraglio sorrise, levando a sua volta il bicchiere: «Agli amici ritrovati!» rispose, «Anche se nel suo caso dovrei farla processare per tradimento …» buttò lì, ridacchiando nel veder trasalire l’altro. Sorseggiarono il liquore forte e corposo: niente a che vedere con un buon cognac invecchiato, ma pur sempre gradevole: «Ottimo! Troppo anglosassone per i miei gusti retrogradi e nazionalisti, ma niente male davvero.» Il vecchio allungò un braccio sullo schienale e stette a rimirarsi l’uomo che aveva di fronte: vestito borghese, di taglio elegante, con le mostrine discretamente appuntate sul petto della giacca; altre mostrine erano affibbiate alle apposite spalline dell’impermeabile appoggiato sul bracciolo del divano. «Quindi ecco dov’è andato a cacciarsi, quattro anni fa, quando è sparito da Buenos Aires! Direttamente all’Ammiragliato!» motteggiò «L’hanno accolta con tutti gli onori?»
L’ospite conosceva bene il modo di fare del suo superiore e rispose a tono: «Benissimo: un anno di carcere militare; poi si sono ravveduti, visto che a mio carico non risultava nulla.»
«E visto che ufficialmente, per loro, era un marinaio da scrivania, l’hanno tirata fuori dalla gabbia e posta in servizio attivo?» chiese l’ammiraglio, studiandosi le unghie.
Il capitano si strinse nelle spalle: «Dopo che ho impedito ad un loro sottomarino di incagliarsi nell’estuario del Forth perché avevano calcolato male le correnti, hanno ritenuto che sarei stato più utile lontano da quella scrivania …»
L’ammiraglio rise: «E non si sono stupiti del fatto che lei conoscesse quelle correnti meglio di loro?»
«Che vuole che le dica, l’avranno imputato alla leggendaria pignoleria germanica!»
«Capisco. Passando all’argomento principe del nostro incontro: è da lei che i nostri a Bonn hanno saputo.»
«In un certo senso: ho soltanto suggerito, come addetto militare inglese ed ex-membro della Kriegsmarine, che la situazione politica in cui ci troviamo attualmente non è del tutto rosea e che si sarebbe potuta migliorare replicando il problema che gli americani hanno avuto sei anni fa. In fondo, il nostro programma era stato finanziato dal governo …»
«Vero. Però questa volta il compito potrebbe risultare più difficile da portare a termine: le distanze sono maggiori, le aree da coprire molto più vaste …»
«Mi sta dicendo che non ha intenzione di accettare, signore?»
«No, no, non si preoccupi per questo: può tranquillamente dire ai suoi committenti che l’operazione è in pieno svolgimento. Solo, questa volta sarà più complicato e per vedere risultati apprezzabili ci vorrà più tempo.»
L’altro si irrigidì: «Ma … io credevo …»
«Che avessero distrutto tutto quanto dopo la nostra partenza? Che i resti fossero stati occupati durante lo sbarco? Si sbaglia: è tutto in perfetto ordine.»
«Però non è possibile che abbiate riattato tutti gli impianti in soli tre anni! Neanche noi tedeschi saremmo capaci di tanto!»
L’anziano ammiraglio scosse il capo: «Captano! Mi meraviglio di lei: denigrare a questo modo le capacità produttive e tecnologiche della propria madrepatria non è per niente patriottico! Abbia fiducia in noi, i suoi vecchi commilitoni! A proposito, ha intenzione di partecipare attivamente alla missione? Come ai vecchi tempi!» chiese, alzandosi per andarsene.
«Sarebbe un onore per me! Cercherò di farmi riassegnare in Francia il prima possibile!»
«Bene! Bene! Sarà un piacere lavorare di nuovo con lei. Arrivederci, capitano! Pardon, signor Faber! »
 Chiudendosi la porta alle spalle, il vecchio vide in fondo al corridoio la ragazzina di prima: stava rientrando nel suo appartamento e lo salutò allegramente con la mano: proprio una giovane gentile; e molto carina, anche! Si trovò a ripensare alla nuora, la splendida creatura che suo figlio aveva conosciuto quando il suo reparto era stato trasferito in Italia, nell’inverno del ’44: era lei che dopo la resa lo aveva aiutato a liberarsi della divisa e a nascondersi sino che la situazione non si era calmata; non che suo figlio avesse qualche cosa da nascondere o da rimproverarsi: in qualità di pilota da caccia, aveva sempre strettamente seguito il codice di condotta militare ed era rimasto ligio al proprio personale codice morale che gli impediva la benché minima scorrettezza. Forse era proprio per questo che, una volta passata la bufera, quando avrebbe potuto benissimo aggregarsi alle colonne in ritirata verso i passi alpini, si era rifiutato di tornare ed aveva sposato la sua benefattrice …
Comunque fosse, l’ultima volta che era stato a trovarli, nel loro poderetto sul Garda, li aveva trovati felicemente innamorati, anche se un po’ a corto di sonno a causa del suo primo nipotino. “Dolci ricordi! Dovrò tornare presto a trovarli!” si disse, mentre usciva sul pianerottolo chiudendosi la porta alle spalle. Sceso in cortile, fece un cenno ai due uomini che lo avevano aspettato sulla panchina, impegnati a leggere le notizie sportive: «Tenetelo d’occhio: sembra sincero, ma non si sa mai! Io torno a casa con il primo volo.»
I due salutarono portandosi discretamente la destra alla falda del berretto e ripresero a commentare l’ultima prestazione delle loro squadre del cuore.
«Il mondo avrebbe potuto essere diverso, a quest’ora.»
«Perché dici così?» Maya sedeva sul divano del salotto, la caviglia sepolta in metri e metri di bende allungata sul poggiapiedi; alla fine, dopo due giorni di inutili impacchi di ghiaccio, avevamo dovuto chiamare il medico, perché il gonfiore non accennava a diminuire. Eppure, nonostante fosse palesemente inferma, non c’era stato verso di farle cambiare idea: quella testona aveva insistito per ottemperare alla scommessa che aveva perso, tanto che avevo dovuto procurarle il necessario e sistemarle davanti in bell’ordine tutta l’argenteria di casa!
«Perché è semplicemente evidente: senza il ritiro improvviso delle forze armate americane, di sicuro l’avanzata verso la Germania sarebbe stata più semplice e veloce, non credi? Non parliamo poi delle operazioni in estremo oriente!»
«Ma sai benissimo anche tu che c’erano dei motivi impellenti, non l’hanno deciso così, tanto per fare!»
«Lo so, lo so! Eppure, nulla mi vieta di pensare che …»
«Che cosa?»
«Che ci sia qualcosa di strano, in questa faccenda, qualcosa di …» Scrollai le spalle, incapace di esprimere i miei presentimenti, i miei dubbi.
Lei batté la mano accanto a sé sul divano: «Seduti comodi si pensa meglio! Dai, sfogati: cosa ci sarebbe di così strano in un’epidemia?»
«Nulla, se fosse una sola! Però, cinque anni e mezzo fa …»
«Cosa?»
Le accarezzai i capelli, lasciando scivolare la mano lungo la guancia e il collo, fin sulla spalla: «Tu non eri là, quindi non puoi capire …» iniziai, poi mi corressi: «No, sbagliato: puoi capire eccome. Però potresti non comprendere.»
«Arthur, caro: in questo momento di sicuro non ti sto comprendendo e neppure capendo! Vuoi smetterla di girarci intorno e venire al sodo, per favore?»
Rimasi a fissarla a lungo, giocherellando con lo scollo del suo abito, prima di riprendere a parlare: «Cosa penseresti se ti dicessi che ad ammalarsi non sono stati solamente gli esseri umani? Che quasi contemporaneamente alla recrudescenza di spagnola, si sono presentati focolai di afta, influenza aviaria, carbonchio? Cosa diresti, sapendo che furono colpite anche le coltivazioni?»
Maya impercettibilmente, involontariamente, si ritrasse: «Ma tu come fai a saperlo? I cinegiornali …»
Annuii: «Per limitare il panico tra la popolazione – e quasi sicuramente per altri meno nobili motivi – le informazioni vennero pilotate… Al diavolo! Siamo sinceri: vennero pesantemente censurate! Noi però siamo canadesi, ci diamo di gomito con gli Stati Uniti: era impossibile che qualcosa non filtrasse!» Le presi le mani, carezzandole piano: «Non puoi fermare un’epidemia, non puoi limitarla nello spazio o nel tempo o frapporle degli ostacoli fisici.» le spiegai «Quando i primi, per fortuna sporadici, casi fecero la loro comparsa presso il confine, le autorità sanitarie fecero due più due e offrirono il loro aiuto, che però venne prontamente rifiutato. Molto cortesemente, è vero, ma rifiutato.»
Lei mi ascoltava attenta, in bilico tra il credere e il non credere: «Ma tu non sei un medico, Arthur!»
Annuii tristemente: «Mia moglie lo era.»
La sentii irrigidirsi, tentare di strappare le mani dalle mie; non era arrabbiata con me, direi piuttosto offesa e molto delusa.
«Sei sposato.» Un dato di fatto, una pietra tombale, nella sua ottica, sulla nostra relazione appena nata. Vidi le lacrime trattenute a stento nei suoi occhi: non poteva correre a chiudersi nella sua stanza per dare sfogo al suo dolore, ma non voleva neppure darmi la soddisfazione di piangere in mia presenza. Sorrisi e l’attirai a me per assaggiare quelle lacrime, nonostante lei cercasse in tutti i modi di evitarlo. Quando sfiorai le sue labbra, fu come baciare un sasso, tanto era irrigidita: non aveva capito, tantomeno compreso.
«Jean fu tanto sfortunata da risultare uno di quegli sporadici casi cui accennavo poco fa.» spiegai, alzandomi dal divano. «Vado a preparare un po’ di limonata: ti andrebbe?» Non attesi la sua risposta, il mio era ovviamente un pretesto per cambiare discorso. Chiudendo la porta del salotto alle mie spalle, udii chiaramente i suoi singhiozzi: per sé? Per Jean? Per me? Non mi importava, andava bene così, per il momento. Quando tornai, un quarto d’ora più tardi, Maya era allungata sul divano, gli occhi arrossati che fissavano la porta con aria assente, persa com’era nei suoi pensieri. Sperai che fossero pensieri piacevoli, non volevo proprio che si sentisse in colpa per qualcosa di cui non poteva avere colpa. «Ecco la tua limonata. La appoggio qui, sul tavolino, così l’avrai a portata di mano, quando ti va.» Con il mio bicchiere e la brocca, mi accomodai sulla poltrona davanti alla porta-finestra che dava sul giardino ed iniziai a ragionare sul modo di rendere quell’angolo di verde incolto degno di Maya, della sua bellezza; ad esempio, lungo il muro di cinta avrei potuto piantumare dei bulbi, qualche specie robusta e gradevole che rendesse meno oppressiva quella parete di mattoni che … Un momento! Ma perché dei bulbi? Avrei fatto meglio ad intonacare a nuovo, addossandoci delle rastrelliere, magari di bambù, sulle quali far crescere vite canadese, edera di varie specie ed altri rampicanti, magari persino qualche vera vite da uva, tanto per gradire! Poi avrei dovuto sistemare le aiuole, la bordura era ridotta da far schifo, e pensare a qualche soluzione più pratica del semplice ghiaino per i sentieri; gli alberi avrebbero potuto aspettare, erano lì da almeno cinquant’anni ed erano stati appena potati – d’accordo, solo quel tanto che bastava a renderli presentabili, ma non era certo il caso di imbarcarsi in programmi faraonici sin dai primissimi giorni!
«Arthur …?»
Nel giro di qualche mese, il nostro giardino sarebbe diventato irriconoscibile e il suo punto focale si sarebbe spostato dal piccolo gazebo diroccato al centro alla piazzola circolare prospiciente il mare con le sue …
«Arthur, ascoltami, ti prego! Io …»
Mi riscossi di soprassalto dalle mie fantasticherie al tocco delle sue dita sulla guancia: come …? Mi voltai a mezzo e vidi Maya in piedi accanto a me, che si reggeva a malapena allo schienale; da quanto era lì? Come ci era arrivata? “Ovvio, stupido! Camminando, anche se non avrebbe dovuto, neppure per quei pochi metri, e tutto perché tu ti sei perso un’altra volta nelle tue dannate elucubrazioni, razza di deficiente!” Mi alzai di scatto, spaventandola persino, con la mia foga: «No! No! No! Maledizione!» imprecai, prendendola in braccio neanche fosse una bambina capricciosa: «Lo hai sentito anche tu, il dottore: riposo assoluto per almeno una settimana! Non vagabondare per la casa a tuo piacimento perché ti va di farlo!» la sgridai, camminando avanti e indietro per il salotto senza alcuna meta precisa: mi stavo comportando come un idiota e ne ero perfettamente conscio: «E nemmeno per cercare di perdonare uno stupido cronico come me …» borbottai, rendendomi conto che, in realtà, una meta l’avevo: cullarla fino farle cambiare idea su di me, ancora una volta, sempre che non fosse stato troppo tardi; ero ancora in prova e lo sapevo, avevo promesso di non trascurarla una seconda volta eppure l’avevo fatto, proprio quando sembrava andare tutto per il meglio! Ma non mi sarei fermato, a costo di spezzarmi le braccia, di rompermi la schiena! Io …
«Arthur, ti chiedo scusa!»
«Scusa?! E per quale motivo dovresti chiedermi scusa?»
L’udivo a stento, teneva il viso tanto premuto contro di me che mi chiesi come facesse a respirare: «Non sapevo, non potevo immaginare … Però, quando ti ho sentito pronunciare quella parola, mi sono sentita morire! Amo la tua gentilezza, la tua svagatezza … Amo te, per quello che sei e il pensiero di perdere quello che ho trovato insieme a te …» farfugliò.
«Stavo pensando ai rampicanti.» la interruppi: «Ti piacciono le rose canine? Sono colorate e sono rampicanti …Almeno credo!»
Mi rendevo perfettamente conto del fatto che, in quel preciso istante, Maya mi stava fissando come si fissa un pazzo furioso:
la mia domanda, il mio commento erano completamente fuori luogo nell’economia del discorso che lei stava cercando di portare avanti; timida com’era, era faticoso per lei aprirsi a quel modo con qualcuno, già il semplice fatto di riuscirci costituiva una vittoria e una conquista. Le sorrisi, un sorriso che non avevo più rivolto a nessuno da quasi sei anni, perché era stato sempre riservato a Jean, tanto che credevo fosse morto con lei: «Il muro.» buttai lì a mo’ di spiegazione alquanto incongrua, prima di baciarla a lungo, fermo davanti alla portafinestra. La sentii rilassarsi, al contrario di poco prima non stavo più baciando un sasso e ne fui felice al punto che decisi di ripetere l’esperimento, tanto per esserne sicuro. Riprendendo fiato, accennai a sinistra al muro di cinta: «Mi riferivo a quello, ovviamente. È talmente brutto e scialbo che mi viene male al solo pensarlo!» spiegai «E così ho pensato di abbellirlo, intonacandolo a nuovo e festonandolo con tanti rampicanti pieni di colore.»
Maya teneva gli occhi bassi: era stanca – e si vedeva – ma non si perdeva una sola parola. «Avevo pensato all’edera e alle viti, che darebbero un colpo d’occhio fantastico, in autunno; poi però mi sono reso conto che il solo verde dopo un po’ stanca: perché sia veramente piacevole e decorativo tutto l’anno, occorre anche qualche macchia di colore, possibilmente a stagioni alterne.»
«Le rose canine.» sussurrò Maya «E i convolvoli.»
«Anche!» annuii «Semplici e colorati. Ottima idea!» La riportai verso il divano, non perché fossi a pezzi quasi quanto il giorno della nostra gita, ma perché lei doveva riposare. «Il punto è che sono un pessimo giardiniere e non vorrei mai che ti dovessi occupare di piante che non sono di tuo gradimento. Quando starai meglio e solo se lo vorrai, ovvio!»
Maya non rispose, non a parole almeno: allungandosi sul divano, mi tese le braccia e mi abbracciò stretto, addormentandosi così, senza lasciarmi andare …

«Novità, da Berlino? Il viaggio è stato piacevole?»
«Spiritoso! Ha un’idea delle condizioni in cui versa la nostra povera capitale?»
«Ovvio! Abbiamo perso una guerra mondiale! Per la seconda volta, aggiungerei: non le sembra fornire un ottimo spunto di riflessione, questa amara realtà?»
«Non è cambiato per niente in questi anni!»
L’altro ridacchiò: «Risparmi il suo disprezzo per chi veramente se lo merita, ammiraglio! Sa benissimo che senza di me, lei ora penzolerebbe da una forca, oppure starebbe consumandosi di noia in qualche prigione militare alleata…» Scolò in un sorso il calice di vino che si era versato, prima di chiedere: «Sono curioso: quale delle due alternative ritiene peggiore? Sia sincero!»
Il vecchio rimase silenzioso per quasi dieci minuti, sorseggiando il vino, quasi stesse realmente meditando sulla migliore risposta da dare: «Il capitano Reinecke è passato agli inglesi.» si disimpegnò alla fine.
«La cosa non mi sorprende poi più di tanto: quando ricevetti il vostro cablo dall’Argentina, immaginai subito che la sua scomparsa non fosse stata dovuta a cause … naturali, se capisce cosa intendo.»
«Anch’io avevo avuto dei sospetti. Ma arruolarsi a Londra! A tutto c’è un limite! E adesso perché sorride a quel modo?»
«Certo che lei è proprio della vecchia scuola! Molto vecchia Prussia, senza alcun intento offensivo, ovviamente!» rispose il suo interlocutore, versandosi altro vino. «Preferiva forse che andasse a spifferare tutto agli Americani? O magari ai Sovietici?»
«Idiozie! Mi ritiene davvero tanto stupido?!»
«Per piacere, non si scaldi: come ho detto, non è mia intenzione offenderla, non lo è mai stata.» lo rabbonì l’altro «Sentiamo, in quale arma si è arruolato, il nostro figliuol prodigo?»
«Royal Navy, mi sembra evidente.»
«Già! Ammetto che mi ha dato l’impressione di essere un tipo intelligente sin dal primo momento. E con la testa sulle spalle, anche! Ufficiale attivo, oppure l’hanno messo dietro una scrivania?»
L’ammiraglio fece una smorfia: «Tutt’e due, da quello che mi ha lasciato intendere: funge da ufficiale di collegamento tra il neonato governo tedesco e gli Alleati occidentali!»
Il suo ospite – si erano incontrati a casa dell’ammiraglio – fischiò: «Accidenti! È stato lui, allora, ad aver suggerito il nostro intervento a quei mollaccioni!»
«Così pare.»
«Possiamo fidarci?»
«Direi di sì. Per ora. Comunque sia, ho lasciato un paio delle mie guardie del corpo a sorvegliarlo, in incognito, per tutto il periodo che trascorrerà a Berlino.»
«Spero che li abbia scelti con le facce meno patibolari possibile, ammiraglio!» ridacchiò nuovamente l’altro; tornato serio, chiese: «E se dovesse abbandonare il Settore occidentale?»
«Lo farebbe a suo rischio e pericolo! Comunque, abbiamo agenti anche dall’altro lato dei posti di blocco.»
«Vero. Lo richiede la missione … Ma saranno in grado di pedinarlo efficacemente?»
L’ammiraglio si strinse nelle spalle: «Sono tutti professionisti. Li ha selezionati lei personalmente, ricorda?»
«Vero anche questo. Però avevo selezionato personalmente anche mio figlio … e lei sa com’è andata a finire!»
«Preferisco non pensarci, grazie! Cambiando argomento, è riuscito a contattare il professore?»
L’altro scosse il capo: «Temo che dovremo fare a meno di lui: da quanto sono riuscito a spigolare qua e là, il nostro amatissimo Professor … è rimasto vittima di un incidente d’auto. Un vero incidente d’auto.» precisò.
«Il resto del suo gruppo di ricerca?»
«Quello è già stato riunito e sta lavorando sodo, nel più completo anonimato. Da quello che mi riferiscono, i progressi sono decisamente incoraggianti.
«Quello che mi preoccupa, è la quantità di “prodotto” necessario ad ottenere un risultato apprezzabile: anche sfruttandone la naturale diffusione, il bersaglio è davvero enorme!»
«Vorrà dire che stiveremo il necessario nei serbatoi conformi che abbiamo progettato per aumentare l’autonomia. Per il lancio, si tratterà di rimanere in superficie un po’più a lungo.»
«SI potrebbero pianificare più zone di lancio, sfruttando il limite del pack …»
«Allungare la crociera potrebbe essere rischioso, lo sa vero?»
«Non sarà più lunga di quella che abbiamo già compiuto sei anni fa!»
«Dobbiamo pianificare il tutto in maniera adeguata, apportare modifiche …»
Discussero a lungo, sviscerando a fondo i dettagli dell’operazione che stavano pianificando, finché non fu tutto stabilito e definito.

8 – CONVALESCENZE

«Finirai per non portare a termine il tuo incarico, se continui a starmi addosso a quel modo da mattina a sera!» o: «Non preoccuparti per me: sto bene!» oppure ancora: «Non sono un’invalida! Pensa agli affari tuoi, ti va?»
Per cinque, sei giorni Maya intercalò proteste del genere e molte altre pescate da un repertorio incredibilmente ampio alle nostre normali discussioni: non voleva accettare il fatto di dover dipendere da qualcuno, secondo me; di non poter fare di testa sua come era abituata a fare. D’altra parte, poteva incolpare solamente sé stessa e la sua testardaggine per l’infortunio che la costringeva a passare le giornate sul divano o a letto! Questo, lei lo sapeva benissimo ed il saperlo non contribuiva di certo a migliorare il suo umore …
Io ero felice di poterle fare da cavalier servente, aiutarla a vestirsi o con la toletta; portarla in braccio in giro per casa era stancante, ma non volevo rinunciarci e sapevo già che mi sarebbe dispiaciuto non poterlo più fare così spesso, di lì a qualche giorno. Sotto sotto, ma neanche poi tanto, dispiaceva anche a lei, era talmente evidente che non c’era neppure bisogno di parlarne. Per fortuna, dopo lo sfogo iniziale, quando cambiavo la medicazione, la sua caviglia cominciava a non assomigliare più ad una mortadella violacea e lasciava ben sperare: quel giorno in particolare, era quasi tornata alle sue normali, splendide dimensioni, pur conservando il colore giallo-verdastro tipico dei vecchi lividi.
«Ahi! Stai attento!»
«Scusa, ho stretto troppo la fasciatura. Adesso come va? Meglio, vero?»
Maya scosse il capo: «Arthur, te l’ho già detto più di una volta: non dovresti …»
«… preoccuparmi così per te, perché tu sei soltanto una domestica, non vali niente, conti anche meno eccetera, eccetera.» la presi in giro; lei fece la faccia scura, offesa, espressione che, a mio parere, riusciva soltanto a rendermela ancora più interessante. Aveva capito benissimo che stavo scherzando, ma quella, per lei era una questione di puntiglio: «Scherzaci pure sopra, prendimi in giro quanto ti pare, ma la realtà è quella che è: quanto prima te ne renderai conto e l’accetterai, quanto meglio sarà per entrambi!»
Non le risposi subito – ero impegnato a riordinare garze, bende e linimenti; poi mi presi tutto il tempo necessario per baciarla come si deve, seduto accanto a lei. «Questa è la mia unica risposta: quando ti deciderai ad accettarla, mi renderai ancora più felice.» le sussurrai.
Il broncio era scomparso, lavato via da un’espressione per metà sognante e per metà indispettita: «Così però non vale! Non mi prendi sul serio!»
«Al contrario! Ti prendo talmente sul serio che …»
«Cosa?»
Scossi il capo: «Nulla. Oppure tutto: decidi tu!»
Mi diede un pugno nelle costole! «Sei insopportabile, quando ti comporti così! Odioso!»
«Me lo diceva spesso anche lei.» commentai, accarezzandole i capelli; da quando era obbligata in casa, li teneva sciolti sulle spalle, pettinati quel tanto sufficiente a far risaltare la loro ondulazione naturale; la mia segreta speranza era che decidesse di continuare a farlo per sempre. «Una volta arrivò al punto di piantarmi in asso alla stazione, al ritorno da un viaggio di lavoro, e solo perché non avevo saputo decidermi subito su cosa mangiare per cena!»
Maya abbassò lo sguardo, arrossendo: era evidente che volesse chiedermi qualcosa, senza trovare il coraggio di farlo.
Non la forzai, ovviamente, sarebbe stato indelicato: mi limitai a tenerla stretta, cullandola un poco.
«Jean … Lei, com’era?»
«Per me era una vera beltà.» Mi strinsi nelle spalle: «Oddio, probabilmente per la maggior parte degli altri era solo carina, ma ad essere sinceri non mi è mai importato molto del loro parere.»
«Perché?» Sembrava sinceramente stupita.
«Io non sono il tipo che si fa influenzare – non molto almeno.»
«L’amavi?»
Riflettei a lungo prima di rispondere: non avevo idea di quale risposta si aspettasse, però mi sembrava poco corretto mentirle, così optai per la pura e semplice verità: «Finché è durata, sì, profondamente!»
Maya mi stava fissando; sorrideva con quel suo particolare sorriso birichino che sfoggiava quando era sua intenzione sfottermi: «Anche quando ti piantava in asso alla stazione?»
«Soprattutto allora! Per un sedentario come me, è essenziale fare movimento ogni tanto: serve a mantenere la linea!» ribattei a tono, addolcendo la risposta con un rapido bacio sulla fronte.
«Quindi è per questo che mi hai portato in braccio tutto questo tempo!» colpì lei a tradimento: «In effetti, stavi decisamente mettendo su pancia …» concluse maliziosa, punzecchiandomi col dito sopra la cintura.
«Attenta, signorina! Sono sempre in tempo a sollevarla di peso e scaricarla oltre la soglia!»
«Oh, no, mio signore e padrone! Non lo faccia! Che ne sarebbe di me, povera fanciulla innocente e bistrattata da tutti?»
Attesi che terminasse, prima di commentare: «Come scena madre faceva piuttosto schifo, lasciatelo dire.»
«Ma ha sortito l’effetto desiderato, giusto?»
«Manco per sogno! Preparati!» Mi alzai e l’afferrai come tante altre volte nel corso di quella settimana, avviandomi verso l’ingresso. Mi sgranò gli occhi addosso, incredula: «Fermo! Che fai? Lasciami andare! Non ti prenderò mai più in giro, lo giuro!»
Vedendo che proseguivo imperterrito vero la porta, smise persino di protestare, limitandosi a fissarmi in volto cercando un qualche spiraglio; tremava come una foglia, stringendosi a me per quanto possibile, ma non piangeva: come quando aveva saputo di mia moglie, sentendosi tradita, non mi avrebbe concesso quella soddisfazione. Questa volta era spaventata per davvero: sapevo essere convincente, quando mi ci mettevo! Mi sentivo anche un po’ meschino, a questo pensiero, e sapevo che poi mi avrebbe tenuto il broncio per il resto della giornata, ma lo stavo facendo per il suo bene, in fin dei conti. Appena varcata la soglia, la depositai con tutta la delicatezza di cui ero capace nel cassone del triciclo, che avevo trasformato ricoprendo il legno grezzo con tutti i cuscini che ero riuscito a recuperare: «Il suo risciò è pronto, madame! Le andrebbe di fare un giro con questo povero, stupido coolie innamorato?»
Prima che potesse aggredirmi a parole, che potesse cavarmi gli occhi, mi chinai per stringerla a me e baciarla: non mi importava nulla della gente che ci passava accanto, avrebbe potuto cessare di esistere completamente, perché avevo Maya e tanto mi bastava. Lei non reagì minimamente, rimase sulle sue e quando la lasciai andare, mi voltò decisamente la schiena, lo sguardo fisso davanti a sé, come se fossi io – e non la gente – a non esistere, per lei. “E sia!” mi dissi, scrollando le spalle, prima di montare in sella, “Le passerà.
Iniziai a pedalare con lena, per vincere l’inerzia di quel catorcio che avevo recuperato da un robivecchi, e mi diressi cigolando verso la piazza principale, svoltando a caso nelle vie che mi si aprivano davanti solo per il piacere di allungare il tragitto.
«Voglio raccontarti la storia di un uomo stupido.» esordii, appena partiti, «Anche se l’aggettivo non è del tutto corretto: sarebbe più giusto dire svagato, poco incline a socializzare, perso com’era nei suoi studi e nei suoi sogni.» Maya manteneva il suo atteggiamento di rifiuto, ma stava ascoltando, non perdeva una parola. «Era abituato sin da bambino a stare per conto suo, passeggiando per i boschi, cercando di scoprire perché quel certo albero era cresciuto a quel modo e non un altro; perché il torrente in cui andava a pescare aveva scavato la collina facendo un’ansa invece di proseguire dritto per la sua strada dando origine ad una cascata; quale sentiero era stato aperto dagli animali e quale invece dagli indigeni in tempi antichi … cose così, insomma, i classici sogni ad occhi aperti di ogni ragazzino che si rispetti. Però c’era qualcosa di più, nei suoi sogni: lo sapeva anche allora, perché a differenza degli altri, che fantasticavano e basta, lui si sforzava di venire a capo delle questioni, di trovare una risposta alle domande che si poneva, anche a costo di cacciarsi seriamente nei guai. Come quando riuscì ad accertare che gli indiani non centravano nulla con il famoso sentiero: era stato sicuramente tracciato da un animale! Per essere esatti, il grizzly che lo inseguì direttamente sino a casa dopo averlo scoperto a bazzicare attorno ai resti di una sua preda …» Svoltammo nel famoso vicoletto in cui l’avevo abbracciata per la prima volta, mentre andavamo a fare provviste da monsieur June; sorrisi al ricordo, asciugandomi la fronte col fazzoletto: faceva un caldo d’inferno! «Devo correggermi: in quell’occasione, il nostro protagonista si comportò veramente in maniera stupida, perché sapeva benissimo che gli orsi difendono le prede a spada tratta, da chiunque! Per fortuna, nel cortile c’era suo padre che stava pulendo il fucile proprio in quel momento: un paio di colpi in aria furono sufficienti a dissuadere il plantigrado … cosa che non si può dire delle trenta cinghiate riservate subito dopo al figlio, purtroppo! Perché, ti chiederai: semplice! Il giorno seguente, il nostro eroe stava addirittura cercando la tana dell’orso, sicuro che fosse ben nascosta nel fianco della collina. Comunque sia, non la trovò e col tempo riuscì a sopravvivere abbastanza a lungo da diventare adulto.» Intravvidi il palazzo del municipio, in fondo ad una via sulla destra, motivo per cui svoltai deciso a sinistra tornando sui miei passi: «Trascorsi il giusto numero di anni, il ragazzino svagato divenne un adulto ancora più svagato, impegnato a mettere a frutto la sua fantasia e la sua intuizione nella realizzazione di progetti sperduti qua e là per la sua terra natale, cacciandosi in gineprai che neanche riusciresti ad immaginare, dai quali riusciva ad uscire da fortunosamente solo, alle volte …» Mi interruppi per riprendere fiato, al culmine di una salita talmente ripida da tagliarmi letteralmente le gambe.
«E le altre volte?» domandò la mia passeggera sottovoce.
Sorrisi, anche se non poteva vedermi: «Come, scusa?»
Maya sbuffò, stizzita: «Le volte che non riusciva ad uscirne da solo, come se la cavava?»
«Di solito, dopo che non aveva dato sue notizie per giorni, i committenti inviavano delle squadre di ricerca, la polizia oppure un medico, a seconda della pericolosità della zona nella quale era sparito, alle volte persino tutte e tre le cose insieme. Un paio di volte il nostro uomo se la vide davvero brutta, rischiando di rimanerci secco prima che i soccorsi riuscissero a trovarlo e a portarlo in salvo per il rotto della cuffia!»
«Immagino che, dopo un po’, il nostro eroe dovette cambiare mestiere!» commentò acida lei
«Ti sbagli! In realtà la questione non si poneva neppure: con il passare degli anni, le sue creazioni, i suoi studi e progetti si erano rivelati dei veri e propri successi, proprio perché lui li realizzava in prima persona sul posto, senza distrazioni di sorta, senza un attimo di tregua fino a che non aveva raggiunto il suo obiettivo. E così lo lasciarono fare, sperando in bene, sperando che si decidesse per lo meno ad operare con la massima prudenza consentita dalle circostanze. Anzi, gli fecero giurare formalmente che si sarebbe strettamente attenuto a questa regola, pena l’allontanamento forzato dal giro!» La discesa, che balsamo per un ciclista distrutto! Udendo gli scricchiolii sinistri emessi dai pattini, sperai vivamente che i freni non ci abbandonassero all’improvviso …
«Ti stai inventando tutto!»
«Per nulla! È tutto vero!» ribattei, piccato. «Come stai? C’è troppo vento, per caso?»
Maya scosse il capo: «Fa caldo.» fu il suo unico commento.
Stavamo passando per la piazzetta con il pozzo dei suicidi, quando i campanili batterono le dodici: decisi che avrei terminato la mia storia davanti ad un buon piatto di pesce fresco, così mi diressi spedito verso il locale di Mirò. La piazza principale era ancora mezza vuota, quando fermai accanto al tavolino con la migliore visuale sul panorama e feci un cenno al cameriere; quello arrivò di gran carriera, un poco sorpreso di vedere un triciclo e me fradicio di sudore come uno scaricatore di porto a fine giornata, ma si comportò da vero professionista: «Il signore desidera?»
Indicai Maya, che osservava pensierosa il volo dei gabbiani: «La signorina ha subito un incidente, qualche giorno fa, che le impedisce di muoversi a piacimento: ho pensato che un po’ d’aria fresca, di sole e un buon pasto potessero giovarle.»
Il sorriso di circostanza del cameriere si allargò, a quelle parole, divenendo quasi genuino: «Capisco, signore. Signorina!» Le rivolse un perfetto inchino a mo’ di saluto, poi tornò a rivolgersi a me: «Immagino che si possano accomodare le cose in modo da non costringere madame a scendere. Provvedo subito, signori. Nel frattempo, desiderate ordinare?»
«Avete ancora quell’ottima zuppa che ho gustato il giorno del mio arrivo?»
Il sorriso si allargò ulteriormente: «Siete fortunati, signori! Il cuoco la sta preparando proprio in questo momento! Volete accompagnarla con dei crostoni di pane appena sfornato?»
«Perfetto! Per il vino, lascio decidere a lei!»
«Ottimamente!  Due porzioni abbondanti, allora!» concluse, spostando le sedie per lasciare campo libero al triciclo ed apparecchiando per due. Un’ultima occhiata ai coperti, per assicurarsi che tutto fosse all’altezza e si diresse spedito verso la cucina. Seduto – finalmente! – di fronte a Maya, distesi il tovagliolo in grembo e sorrisi, pregustando la pietanza in arrivo.
«E se a me la zuppa di pesce non piacesse?» protestò, non appena il cameriere fu fuori portata d’orecchio.
Feci spallucce: «Se non sbaglio, la sera che ci siamo conosciuti hai detto che adori il pesce … Se così non è, pazienza! Vorrà dire che la divideremo con i gatti e con i gabbiani che ti piacciono tanto! Ma sono sicuro che non sarà necessario, vedrai.»
«Che cosa ti rende tanto sicuro?»
«Il semplice fatto che l’ho assaggiata ed è poco meno che divina!»
«Sarà … mi riservo il giudizio alla prima cucchiaiata.»
«Nulla in contrario, su questo. Del resto, non è mai stata mia intenzione importi alcunché.» Lo dissi apposta, sapendo benissimo cosa avrebbe risposto e come.
«Ah! Davvero? Non mi hai mai imposto nulla, da quando ci siamo conosciuti? Questa è veramente da primo premio!»
«Ti ricordo che sei stata tu a mettermi alla prova, sin dal primo giorno.»
«Brutto … bastardo! Come ti sei comportato, quel giorno? Hai subito cercato di impormi le tue idee!»
«Pessime idee, veramente: trattarci da persone civili, possibilmente da amici, invece che instaurare un rapporto padrone-schiavo come tu volevi; farti dormire in una camera da letto, invece che in una camerata semibuia ricavata nell’angolo di una soffitta; aiutarti nella conduzione della casa, anche solo preparando la colazione …» scossi il capo, compreso del mio atroce crimine: «Hai ragione tu: sono stato un barbaro! Nell’antica Roma sarei già stato crocefisso.»
A quel punto accadde una cosa strana: Maya, paonazza, prese a boccheggiare come un pesce fuor d’acqua, cercando inutilmente qualche argomento con cui ribattere, possibilmente in maniera pungente e sarcastica.
Ridacchiai a quella vista, anche se non era proprio da gentiluomini: «Calmati, o ti verrà un colpo!»
Lei scosse la testa, ancora furiosa; in quel momento fece ritorno il cameriere con due vassoi stracarichi che depose davanti a noi: «Madame; monsieur. Buon appetito! Chiamate per qualunque cosa, mi raccomando!»
«Certamente! Grazie!»
«Grazie a voi, signori.» salutò, tornando alle sue incombenze.
Mi chinai sulla ciotola fumante, aspirando la fragranza del brodo denso e scuro, l’aroma del pane caldo: «Allora, buon appetito!» dissi, affondando il cucchiaio.
Maya non rispose, non subito, almeno: anche lei si era chinata in avanti per prendere un pezzo di pane; lo teneva appena sotto il naso, quasi fosse un campione di profumo, persa in chissà quali ricordi.
«Maya, stai bene? Non ti fa male la caviglia, vero? Vuoi che torniamo a casa?»
Lei scosse la testa, iniziando a mangiare: «La storia.» borbottò, tra una cucchiaiata e l’altra «Devi finire la storia.»
«Credevo che non mi stessi ascoltando, che fossero tutte frottole senza alcun interesse per te …»
Fu la sua volta di stringersi nelle spalle: «Le favole sono sempre piacevoli!» commentò, neutra. Aveva già divorato metà del pane, accompagnandolo con un buon quarto della zuppa!
«Favole! Perché favole?»
«Perché sì! Scommetto che non c’è un atomo di verità in quello che hai raccontato sinora!» Mi minacciò con il cucchiaio gocciolante di zuppa, prima di rendersi conto di quello che stava facendo e tornare ad immergerlo nella scodella.
«Un’altra scommessa? Cosa vuoi romperti, questa volta?» commentai noncurante, alle prese com’ero con un succoso pezzo di non so quale pesce. «E comunque ti ho già detto che è tutto vero, ma se insisti … stabilisci tu la posta, questa volta.»
Maya mi osservò guardinga dall’altro lato del tavolo: probabile che non si aspettasse una simile risposta da parte mia; scosse il capo e riprese a mangiare: «Come non detto. Continua, voglio farmi una grassa risata alla fine!»
Sospirai. «Nel ‘36, il nostro eroe fu invitato a Baghdad, per fornire una consulenza sulla famosa questione della ferrovia, che si protraeva sin dai primi anni del secolo. Non volevano che si occupasse della ferrovia in sé – non era minimamente il suo campo, e lo sapevano – ma desideravano sapere quale influenza avrebbe avuto il completamento di quell’opera sullo sviluppo delle regioni che attraversava: avevano ascoltato talmente tanti pareri, nel corso di più di trent’anni, il più delle volte opposti o interessati, che i nuovi governanti del paese avevano deciso di rivolgersi a qualcuno che reputavano super partes, in quanto totalmente estraneo alle beghe secolari che ancora pesavano su quella regione del mondo.» Sorseggiai un bicchiere dell’ottimo vino che il cameriere ci aveva portato: il retrogusto che ti lasciava in bocca esaltava il sapore della zuppa, ma solo se accompagnato dal pane, invogliandoti a continuare a mangiare. Curioso, quasi lo stesso effetto di una droga … Strani pensieri da cogitare durante un pranzo! «Dopo un viaggio … complicato, se mi passi il termine, il nostro uomo giunse a destinazione, nonostante le rimostranze mosse dai suoi datori di lavoro, le preoccupazioni di parenti e amici, le quasi imposizioni delle autorità: erano ben pochi quelli che vedevano di buon occhio quell’incarico, anche se sulla carta si trattava unicamente di visitare le regioni attraversate dall’ultimo tratto della ferrovia e valutarne accuratamente pregi e difetti. Nulla di diverso da quanto aveva sempre fatto in precedenza. Ti annoio?»
Maya aveva finito di mangiare e il suo sguardo vagava verso il belvedere e il cielo vuoto al di là. «No. Perché ti sei interrotto? Continua!»
«Va bene, cedo alla violenza! Dov’ero rimasto?»
«A Baghdad.»
«Giusto. A Baghdad. In realtà, il nostro eroe non vide mai quella città: preferì iniziare subito il lavoro, facendosi portare nella regione in cui si era arrestata la costruzione, a qualche centinaio di chilometri dalla capitale, per intervistarne, con l’aiuto di un interprete di fiducia, gli abitanti, i funzionari, gli operai: per farla breve, tutti quelli che erano venuti fisicamente a contatto con il progetto, che ci vivevano accanto. Nel corso di una decina di giorni, si fece un’idea abbastanza precisa della situazione: alla gente comune, il fatto che la ferrovia ci fosse o non ci fosse importava poco o nulla; i commercianti propendevano per il suo completamento, sperando, ovviamente, che un traffico maggiore facesse lievitare i loro introiti e conseguentemente la loro importanza; i politici locali erano quelli che maggiormente credevano nel progetto, come mezzo per incrementare la loro influenza presso il governo, la loro personale e quella della fazione cui aderivano: un gran guazzabuglio, come puoi immaginare. Certo, avrebbe facilitato i trasporti, perché si sarebbe collegata con il tratto già realizzato in precedenza dagli inglesi che correva sino al mare, aprendo le porte al Golfo Persico, ma la regione era pur sempre ancorata alle sue antiche tradizioni, e la situazione politica era instabile come non mai: il colpo di stato militare appena avvenuto aveva ribaltato il governo nazionale e le varie fazioni, nella realtà dei fatti, pensavano molto di più alle proprie rivendicazioni che ai treni. Oltretutto, la presenza di consiglieri e di basi militari inglesi sul territorio ricordava a tutti gli abitanti il periodo appena trascorso dell’amministrazione britannica, ufficialmente terminata con la proclamazione del regno, ma in realtà ancora ben presente e tangibile persino nelle più remote regioni periferiche. Le prospettive non erano delle migliori, anche se tutti, nella capitale, auspicavano un verdetto positivo.» Mi interruppi per sorseggiare dell’acqua: raccontare mette sete! «Per farla breve, il nostro protagonista era convinto che tutto quel can-can avesse come unico scopo quello di fornire un pretesto al governo militare in carica per procedere all’occupazione del vicino Kuwait, eretto in stato indipendente dagli stranieri, magari con la scusa di ampliare la ferrovia appena completata con una diramazione che facilitasse i collegamenti con il piccolo emirato. Del resto, era storia vecchia: l’impero russo aveva fatto la stessa cosa con la transiberiana e la Manciuria.»
«E andò a spiattellarlo in faccia a chi di dovere?»
«Ovviamente no: l’incarico che aveva accettato riguardava unicamente la previsione sull’eventuale sviluppo economico della zona, che tra l’altro non si presentava neppure troppo male, considerata la crescente importanza degli idrocarburi già a quel tempo; le altre analisi che aveva necessariamente svolto in quei giorni erano da considerarsi accessorie, alla stregua di mere opinioni personali. L’unico al quale ne parlò fu l’interprete, e solamente in via ipotetica…»
«Ed era davvero fidato, questo interprete?» Maya buttò lì la domanda con fare casuale, come se non le importasse nulla della risposta; “Che pessima attrice!” pensai, “Muore dalla voglia di conoscere il resto!
«E adesso perché sorridi a quel modo? Siamo forse passati alle barzellette senza che me ne sia accorta?»
«Assolutamente! Stavo solo osservando che il pasto è stato di tuo gradimento.» risposi.
«Come fai a dirlo? Io …» cercò di difendersi lei, ma la bloccai sul nascere: «Maya, non negarlo! Non ci provare neppure: ancora un po’ e ti saresti mangiata la ciotola con tanto di cucchiaio! Piuttosto, gradisci qualcos’altro?»
«La fine della storia…» rispose lei imbronciata, come una bambina colta in fallo.
«E va bene!» concessi, accomodandomi meglio sulla sedia: il ristorante si era nel frattempo riempito e più di uno sguardo si era rivolto verso di noi, verso di lei: dovetti ammettere con me stesso che ne ero oltremodo geloso! Feci un cenno al cameriere e chiesi la lista dei dolci, prima di riprendere il racconto: «Per rispondere alla tua domanda, l’interprete era più che fidato: come risultò dall’autopsia, dovettero torturarlo a lungo, prima che si arrendesse e rivelasse tutto quello che sapeva del nostro eroe e del suo incarico. Ottenuto quello che volevano, rivolsero la loro attenzione a qualcun altro. Riesci ad indovinare di chi si trattava? Ti assicuro che la risposta non è per niente difficile!»
Maya rispose con un’altra domanda: «Perché?»
«E chi lo sa? Magari perché non volevano far giungere voci compromettenti a certe orecchie molto propense ad ascoltare anche i sussurri più fievoli; magari si trattava soltanto di pura e semplice antipatia. La cosa strana è che, a quanto si sa, non posero domande, non minacciarono neppure: si limitarono a bastonare a lungo, a fondo e con perizia, sarei portato a dire con una sorta di piacere. La cosa buffa è che non lasciarono segni visibili, a parte qualche livido: erano degli specialisti, capisci, tutti i danni peggiori erano interni. Furono tanto gentili da scaricare la loro vittima in periferia; arrivarono persino ad avvisare in forma anonima l’ospedale, di modo che potesse essere ricoverato in tempo per essere salvato. Capirai, l’interprete era del posto, ma un morto straniero, con un incarico governativo, avrebbe costituito una rogna colossale!» Inghiottii l’ultimo boccone di una superba torta, accompagnandola con il vino rimasto nella bottiglia, poi feci cenno al cameriere: «Il conto, per favore. E faccia i nostri complimenti al cuoco: questa zuppa era persino migliore della precedente!»
«Sarà felice di saperlo, signore! Signorina!» salutò, raccogliendo abilmente piatti e vassoi e dirigendosi spedito verso la cucina.
«È bravo! È veramente bravo, non trovi anche tu?» commentai, seguendolo con un cenno del capo.
Maya mi rivolse uno sguardo indecifrabile, non si era neppure accorta dell’intrusione.
Sospirai: «E va bene! Abbiamo quasi finito: grazie a quella chiamata, dopo neppure un’ora il nostro eroe si trovava in una sala operatoria, non già dell’ospedale cittadino, bensì di un ospedale militare inglese, sotto le mani esperte del primario che cercava in tutti i modi di ricomporre le svariate fratture sparse un po’ ovunque. Fortuna volle che gli aggressori non avessero infierito sulla testa e sulla schiena – non troppo, almeno – evitando danni permanenti. O forse non si trattò neppure di questo, bensì di una scelta consapevole, oculata: in fondo erano professionisti, no? Questo, comunque, il nostro eroe lo venne a sapere solamente una settimana più tardi, quando lo caricarono alla stregua di un pacco su di un treno diretto al mare, per essere rimpatriato. Visto che per ovvii motivi in quel periodo era tutto fuorché autosufficiente, lo affidarono alle cure di un giovane medico che aveva appena terminato il tirocinio, il quale, molto gentilmente, lo accompagnò fino a casa e oltre. Fine!» Tossicchiai, per darmi un tono: «Allora, ti è piaciuta?»
Pagato il conto, avevamo ripreso la strada, diretti verso casa: era pomeriggio inoltrato, e una nuvolaglia scura montava velocemente dal mare, promettendo tempesta.
«È così che hai conosciuto Jean, allora.» Maya si era voltata verso di me, cercando conferme alla verità che aveva intuito.
«Come, prego? Io non sono mai stato a …»
Mi zittì con una mano premuta sulla bocca: «Era lei il giovane medico che ti accompagnò fino a casa, vero? Vi siete innamorati durante la traversata.» Un’affermazione, non una domanda.
Annuii. Non c’era alcun motivo per mentire. «Ti offende?»
Maya sorrise, scuotendo il capo: «Certo che no! Perché dovrebbe?»
«Quando hai saputo che era mia moglie, la prima volta …»
«Arthur, ormai credo di conoscerti, almeno un poco: non sei il tipo del traditore o del fedifrago.»
«Tu credi?»
«Sì, lo credo!» Tremava, mentre lo diceva, in piedi di fronte a me nell’ingresso: aveva insistito per smontare da sola dal triciclo, zoppicando lievemente mentre entrava in casa. «Fa freddo, qui.» commentò, massaggiandosi le spalle.
«Bugiarda!» la rimproverai, stringendola forte a me: «Cosa c’è che non va?»
«Nulla, è solo che non riesco a capire …»
«Cosa?»
«Perché io?»
«Chiaro! Perché tu cosa?» Intuivo dove volesse andare a parare, ma doveva essere lei a dirlo, a rendersi conto dell’inutilità di tutti quei suoi rovelli.
«Io non merito …»
«Alt!» mi intromisi «Non dirlo! Non pensarlo neppure! Te lo chiedo per favore. Anche perché non è assolutamente vero!»
In quel momento, Maya era l’esatta copia umana di un pulcino bagnato: il suo tremulo sorriso faceva tenerezza: «Tu credi?»
«Ne sono certo!» risposi convinto «Del resto, mi hai tacciato più di una volta di mentire, per cui perché dovresti credermi?»
«Perché sei un maledetto stupido, odioso come il fumo negli occhi, svagato e fuori di testa! Ti bastano, come motivi?»
Mi grattai pensoso un orecchio: «Non so, sono convinto che potresti trovarne facilmente degli altri, se volessi.» risposi, sfottendola un poco.
«Stupido sciocco.» borbottò Maya, con un sorriso largo così.
Le carezzai i capelli, che profumavano di salsedine: «Hai smesso di tremare. Vuol dire che ho superato la prova, per caso?»
Non rispose a parole: si limitò a sgusciar via dal mio abbraccio, prendendomi per mano; mi tirò verso le scale, decisa a salire, ma prima che potesse montare sul primo scalino, la presi in braccio: «Non esagerare, adesso! Dove vorresti andare?»
«A fare le valigie, ovvio! Ho deciso di traslocare al primo piano!»
«Testarda zuccona! Altro che primo piano! Meriteresti che ti rinchiudessi in cantina!»
«Potrebbe essere un’idea: là sotto lo spazio di certo non manca! E poi fa un bel fresco, d’estate!» mi punzecchiò, ridendo «Oh, a proposito! Mi spieghi perché sei andato a tampinare un orso?»
«Ti dirò, c’erano sicuramente almeno tre ottimi motivi …» le risposi facendole il solletico, mentre iniziavamo a salire.

9 – PIANIFICANDO SU SOLIDE BASI

«Novità da Berlino!» esordì l’ammiraglio sedendosi al suo solito tavolo d’angolo in fondo al locale: la burrasca che infuriava da due giorni, non c’era quasi nessuno nel locale e i pochi avventori badavano unicamente a riscaldarsi con delle ciotole fumanti di vino speziato.
«Abbassi la voce! Le sembra il modo di preservare il nostro segreto, quello di urlarlo a squarciagola in casa mia?»
L’ammiraglio sogghignò: «Punto primo, non ho affatto urlato, urlo solo quando è necessario.»
«Punto secondo? Perché immagino che ce ne sia almeno un altro, lo impone la logica.»
«L’ironia non serve, mio caro: abbiamo ricevuto importanti informazioni dai nostri uomini sul posto!»
«Intende il capitano Reinecke, per caso? Cos’ha scoperto, di così importante?»
«Quanto sia bello veder crescere i fiori dalla parte delle radici, credo.» fu la secca, sarcastica risposta.
«Oh, capisco! Ha avuto uno sfortunato incidente.» annuì compreso il gestore «Di che tipo, se è lecito? E dove?»
«Pare che qualcuno l’abbia spinto in mezzo alla strada a Berlino Est mentre sopraggiungeva un convoglio militare sovietico. Qualcuno che indossava una divisa del GRU …»
«Ahia! Immagino che gli inglesi si siano un tantino incazzati!»
«E non sono gli unici: Reinecke  collaborava con gli Stati Maggiori di buona parte degli Alleati; sembra che fosse diventato una figura di spicco nel loro programma di addestramento alla guerra sottomarina!»
«Non mi dica! Magari aveva iniziato in Argentina!»
«Proprio così.» L’ammiraglio chinò il capo, in muto ricordo del suo ex collaboratore scomparso. «Propongo un brindisi alla sua memoria! Mi fa compagnia?»
Un’occhiata al locale bastò a convincere il suo anfitrione: «Giornata fiacca! Ci sto!» Poi si volse verso il bancone: «Jules! Porta subito la mia bottiglia di cognac e due bicchieri! Scattare, pelandrone!»
Pochi minuti più tardi, i due stavano sorseggiando un nettare talmente pregiato che avrebbe fatto gola ad un re.
«I miei complimenti! Dove ha trovato questa meraviglia?»
L’oste sogghignò: «Ho sfruttato alcuni miei canali di approvvigionamento particolari, non so se mi spiego.»
«Fin troppo! Faccia finta che non gliel’abbia chiesto. Anzi, no: se dovesse capitarle di doverli riutilizzare, ne procuri una anche a me!»
«Come desidera, ammiraglio: per i vecchi amici, questo ed altro.» Ingollò un altro sorso, facendolo roteare a lungo sulla lingua e sul palato per assaporarlo appieno. «Lei però non ha sfidato la bufera solo per venirmi a dire che si è liberato brillantemente di Reinecke, vero?»
L’ammiraglio posò il calice sul tavolo, coprendone l’imboccatura con la mano a preservarne l’aroma. «In effetti, no: ho davvero ricevuto notizie importanti da Berlino … dall’altra parte di Berlino, per essere precisi.»
L’oste parve genuinamente stupito: «È riuscito a farsi degli amici tra i rossi?»
L’altro scosse il capo: «Non è esatto: qualcuno particolarmente scontento è riuscito a mettersi in contatto con i nostri rappresentanti a Berlino Est. Questo qualcuno pare nutra dei rancori verso gli attuali governanti il suo paese e i metodi da loro scelti per fare politica.»
«Non mi pare una grossa novità.»
«Non lo è, infatti. La novità – davvero grossa – è che questo qualcuno ha lavorato per un decennio nei reparti missilistici sovietici, progettando e sviluppando, tra le altre cose, i propulsori dei loro razzi, a partire dalle katyusha.»
L’altro rifletté: «Potrebbe essere un’alternativa: lanciare salve invece di colpi singoli. Ridurrebbe i tempi di permanenza in superficie. Però …»
L’ammiraglio annuì: «Lei non si fida, crede che i loro motori siano meno potenti e sofisticati dei nostri. È così?»
«Non esattamente: tutto o quasi quello che gli altri stanno conseguendo è una diretta evoluzione della nostra tecnologia acquisita come preda bellica.»
«A suo tempo, anche noi facemmo altrettanto. Dove vuole arrivare?»
«Noi abbiamo già quella tecnologia! Ecco dove voglio arrivare! I vincitori stanno allegramente sperimentando, ancora adesso, i nostri missili, i nostri motori elettrici, i motori a reazione, sviluppandoli, migliorandoli, usandoli nei loro giochi. Ma anche noi abbiamo battuto questa strada negli anni trascorsi. E siamo in vantaggio!»
«Sta cercando di dirmi che ha portato avanti le sue ricerche senza autorizzazione?»
«Avevo forse bisogno di un’autorizzazione?» ribatté l’oste «E da parte di chi, se il nostro governo non esiste più ufficialmente da almeno cinque anni? Da lei?»
«Ha intrapreso una strada pericolosa, lo sa, vero?»
«Ammiraglio, parliamoci chiaro: questa occasione è capitata a proposito e se avremo successo, è probabile che il nostro nome venga riabilitato, anche se, ad essere sinceri, non vedo quale macchia debba esserne cancellata, visto che ufficialmente non abbiamo commesso alcun crimine e che nessuno al mondo ne ha mai saputo nulla, a parte noi.»
«Abbiamo …»
«Quello è qualcosa col quale avranno eventualmente a che fare le nostre coscienze, ma all’atto pratico noi potremmo tranquillamente riprendere le nostre vite di prima della guerra, come ha fatto Reinecke, pace all’anima sua!»
Il vecchio rimase in silenzio per lunghi minuti, prima di chiedere: «A che risultati è giunto?»
L’oste si strinse nelle spalle: «L’idea di usare missili e razzi come sei anni fa non è da buttare, però possiamo fare di meglio, rendere la cosa più efficiente. Ricorda i nostri amici del Sol Levante? Il capitano Mishima?»
«Certamente! Ero in mare, quando abbiamo ricevuto la notizia del suo attacco suicida. Tra parentesi, che ne è stato dei missili civetta che avevano lanciato? Lo ha mai saputo?»
Le labbra dell’oste si stirarono in un ghigno belluino: «Centro! Tutti e tre! Com’era prevedibile, gli yankees non avevano nulla di adatto ad intercettarli, né sulle navi né a terra: le nostre V1 modificate hanno sganciato il loro carico sui bersagli prefissati, ottenendo il massimo della distruzione.»
«Io non ne ho avuto notizia!»
«Per forza! Hanno subito insabbiato tutto, per evitare che si risapesse in giro e nuocesse al morale delle truppe. Hanno cercato in tutti i modi di salvare la faccia! Ma la stessa rete spionistica che ci aveva fornito i dati per la rotta da voi seguita verso il Pacifico è riuscita a far trapelare gli effetti del nostro piccolo esperimento con il radio polverizzato.»
«Sta proponendo di avvelenare …?»
«Ma no! Anche volendo, non avremmo fondi e tempo a sufficienza per estrarre tutto quel minerale! Sto solo dicendo che potrebbe essere più proficuo utilizzare qualche altro sistema per irrorare il bersaglio, invece che dei razzi non guidati come sei anni fa!»
«Idrovolanti?»
Il sogghigno si allargò: «I giapponesi volevano utilizzarli per distruggere le chiuse di Panama!»
L’ammiraglio rimase silenzioso.
«Che c’è? Non le piace la mia idea?»
«Stavo pensando: e se cambiassimo totalmente strategia, questa volta?»
«In che senso?»
«Noi dobbiamo screditare i rossi, giusto?»
L’oste annuì: «L’idea è quella, perché? Che cos’ha in mente?»
«Qualcosa di molto più semplice di quanto avessimo pianificato … credo.»
L’altro buttò giù il cognac rimasto in un sorso: «Lo sa, ammiraglio? Comincia a darmi sui nervi!» commentò spazientito.
Anche l’ammiraglio si concesse un sorso: «E se rendessimo loro pan per focaccia? Se addossassimo loro un’altra Katyn?»
«Interessante! Quale potrebbe essere il primo bersaglio?»
«Pensavo alle coste del Baltico. Un semplice bombardamento farebbe al caso nostro.»
«Perché limitarsi ad uno? Più sono meglio è!»
«Vero, ma dobbiamo procurarci prove inconfutabili, non come hanno fatto loro!»
«In questo caso, i motori dei loro razzi sarebbero sufficienti?»
«I motori dei …? Ma certo! Il nostro amico scontento!»
«Esattamente! Crede che riuscirebbe a procurarci un po’ dei loro materiali da costruzione? Sarebbe quanto meno strano che ritrovassero pezzi di impulsori e carcasse di razzi sovietici realizzate con dell’ottimo acciaio della Ruhr, non crede?»
«Senza dubbio! Devo attivare la nostra rete: dobbiamo ottenere informazioni di prima mano, per scegliere gli obiettivi primari, quelli più paganti e pianificare le crociere.» Sorseggiò il cognac, scarabocchiando degli appunti su di un notes: «Dovremo anche imbeccare gli organi di informazione per dare il giusto risalto alla cosa e poi …»
L’oste gli pose una mano sul braccio: «Ammiraglio, dia retta a me, è inutile: basterà attaccare nel modo giusto e i giornali faranno tutto da soli. Le dirò, ho già qualche idea in mente …»
«Ho preparato del the: ti va di fare una pausa?» Poco dopo pranzo, Maya entrò in biblioteca in retromarcia, reggendo a due mani un raffinato vassoio d’argento. «Quanto zucchero?» chiese dopo aver posato il tutto sullo schedario.
«Lo preferisco senza niente, grazie.» risposi distrattamente: stavo ammirando lo splendido effetto d’insieme della semplice gonna a fiori e della camicetta bianca che indossava.
Lei rise: «Guarda che così mi consumi!» mi prese in giro, porgendomi la tazza su di un piattino.
«Humpff! Non stavo mica guardando te!» cercai di salvarmi in corner, assaggiando il the bollente: per poco non mi ustionai tutta la bocca! Trangugiai eroicamente il sorso che avevo preso, gli occhi colmi di lacrime, e posai momentaneamente la tazza in cerca d’aria. Scuotendo il capo, Maya mi venne accanto, inginocchiandosi sul pavimento ricoperto di mappe e documenti sparsi: «Non imparerai mai, temo! Del resto, dopo quello che mi hai raccontato, dubito che tu sia anche solo in grado di farlo …»
Le rivolsi un’occhiataccia, assaporando nel contempo il suo profumo: «Neanch’io nutro molte speranze nei tuoi riguardi: zoppichi ancora, eppure ti ostini ad indossare quelle dannate ciabatte!» Accennai col mento ai suoi piedi che spuntavano da sotto l’orlo appiattito della gonna.
«Che ci vuoi fare? L’hai detto tu stesso che sono testarda come un mulo! Del resto, queste ciabatte mi piacciono e non ho alcuna intenzione di scartarle. E non è assolutamente vero che zoppico!» concluse brontolando, dandomi di gomito.
Sospirai: «Maya, ti ho vista! Anche prima, quando sei entrata; solo lievemente, d’accordo, ma …»
«Sei sicuro di avermi guardato solo camminare?» mi sussurrò insinuante all’orecchio.
Deglutii a vuoto: stava prendendomi in giro come al solito, però … «Anche quello, lo giuro!»
A quella mia risposta assurda, Maya scoppiò a ridere, piegandosi in due e tenendosi la pancia; quando si fu calmata un poco, mi gettò le braccia al collo, baciandomi a lungo: «Non preoccuparti, Arthur: puoi guardarmi quanto vuoi, quando vuoi, come vuoi. Mi piace quando lo fai, non smettere mai, per favore! Sono stati sempre troppo pochi quelli che mi hanno guardata come fai tu, sai? Troppo pochi …» Dopo l’ilarità di poco prima, il suo umore si era improvvisamente fatto malinconico: «E tanto per chiarire, non devi preoccuparti neppure per la mia caviglia: ammetto che mi dà ancora fastidio – poco, bada bene! – ma oramai è guarita, non devi più scarrozzarmi in giro per il paese su quel trabiccolo che hai rimesso in sesto in qualche modo, e neppure portarmi in braccio in giro per casa!» Rimase silenziosa per circa mezzo minuto, poi: «Ripensandoci, no, quello puoi anche farlo. Soprattutto la sera, dopo cena …» soggiunse maliziosa.
Prima che potessi ribattere alcunché, si mise a seguire col dito una delle curve che avevo tracciato sulla cartina topografica della zona che mi ero procurato. «Così è questo che fai: tracci linee e scarabocchi colorati su dei grandi fogli di carta! Lavoro interessante!» mi canzonò
Annuii, stando al gioco: «Interessantissimo! Pensa che in tanti anni che mi ci applico, ho persino imparato a rimanere entro i bordi, quando coloro! Vedi, proprio qui!» indicai giusto davanti alle sue ginocchia: «Una delle mie opere migliori!»
Ci rimase male al punto da mettermi il broncio! «Così non vale! Non è divertente quando non ti arrabbi!» protestò.
«È molto, divertente, invece!»
«Il tuo the si sta raffreddando. Forse ora riuscirai a berlo senza ucciderti …»
Seguii il suo consiglio e sorseggiai la bevanda, lo sguardo perso nel vuoto grigio di pioggia fuori dalle finestre: «Sono due giorni che non smette! Ma è sempre così, da queste parti?»
Maya si strinse nelle spalle: «A volte! Perché? Avevi altri progetti in mente?»
«Abbiamo una gita con annesso pic-nic in sospeso, mi pare … » risposi ammiccando «Anche se il precedente tentativo mi è sembrato comunque riuscito in maniera più che soddisfacente!» Ridacchiai, vedendola diventare di brace.
«Mascalzone! Scostumato! Ti sembrano allusioni da fare ad una ragazza per bene?» mi aggredì tempestandomi di pugni.
«Se si tratta di te, sì.» le risposi cercando di parare quanti più colpi possibile.
Ero serissimo e Maya non se lo aspettava: «Arthur, io …»
«Tu sei Maya. Mi basta.» interruppi sul nascere le sue deboli proteste.
«Ti accontenti di ben poco, signor Morris!» commentò sottovoce, cercando inutilmente di buttarla in ridere. «Prendevi in giro a questo modo anche … anche Jean?»
«Ti interessa veramente saperlo?»
«No.» Si asciugò una lacrima, sospirando, prima di prendere in mano un pastello blu oltremare: «Bene! Cosa vuoi che dipinga, adesso?»
Due ore più tardi, stanchi, passammo in salotto, in cerca di un poco di calore: la biblioteca era splendidamente isolata, per preservare i volumi, anche preziosi, che ospitava, ma con i suoi quattro piani era decisamente troppo vasta perché un camino e del the fossero sufficienti a renderla calda e confortevole; seduti sul tappeto di fronte alle fiamme, ci coccolammo per lunghi minuti, come due ragazzini alle prime armi, curiosi e incerti l’uno dell’altra.
«Sai, un po’ la invidio.» confessò lei ad un certo punto.
«Chi?» Sapevo benissimo di chi stesse parlando, ma volevo che fosse Maya a dirlo.
«Jean, ovvio! È stata molto fortunata, ad incontrarti.» Sdraiata di traverso con la testa appoggiata sulle mie ginocchia, le dita dei piedi che affondavano nel pelo folto del tappeto, Maya teneva lo sguardo fisso sui cassettoni del soffitto, sognante.
Sorrisi, accarezzandole la fronte.
«Perché sorridi? Dico sul serio!» Piccata, quasi arrabbiata: che il mio atteggiamento avesse toccato un nervo scoperto?
«Non ne dubito e ti ringrazio, anche se conosco un sacco di gente che non sarebbe affatto d’accordo con la tua valutazione.»
«Stupidi! Incapaci di vedere al di là delle apparenze!»
«Se ne sei convinta tu …» commentai: non c’era altro modo di ribattere alla sua affermazione.
Lei si tirò su a mezzo, appoggiandosi su un gomito: «Oh, insomma! Non è mica colpa tua se si è ammalata, o sbaglio? Non l’hai costretta tu ad andare negli Stati Uniti per curare le persone: era un medico! Era il suo lavoro, la sua missione!»
«Calma, calma! Quanta foga! Ammetto che per anni, dopo che mi diedero la notizia, ho sofferto come un cane, ma ormai è acqua passata: l’ho superato, sul serio!»
Le dita di Maya mi sfiorarono le guance, portandosi via lacrime che non sapevo nemmeno di stare versando.
«Bugiardo.» mi rimproverò lei con voce sommessa. «Non è bello negare i propri ricordi, non è salutare: l’ho imparato da te!»
Ciò detto, riprese a fissare il soffitto: «Mi sarebbe piaciuto conoscerla, credo: avremmo potuto diventare amiche.»
Ero davvero curioso: «Come fai a dirlo?»
Maya fece spallucce: «Non so di preciso … istinto?»
«Tu?! Un’istintiva?! Misericordia! Al solo pensiero mi tremano i polsi!»
«Cos’è, sfotti, per caso?»
«Non mi permetterei mai! Come ti sia venuta in mente una simile idea balzana …» Mi interruppi dopo aver ricevuto una gomitata nelle costole: «Ahia! Potevi anche fare più piano!»
«Hai avuto quello che ti meritavi e non provare a lamentarti, se no te ne do un’altra!»
«Sì, padrona! Ai tuoi ordini, padrona!»
«Scemo! Comunque hai ragione, d’ora in poi sarò la tua unica padrona: tu mi dovrai servire e … No! Non pensarci nemmeno! Non farlo, ti prego! Non …»
 «Spiacente, ma una simile follia merita la punizione di gran lunga più feroce: il solletico!»
Vedendo le mie mani avvicinarsi alle sue costole, Maya balzò in piedi, andando a ripararsi di corsa dietro il divano: rideva, non pareva proprio la stessa ragazza che fino a pochi minuti prima parlava in tono serio di una persona morta da anni.
«Torna qui, dai, giuro che non ti farò niente!» la chiamai
«Se pensi che mi fidi ancora di te, dopo quello che hai minacciato di farmi …»
«Te l’ho già detto: sarebbe stata la tua giusta punizione.» Battei con la mano accanto a me sul tappeto, invitandola a sedersi.
«Ma quanto sei permaloso! Tutte queste storie per una gomitata!»
«Mancava poco mi rompessi una costola, violenta che sei!»
«Sempre il solito esagerato! Scommetto che quella volta, in Iraq, non ti avevano ridotto poi così male e che hai finto per poter essere rimpatriato a spese altrui!»
«Ed ha funzionato piuttosto bene, non trovi? Crociera gratuita di prima classe con infermiera personale al seguito! Fantastico!» Senza volerlo, ero stato troppo amaro e sarcastico, tanto che Maya mi abbracciò stretto da dietro, il mento appoggiato alla mia spalla: «Tranquillo, va tutto bene, tutto bene. È passato.» mi consolò con voce pacata.
Fuori continuava a piovere a dirotto, nessun lampo, niente tuoni, solo una cortina d’acqua da cielo a terra, ininterrotta: mi chiesi oziosamente se qualcuno, in paese, avesse avuto il coraggio di mettere il naso fuori di casa, in quei due giorni. «Che ne diresti di andare a fare una passeggiata?» buttai lì semiserio.
Spostando solo la testa per vedermi meglio in viso, Maya mi sgranò gli occhi addosso – “Quasi dell’esatta voglio sfumatura del pastello che ha usato in biblioteca.” osservai – e «Mi stai prendendo in giro, oppure sei ammattito tutto d’un colpo?» chiese, un vago sorriso incredulo sulle labbra.
«La risposta è no ad entrambe le domande; al contrario, ho davvero intenzione di uscire: devo verificare alcune ipotesi che ho avanzato in questi ultimi giorni, mentre accudivo una certa testona di mia conoscenza …» risposi, un rapido bacio per addolcire la frecciatina «E non guardarmi a quel modo! Non sto scherzando: è necessario e funzionale alla mia ricerca!»
«La tua ricerca, certo!» Maya era tutt’altro che convinta. «Lo sai? Non ho ancora capito che cosa tu stia ricercando, in realtà.»
«Se vuoi, te lo spiego davanti ad un buon piatto di stufato.»
«Allettante! Peccato che lo stufato debba essere cucinato, per essere gustato: hai idea di che ora sia?»
Guardai la pendola che decorava il mantello del caminetto: «Oh, cavoli! Non pensavo che fosse già così tardi! Se ripiegassimo su qualcosa di più semplice e veloce dello stufato? Accetteresti ugualmente il mio invito?»
«E vada per la frittata con fagioli! In paese ne dicono meraviglie …»
«Ridi, ridi! Sentirai al primo boccone: mi pregherai di preparartela persino a colazione! Non potrai più farne a meno!»
Maya fece una smorfia preoccupata: «Sarebbe il primo caso nella storia di assuefazione da frittata … un record!» chiosò, precedendomi in cucina.
Berlino, poco distante dalla Porta di Brandeburgo. Un ometto azzimato sedeva su di una panchina sconquassata dai vandali, leggendo una rivista senza pretese. In realtà, erano molte di più le occhiate circolari e circospette che rivolgeva ai dintorni, passanti inclusi, che quelle che dedicava alla carta stampata. Ogni pochi minuti ruotava il polso sinistro verso l’alto e guardava fisso le lancette per almeno trenta secondi, impallidendo ogni volta un poco di più. «In ritardo. Sono in spaventoso ritardo.» bofonchiò dopo l’ennesima occhiata «Ancora cinque minuti e me ne vado! Troppo rischioso per me restare più a lungo. Io …»
«Comportandosi a quel modo, lei non fa altro che attirare l’attenzione di tutti gli agenti in borghese della zona, signor Gluchko. Ora si alzi e venga a prendere un caffè con me, la prego.» Accanto alla panchina si era materializzato un vecchio alto e distinto, che indossava una divisa della polizia; il tono posato con cui gli si era rivolto era in netto contrasto con la pistola che gli stava spianando contro.
«Lei non mi può arrestare! Io non sono cittadino tedesco, non ha alcuna giurisdizione su …»
«Si sbaglia!» spiegò pianamente l’altro «Ho tutta la giurisdizione che mi occorre proprio in mano, signor Gluchko: non mi costringa a dimostrarglielo qui davanti a tutti, per favore, non ha idea del numero immane di scartoffie che ci fanno compilare per aver sparato in fronte a qualcuno, oggigiorno!»
«Lei è pazzo! Io me ne vado!» L’ometto azzimato fece per allontanarsi, quando si sentì la canna della pistola piantata alla bocca dello stomaco.
«Pessima idea, glielo assicuro.» Il vecchio si era fatto più vicino: «Vede quel vicolo alla mia destra? Quello nel quale lei voleva correre a rifugiarsi?»
Suo malgrado, Gluchko volse la testa e annuì: «E allora?»
«Sette uomini del GRU la stanno sorvegliando da quando è arrivato. Altri quattro passeggiano con fare indifferente qua attorno.» Il vecchio parlava con tono di voce assolutamente normale, quasi stessero conversando del tempo. «Riesce ad indovinare quale sia la loro missione?»
«Vogliono … me!» Gluchko deglutì a vuoto, terrorizzato. «Ma io … non ho fatto niente! Niente!»
«Crede che a loro importi? O che importi a me?» Il vecchio si soffiò educatamente il naso «Allora? Le va di prendere questo caffè? Conosco un localino proprio ad un centinaio di metri da qui che prepara un ottimo espresso! Certo, non come lo fanno in Italia, ma comunque decisamente passabile. Oh, quasi dimenticavo: lei è in arresto signor Gluchko! Mi segua in commissariato, prego.» concluse a voce alta, per spiegare quella strana situazione al capannello di curiosi che si era formato loro attorno.
«Ma io …» Gluchko scosse la testa, sconsolato «E va bene, ufficiale! Verrò con lei, ma soltanto per poter chiarire quest’immenso equivoco!»
«Una decisione molto saggia, signore.» commentò il vecchio, soddisfatto. Si volse, tenendo il prigioniero delicatamente per un braccio: «Da questa parte, prego.»
Si avviarono a passo svelto verso la Porta, accostandosi quanto più possibile ai muri per evitare sorprese; Gluchko cominciò a sospettare che il suo accompagnatore in realtà non fosse chi diceva di essere, poi si rese conto che in effetti quell’uomo non aveva mai detto di essere un poliziotto: era stato lui, Gluchko, a darlo per scontato, vedendo la pistola e la divisa. E il presunto inseguimento da parte degli agenti del GRU, anche quello poteva essere una finzione? A quale scopo? Per dare conferma alle sue ipotesi, si arrischiò a dare una occhiata circolare ai passanti, alla via, alle case intorno: sussultò nel riconoscere almeno quattro dei volti che gli erano stati indicati poco prima a non più di venti metri da loro, disposti in modo da bloccare eventuali vie di fuga. Evidentemente stavano aspettando solamente il momento più opportuno per farsi sotto e rapirlo, più probabilmente ucciderlo.
«Ora si è convinto? Ha ragione, sa?, quei quattro sono proprio qui per lei.» La voce del vecchio suonò calma in maniera irritante, quasi che a lui non importasse affatto di essere prossimo a morire per mano di spie sovietiche!
«Posso sapere chi è lei e dove mi sta portando?»
«Ogni cosa a suo tempo: tutto ciò che la deve interessare, al momento, è che la sto portando in un luogo sicuro e che presto la sua insoddisfazione, chiamiamola così, verso l’attuale classe dirigente del suo paese potrebbe trovar modo di essere espressa in maniera clamorosa ed efficace!»
La paura tornò a strisciare nell’animo di Gluchko, più intensa di prima: quelle parole potevano soltanto significare che qualcuno aveva scoperto le sue opinioni, qualche Giuda che aveva spifferato tutto a chi di dovere non appena se ne era presentata l’occasione! Bastardi! Proprio adesso che forse aveva trovato un interlocutore in grado di farlo uscire dalla Germania, dove i suoi superiori l’avevano stanziato perché completasse le ricerche sul materiale nazista che non avevano potuto portar via durante l’occupazione! La sfortuna continuava a perseguitarlo, dunque! Sarebbe mai andato qualcosa per il verso giusto, ad uno come lui?  «Io non sono insoddisfatto del Partito o del Segretario del Partito!» protestò fieramente «Il compagno Stalin ha tutta la mia stima, la mia fedeltà e devozione! Io non ho intenzione di tradire la mia patria!»
«Certo, certo! Ed io, a suo tempo, mi sono fatto Greta Garbo e Zarah Leander, più volte, da sole e in coppia! Anzi, le rivelerò un piccolo segreto: sono state loro a venirmi a supplicare di renderle delle vere donne!» rispose il vecchio grondando sarcasmo ed incredulità «Andiamo, Gluchko! La parte dello stupido leccaculo non le si addice! Chi crede che si sia mosso dietro le quinte per procurarle quell’appuntamento che lei ha rischiato di mandare a monte poco fa? Per poco non ci ha fottuti tutti quanti, con il suo atteggiamento da coniglio impaurito!»
Se l’avesse schiaffeggiato, Anton Gluchko sarebbe rimasto meno stupefatto: «Lei … lei …» balbettò, cercando di ritrovare l’equilibrio.
Il vecchio al suo fianco levò uno sguardo disperato al cielo, prima di infilarsi in un androne stretto e buio che metteva in comunicazione la  strada con un cortile deserto: «Santo Dio! Lei è proprio così ingenuo oppure è solamente estremamente lento di comprendonio?! Cosa pretendeva, che ci presentassimo con un’auto ufficiale e la banda militare in testa, per accoglierla tra noi? Si sbrighi, razza di deficiente! Ci sono alle calcagna!»
Gluchko azzardò un’occhiata alle proprie spalle: stagliati contro luce sotto l’arco dell’androne, i quattro che li seguivano stavano estraendo le pistole; evidentemente avevano sentito tutto e stavano obbedendo alle istruzioni ricevute, i loro sospetti confermati e trasformati in certezze. «Stanno per spararci!»
«Ovvio! Lo farei anch’io, al posto loro! Solo, prima mi assicurerei di essere realmente in superiorità numerica e tattica …»
Strana osservazione per uno che stava per essere ammazzato! Perplesso, Gluchko tornò a voltarsi verso la strada, giusto in tempo per vedere cinque uomini vestiti di nero sbucati da una porticina secondaria sulla destra cogliere completamente di sorpresa gli agenti sovietici: in pochi secondi, senza dar loro neppure il tempo di gridare, piantarono con precisione degna di un chirurgo i coltelli da combattimento nella schiena del bersaglio prefissato all’altezza dei reni, prima a destra e poi a sinistra, tanto per andare sul sicuro.
«Ottima esecuzione!» si complimentò con loro il vecchio. «Sbarazzatevi dei corpi: non devono essere trovati qui. Poi occupatevi degli altri.»
«Sissignore! Buon viaggio, signore!» rispose l’uomo a capo del drappello, sorridendo felice per l’apprezzamento ricevuto.
«Ed ora andiamo finalmente a gustarci il caffè che le avevo promesso, Gluchko!»
Esterrefatto, Anton Gluchko si lasciò trascinare via incespicando, verso destinazione ignota, chiedendosi in quale pasticcio si fosse cacciato di sua spontanea volontà.
«Lei è ancora disposto a collaborare con noi, Anton?» Il vecchio travestito da poliziotto sedeva composto su di una poltrona da poco prezzo; tra lui e il suo ospite, un tavolino traballante reggeva un vassoio con tutto l’occorrente per il caffè.
L’appartamento – pardon, la stanza – era tenuta con la massima cura, ciononostante lasciava trasparire tutti gli anni che aveva e tutte le magagne che nel corso di quegli anni aveva accumulato. Prima di rispondere, Gluchko sorseggiò il caffè: prendere tempo poteva rivelarsi essenziale in quelle circostanze. «Qualora accettassi, in cosa consisterebbe, questa mia collaborazione?»
«Nulla che lei non abbia già fatto, signor Gluchko: a quanto mi risulta, ha lavorato presso numerosi reparti sperimentali dell’Armata Rossa, prima e durante la guerra, studiando e apportando migliorie ai vostri razzi.»
Gluchko lo guardò stupito: «Come fa a saperlo? Sono informazioni riservate!»
Il vecchio scosse la testa: «Anton Pavelic – mi permette di chiamarla Anton Pavelic, sì? – a parte il fatto che anche noi disponevamo e disponiamo di un efficiente servizio segreto, le ricordo che è stato proprio lei a fornirci dette informazioni. Per via indiretta, ovviamente.» lo prevenne, dato che mal sopportava di essere interrotto, «Però sono state proprio queste sue … competenze … ad attirare la nostra attenzione, unite alla sua particolare visione del regime.»
Gluchko rabbrividì, cogliendo tutte le implicazioni sottintese. Quegli uomini sembravano sapere esattamente quale fosse la sua situazione: gli avevano appena salvato la vita, questo era disposto ad ammetterlo, ma di sicuro volevano qualcosa in cambio e poteva benissimo trattarsi di un prezzo che lui non avrebbe potuto permettersi di pagare. A conti fatti, quello poteva rivelarsi un patto faustiano: aveva ben visto di cosa fossero capaci, l’efficienza con la quale avevano eliminato quei quattro uomini, nel cortile, parlava a chiare lettere di addestramento militare di livello elevato.
«Si è per caso assopito, signor Gluchko? Strano! Non le ho ancora somministrato il cloroformio!» lo prese in giro il vecchio; peccato che il suo sguardo rivelasse tutt’altro che intimo divertimento, in quel momento.
«Prima di accettare, vorrei sapere …»
«Lei saprà quello che è tenuto a sapere per svolgere al meglio il suo compito.» lo interruppe seccamente l’altro; evidentemente aveva esaurito la pazienza: «Accetta?»
«Ho scelta?»
«No, nessuna. Perché?»
«E pensare che non sopporto le dittature …» capitolò Gluchko.
Il vecchio agitò un dito in segno di diniego: «Nessuna dittatura: soltanto una rigorosa disciplina militare! Lei ha servito nell’esercito, dovrebbe essere in grado di capire la differenza.» Alzatosi dalla poltrona, si avviò verso l’uscita: «Ora lei verrà narcotizzato, per la sua e la nostra sicurezza: quando si risveglierà, si troverà lontano da qui, in un luogo sicuro; le verrà concesso un periodo di tempo ragionevole per acclimatarsi, prima di essere introdotto nei laboratori per iniziare a svolgere le sue nuove mansioni. Ovviamente, verrà fornito di tutto il necessario, sia per quanto concerne il lavoro, sia per quanto concerne le sue necessità personali. Le sembra una proposta equa?»
Anton Pavelic Gluchko si concesse una risatina a metà tra il sarcastico e il disperato: «Come mi ha già fatto notare, questa è la mia unica opzione, quindi come potrei considerarla diversamente?»
Il vecchio sorrise: «Ecco un uomo saggio!» lo sentì dire, mentre un panno umido impregnato di un liquido dall’odore pungente gli veniva premuto sulla bocca e sul naso: un paio di inalazioni e tutto divenne buio.
10 – GITA AL MARE
Qualcuno mi stava accarezzando – era più un solletico che una carezza, in realtà – e nel contempo mi chiamava, costringendomi a riemergere dagli abissi di un sonno fin troppo profondo: «Arthur? Svegliati, pigrone! È mattina, il sole splende!»
Maya. Potevo sentire il calore della sua pelle contro il mio fianco, la morbidezza di un seno premuto sulla spalla; sorrisi al ricordo della notte appena trascorsa, sbadigliai, dopodiché le risposi sempre tenendo gli occhi chiusi: «Noiosa, lasciami riposare: sono stanco!» Con la mano libera, seguii la curva del suo fianco in punta di dita. «E comunque, per tua informazione, non stavo dormendo: ero in comunicazione con la mia essenza spirituale!»
La sentii ridacchiare: «E da quando la tua essenza grugnisce e strepita come un branco di cinghiali?!»
«Irriverente ragazzina! Vedrai cosa ti succederà quando meno te lo aspetti!»
Sentivo il suo sguardo fisso su di me, potevo vedere con gli occhi della mente la cascata di capelli arruffati davanti al suo viso. «E che cosa dovrei aspettarmi di tanto brutto?» mi sussurrò all’orecchio. Spalancai gli occhi, mi sollevai di colpo e la rovesciai sulla schiena. «Questo!» esclamai, iniziando a solleticarla dappertutto, soprattutto negli spazi più sensibili tra le costole «Questa volta non mi scappi, ragazzina!»
Maya rideva e si contorceva, cercando di sfuggirmi; dopo dieci minuti di lotta estenuante, si divincolò strisciando carponi verso il bordo del letto. Io le afferrai una caviglia e la tirai di nuovo vicino, ammirando il suo splendido corpo, il petto ansante, l’espressione allegra e serena dei suoi occhi: «Basta! Mi arrendo! Niente più solletico, per favore!»
La baciai, accettando la sua resa: «D’accordo! Niente più solletico. Vorrà dire che troveremo un altro modo per punirti …» dissi, accarezzandole esplicitamente un fianco. Lei chiuse gli occhi, sospirando: «Ottimo! Adoro le punizioni alternative!» commentò maliziosa. Facemmo l’amore con serietà, prendendoci tutto il tempo necessario; quello che mi stupiva, in Maya, era il suo non dare mai nulla per scontato: ogni giornata che avevo passato in sua compagnia da quando ci eravamo conosciuti, aveva avuto un tocco di aleatorietà capace di renderla speciale, una sorta di curiosa magia, la sua, che pareva intensificarsi in quei particolari momenti. Una carezza, un sospiro, un semplice sguardo: si marchiavano a fuoco nella mia coscienza, spingendomi a contraccambiare quei doni preziosi con tutto me stesso. Com’era possibile? Non conoscevo la risposta e a dirla tutta neppure m’interessava trovarne una, finché fossi rimasto con lei.
Continuammo a coccolarci per un po’ sotto la doccia, prima di scendere per la colazione. Il sole illuminava appena il giardino, tagliando di sbieco sopra i tetti, lasciando la cucina in penombra, un’atmosfera intima e calda che trovavo perfetta per noi due.
«Smettila!» intimò Maya, intenta ad affettare il pane per disporlo sui piatti insieme al burro.
«Smettila di fare cosa?» replicai io dai fornelli
«Smettila di fissarmi a quel modo! Sei inquietante!»
Mi difesi dalle accuse continuando a far saltare le verdure perché non si attaccassero al fondo: «Spiacente, ma non posso proprio farne a meno: quell’accappatoio ti sta a pennello …»
Passandomi accanto per apparecchiare, mi si strofinò contro, sussurrando: «Ti ringrazio per il bel complimento, ma davvero, smettila, altrimenti rischi che la nostra colazione vada in fumo!»
«Di questo non devi preoccuparti: dopo tutta quell’attività, ho troppa fame per lasciarla bruciare …»
Maya arrossì e si allontanò furiosa, facendo svolazzare l’orlo dell’accappatoio: «Scostumato! Porco! Sei tutto fuorché un gentleman!» Si sedette al suo solito posto, accavallando le gambe, e si mise ad imburrare con cura esagerata una fetta di pane, con l’evidente proposito di non guardarmi, offesa; intenzione, la sua, tradita in pieno dal timido sorriso che le addolciva l’espressione. Pochi minuti più tardi mi accomodai anch’io, portando in tavola le verdure saltate che costituivano il vanto di mia madre, accompagnate da una montagna di uova strapazzate che costituivano il mio, di vanto. «Dimmi basta.» la invitai, iniziando a versarle un’abbondante porzione nel piatto.
«Basta.» mormorò lei quasi subito, ancora imbronciata.
«Sei sicura? Il piatto è praticamente vuoto!»
«Non ho fame.»
«Bugiarda! Hai praticamente divorato metà del pane con burro e zucchero! Ti ho vista!» la smascherai subito. Scossi la testa, sospirando: «Pazzesco! Credo che tu sia l’unica bella ragazza al mondo che si risente quando le rivolgono un complimento!»
Maya alzò la testa di scatto, piantandomi in faccia due occhi penetranti: «E secondo te, quello era un complimento?! Volgare, lascivo, insinuante …» mi aggredì, impuntandosi dopo insinuante alla ricerca di qualche termine ancora più spregevole.
« … veritiero, sentito, dolcissimo.» continuai io per lei, approfittando della sua momentanea difficoltà. Le sorrisi, era proprio nei momenti come quello che la sua naturale bellezza brillava come un faro.
«Dolcissimo?» ripeté, interdetta «Come sarebbe a dire dolcissimo? Non capisco!»
Le afferrai la mano attraverso il tavolo, tenendola stretta: «Dolcissimo, sì, perché di tutto quello che abbiamo fatto ieri notte e poco fa, non c’è nulla che non rifarei, con te, altre mille volte. Non dimenticherei un solo istante, credimi.»
«Tutte balle! L’avrai detto a tutte quelle che hai incontrato!» borbottò.
«Sbagli: soltanto ad una, prima di incontrare te.»
A questo, sapendo benissimo a chi mi stessi riferendo, Maya non poté – o forse non volle, vai a saperlo! – ribattere: si limitò a fissare la superficie del tavolo per un minuto o due, cercando di ricacciare indietro il magone.
«Comunque sia, sappi che questo è il cavallo di battaglia di mia madre: se non gli fai onore, la offenderai in maniera sanguinosa e sinceramente dubito che tu voglia offendere mia madre, mi sbaglio?» le chiesi, carezzandole la mano per confortarla.
«Scemo.» un sussurro, a malapena udibile, segnò la sua capitolazione. «E che ti sia ben chiaro: lo faccio soltanto per tua madre!» concluse, mettendosi a mangiare.
Chiudendo la porta alle nostre spalle, annusai il profumo di pulito e di verzura che aveva rimpiazzato l’afa dei giorni precedenti alla bufera. Il sole ormai alto aveva asciugato quasi del tutto i tetti e le strade, riflettendosi qua e là nelle poche pozzanghere rimaste. «Fatto! Possiamo incamminarci verso la nostra meta, adesso.»
Accanto a me, Maya non sembrava del tutto convinta: «Hai veramente intenzione di andare a visitare quel posto? Il sentiero sarà un’unica colata di fango, dopo tutta questa pioggia!»
«Se è vero, vorrà dire che torneremo indietro e sceglieremo un altro posto per la scampagnata. O preferisci rimanere a casa?»
La guardai attentamente, cercando di leggere quella sua espressione svagata e un po’ malinconica: «C’è qualcosa che non so? La caviglia ti fa di nuovo male, per caso? Sai, con tutta quest’umidità …»
Lei sorrise: «Non ti preoccupare, va tutto bene: stavo solo pensando a tutto quello che mi è successo da quando ci siamo incontrati.» Mi prese a braccetto, stampandomi bacio sulla guancia: «Andiamo, altrimenti non arriveremo mai in tempo per il pranzo!»
Strano. Perché avevo la sensazione che, nonostante le sue assicurazioni, stesse comunque nascondendomi qualcosa? Riguardo a cosa, poi? Riguardo a sé stessa, al villaggio di pescatori, al sentiero che vi conduceva? Che altro? Avevo imparato, nell’esercizio della mia professione, ad ascoltare le persone, a leggere in parte il loro comportamento, deducendone fatti, notizie, possibili atteggiamenti: con Maya, mi risultava ancora difficile, mi sembrava di tradire la sua fiducia, intromettendomi a quel modo nella sua intimità e cercavo di evitarlo per quanto possibile, proprio come avevo fatto con Jean. Per il momento, avrei atteso pazientemente che fosse lei a decidere se aprirsi con me. Però quella sensazione latente permaneva ed io …
«Alla fine, ieri sera non mi hai spiegato perché un canadese ricco e famoso si sia trasferito in un villaggio semisconosciuto del nord della Francia. Con una sovvenzione universitaria, per di più! Dubito che sia stato soltanto per mettersi a tracciare dei complicati ghirigori su dei fogli di carta, ho ragione?»
A quella sua domanda sogghignai, ripensando al motivo che mi aveva costretto a rimandare la spiegazione.
Maya, notando la mia espressione, divenne paonazza e si voltò dall’altra parte, incespicando su di un ciottolo sporgente dalla pavimentazione: l’afferrai al volo, prima che cadesse. «E con questa sono due!» la presi in giro bonariamente: «Devi stare più attenta a dove metti i piedi, mia cara! Qualcosa ti ha distratto?»
«Come se non lo sapessi! Siamo per strada! Datti un contegno!» sibilò, guardandosi attorno preoccupata per scoprire se qualcuno dei passanti ci stesse ascoltando. Come se a loro importasse realmente qualcosa di noi due!
«Maya, tesoro, nessuno ha avuto da obiettare quando ci siamo abbracciati per la prima volta in questo stesso vicolo, figurati se possono anche solo immaginare a cosa si riferisce il nostro discorso!»
Lei scosse la testa, stizzita e spaventata: «Tu non sai, non hai idea delle voci e dei pettegolezzi, di quanto in fretta possano ingigantire a partire da un nulla come può esserlo una tua o una mia occhiata, un sorriso, un’espressione!»
«Ti sbagli: credo di saperne persino più di te, in proposito.» Annuii, rispondendo alla sua domanda inespressa: «Il mio lavoro si basa in buona parte proprio su voci e pettegolezzi, ricordi?»
Maya si morse le labbra, non del tutto convinta: «D’accordo, ma quando tu te ne andrai …»
«Tu verrai con me. Se mai accadrà.» precisai. «E solo se lo vorrai, ovviamente.» mi affrettai ad aggiungere, vedendo quanto si era irrigidita udendo la mia risposta.
«Non scherzare con me, Arthur.»
«Non scherzo affatto: non ho alcuna intenzione di lasciarti andare. Non sono il tipo da avventure passeggere, ormai dovresti averlo capito.» Lo sguardo che mi rivolse a quelle parole mi colpì come un pugno alla bocca dello stomaco: speranza e gioia, imbrigliate e tenute a freno dalla paura, il vero e proprio terrore che si trattasse unicamente di una bugia che avrebbe comportato l’ennesima delusione della sua vita. Tenendola per mano, ripresi a camminare verso le mura, facendo dondolare leggermente il cesto da pic-nic appeso all’altro braccio. Per distrarla, iniziai a parlarle del mio progetto: «In origine, dovevo valutare la possibilità di realizzare alcune grosse strutture alberghiere per conto dei miei clienti, che cercavano un misto di natura, eleganza e storia da offrire ai loro facoltosi ospiti: una località come questa, lontana dalle principali vie di comunicazione della regione ma nello stesso tempo accessibile senza troppa difficoltà, sembrava essere l’ideale.»
«Perché sembrava? Hai trovato qualcosa che non va?»
«No: il borgo è splendido, perfettamente conservato, servito da corriera e persino dotato di un porticciolo con annessa spiaggia. Tutto intorno ci sono campi, colline, boschi punteggiati da ruderi e rovine. Piccole fattorie interrompono e vivacizzano il panorama, fornendo al contempo una possibilità di variare le attività e il menù. Come ho detto, sembrava tutto idilliaco.»
«Ma? …»
Superammo la porta, salutando quei pochi passanti che conoscevamo di vista, intrattenendoci per quattro chiacchiere cortesi con quelli che Maya conosceva in maniera più approfondita. Risposi alla sua domanda solamente quando imboccammo la ripida discesa che conduceva al torrente: «Ma c’era … c’è … qualcosa di curioso, di particolare, qui, che ha spinto genti diverse ad abitare e sviluppare un luogo che non possiede attrattive economiche.»
«Hai appena detto che è ideale per costruire alberghi!»
«È vero! Oggigiorno è così, però io mi stavo riferendo alla storia passata: dubito molto che celti e romani provassero soverchio interesse per le bellezze naturali e il terreno qua attorno non è propriamente adatto alle coltivazioni: da quello che ho potuto capire, vagabondando qua e là, i contadini della zona riescono a trarre dalle loro coltivazioni lo stretto necessario per rifornire i commercianti, o mi sbaglio?»
«In effetti … Perciò hai cambiato idea in corso d’opera?» Superando il ponticello sul torrente, Maya si staccò dal mio braccio, camminando a ritroso per potermi guardare in faccia.
«Non esattamente: ho semplicemente suggerito ai committenti che sarebbe stato più interessante e produttivo coinvolgere altri esperti in diversi settori non di mia competenza ed eventualmente svolgere un sopralluogo in loco per confermare le informazioni e le estrapolazioni già effettuate.» Ero affascinato dal movimento delle sue gambe sotto la gonna leggera, dal gioco di ombre e pieghe che imponevano al cotone scuro che contrastava con la camicetta candida.
«Arthur, per favore, non distrarti proprio ora che il discorso si sta facendo interessante!» mi rimproverò Maya ridendo, prima di tornare al mio fianco: «Stavi dicendo che tutte le prime ricerche le avevi già svolte a casa tua, in patria?» chiese, meravigliata.
«Proprio così! Sentivo la necessità di distrarmi, di occupare la mente in qualcosa di nuovo, dopo …» abbassai lo sguardo sul sentiero, cercando di ricacciare indietro le lacrime.
«Dopo la morte di tua moglie.» concluse lei quietamente al posto mio.
Annuii: «È stato il primo incarico che ho accettato, quattro anni dopo averla persa. Scusami se ho guastato l’atmosfera della nostra gita.»
Maya scosse il capo: «Non dirlo neanche per scherzo! Tu non hai guastato un bel niente!» protestò, poi rivolgendomi quel suo particolare sorriso beffardo, indicò davanti a sé l’inizio del sentiero che ci aveva bloccati la volta precedente: «Scommettiamo che questa volta arriverò in fondo senza farmi male?» mi sfidò, sollevando con grazia un piede per mostrarmi i sandali; curiosamente, notai soltanto allora che si era smaltata le unghie con cura. Chissà poi perché!
«Non ho alcuna difficoltà a scommettere: anche se tu dovessi perdere, sai già come ti riporterò a casa!»
«Spiacente, ma questa sera tornerò a casa sulle mie gambe! Andiamo?» chiese, tirandomi per la mano.
«Andiamo!» acconsentii «Dov’ero rimasto?»
«Alle prime ricerche. Non credevo che ci fosse tanta documentazione all’estero su questo posto dimenticato da Dio!»
«Infatti non c’è: ho dovuto blandire, minacciare e supplicare per mesi ogni sorta di persona che fosse anche solo lontanamente correlata a questa parte della Francia! Non hai idea dei soldi che ho dovuto sborsare in francobolli, buste, carta da lettere e inchiostro! Ero diventato la maledizione degli uffici postali.»
Accanto a me, Maya ridacchiava: «E ti rispondevano?»
Mi strinsi nelle spalle: «Alcuni sì, altri no. Fortunatamente, la principale fonte d’informazioni era a portata di mano …»
«A portata di mano? Aspetta! Non ti stai riferendo ai reduci, vero?»
«Brava! Proprio ai reduci dei reparti canadesi stanziati in Europa durante la guerra! Perché la cosa ti stupisce tanto?»
«Mi stupisce il fatto che volessero darti retta dopo tutto quello che dovevano aver passato quaggiù! E comunque, da queste parti non se ne sono visti molti, di Alleati.» Maya si fermò per togliersi i sassi dai sandali: «Maledizione! È una vera e propria tortura!»
«Non lamentarti! Sei stata tu a scegliere quali scarpe indossare.»
«Ma tu hai scelto il sentiero! Ti odio!» Lo disse reggendosi in precario equilibrio su di una gamba sola, cercando di affibbiare il sandalo che teneva in mano senza stramazzare al suolo. Vedendomi sorridere sotto i baffi, mi minacciò con la mano libera, riuscendo solamente a farmi scoppiare a ridere apertamente, tanto era buffa. «Brutto … Aiutami, invece di startene lì a ridere di me!»
«Ok, ok! Non ti scaldare, arrivo!» risposi, avvicinandomi e abbracciandola stretta dopo aver appoggiato il cesto sull’erba. «Va meglio, così?» le chiesi accarezzandole la schiena.
«Potrei anche perdonarti, lo ammetto. Però sono ancora mezza scalza!»
«Oltre che incontentabile, oserei dire. Lascia fare a me!» conclusi, chinandomi per stringerle i lacci. «Possiamo tornare indietro, se vuoi.» suggerii.
«Neanche per sogno! Ormai siamo a metà strada!» protestò Maya, rassettandosi la gonna.
«Sicura? I piedi sono i tuoi, ti ricordo.» Avendo raccolto il cesto, ero pronto a ripartire, aspettavo soltanto una sua decisione.
«Non ti preoccupare per me. Andiamo!» mi incitò, precedendomi.
«Come vuoi.» mi arresi. Mi guardai attorno: «Però! Sulle mappe questo valloncello sembrava decisamente più ampio!»
«Te l’ho detto! Le tue mappe non sono accurate!»
«Non sono mie: sono del governo francese.» rettificai «Vallo a dire a loro!»
«Potrei anche farlo!»
«Certo, certo!» Feci un giro completo sul posto per osservare meglio i dintorni: «Riesco quasi a vederti, che pesti il piede davanti alla scrivania del direttore generale, protestando per le inaccurate rilevazioni effettuate dai suoi cartografi, qui in mezzo al nulla!» Ammiccai, la gibigianna del sole su di un pezzo di metallo o di vetro, seminascosto tra la vegetazione in cima ad un dosso poco lontano, mi aveva fatto lacrimare gli occhi.
«Il piede potrei pestarlo su qualcosa di tuo, se continui a prendermi in giro!» mi minacciò Maya, semiseria: «E piangere non ti servirà proprio a nulla, sai?»
«Non sto piangendo. E quanto alla tua minaccia, posso ricordarti cosa è successo questa mattina a letto?» insinuai, subdolo.
Maya fece una smorfia, ritraendosi istintivamente: «No! Quello no! Non un’altra volta!»
«Pace fatta, allora?»
«Cedo alla violenza. Despota!»
«Prego: solo Arthur, per te.» conclusi, correndo per evitare di essere colpito.
Poco dopo, Maya mi si affiancò, infilando la mano sotto il mio braccio; teneva lo sguardo fisso ai ciottoli, come quando era arrabbiata con me, ma vedevo benissimo che in realtà stava sorridendo, quasi ridacchiando soddisfatta.
«Ti diverte così tanto accapigliarti con me? Tu non sei del tutto sana di mente, vero?»
«Da che pulpito! Ti sei quasi fatto ammazzare per soddisfare una tua curiosità e sarei io quella malata?!»
«Ancora con quella storia dell’orso? Maledetto il giorno in cui te l’ho raccontata!» sbuffai «Noiosa!»
«Trovi? Allora questa sera devo tornare a dormire in soffitta?» C’era un’evidente punta di compiaciuto sadismo nello sguardo colmo di aspettativa che mi stava rivolgendo.
«Avrei proposto la cantina: è decisamente più fresca, nelle calde sere d’estate come questa …» suggerii, ricordando quanto aveva suggerito giorni addietro, e questo la spiazzò.
«Dici sul serio? Io stavo solo scherzando …» s’informò quieta, l’espressione vagamente preoccupata. Quella curiosa insicurezza, di nuovo, che spuntava quasi senza preavviso, la paura di essere rifiutata. Perché? E se avessi tentato di andare più a fondo, mi avrebbe assecondato oppure si sarebbe chiusa a riccio, come quando ci eravamo conosciuti? Potevo rischiare? Magari più avanti, quando fossimo stati più tranquilli.
Il mio atteggiamento involontariamente la mise ulteriormente in agitazione: «Siete diventato silenzioso tutto d’un tratto! Quindi ho ragione, vi ho offeso e mi volete – pardon, dovete! – punire. È giusto.» Di cosa stava parlando? Perché era tornata a rivolgersi a me con tanta deferenza? Aveva lasciato andare il mio braccio, arretrando. «Scusate se ho ecceduto nel darvi confidenza, signore. Io credevo …» Scosse la testa, senza terminare la frase. «Peccato. È stato bello finché è durato.»
Faceva sul serio! Dovevo correre ai ripari, e subito! Lasciato nuovamente scivolare a terra il cestino da pic-nic, la sollevai di peso, incurante delle sue proteste, e presi a cullarla come una bambina, senza parlare, semplicemente andando avanti e indietro lungo il sentiero. Non riuscivo a capire da dove derivassero questi improvvisi sbalzi d’umore; al contrario, capivo benissimo dove l’avrebbero condotta e non volevo che accadesse, a nessun costo! Sentivo il suo cuore pulsare contro le costole: ci vollero minuti interi prima che rallentasse a ritmi normali.
«Mi hai spaventato a morte!» la rimproverai: «Non farlo mai più!» le sussurrai all’orecchio. Ansimava piano, il viso nascosto dai capelli. Sentivo le sue lacrime contro la guancia, un borbottio sommesso quasi stesse parlando con qualcuno in un altro luogo.
La tenni stretta, lasciandola sfogare. Passata la crisi, la rimisi a terra e attesi, per vedere come avrebbe reagito: rimase in piedi in silenzio, cincischiando il fazzoletto che le avevo prestato, come se non spesse bene nemmeno lei cosa dire o fare.
Il sole picchiava, era mattina inoltrata ed un silenzio innaturale gravava su di noi, ma né io né Maya avevamo intenzione di romperlo, questo era abbastanza evidente; d’un tratto, lei sembrò riscuotersi con un sospiro talmente profondo che la squassò da capo a piedi: «Non doveva andare così!» disse a voce bassissima, prendendomi per mano, «Non così!» ribadì a voce più alta.
Cosa diamine …? «Maya, di che stai parlando?»
Lei sussultò alla mia domanda: «Della nostra scampagnata. Ho rovinato tutto!»
Una risposta buttata lì unicamente per sviare la mia indebita curiosità, evidentemente: «Guarda che è stata colpa mia: questa volta ho davvero esagerato.» replicai «Scusa.»
Il sorriso che mi rivolse mi tranquillizzò: era il sorriso della Maya birichina che si preparava ad una schermaglia verbale, quel sorriso avevo imparato ad amare nelle settimane trascorse insieme: «Accetto le sue scuse, signore.» concesse col sussiego di una gran dama d’altri tempi e «Per ora!» puntualizzò subito dopo. «Vogliamo proseguire?»
«Certamente! Devo vedere quel dannatissimo villaggio, a costo di morire nel tentativo!» risposi, avviandomi. Camminammo a lungo in silenzio, persi ciascuno nei propri pensieri; io, per lo meno, cercavo di analizzare quanto era appena accaduto, per trovare una soluzione, un modus vivendi con Maya che potesse essere d’aiuto anche per lei. Qualcosa la tormentava da lungo tempo, questo era indubbio, com’era indubbio che non dipendesse da me – non del tutto, comunque. E quella frase subito smentita? Cosa poteva significare? Sempre che qualcosa significasse …
«Cosa ti hanno raccontato quei chiacchieroni di reduci?»
Sussultai: «Come, prego?»
«I reduci. Hai detto che ne hai contattati molti, nel corso delle tue ricerche. L’incubo dei postini, ricordi?» mi sfotté dolcemente.
«Vero. Ho speso una fortuna per ottenere poco o niente!»
Maya applaudì piano, in maniera ostentata: «Complimenti! Davvero bravo!»
Stando al gioco, mi inchinai: «Grazie, grazie! E comunque ho detto poco o niente, non niente del tutto.» precisai.
Camminando con le mani dietro la schiena, un poco curva in avanti quasi stesse ponderando una difficile questione filosofica, Maya mi girò attorno, rimuginando: «E così siamo giunti al cavillo, al sofisma. Scusa, ma … qual è la differenza tra poco o niente e niente del tutto?»
«Brandelli d’informazione che un esperto può sfruttare a proprio vantaggio.» risposi spazientito, afferrandola per un braccio al terzo giro: stava facendomi venire le vertigini, che diamine!
«Per esempio?» chiese lei, carezzandomi la mano prima di staccarsela di dosso.
«Ti avverto: non ricominciare con la giostra, se vuoi che ti risponda!» le intimai.
«Okay, okay! Come sei fastidioso, però!» si arrese lei di malagrazia.
«IO!»
Maya sorrise: «Proprio tu!» confermò, baciandomi sulla guancia: «Adesso vuoi rispondermi, o devo ricominciare a girare?»
Scossi la testa: «Sei un caso disperato!» sospirai: «E se ti dicessi che dalle dichiarazioni di un reparto inviato nella regione in R&R ho appreso che questa zona era considerata dai comandi relativamente sicura?»
«E cosa ci sarebbe di tanto strano? È sempre stato un mortorio, da queste parti!»
«Una zona di guerra sottoposta ad occupazione da almeno quattro anni?! Me lo stai chiedendo sul serio?» sbottai
Maya si strinse nelle spalle: «Sono solo una cameriera, io, non un’esperta di strategia militare!»
«Certo, certo! Come no!» borbottai «Comunque, fidati: non è per niente normale. E anche quando gli alleati sono avanzati verso sud, nessuna precauzione, hanno semplicemente sguarnito la regione, con il pericolo di lasciarsi alle spalle un intero contingente nemico!»
«Messa in questi termini, effettivamente è una situazione curiosa. Ma le tue teorie potrebbero anche essere sbagliate: in fondo ti stai basando unicamente sulle informazioni racimolate attraverso un riluttante giro di posta.»
Di nuovo quel brillio di sole che avevo notato in precedenza! Qualche altro coccio di vetro? Una lattina abbandonata o forse un bossolo d’artiglieria? Arrampicarsi fin lassù per sincerarmene sarebbe stato difficile per me, improponibile per Maya che con i suoi sandali avrebbe rischiato di scivolare ad ogni passo sull’erba ancora umida del pendio. Che qualcuno ci stesse seguendo, osservando con un binocolo? Sì, ma per quale motivo? Stavamo soltanto facendo una tarda gita estiva, che diamine! «Dimentichi che mi sono rivolto anche ad altre fonti: i municipi della zona, ad esempio; gli archivi storici pubblici e privati; le istituzioni culturali.»
«E cosa ti avrebbero rivelato d’interessante, queste tue fonti?»
«In buona sostanza, quello che ti ho già accennato sulla storia locale, con l’esclusione di alcuni particolari che ho appreso dalle tue bellissime labbra, quali l’usanza della sepoltura in mare e la ravina delle esecuzioni. Perché mi guardi a quel modo?» chiesi.
«Nulla, mi era sembrato di vedere un calabrone che ti ronzava accanto, ma se ne è andato.» mi rispose distogliendo frettolosamente lo sguardo. «Non dovresti dire certe cose.» aggiunse subito dopo, cercando di farla suonare come una minaccia.
«Mi piace dire la verità. Soprattutto se riguarda te. Se poi ti fa arrossire a quel modo …» la pungolai, ricevendo una gomitata nello stomaco che incassai con tutta la mascolinità concessami dalla sorpresa e dalla violenza del colpo! «Ahi! Almeno avvertimi, prima di uccidermi: ho diritto ad esprimere un ultimo desiderio!»
«Se ti avvertissi in anticipo che punizione sarebbe, scusa? E poi non stai affatto per morire: era solo un buffetto, mollaccione!»
«La prossima volta ricordami di prendere la cinghia!» borbottai.
«Non oseresti mai!» esclamò lei, poi più incerta «Non oseresti, vero?»
«Forse sì e forse no, il bello è che non lo saprai mai da queste mie labbra: porterò il mio segreto nella tomba!»
«Scemo! Non sta bene parlare di certe cose così, come se si trattasse di barzellette!»
«Come mai questo sfogo? Sei superstiziosa, per caso? Questa sì che è una novità!» commentai
«Non sono superstiziosa! Io … non voglio che pensi a cose tanto tristi, ecco tutto!»
«Maya …» feci per abbracciarla, ma lei svicolò, accelerando il passo e precedendomi al termine del sentiero:
«Siamo arrivati! Che te ne pare?» chiese quando la raggiunsi.
Come risultava dalle mappe, il sentiero sfociava in uno slargo che Il villaggio occupava in minima parte, lasciando ampio spazio a prati e qualche orticello incolto; bisognava attraversarne una buona metà per arrivare alla decina di casupole raccolte attorno ad un molo di legno che partiva direttamente dalla spiaggia. «Che luogo spettrale! Come facevano a vivere quaggiù?»
«Infatti non ci vivevano: te l’ho detto che non ci vive più nessuno da prima che io nascessi!» puntualizzò Maya, al mio fianco.
«Eppure le foto …» insistetti, guardandomi attorno, cercando ancora le tracce che delle barche da pesca, pur piccole e rattoppate, avrebbero lasciato in un luogo come quello: rifiutavo di credere che non avessero mai avuto bisogno di manutenzione, riparazioni o anche soltanto di una riverniciatura; doveva esserci una rimessa con uno scalo, tra tutte quelle costruzioni!
Maya se ne stava in disparte, accoccolata sul sentiero ad osservare i papaveri che spuntavano tra l’erba. Teneva la gonna raccolta sulle cosce con una mano, per evitare che finisse nel fango, sfiorando a caso gli steli con l’altra. «Non sei ancora convinto, vero? Vuoi andare a vedere più da vicino?» Guardava in su verso di me, aspettando la mia decisione.
«Dobbiamo comunque avvicinarci.» spiegai «Qua attorno è troppo umido e sporco per stendere la tovaglia: non so tu, ma io ho una fame che non ci vedo!»
Maya si rialzò con grazia, rassettandosi gli abiti con pochi gesti esperti «Il molo, allora?» suggerì, sorridendo nel notare che non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso. «Che ne pensi?»
«Sei bellissima!» risposi a caldo, ben sapendo che non si riferiva a quello.
Mise il broncio: «La vuoi smettere con queste smancerie? Mi imbarazzano!»
«Come vuoi.» concessi «Per quanto riguarda il molo, possiamo provare, sperando che ci regga: mi sembra decisamente malmesso …»
Maya mi prese per mano, tirandomi verso la spiaggia: «Se non ti soddisferà, vorrà dire che proveremo ad entrare in una delle case, oppure in spiaggia, brontolone! E smettila di pensare a quelle stupide foto!»
«Ai tuoi ordini, mia signora!» risposi, pensando a quanto strano fosse coltivare degli ortaggi in un luogo disabitato e difficilmente raggiungibile come quello …
«Sono andati al villaggio.» L’omone versò da bere per entrambi, appoggiandosi con tutto il proprio peso al corrimano del banco di mescita che scricchiolò in segno di protesta.
«Così finirà che dovrà cambiare bancone: sarebbe un peccato!» commentò il suo ospite.
«Vedo che non le importa di sentire le ultime notizie. Ha per caso rinunciato a portare a termine la missione, ammiraglio?»
«Tutt’altro! E il sarcasmo le servirà a ben poco. Come sempre del resto.» Il vecchio sorseggiò pensieroso il liquore, prima di continuare: «So benissimo cosa hanno fatto quei due. Dopo tutti quei giorni di burrasca trascorsi chiuso in casa, il nostro esimio ricercatore ha approfittato della bella giornata estiva di ieri l’altro per svagarsi con un bel pic-nic in compagnia della sua cameriera, nel corso di una piacevole gita in campagna. Cosa ci trova di tanto strano?»
«A parte il fatto che hanno scelto di visitare un villaggio notoriamente disabitato da anni e ridotto peggio di una città fantasma? Nulla di strano, assolutamente.» Si grattò la testa: «Ora che ci penso, forse è per questo che sono andati in quel buco: lui aveva nostalgia!» ridacchiò.
«Ne dubito: è canadese. Tornando in argomento, i preparativi per la prima crociera? A che punto sono?»
«Il nuovo arrivato, quel Gluchko, sembra proprio l’emulo di Tsiolkovsky! Da quando gli abbiamo spiegato a grandi linee i nostri obiettivi, si è gettato a capofitto nel lavoro. E con ottimi risultati, per di più!»
«Quanto ottimi?» s’informò l’altro
«Soltanto un incontentabile militare come lei può arrivare a voler quantificare un superlativo assoluto! Ne vuole un altro?» chiese sollevando la bottiglia per riempirsi nuovamente il bicchiere. Il vecchio scosse il capo. «Come vuole. Riguardo al nostro russo, è davvero un prodigio! Non sarà un teorico della propulsione, ma ne sa abbastanza da riuscire a modificare i nostri razzi in qualcosa di praticamente indistinguibile da quelli dei Rossi.»
«Quel praticamente mi suona fesso: si ricordi che è essenziale che tutti credano che siano sovietici!»
L’omone sorrise: «Di questo non deve preoccuparsi: nessuno riuscirà a distinguere quei rottami da quelli di una katyusha. Anche perché ho tutta l’intenzione di fare in modo che gli eventuali ispettori abbiano altro a cui pensare, oltre ad un’identificazione approssimativa … non so se mi spiego!» Vederlo sogghignare e ammiccare soddisfatto fece venire i brividi all’ammiraglio, che si sentì in dovere di chiedere chiarimenti: «Si era detto niente testate batteriologiche! Mi ha capito?»
«Ci sento benissimo, ammiraglio, non c’è bisogno di alzare la voce a quel modo. È da maleducati.» rispose con pacato sarcasmo il suo anfitrione «D’altra parte, perché sprecare dei buoni ceppi batterici – con quello che costano, poi! – quando si possono usare i gas?»
L’ammiraglio ebbe un cenno d’assenso: «Capisco! Vorrebbe creare un diversivo con delle testate chimiche. Quante, una ogni dieci?»
«All’incirca: deve sembrare in tutto e per tutto un test operativo, qualcosa che preluda ad una campagna in grande stile.»
«Dobbiamo stare attenti: le informazioni sui loro esperimenti chimici trapelate sino ad ora sono esigue e piuttosto lacunose. Se esagerassimo, potremmo compromettere l’esito dell’intera operazione.»
L’altro si passò una mano sul mento, grattandosi con foga sotto la barba: «In effetti, potrebbero sorgere delle difficoltà. Bisognerà scegliere il composto adatto, qualcosa di nostro di cui loro si sono appropriati, per essere sicuri di non ingenerare indebiti sospetti …» sorseggiò dal bicchiere, riflettendo: «Ammiraglio! È ancora in contatto con qualcuno dei nostri chimici?»
«Perché me lo chiede? Era lei a trattare con loro, molto più di me!»
«Vero. Però è lei ad aver mantenuto il maggior numero di contatti tramite l’organizzazione, dovrebbe risultarle più facile che a me riunirne una squadra per iniziare la produzione di quanto ci occorrerà.»
«Ha per caso intenzione di costruire un impianto di produzione? Potrebbe essere rischioso.»
«Perché dovrei voler costruire un nuovo impianto chimico, scusi?» chiese l’omone incuriosito «Quello che abbiamo funziona così bene!»
«Ha mantenuto attive le vecchie apparecchiature? Per quale motivo, se è lecito?»
«In previsione di congiunture come questa.» fu la pronta risposta «Non è mai bene lasciar guastare le cose. Buttare via è peccato, diceva sempre mia madre.»
«Immagino che si riferisse al cibo, non ai reattori industriali! Comunque sia, la cosa torna indubbiamente a nostro vantaggio: spargerò la voce tra i nostri sottoposti per procurarle il personale necessario. Quando avrebbe intenzione di avviare la produzione?»
«Ad essere sincero, l’ho già avviata su  piccola scala, un po’ per testare l’efficienza degli impianti, dopo tutti gli anni trascorsi, un po’ per rimpinguare la nostra scorta di pronto intervento.»
L’ammiraglio gli rivolse il suo leggendario cipiglio: «Lei ha sempre tirato la corda fino al limite di rottura, caposcalo! Una volta o l’altra supererà quel limite e allora …» minacciò.
L’altro scosse le spalle, raddrizzandosi e stropicciando sorridente le mani enormi: «Ammiraglio, ammiraglio! La smetta con questi stupidi giochi sull’autorità: la guerra è finita da un pezzo, siamo soci, adesso, le ricordo.» Fece il giro del bancone e si mise a lavare i bicchieri, asciugandoli accuratamente con lo straccio che portava sempre infilato alla cintura. «E tanto per chiarire, sappia che tecnicamente non sono mai stato un suo sottoposto, io!»
«Lo so benissimo: se lo fosse stato, con tutte le volte che ha infranto i regolamenti, eluso i miei ordini e fatto di testa sua, non saremmo qui a parlare, oggi, perché l’avrei già fatta fucilare e gettare in pasto agli squali!»
L’omone ridacchiò: «Molto gentile da parte sua: quei poveri squali avrebbero di sicuro avuto di che sfamarsi, con uno come me!»

11 – VERITÀ NASCOSTE

«Maya! Stai bene?» I rumori che provenivano dal bagno erano tutt’altro che rassicuranti. «Maya?» Nessuna risposta.
Andava avanti a quel modo da due giorni, da quando avevamo fatto ritorno dalla nostra gita: non riusciva a tenere nulla nello stomaco per più di dieci minuti. Cominciavo ad essere seriamente preoccupato, ma lei insisteva nell’impedirmi di chiamare il medico. «Passerà.» era la sua risposta, unica ed invariabile. Nel frattempo, cercavo inutilmente di capire cosa potessimo aver fatto, ingerito, toccato per far sì che Maya si riducesse in quello stato. Mangiare sul pontile, le gambe penzoloni sull’acqua increspata appena dal vento, era stato molto piacevole, soprattutto quando un’onda appena più alta delle altre ci costringeva a tirar su i piedi in tutta fretta, ridendo come ragazzini. Non c’era nessuno intorno a noi, né alcun segno che qualcuno ci fosse stato per anni, quanto a questo: le case erano poco più che capanne, alcune cadenti, mangiate com’erano dal vento e dalla salsedine e neppure il pontile dava troppa fiducia; la vista, però, era davvero magnifica, tanto da ripagare appieno della fatica necessaria ad arrivare fin laggiù. Maya aveva apprezzato il cibo, la compagnia, il paesaggio: chiacchierava instancabile, riportandomi inezie e pettegolezzi su persone e fatti che neppure conoscevo, ma ero ben felice di starla ad ascoltare perché sembrava proprio che la crisi lungo il sentiero fosse stata superata e dimenticata. Però …
Dopo pranzo, passeggiammo a lungo nella spianata, curiosando qua e là tra le costruzioni, raccogliendo conchiglie e sassi sulla riva, affacciandoci agli usci scardinati delle capanne: nuvole di polvere, ragnatele, sabbia trasportata dal vento in quelle costruite a ridosso della spiaggia, fine, che si era depositata ovunque. E quel tarlo che mi rodeva, quell’incongruenza tra le fotografie e la realtà. Eravamo persino entrati nella costruzione più lontana dal mare, a ridosso dei campi, trovando un pavimento di assi tarlate coperte di graffi opachi dovuti allo strofinio delle sedie attorno al tavolo da poco, ancora coperto da una tovaglia a quadri che aveva visto giorni migliori. Nulla di quello che avevamo fatto poteva portare a quelle conseguenze.
Mentre mi lambiccavo il cervello cercando di ricordare, Maya uscì dal bagno, il viso stravolto; l’accompagnai a letto, rimboccandole per bene le coperte: era pallida, gli occhi stanchi e sofferenti, non riuscivo più a vederla in quello stato. «Vado a chiamare il dottore!» le annunciai «Anzi, vado a prenderlo di persona e lo accompagno qui. E non provare a protestare, sai?»
«Arthur, non serve: sto meglio, si è trattato soltanto di un po’ di indigestione. Non occorre scomodare il medico …»
Le poggiai una mano sulla fronte e scossi il capo: «Maya, basta! Scotti, vomiti in continuazione da due giorni, non ti reggi in piedi: devo continuare?»
«Continua pure, se ti fa sentire meglio!» ribatté lei impertinente «Ti dico che sto meglio: quelli di prima erano solamente conati a vuoto. Dolorosi, ma niente di più!»
Mi sedetti accanto a lei sul letto, ravviandole i capelli sudati: «Sei sicura?» le chiesi, dubbioso.
«Fidati di me, per una volta. Tra qualche ora potrei persino chiederti un the con qualche biscotto!» Lo disse tremando per la febbre, ma con un’espressione decisa. «Vieni qui, fammi un po’ di compagnia.» m’invitò subito dopo, picchiando con la mano accanto a sé. «Per favore!» rincarò la dose, vedendo che ancora tentennavo.
Dannazione a me e al mio lato debole! «D’accordo! Come vuoi. Ma solo perché sei malata, sia chiaro!» capitolai, stendendomi accanto a lei. «Vuoi che ti tenga la mano mentre ti canto una ninnananna?»
«Per carità! Mi è bastato sentirti canticchiare in bagno, mentre ti radevi!»
«Io canto meglio di un tenore!»
«Rantolante in punto di morte, forse.»
«Non c’è dubbio: stai meglio! La tua lingua è di nuovo affilata al punto giusto!»
«Che ti avevo detto?» Un tenue sorriso, appena uno stiramento delle labbra: faceva male vederla in quello stato. «Non hai ancora finito la tua storia.»
«Quale storia? Oh, certo: ti riferisci alle mie ricerche! Sei proprio sicura di volermi ascoltare? Non preferiresti dormire un po’, piuttosto?»
«Quale sonnifero migliore potrei trovare?» chiese in risposta Maya, sarcastica; notando il mio cipiglio, si affrettò però a rimediare: «Scusa, scusa! Lo so, sono stata cattiva: fai finta che non abbia detto nulla.»
«Se avessi saputo che ti annoiavo tanto …»
«Adesso non fare il bambino! Stavo prendendoti in giro, ma se sei tanto permaloso non lo farò più. Per carità!» Si accorse solo in quel momento del sorrisetto apparso sul mio viso: «Perché stai sorridendo?» chiese sospettosa, prima di rispondersi da sola: «Lo so io il perché: non sei affatto offeso, mi stai prendendo in giro! Brutto …!»
«Calma, calma! Ricordati che sei febbricitante.» la placai, carezzandola «E comunque me lo rendi troppo facile!»
«Comincia a raccontare, prima che io cominci a picchiarti come meriteresti!»
«Dunque. Stavamo parlando delle mie fonti private. Per uno strano caso, si sono rivelate abbastanza cospicue da convincere i miei clienti a coinvolgere la facoltà.»
«Perché dici strano? Se avevi raccolto sufficiente materiale …»
«Maya, tesoro: materiale sufficiente a convincere un imprenditore edile ad investire nel proprio progetto. Per convincere il rettore di una facoltà a finanziare una campagna di studi in terra straniera ci vuole ben altro, credimi!»
«Ma tu questo altro lo hai trovato, altrimenti non saresti qui!»
«Diciamo che ho un poco imbrogliato.» confessai «Non nel senso che credi tu!» mi affrettai ad aggiungere, vedendo la sua espressione: «Ho accentuato alcuni aspetti della faccenda e non altri, tutto qui.»
«Capisco. Credo di capire: hai messo in ombra gli aspetti meno interessanti. In pratica, hai seppellito questo paese sotto una montagna!»
«Non scherzare!  E comunque non è andata così, anzi: sono state proprio le peculiarità di questo villaggio, debitamente sottolineate, a far pendere la bilancia dalla mia parte.»
«Cosa mai avranno trovato di interessante in questo cesso …»
«Ecco il linguaggio di una vera dama dell’alta società!» motteggiai pacato
«Sentiamo: come lo definiresti tu?» La sua era una sfida, tanto che si era addirittura alzata a metà dal letto, appoggiandosi sui gomiti.
«Buona! Non devi stancarti, ho detto!» Cercai di farla stendere nuovamente, ma sarebbe stato più semplice convincere il fuoco a spegnersi da solo …
«Smettila! Sono stanca …»
«Appunto! Devi riposarti!» le diedi sulla voce.
« … di stare sdraiata!» concluse lei, come se neanche avessi aperto bocca. «Piuttosto, aiutami a sistemare meglio il cuscino, per favore.»
Sospirai, sprimacciando il cuscino prima di infilarlo tra la sua schiena e la testiera del letto. Anche Jean era stata così: volitiva, testarda a volte, decisa a fare di testa sua nella maggior parte delle occasioni, o perlomeno a far sentire e valere le sue opinioni.
Maya mi guardava con un’espressione che non le avevo mai visto prima, un misto di curiosità e nostalgia venata di tristezza: «Stai paragonandomi a lei. Vero?» La sua non era una domanda. Come aveva fatto a capirlo?
«Le somigli moltissimo, soprattutto quando ti comporti a quel modo!» sottolineai.
«È per questo che ti sei infatuato di me? Perché ti ricordo lei?» triste, paurosa di un’eventuale risposta affermativa.
«In parte. Forse. Ad essere sincero non credo: tu sei tu.»
«Ecco una risposta degna di un filosofo! Che vorrebbe dire tu sei tu
«Ha davvero importanza?»
«In effetti no. Temo che dovrò accontentarmi.»
«Accontentarti? Credi che ti consideri un ripiego, per caso?» La possibilità che fosse effettivamente così mi turbava: non mi era mai neppure passato per l’anticamera del cervello! Io mi ero innamorato di Maya, non di un fantasma!
Maya si limitò a tentennare il capo, lo sguardo fisso ai piedi del letto: «No, ma per me è sempre stato più facile prepararmi al peggio: si soffre meno, Arthur, devi darmene atto.» A questo, non seppi come rispondere: me ne stavo lì, sollevato e furente allo stesso tempo, con una gran voglia di massacrare di botte qualcuno, possibilmente uno dei colpevoli di …
Un dito piantato con forza tra le costole mi fece sussultare, distogliendomi dai miei propositi di vendetta: «La vuoi smettere di fissarmi a quel modo? Non sto morendo, menagramo!»
«Uh! Sarà. Quanto alla tua domanda di prima, lo definirei un interessante esempio di piccolo centro rurale conservatosi nel corso dei secoli. La stratificazione architettonica esemplare comporta …»
«Alt! Se continui a quel modo, ti scoppierò a ridere in faccia da un momento all’altro. Sembri un libro stampato!» Il suo sorriso era più saldo, gli occhi avevano perso quella lucentezza febbrile. Meno male!
«Ridi pure! Sono molto apprezzato sia come insegnante che come divulgatore, nonostante tu abbia trovato farraginoso il mio secondo saggio …»
Sentendosi accusare a quel modo, Maya s’imporporò: «Speravo te ne fossi dimenticato. Sei un tipo rancoroso.»
«Per niente. Però trovo divertente stuzzicarti.»
«Per forza! Sei un sadico.»
Finsi di ponderare attentamente la questione, ben sapendo che questo l’avrebbe fatta stizzire: «Può essere. Se ti torturassi ancora un po’?» chiesi ammiccando in maniera esagerata, mentre avvicinavo le mani alle sue costole.
«Provaci e ti spezzo tutte le falangi! Dico sul serio!» Incredibile: mi minacciava, ma stava già ridendo!
«Cedo alla violenza. Vorrà dire che aspetterò di trovarti addormentata …»
«Non contarci troppo! E adesso vedi di continuare, per favore!»
«Senza sembrare un libro stampato?»
«Esatto. Ti preferisco di gran lunga meno formale.»
«Come desideri.» Sospirai, tossicchiando un poco e ripresi da dove ero stato interrotto: «Il punto è che, come avrai notato aiutandomi negli ultimi giorni, il villaggio sembra essere da sempre il fulcro di tutta una serie di relazioni intessute nella zona – commerciali, politiche, militari – senza però mai balzare alla ribalta delle cronache.» Cercavo di far comprendere anche a lei quello che avevo intuito cernendo le informazioni che ero riuscito ad accumulare fino a quel momento: un compito non facile, senza un diagramma sotto mano.
«Come se tutto quanto avvenisse di nascosto …»
«Proprio! Come se qualcuno avesse sempre avuto il massimo interesse nel mantenere segreta una qualche peculiarità di questa regione, per poterla sfruttare a suo esclusivo vantaggio.»
Maya ridacchiò, stiracchiandosi: «Sembra quasi che tu stia ipotizzando la presenza di una setta!»
«Potrebbe anche darsi. Ti sembra tanto illogica come conclusione?» Notai due piccole vesciche sul suo polso destro, gli orli leggermente arrossati: «Ti sei scottata?» chiesi
«Cosa?» Lei seguì il mio sguardo: «Oh! No, non mi sono scottata: devo aver toccato inavvertitamente qualche ortica, durante la nostra gita.»
Scossi il capo: «Non ortiche: elleboro.» spiegai con voce assente «Ne ho visti degli esemplari, nei prati attorno al villaggio.»
«Arthur, qualcosa non va? Sei diventato strano tutt’a un tratto …»
«Non è nulla: stavo soltanto ripensando ad una cosa che mi aveva raccontato Jean pochi giorni prima di partire per gli Stati Uniti, qualcosa a proposito della belladonna …»
«Quale bella donna?» Sospettosa, quasi riguardasse lei e non la mia defunta moglie. «Mai avrei detto che tu fossi un libertino: buono a sapersi, davvero!»
Sgranai gli occhi: ma di cosa diavolo …? Poi scoppiai a ridere: «Belladonna, non bella donna!» spiegai, staccando nettamente le parole: «La pianta, Maya!»
«Quale pianta? Non capisco!»
«Non fa nulla, non è importante. Scusa, non volevo prenderti in giro!» Le accarezzai una guancia, per fare pace: era fresca, il pallore sparito quasi del tutto. «Quanto alla nostra setta, neppure io sono così sicuro che esista – non più, almeno. Però, se fosse esistita, qualcuno potrebbe aver avuto degli ottimi motivi per coglierne l’eredità e perpetuarla.»
«All’insaputa degli abitanti?! Dici sul serio?»
Buffo. Maya non era incredula, sembrava piuttosto preoccupata, come se stesse cercando di evitare che il nostro discorso prendesse una certa piega particolare: cosa sperava che non dicessi? E perché? Perché era preoccupata per me? Per sé stessa? Dovevo insistere? Ormai mi ero fatto un’idea precisa del motivo che aveva spinto le alte cariche a subentrare ai miei iniziali committenti, fornendomi aiuto finanziario e logistico – non era necessario essere un genio per capire che c’era sotto ben altro che un semplice piano di sfruttamento immobiliare – ma se davvero era come pensavo, la situazione sarebbe diventata ben presto assai sgradevole: potevo coinvolgere Maya? Malgrado tutto, io mi ero innamorato sul serio e anche lei di me. Forse …
Andarmene? Piantare tutto quanto, portarla via con me, in Canada, lontano dai problemi, dalle tensioni? Avrebbe accettato se glielo avessi proposto? Speravo di sì, ma prima avrei dovuto essere sincero, rivelarle i miei dubbi, le possibili implicazioni delle varie ipotesi che andavo maturando nella mia mente. Lei avrebbe fatto altrettanto? C’era un unico modo per saperlo.
«Arthur, va tutto bene? Perché non mi rispondi? Stai male?»
«Sto benissimo, stavo solo cercando il modo migliore per chiederti una cosa. Una cosa molto importante.»
«Così mi spaventi. Vuoi che me ne vada? Sei stanco di avermi tra i piedi, lo capisco. Strano: di solito impiegano più tempo; sarà perché hai deciso di stravolgere il nostro rapporto sin dal primo giorno.» Mormorava con un filo di voce, una parola dietro l’altra, quasi senza prendere il respiro. «Io però ti ho dato corda – anche troppa, in effetti! – quindi è soprattutto colpa mia, avrei dovuto insistere maggiormente. Non ti biasimo, sai?, è stato bello finché è durato. Dammi soltanto il tempo di raccogliere le mie cose e …»
«Hai finito?» Il mio tono brusco la costrinse a tacere e a sollevare lo sguardo su di me: «Tutta questa storia … Sei davvero convinta che andandotene tu possa porvi rimedio, che tu possa dimenticartene?»
Maya aveva lo stesso sguardo di un animale preso in trappola, senza via di scampo: «Quale storia?»
«Lo sai benissimo!» l’accusai, brusco: «Maya, perché hai voluto che venissi qui? Perché io?»
«Arthur, di cosa diamine stai parlando?! Io ti avrei chiamato qui? Ma se neppure ti conoscevo!»
Annuii: «Personalmente, no, hai ragione. Ma qualcosa deve averti colpito, nelle mie prime lettere, tanto da spingerti ad entrare in contatto con me.» Mi fermai per osservare la sua reazione: tremava, pur cercando un modo di controbattere le mie affermazioni: «Del resto, mi chiedo come tu abbia fatto a leggerle, tenuto conto che, come ho detto, le avevo indirizzate ad alcuni funzionari del municipio …»
«Arthur, tesoro, mi stai spaventando, e non ne capisco il motivo. Trovo soltanto che sia crudele, da parte tua. Per favore, smettila!»
Continuai a ragionare senza nemmeno ascoltarla: «A meno che tu non lavorassi per qualcuno di loro, come cameriera! Sì, è plausibile: rassettandone lo studio, potresti aver trovato una mia lettera in cui chiedevo informazioni, l’hai letta e hai deciso di contattarmi. È andata così, vero? Ho ragione?»
«Ma perché avrei dovuto volerlo? Spiegamelo, se ci riesci!» Arrabbiata, offesa, incredula, Maya stava cercando di riguadagnare terreno, di convincermi a lasciar cadere la questione – almeno in apparenza: Maya, la mia Maya, era terrorizzata.
«C’è qualcosa che tu sai di questo luogo, qualcosa che ti spaventa a morte, fino al punto di spingerti più volte là, vicino al pozzo.» rispose quietamente.
«No!»
«Qualcosa che ti grava addosso al punto da riuscirti insopportabile.»
«Basta!»
«E finalmente hai trovato qualcuno con cui condividerlo. Sono qui, Maya: parla.»
«No …»
Piangeva, adesso, rannicchiata in posizione fetale, un mucchio inestricabile di lenzuola e capelli ramati, lunghe gambe e braccia sottili. Mi chinai ad abbracciarla, gentilmente, con tenerezza: volevo confortarla, farle capire che non me ne sarei andato. Mai.
Ci volle quasi mezz’ora prima che si calmasse fino a rilassarsi tra le mie braccia; un bacio rapido eppure intensissimo, salato dalle sue lacrime, sancì la tregua tra noi due, la prova che aveva capitolato: «Stupido! Mi hai fatto male, lo sai?»
«Sì e me ne dispiace. A mia discolpa, posso solo dire che l’ho fatto per evitare di fartene di nuovo in futuro: non sopporto i segreti, non li ho mai sopportati.»
«Come l’hai capito?»
Sorrisi, arrotolando una ciocca dei suoi capelli tra le dita: «Improvvisamente, un giorno, mi fu recapitato un plico anonimo, contenente informazioni decisamente più sostanziose degli altri. Il mittente era vago, nelle sue descrizioni, ma sufficientemente dettagliato da permettermi di scartare certe ipotesi e rafforzarmi in altre. Risposi, caldeggiando una collaborazione, trovandolo d’accordo; così ci scambiammo missive all’incirca per sei mesi, dopodiché, il silenzio. Fu allora che cominciai a cercare casa da queste parti. Al mio arrivo qui, cercavo il mio amico di penna, tra le altre cose. E mi scontrai con una splendida ragazza in un vicolo …»
Maya ascoltava ad occhi chiusi: «Adulatore! Non era niente di che!»
«Lascia che sia io a giudicare! Chi è che sta raccontando la storia?»
«Come desidera, signore! Non mi punisca, la prego: non la interromperò più, promesso!»
«Non sei credibile, sai?»
Lei ridacchiò: «Tu invece …» Rigirandosi verso di me, mi baciò di nuovo, questa volta a lungo e con calore: «Come l’hai capito?»
Mi strinsi nelle spalle: «Lo stile, principalmente: ti fingevi un uomo, ma il modo di esprimersi era quello di una donna. E quando mi hai aiutato con le mie mappe, copiando i miei scarabocchi, ne ho avuto la certezza: la tua grafia è inconfondibile!»
«Avrei dovuto immaginarlo, con il lavoro che fai.» 
«La domanda principale resta comunque sul piatto: per quale motivo mi hai contattato e mi hai attirato qui?»
«Attirato! Mi fai sembrare una strega che abbia lanciato un sortilegio! Non è per niente carino da parte tua, sai?»
«In un certo senso è vero.» mormorai «Un incantesimo a scoppio ritardato …» Per un istante, ebbi la netta sensazione di aver compreso buona parte di tutto quell’imbroglio: era la stessa sensazione che si accompagnava alle mie migliori intuizioni, quelle che mi portavano a dire “Ecco! Questo lavoro è terminato per questo e quest’altro motivo”. Ne avevo avuto una quando avevo ripreso conoscenza a bordo della nave-ospedale che mi riportava a casa via Regno Unito: aprendo gli occhi, avevo visto Jean seduta in un angolo della mia cabina, intenta a prendere frettolosi appunti per una sua ricerca; le avevo sorriso e lei aveva risposto allo stesso modo, semplicemente. Era bastato. Adesso, la sensazione non era altrettanto gradevole, possedeva unicamente la stessa importanza che la rendeva quasi tangibile. Scoppio ritardato … parole che facevano squillare un campanello d’allarme. Riguardo a cosa? Troppo presto per dirlo. Forse più tardi, nei prossimi giorni … se ne avessi avuti abbastanza. D’impulso, cavai di tasca la spilla e la mostrai a Maya: «Tesoro, sai di che si tratta, per caso?»
Vedendola brillare sul palmo della mia mano, lei sgranò tanto d’occhi; scosse il capo, rammaricata: «Dove l’hai trovata?»
Non aveva senso mentire: «Nella sorgente sotto il pozzo, qualche giorno fa: essendo d’oro quasi puro, è difficile stabilire da quanto tempo fosse lì, ma dubito che possa essere da molto, perché avrebbe fatto gola ad un sacco di gente.»
«Ne sei convinto? Credi che ci sia la fila per scendere là sotto? Che vendano i biglietti?» Quanta amarezza, nelle sue parole!
«Capisco, ma nonostante la sua cattiva fama, quello resta pur sempre un pozzo costruito sopra una sorgente: viene usato per attingere acqua, te l’assicuro, come me ne sono accorto io se ne sarebbe accorto qualcun altro!» spiegai «E non hai risposto alla mia domanda.»
Maya nascose il volto contro il mio petto; rimase così per qualche minuto, poi iniziò a raccontare. «C’era un reparto tedesco stanziato poco lontano da qui, da qualche parte lungo la costa. Non so dove.» si affrettò a prevenire la mia domanda, «So solo che gli alti ufficiali alloggiavano qui, anche per lunghi periodi.»
«Intendi dire qui in paese?»
«Intendo dire qui, in questa casa.» Ecco una novità degna di nota!
«E la padrona, madame Voirniere, lo permetteva senza protestare?»
Maya mi guardò stupita: «E per quale stramaledetta ragione una maitresse dovrebbe protestare se i suoi migliori clienti decidono di alloggiare presso di lei, pagando in contanti e lasciando laute mance?»
«Aspetta! Mi stai dicendo che questo palazzo durante la guerra era un bordello?!»
«Una specie, sì. Sarebbe più corretto considerarlo una residenza di lusso con alcuni servizi destinati a clienti speciali. Prima che tu me lo chieda, io mi limitavo a svolgere le mansioni di cameriera, non ero sulla lista come le altre entraineuses
«Non mi era passato neppure per l’anticamera del cervello!»
«Sì, come no! Siete tutti uguali, voi uomini!»
«Te lo giuro!» protestai la mia innocenza, stringendola forte a me per consolarla e rassicurarla. Doveva essere stato difficile lavorare per lungo tempo in un posto simile e tornarci, quando l’incubo sembrava ormai sfumato e dimenticato! «Grazie.» mormorai, sull’onda di quel pensiero.
«Grazie per cosa?»
«Per aver accettato di lavorare per me qui, nonostante tutti i quei brutti ricordi.»
«Non sono tutti brutti.» minimizzò lei. «Le ragazze erano gentili con me, la maggior parte delle volte, e la Voirniere mi aveva preso in simpatia, promuovendomi a sua cameriera personale, così non dovetti preoccuparmi troppo, da quel punto di vista.  Certo, ogni tanto capitava qualche mascalzone – soprattutto da fuori, in visita – e ci voleva del bello e del buono per convincerlo a tenere le mani a posto, ma giravano troppi ufficiali superiori perché valesse la pena per loro di correre il rischio di inimicarseli comportandosi male, così che tutto si sistemava abbastanza in fretta. Del resto, c’erano altre case chiuse, in paese, decisamente meno esclusive e propense a lasciare maggiori libertà ai clienti paganti …»
Preferii non pensare a quali fossero queste libertà, anche se ero convinto di saperlo. «Alloggiavi nel sottotetto, immagino.»
«Insieme alle altre, sì. Non c’era altro posto.» Detto come una condanna.
«Le altre … cameriere?» chiesi, paventando la risposta.
Maya annuì: «I letti di sopra erano sempre tutti occupati ma le cameriere duravano poco, di solito: l’unico ospite fisso ero io.»
«E quando capivano perché, se la prendevano con te.»
«Non potevano certo sfogarsi sulla Voirniere o sulle professioniste, ti pare?» Piangeva, ora: «I dispetti, le botte, le piccole meschinità, ogni ora di ogni santo giorno! Capisci perché ho finito per adorare quel pozzo?» Si passò rabbiosamente una mano sugli occhi per asciugarseli, quasi si vergognasse di quel segno di debolezza. «Comunque non era la peggiore situazione possibile: le ragazze della casa stavano decisamente peggio, credimi.» Mi fece cenno di non chiedere nulla, così mi limitai a farle sentire che c’ero, l’unica cosa che potessi fare per consolarla. «Le tenevano chiuse in soffitta, sui pagliericci: mangiavano, dormivano, lavoravano lassù, sotto gli occhi di tutti; l’unica possibilità di uscire, per loro, era di essere scelte da uno degli ufficiali in visita, oltre al bagno obbligatorio due volte la settimana. Alle volte venivano portate in cantina – per somministrare servizi speciali, diceva la Voirniere – ma là sotto non c’era null’altro che botti di vino, la caldaia e qualche straccio abbandonato sugli scaffali, l’hai visto anche tu. Eppure stavano via per ore intere e quando tornavano di sopra, l’unica cosa che volevano era gettarsi sui loro pagliericci e dormire.»
«Povera piccola! Quattro anni così devono essere stati terribili!»
«Quattro anni? E chi ha mai detto che siano stati soltanto quattro?»
«Che vorrebbe dire? L’occupazione è iniziata nel …»
«Nel 1940.» mi precedette lei. La sua risata a quella mia affermazione mi fece correre brividi gelati lungo la spina dorsale: «Hai ragione, tesoro: quella è la data ufficiale, solo che loro erano qui da molto prima di allora. Credo addirittura da prima che io nascessi.»
«Maya, è assurdo. Impossibile. Se fosse vero, significherebbe anni di accurata pianificazione, di segretezza … per cosa? Quale scopo potrebbe essere tanto importante da giustificare un simile sacrificio?»
«Sei tu l’esperto: dimmelo tu.»
«Ammiraglio, posso entrare?»
«Avanti, avanti, signor Gluchko! A cosa devo l’onore della sua visita?»
L’uomo di fronte alla scrivania aveva il tipico aspetto trasandato dovuto al superlavoro; a vederlo, dava l’idea di essere prossimo al collasso. Non che importasse: aveva svolto alla perfezione il compito che gli era stato affidato, modificando i vettori affinché risultassero indistinguibili da quelli sovietici e, soprattutto, aveva istruito il loro personale su come portare avanti le modifiche, stilando procedure, tracciando grafici e producendo decine di accurati disegni tecnici, tutti debitamente racchiusi in duplice copia nelle casseforti della base. Dando una rapida occhiata al calendario da tavolo, l’ammiraglio si rese conto che ormai mancava meno di una settimana alla partenza della prima crociera. «Allora, Gluchko?»
«Avrei una richiesta da avanzare, signore, se posso.»
«Direi che se lo è meritato! Di che si tratta?»
«Vorrei spedire dei fiori sulla tomba di mia moglie, ammiraglio. So di non potermici recare di persona, dopo la mia defezione: sarebbe un suicidio e devo ammettere che ancora ci tengo alla mia vita; così le chiederei la cortesia di incaricare qualcuno di farlo al posto mio.»
L’ammiraglio si sentì stranamente commosso da quella semplice richiesta; con molto tatto, chiese: «Ritiene che sua moglie sia stata …»
Gluchko, perso in qualche suo ricordo personale, si riscosse: «Cosa? Oh, no. No, signore: mia moglie è morta quattro anni fa. Un tumore al seno non diagnosticato. Voi non c’entrate per niente.»
«Capisco! La prego di accettare le mie sentite condoglianze, anche se tardive. Vedrò che posso fare per accontentarla. Non dovrebbe essere difficile: in fondo si tratta di deporre un mazzo di fiori in un cimitero ucraino. Ma non è solo per questo motivo che lei è venuto a trovarmi, vero?»
L’altro scosse il capo: il fatto che l’ammiraglio sapesse dov’era sepolta sua moglie l’aveva scosso parecchio; poteva soltanto significare che già sapeva che era morta e che probabilmente ne conosceva anche la causa. Suo malgrado, dovette tributare un silenzioso omaggio all’efficienza dei sistemi informativi di cui quell’uomo sembrava usufruire. «Gradirei essere a bordo quando il sottomarino partirà, fra cinque giorni.»
L’ammiraglio si studiò con cura le unghie fresche di manicure: «Vuole essere presente quando inizierà tutto quanto, per cogliere il frutto delle sue fatiche, non è così? Sa, non la facevo tanto sentimentale … e vendicativo! Mi piace!»
«Il suo era un sì, signore?»
«Diciamo piuttosto un forse: non mi fraintenda» proseguì notando l’espressione aggrondata di Gluchko: «Prima devo verificare che ci sia effettivamente posto per un membro dell’equipaggio in più: normalmente non ci sarebbe alcun problema, ma questa è stata pianificata come una crociera di breve durata, con viveri e beni di conforto ridotti al minimo indispensabile. Devo consultarmi con il capo scalo per vedere se è possibile aggiungerla agli effettivi. Mi dia un paio di giorni.»
«Capisco. Grazie ammiraglio. Torno alla mia officina. Buona giornata.»
Chiusasi la porta, l’ammiraglio alzò la cornetta del telefono senza quadrante: per la chiamata che doveva effettuare non c’era bisogno di comporre alcun numero: «Pronto? Si, sono io: Gluchko è appena stato qui. Le aveva parlato della sua follia romantica? Davvero? Ah! Così è stato lei ad incoraggiarlo! E adesso cosa pensa di fare? Uhm. Sì. Sì, capisco. Qualcuno di sacrificabile, certo. Costituirebbe un’ottima verifica dell’integrità delle nostre reti, oltre che darci un’idea di quanto possano essere pericolosi gli altri. Certo, non c’è alcuna fretta, tanto più che mi ha domandato di poter presenziare alla prima crociera. Come? No, non sto affatto scherzando: non lo ha fatto con parole dirette, ma mi ha letteralmente supplicato di lasciarlo salire a bordo! Credo che se gli lasciassimo premere il pulsante di lancio arriverebbe addirittura all’orgasmo! Giuro! Cosa ho fatto io? Gli ho promesso che l’avrei consultata per vedere se ci fosse posto a bordo e che gli avrei fatto avere una risposta in capo a due giorni. Sì. Questo lo so benissimo anch’io, grazie! Quindi? Uhm. Ottimo. Un bicchierino da lei, questa sera? Sicuro, perché no? A tra poco allora. Oh, a proposito, a che ora si alza la marea nella forra, questa notte?»
Passai tre interi giorni nella biblioteca, compulsando archivio e volumi in cerca di informazioni per corroborare le teorie che avevo inevitabilmente sviluppato a partire dal racconto di Maya. «Perché ti ostini a cercare qua dentro? Questo era il sancta sanctorum del vecchio Voirniere: nessuno era autorizzato ad entrare.»
«Proprio nessuno, non direi: ci sarebbero tonnellate di polvere dappertutto. Qualcuno deve avere pulito regolarmente e credo anche di sapere chi!»
«Ti sbagli!»
«Ah, davvero? E allora perché ti sei seccata?»
«Perché … perché sì, ecco!»
«Maya …»
«Mi guardava, maledetto lui! Continuamente! Era insopportabile!» sbottò, quasi sputando le parole per il disgusto.
Ridacchiai: «Anch’io ti guardo. Smetto, se ti dà così tanto fastidio.»
Lei scosse la testa: «Con te è diverso. Lui era … lascivo. Sì, lascivo.»
Rimasi a bocca aperta: «Quindi è stato il vecchio!»
«A trasformare il palazzo in un bordello di lusso? No, lui è morto prima.» Maya tremava di rabbia, quasi stesse volutamente stuzzicando una ferita aperta.
«Il notaio! Era lui, Voirniere, vero?»
«Perché ti interessa saperlo?» Me lo chiese con aria di sfida.
«Semplicemente perché desidero sapere tutto di te, mia cara, anche le cose più tristi e dolorose. Del resto, se fosse vero, chiarirebbe un bel po’ di punti ancora oscuri; semplificherebbe alquanto le cose, per così dire. Hai intenzione di rimanere con quel vassoio in mano ancora a lungo?» chiesi
«Cosa? Oh, no! Certo che no. Ho pensato che ti potesse far piacere un buon the freddo, magari in buona compagnia …»
«In ottima compagnia! Vieni qui.» sorrisi, invitandola a sedersi accanto a me sul pavimento ingombro di libri, fogli e mappe di tutte le dimensioni. Posò il vassoio con cautela in uno spazio libero, facendo tintinnare il ghiaccio nella brocca; riempiti due generosi bicchieri, me ne porse uno, che trangugiai avidamente: la sete che non avevo! «Ah! Ci voleva proprio, grazie.»
«Ti ricordo che tenerti in vita fa parte del mio lavoro; mi paghi per questo, in fin dei conti.» mi rimproverò bonariamente. Il luccichio nei suoi occhi, però, raccontava tutta un’altra storia. Notato che la stavo osservando, si affrettò a rivolgere la propria attenzione alle montagne di carta che ci circondavano, lasciando liberi soltanto pochi, intricati sentieri che raggiungevano le scale per i ballatoi. «Che caos! Se il vecchio avesse visto tutto questo, ti avrebbe già strappato la pelle a suon di cinghiate! Come fai ad orientarti in questo marasma?»
«Ho i miei metodi.» risposi laconicamente, pensando alle implicazioni insite nelle sue parole. Cominciavo a comprendere le motivazioni profonde di certi suoi comportamenti, le sue reazioni a determinati miei approcci nei suoi riguardi.
«Stai bene? Era troppo freddo per caso?»
«Come? No, non ho mal di testa, non preoccuparti: stavo solo riflettendo. Credo di aver scoperto il segreto di questo posto!»
Maya si limitò a guardarmi dubbiosa, un tenue sorriso d’incoraggiamento sulle labbra: «Sì?» chiese, invitandomi a spiegarmi in maniera più approfondita.
«Non mi credi, vero? Ti assicuro che è la verità: ho capito tutto!» mi versai un secondo bicchiere «Bè, quasi tutto, in realtà, la maggior parte.»
A quelle mie affermazioni lei replicò sbuffando: «Arthur, tesoro: se ti ostini a tenere le tue ipotesi tutte per te, come speri che possa giudicarle? Non sono ancora una veggente, mi spiace!»
«Vero anche questo.» concordai «Dunque, vediamo: partiamo dal quadro generale. Abbiamo già stabilito che una qualche particolarità rende questo angolo di Francia atipico.»
«Il fatto che sia noioso sino alle lacrime?»
Risi: «Anche quello, può darsi. Io pensavo alla sua conformazione geografica: poche vie d’accesso, ben sorvegliabili con poca spesa e poca fatica.»
«Per forza! Chi si sprecherebbe a fortificare un pugno di scoscesi spuntoni di roccia semi-brulla? Un pazzo!»
«Eppure sembra che i pazzi qui abbondassero.»
«Ancora con la storia dei reparti inglesi che non hanno lasciato un presidio in zona? Ti stai ripetendo, sai?»
«Non mi riferivo soltanto a loro: la nostra storia è piena di gente che giunta qui o non ha trovato motivo di restare oppure è stata convinta ad andarsene.»
«Stai dicendo che gli abitanti del villaggio …»
«Esattamente. Hanno volutamente distolto l’attenzione dei vari potenziali occupanti, indirizzandoli altrove, vuoi con la promessa di bottini più ricchi, vuoi con terre più appetibili, al limite con la semplice noia che hai citato tu stessa. Per dirla con i russi, ritengo che la gente del posto abbia impiantato una gigantesca maskirovka. Solo pochi hanno realmente compreso la reale importanza di questo mucchio di rocce.»
«E tu saresti uno di quei pochi!» Maya mi gratificò di uno dei suoi sogghigni beffardi.
«Sfottimi pure, se vuoi, ma rifletti su quello che mi hai detto del bordello e dei suoi clienti.»
«I tedeschi?»
Annuii: «Proprio loro! Hai detto che appartenevano ad un reparto stanziato nella regione, da molto prima dell’occupazione nazista. Come lo ritieni possibile?»
«Guarda che non ti ho mentito: loro erano qui sin da quando ero molto piccola. Me li ricordo vagamente in giro per le strade, che scambiavano qualche parola ogni tanto con gli abitanti più influenti del paese. E poi la Voirniere me lo ha confermato.»
«Calma. Non ho mai detto che tu mi abbia mentito. Solo, pensaci bene: dove erano basati? Quanti erano? Cosa facevano qui?»
Maya si strinse nelle spalle: «Appartenendo ad un reparto di marina, saranno stati basati dalle parti di Brest.»
«Negli anni venti?!»
«Giusto. Impossibile. Dove allora?» Era curiosa, lo vedevo chiaramente. «Aspetta! Non mi dirai che … No. Quel vecchio villaggio è morto e sepolto da tempo: ci siamo stati, lo hai visto anche tu.»
«Fuochino! In realtà sono molto più vicini di quanto pensi.» risposi. Ed indicai il pavimento.
«In cantina?! Arthur, hai la febbre, per caso?» D’istinto posò il polso sulla mia fronte, per sincerarsene: «Non mi sembra, no. Allora dev’essere affaticamento, superlavoro… Si può sapere perché ridi?»
Non riuscii più a trattenermi e me ne uscii in una fragorosa risata: «La cantina!» biascicai, quando riuscii finalmente a riprendere fiato: «Stupenda! Hai davvero il tocco per le battute, tu!»
«Continua così e ti faccio il bagno con il the!»
«D’accordo, d’accordo! Non mi riferivo al nostro sotterraneo, questo è ovvio.»
«E a quale allora?»
«Quali. Plurale.» puntualizzai.
Maya mi guardò stranita: evidentemente era ancora convinta che fossi uscito di senno.
Mi chinai sulle mappe tracciando un arco con la bacchetta che usavo a lezione, coprendo la zona collinare affacciata sul mare. «Cosa vedi?»
«Quello che ho sempre visto da quando sono nata: brulle scogliere intervallate da brulle colline con qualche rovina sparsa.»
Picchiettai con la bacchetta: «Guarda meglio!»
Lei corrugò la fronte: «Oh, sì! Hai ragione: vedo benissimo che ho dimenticato i cespugli!»
«Spiritosa! Quello che voglio mostrarti non è visibile: sta sotto!»
Maya spalancò la bocca per la sorpresa. Aveva capito? «Grotte!» esclamò. Sì, aveva capito.
Le sorrisi, felice: «Brava!» mi complimentai con lei. «Ora sai perché questa zona è stata sempre sminuita dai suoi abitanti.»
«Un tesoro da tenere celato!» annuì lei «Depositi irraggiungibili. Nascondigli, vie di fuga…»
«Prigioni, cisterne …»
« E pirati, contrabbandieri, briganti!»
«Fino a quando qualcuno non ha fatto questi nostri stessi collegamenti, prendendo possesso dell’intero complesso. Da quanto mi hai detto e dalle informazioni che ho raccolto in queste settimane, il progetto che hanno portato avanti quaggiù data a poco dopo la fine della Grande Guerra, anche se ritengo che l’idea abbia iniziato a germinare e mettere radici nelle menti dei suoi realizzatori molto prima.»
«Non ti seguo più. Quale progetto?»
«Durante l’ultima guerra, i tedeschi realizzarono diversi impianti di produzione segreti all’interno di bunker sotterranei per proteggerli dai bombardamenti e per nasconderli alla ricognizione aerea; tra questi, anche le linee di assemblaggio delle V2.»
«Ma da qui non sono mai partiti missili! Non può trattarsi di questo!»
«Non ho mai detto che si trattasse di una base missilistica; non di tipo convenzionale, almeno.»
«Arthur, mi stai spaventando! Non capisco a cosa ti stia riferendo e temo che non lo sappia bene neppure tu!»
Maya, Maya. Avrei pagato una fortuna perché fosse stato vero! Le strinsi la mano, baciandole le dita: sentivo il bisogno di proteggerla da quello che stavo per rivelarle, quasi che fosse colpa mia. E in parte, solo in parte, lo era: un osservatore disincantato avrebbe certamente avuto quest’impressione, ascoltando i nostri discorsi. «Non sono solo le basi missilistiche a dover essere nascoste da occhi indiscreti, sai? Qualunque progetto che implichi classificazione si avvantaggia di una simile protezione: prigioni, impianti chimici, fabbriche di armamenti, laboratori di ricerca… persino i cantieri navali.»
Ecco. L’avevo detto. Non potevo esserne certo, ma tutto stava ad indicarlo, tutto portava in quella direzione.
«Ti sbagli! Qui non ce ne sono mai stati: tutte le barche dei pescatori provengono da …»
«Io non parlo di navi. Dimmi, Maya: per caso la signora Voirniere ospitò degli ufficiali di marina giapponesi, all’incirca sei anni fa?» Non mi rispose, non ve ne fu bisogno: bastava la sua espressione impaurita a dirmi che avevo colto nel segno anche stavolta. Chiusi gli occhi, scuotendo mestamente il capo: quadrava, tutto quanto!

12 – L’ESCA PIAZZATA, È TEMPO DI FAR SCATTARE LA TRAPPOLA!

«Ormeggi mollati, signore: alla velocità attuale, giungeremo in mare aperto tra venticinque minuti.»
«Ottimo, tenente! Si è occupato di quella questione che le avevo affidato?»
«Certamente, signore! Il giorno stesso!»
«E?»
«Nulla di serio, signore: la ricognizione in superficie ha rivelato che non c’erano tracce apprezzabili. A meno di non sapere esattamente dove cercare, e in quei punti abbiamo provveduto a cancellarle accuratamente. Se mi permette, signore, non ritengo che l’incidente sia da imputare a qualcuno: si è trattato di un ritorno di flusso su di una presa d’acqua secondaria, dovuto all’eccesso di marea unito al cattivo tempo. Nessuno avrebbe potuto prevederlo»
«Un incidente, sicuro. Che però ha lasciato fuoriuscire una certa quantità di agente! Poteva compromettere l’intera operazione!»
«Ma non è accaduto: ce ne siamo accorti per tempo!»
L’ammiraglio Freisehen sospirò: «Immagino che abbia ragione lei, tenente. Altrimenti non saremmo nuovamente in viaggio.»
«Ammiraglio …»
«Sì?»
«Posso chiederle come si sente ad aver assunto nuovamente il comando dopo tutti questi anni?»
«Che domanda curiosa! Io non ho mai abbandonato il comando!»
«Certo, questo è vero, signore. Io intendevo il comando diretto di un’unità navale.»
«Sta mettendo in dubbio le mie capacità, tenente?»
«Nossignore! Mi scusi signore, non volevo recarle offesa!»
Freisehen sorrise: «Non riempia i calzoni, tenente: non ho intenzione di deferirla alla corte marziale per così poco! Quanto alla sua domanda, posso soltanto risponderle che lo trovo … gratificante! Ecco, sì, gratificante è il termine adatto!»
«Se posso, quanto crede che ci vorrà, prima che noi si sappia qualcosa?»
«Qualcosa? Su che?»
«Sull’esito della nostra missione. Quanto tempo passerà prima che reagiscano?»
«Molto poco, tenente, mi creda! Abbiamo fatto in modo che venga posta la giusta attenzione alle nostre future azioni.»
«Strategia?»
«Consolidata. Ora però, basta chiacchierare: esigo un immediato rapporto sullo stato della nave. Scattare!»
«Subito, signore!»
L’ammiraglio osservò in silenzio l’uomo che si voltava per raggiungere a passo rapido la centrale di comando, appena oltre la paratia che la divideva dalla sala radio. Buffo! Non ricordava quella paratia, probabilmente perché nella precedente missione – sei anni! Quanto tempo era passato! – aveva trascorso buona parte del viaggio nei suoi alloggi a mezzanave, lontano da quel centro nevralgico sempre affollato; del resto, in quell’occasione lui era stato solamente un passeggero: adesso era diverso, era lui al comando. Tempo una settimana e avrebbe potuto abbandonare quell’angolo sperduto di mondo e tornare in Germania, una Germania resa diversa dal moto di indignazione popolare che sarebbe montato nel momento stesso in cui fossero trapelate le prime informazioni, fatte le debite inferenze sugli avvenimenti che stavano per accadere. Tre obiettivi, il culmine di una strategia che era stata limata ed ottimizzata sino a rendere necessaria un’unica operazione: c’era di che esserne fieri! Tributò un breve omaggio ad Anton Pavelic Gluchko, il cui corpo forniva nutrimento ai granchi ormai da quattro lunghi giorni, là nella forra: «È anche merito suo, signor Gluchko: senza di lei, avremmo accumulato alcune settimane di ritardo … Non si preoccupi: sua moglie ha ricevuto i fiori che le aveva promesso! È in buona compagnia, sa? Almeno tre agenti del GRU tengono calde le sue ossa.» Ridacchiò a quella sua battuta.
«Qualcosa di divertente, signore?» Il tenente era rientrato in sala radio proprio in quel momento.
«La battuta finale di una vecchia opera teatrale, tenente.» mentì, dandosi un contegno: «Temo che non capirebbe, senza aver visto la piece completa. È qui per il rapporto?»
«Tutti i sistemi sono in perfetto ordine, signore. L’ufficiale di rotta chiede conferma delle istruzioni ricevute, per quando sbucheremo dal canale.»
«Alla via così, tenente. Alla via così!»
Una pianificazione portata avanti in segreto per trentadue anni, forse di più …
Prova di un’organizzazione meticolosa, prudenza ben al di là dei normali standard necessari alla sopravvivenza. Tanto di cappello, non è davvero da tutti una tale tenacia, degna di una seppur riluttante ammirazione!
Io e Maya trovammo il passaggio dopo una mezza giornata di ricerche, abilmente dissimulato dietro il primo scaffale in cantina: uno stretto corridoio con la volta a botte che correva sotto il giardino fino a quella che molto probabilmente in origine era stata una delle cripte del vecchio cimitero, in seguito trasformata in riserva di acqua potabile per il palazzo; faceva uno strano effetto sbucare sulla stretta passerella che girava tutt’attorno all’ottagono ed ascoltare il gocciolio dell’umidità che si condensava al colmo della volta per poi ricadere increspando la superficie liquida appena un metro sotto i nostri piedi, quasi che fossimo tornati indietro nel tempo, nelle viscere di una buia segreta medievale. Valvole e tubazioni sbucavano ad intervalli dalle pareti, tutte più o meno in direzione della magione, alcune più arrugginite di altre, fino al secondo passaggio a volta, ad angolo retto rispetto al nostro: non c’erano porte, qui, il passaggio si apriva direttamente nella sala; al vederla, mi diedi mentalmente dello stupido per non aver previsto la sua esistenza. Non ebbi tempo per commiserarmi troppo, comunque, perché Maya tremava come una foglia al mio fianco, osservando ad occhi sgranati le file di letti ospedalieri allineati lungo le pareti e al centro della sala, alternati ai banchi da laboratorio ed ai frigoriferi – tutt’ora alimentati, molto probabilmente dal fantomatico collegamento che avevo notato al mio arrivo ed ingenuamente considerato come un mero plus della magione appena acquistata. Due solitarie scrivanie completavano l’arredamento, addossate alle opposte pareti di fondo. Laboratorio per esperimenti o semplice sala di degenza per le cavie che vi erano state sottoposte altrove? Difficile dirlo. Cavie per cosa, comunque? Temevo di averlo capito, ormai e se la mia ipotesi si fosse dimostrata corretta, renderla pubblica avrebbe avuto conseguenze enormi per tutti, non solo per me e Maya. Quello che cominciavo seriamente a chiedermi era perché avessero corso il rischio di mettere la magione in vendita: che si fosse trattato di un errore? Poteva anche darsi, ma la sua madornalità …
«Arthur. Cosa facevano a quelle ragazze?»
«Maya, non lo so per certo.»
«Ma lo sospetti. È per questo che sei venuto: per quello che ti ho scritto e perché nutrivi dei sospetti. Tu non sei qui soltanto come ricercatore!»
Come rispondere alla sua accusa? Aveva ragione, in parte: ero stato abilmente manovrato, allettato ad assumere l’incarico, ad acquistare palazzo Voirniere, a trasferirmici. In parte l’avevo voluto, perché cercavo risposte alle mie molte domande e ad una in particolare. Mera curiosità intellettuale? Era quello che cercavo di spingermi a credere, ma sapevo benissimo che c’era dell’altro, nel profondo ed era qualcosa che volevo assolutamente evitare di risvegliare. Il lato positivo di tutta quella faccenda – forse l’unico – era la donna che mi stava accanto: Maya meritava una risposta. «All’inizio, in patria, era proprio così: ero soltanto un ricercatore impegnato nelle sue astruse elucubrazioni conto terzi. Poi però la situazione è andata vieppiù complicandosi e sono subentrati altri interessi, altri giocatori: non era più soltanto il mio solitario.»
Interpretando correttamente il tono della mia voce, lei mi abbracciò da tergo in un gesto consolatorio colmo d’affetto: «Jean?» sussurrò «È diventato anche il suo solitario, vero?»
«Potrei risponderti di no, oppure dirti di sì: in entrambi i casi sarebbe in parte una menzogna. Cerca di capirmi: non l’ho dimenticata – come potrei? – e l’ho amata moltissimo. Mi piacerebbe sapere perché è morta? Ovviamente sì, ma non è questo il motivo che mi ha convinto a lasciarmi manipolare! All’inizio, forse, ma poi sono subentrate altre circostanze, fattori che hanno modificato la mia decisione più volte, prima di venire qui.» Sogghignai; Maya non poteva vedermi, ma dovette intuire quello che provavo veramente per stringermi a sé a quel modo. «Stavo per rinunciare, sai? Proprio all’ultimo. Poi mi sono detto: “Considerala come una meritata vacanza, stupido! Concediti un bel soggiorno in quel di Francia, visita la casa nuova, la regione e rilassati: te lo sei guadagnato!” Avevo tutta l’intenzione di rimanere per un po’, curiosare qua e là come un normale turista prima di tornarmene in patria con un nulla di fatto, possibilmente senza ossa rotte. Poi ho incontrato te.» Strinsi le sue mani contro il mio stomaco: tremavano appena.
«Arthur, non devi. Non per causa mia.»
«Non è per causa tua: è per causa loro!» inveii contro la stanza e ciò che conteneva. Era il mio turno di consolare qualcuno e lo feci con un bacio. «Vieni, torniamo alla luce del sole.» dissi, tirandola verso la porta. «Questo non è il luogo adatto per parlare di certe cose!»
«Ammiraglio? La disturbo?»
«Avanti, tenente! Non si preoccupi: sono presentabile. A cosa devo la sua visita?»
«Siamo a dieci ore dal primo obiettivo, signore – in perfetto orario, se mi è permesso dirlo – ma è sorto un piccolo problema e mi è parso corretto relazionarla in merito.»
«Che tipo di problema?» Freisehen diede un’occhiata allo specchio mentre terminava di sistemare le buffetterie sull’uniforme da fatica: odiava non sentirsi a posto con sé stesso. «Allora?» sollecitò il subalterno rimasto in silenzio.
«Il sonar passivo ha registrato un traffico più intenso del previsto nel tratto di mare antistante il bersaglio, signore: abbiamo verificato al periscopio e in effetti sembra che ci siano diverse unità in entrata e in uscita, non previste in questo periodo dell’anno.»
«Unità di che tipo? Pescherecci?»
«Anche, ammiraglio. Per lo più sembrano imbarcazioni da diporto, qualche mercantile di stazza medio-piccola, rimorchiatori.»
Freisehen si accigliò: «Capsico. Temete che se sono così attivi durante il giorno, possano esserlo anche questa notte, rovinando il lancio.» Preso il berretto, l’ammiraglio uscì dal suo alloggio, diretto al tavolo di navigazione, seguito a ruota dal tenente. «Per ogni lancio, oltre a quella primaria è stata predisposta una serie di tre postazioni secondarie, nel caso che quella principale fosse risultata inagibile. Non l’avevano informata?»
«Certamente, signore. Il problema, a mio avviso, consiste proprio in questo: e se anche le postazioni secondarie fossero nelle medesime condizioni? Se non potessimo lanciare e fossimo obbligati a scartare l’obiettivo? Potrebbe compromettere la buona riuscita della nostra strategia.»
Freisehen si concesse una smorfia: «Lo sa, tenente? Se fossimo ancora in guerra, per queste sue affermazioni a quest’ora lei si troverebbe già davanti al plotone d’esecuzione, con un’accusa di disfattismo! E non mi guardi a quel modo! Non è un ragazzino imberbe: sa benissimo cosa c’è in gioco!»
«Ammiraglio, io …» cercò di interloquire l’ufficiale. Inutilmente.
«Ma … Mi lasci pensare … » lo interruppe l’ammiraglio, perentoriamente :«Noi siamo in guerra! Come altro potremmo definire la nostra operazione? Eh, tenente? Lei che ne dice?» Il sarcasmo di Freisehen era devastante: i veterani che costituivano la maggior parte dell’equipaggio presente in sala comando cominciavano già a scuotere la testa impercettibilmente, ben sapendo che quando l’ammiraglio arrivava a quel punto, il rischio di uscire di scena con i piedi in avanti era massimo. Rivolgendosi al timoniere, il vecchio impartì gli ordini: «Rotta per il porto, profondità massima.»
«Ma signore! Così noi …» Lo schiaffo in piena faccia ricevuto dal superiore troncò la protesta del tenente.
«Mi contesti ancora, imbecille, e farò in modo che lei sostituisca la testata del primo missile in partenza! Sala macchine! Avanti adagio. Idrofoni in massima allerta. E voi mettete ai ferri questo codardo!» L’ultimo ordine era rivolto ai due marinai armati che montavano la guardia accanto al boccaporto di prua. Una volta tornata la calma, Freisehen si rivolse al marconista: «Filate la boa. Cercate di scoprire dalle comunicazioni radio cosa sta succedendo in superficie. Nessuna emissione attiva, per nessun motivo! Solo ascolto, sono stato chiaro?»
«Certamente, signore! Solo una domanda, ammiraglio.»
«Spero per lei che non sia stupida.»
«Il mio finnico è quasi nullo, signore: abbiamo a bordo un interprete che possa affiancarmi? Sarebbe utile.»
Freisehen rise: «Ha ragione! Mi scusi. Provvedo subito.» rispose, dirigendosi a passo svelto verso poppa. Ritornò in capo ad una decina di minuti, accompagnato da un giovane alto e biondo a tal punto che i suoi capelli sembravano candidi; dalla divisa che indossava con l’orgoglio tipico dei militari ben addestrati, si sarebbe detto un graduato. Di quale esercito, restava un mistero.
«Signori, vi presento il sergente Mattila, della Maavoimat, le Forze Armate finlandesi. Avendo perso il padre durante l’invasione sovietica, potete immaginare quanto ami i russi. Oltretutto, prova una certa antipatia per le spiccate tendenze pacifiste dell’attuale governo, quindi è stato ben felice di prestarci i suoi servigi. Sergente, vorrebbe essere così gentile da affiancare herr Meister, il nostro marconista? Eccole una cuffia. Grazie e buon lavoro.» L’ammiraglio batté un colpetto sulla spalla del finlandese, poi si rivolse all’ufficiale alle armi: «Di quanto tempo ha bisogno per lanciare?»
«Pochi minuti, ammiraglio: questa volta non dobbiamo tirar fuori dal congelatore alcunché, è sufficiente caricare i tubi! Se potesse concedermi un po’ di preavviso, credo di poter effettuare operazioni e controlli preliminari in non più di mezz’ora. Una volta emersi, sarà sufficiente premere il pulsante di lancio: in fondo, non si tratta che di razzi non guidati!»
«Mezz’ora, eh? Credo che si possa fare. Ma se sgarra …»
L’ufficiale deglutì a vuoto: «Cercherò di evitarlo, ammiraglio.»

13 – TANA PER ARTHUR MORRIS!

Maya ed io spulciammo a fondo la casa, con l’occhio di chi cerca disperatamente qualcosa che possa servire a scongiurare i suoi più funerei presentimenti. Tutto quello che trovammo furono vecchie lettere lasciate da uno dei precedenti ospiti nelle quali magnificava le doti amatorie di più di un’entraîneuse: sembrava di leggere il menù di Mirò! «Maya, puoi dirmi qualcosa di più su madame Voirniere? Perché ha lasciato il palazzo? Dov’è andata? Tu lo sai, per caso?»
Lei scosse il capo: «Non lavoravo più per lei dall’inizio del ’45. Con lo sbarco e la successiva avanzata degli Alleati, la situazione si era fatta pericolosa per i tedeschi: sparirono tutti nel corso dell’inverno, senza dare troppo nell’occhio. Almeno così credevo …»
Annuii, pensieroso: «Li hai rivisti, vero? Alcuni di loro, nell’arco di questi cinque anni.» Era logico: non avrebbero mai abbandonato il loro gioiello, con tutto quello che vi avevano investito in termini di tempo e denaro!
«Non ne sono sicura: penso di aver intravisto alcuni dei sottufficiali. Venivano raramente da noi, credo lo considerassero un premio per il buon lavoro svolto. Per un po’ ho pensato che anche Brueder e Riesler fossero dei loro …»
«Molto probabile che tu abbia ragione. Non da subito, ovviamente – sono propenso a credere alla loro storia di sbandati fermatisi nel paese. Solo che, ovviamente, ora ritengo che il motivo reale sia stato un altro.»
«Sono stati arruolati di nuovo.» commentò cupamente lei.
«Precisamente! Se penso che mi sono lasciato prendere per il naso da loro …»
«Sospetti anche di me, vero?» mi chiese timidamente, quasi inaudibile. Tristissima.
«Ti dirò, ho sospettato di te sin dall’inizio!» iniziai, per poi mordermi la lingua vedendo le lacrime che luccicavano nei suoi occhi: «È quasi impossibile che uno sfortunato come me incontri per caso una ragazza tanto bella! Ci deve per forza essere sotto qualcosa di losco!» conclusi, sorridendo.
La presi per mano, tirandola verso la camera da letto: la nostra ricerca poteva benissimo aspettare un paio d’ore.

«Arthur, sei sveglio?»
«Sì.» Fissavo il soffitto già da qualche tempo, grato all’oscurità della notte che ci permetteva di immaginare che tutto fosse esattamente come lo volevamo anche fuori da quella stanza, solo noi due, fianco a fianco, respirando piano per non farci scoprire dal resto del mondo. Avrei dato non so cosa perché quei momenti durassero in eterno!
«Raccontami una storia, Arthur. Per favore.»
«Quale? Quella della mia disavventura con l’orso?»
«No. Questa. Raccontami tutto. Voglio … devo sapere.»
«Potrebbe non essere piacevole, Maya. Potresti non volerne più sapere di questo posto, dei tuoi amici. Di me.»
«Perché dici così?» Un fruscio tra le coltri: Maya si era girata verso di me, puntellandosi sul gomito. Potevo sentire il suo sguardo fisso su di me, immaginare i suoi occhi spalancati in attesa di cogliere … cosa? Le prove che mi sbagliavo? O che al contrario sapevo troppo? Aveva paura, lo sapevo, ma era paura per me o di me?
«In un certo senso avevi ragione, sai, quando mi hai accusato di non essere un ricercatore. Abbiamo appurato che non giunsi qui solamente per far felice un’università o non meglio definiti investitori. Neppure per semplice spirito di vendetta, se è per questo.» A quelle mie parole, la sua mano mi si posò delicatamente sul petto, sfiorando appena la pelle ancora sudata: conforto? Reazione inconsulta? Incoraggiamento? Tutto e niente: se le avessi chiesto ragione di quel gesto, probabilmente non avrebbe saputo cosa rispondere. Non mi interessava comunque, così ripresi a parlare: «Curiosità, l’ho chiamata in più di un’occasione. Corretto, anche se alquanto limitativo. Brama di sapere sarebbe una descrizione consona a quello che sono e faccio. Vedi, è il motivo principale che sta dietro alla mia disavventura giovanile che tanto ti diverte: io devo sapere, sviscerare. Col tempo, sono venuto a patti con questa mia pulsione, ne ho fatto una professione redditizia, carica di onori e soddisfazione, ma il nucleo è ancora lo stesso di quando ho rischiato di morire per dar fastidio ad un grizzly. A Baghdad, in tutti gli altri dannatissimi posti dove mi hanno spedito in giro per il mondo: sempre cercare, sciogliere tutti i nodi, a costo di disfare persino l’ordito! Patetico, se vogliamo. Hai sete?» chiesi, allungando una mano a prendere la bottiglia d’acqua che tenevo sempre sul comodino.
«No. Continua!»
«Se è questo che desideri … Ai tuoi ordini!» Trangugiai tre lunghe sorsate: col caldo che faceva quella notte, l’acqua si era intiepidita e sapeva di stantio, quasi quanto i miei pensieri. «Sai quando mi sono ostinato a portarti in gita? Il villaggio di pescatori abbandonato!» Colsi un movimento con la coda dell’occhio: forse me lo immaginai solamente, ma per me Maya aveva annuito e continuai: «Stabilito che sotto questo villaggio c’era qualcosa di importante, la mossa successiva era scoprire con precisione di cosa si trattasse …»
«Potevi anche dirmelo! O temevi che avrei fatto la spia in proposito?»
«Alla signora Leichte? Non direi. La mia era una paura diversa, molto più concreta: che tu potessi commettere qualcosa di stupido.»
«Come slogarmi una caviglia?» L’amarezza contenuta in quella domanda mi fece tremare.
«No. Come cercare di fare di tutto per evitare che potessi mettermi in pericolo.»
Tornò a sdraiarsi al mio fianco: alla fioca luce che cominciava a filtrare dalle persiane accostate, potei vedere il suo seno vibrare al ritmo accelerato del suo cuore; l’avevo spiazzata un’altra volta: cominciava a riuscirmi facile, segno che, forse, avevo iniziato a comprendere a fondo la sua complessa personalità: «Quello che dici non ha senso.» Difesa debole.
«Ha perfettamente senso, credimi. E considerando quello che hai scritto nelle tue lettere, ne ha anche di più.»
«Ma se neppure ti conoscevo!»
«È per questo che hai fatto in modo di conoscermi, quando hai saputo che avevo comprato il palazzo.»
«Ho una sola domanda: perché?» 
Testarda fino in fondo, eh?, Maya! Sorrisi. Non mi sentivo così da quando bisticciavo con mia moglie. D’impulso, passai le dita tra i suoi capelli aggrovigliati, fermandomi ogni volta che incontravo un nodo, per non farle male.
«Smettila! Non sei un pettine, tantomeno un parrucchiere!» protestò.
Mi strinsi nelle spalle, non aveva molta importanza, ai fini della nostra discussione: «La signora Leichte. Veramente un bel tipo, quella! Non crederesti mai che possa essere coinvolta in tutto questo! Eppure …»
«Continui a sviare il discorso. Non sai rispondermi, ho ragione?» mi stuzzicò. Quel suo sogghigno divertito, con quel pizzico di cattiveria che me lo rendeva così caro!
«Sbagliato! Devo ammettere che all’inizio non capivo bene neppure io. Poi mi sono ricordato quel che mi hai detto dei tuoi genitori, che ti avevano spinta a lavorare per Voirniere; hai detto che speravi che i granchi li avessero divorati prima ancora che toccassero il fondo …»
«E con questo?» recisa e distante, lo sguardo fisso al soffitto per evitare ogni seppur minimo contatto.
«Maya, tu non sei stupida: tu sapevi, presentivi. E volevi risposte, come me. Persa la sua principale fonte di introiti, madame Voirniere ti lasciò andare, e tu trovasti impiego presso un altro degli alti papaveri del paese. Del resto» commentai, saziandomi di lei, «è ben difficile dirti di no.»
Questo la fece voltare verso di me, rossa in viso: «Ancora con queste tue allusioni sconce! Sei un porco! Davvero, non so cosa mi trattenga dal piantarti qui per sempre!»
Ridacchiai: «È perché ti faccio tenerezza.»
«Pietà sarebbe il termine di gran lunga più corretto.» sbottò lei esasperata. «Comunque continuo a non vedere il nesso.»
«Non ci sono soltanto informazioni sui luoghi, in biblioteca.»
«Che vuol dire?» Guardinga, adesso.
«Non mi freghi, tesoro! Tu sai che vuol dire.» la incalzai: «Sai perché i tuoi genitori insistettero tanto per farti accogliere in casa Voirniere, perché si adoperarono con tutte le forze per fartici riammettere quando quel bastardo morì l’anno seguente.»
«IO NON HO MAI FATTO LA SPIA!» Quanta veemenza in quella dichiarazione!
«Lo so; è per questo che i tuoi, esasperati, hanno deciso di agire in proprio. E sono stati eliminati.»
«Io li avevo avvertiti. Nonostante tutto, li avevo avvertiti, dannazione a loro! Li avevo avvertiti …» Piangeva disperatamente, adesso, come una bambina. Cercò rifugio tra le mie braccia ed io la strinsi forte, per consolarla. Dopo molto tempo, le sussurrai all’orecchio: «Che ne diresti di una buona colazione?»
«Non hai terminato la tua storia.» mi rinfacciò lei, tirando su col naso.
«Posso farlo anche davanti ad un caffè e ad un piatto di uova, non credi?»
«Notizie dalla radio?»
«Qualcuna, ammiraglio: stiamo intercettando le lunghezze d’onda militari e sembra che i primi gruppi di soccorritori siano giunti sul posto.»
«Non c’è che dire, sono stati rapidi. Sonar?»
«Nessuna traccia di inseguitori, signore; se qualcuno ha visto la vampa dei razzi in partenza, non si è preoccupato di indagare sulla loro provenienza.»
«Indagheranno, indagheranno. La nostra controparte a terra?»
«Hanno trasmesso brevi messaggi in codice dalla casa di Gluchko prima di ogni lancio: semplici sequenze di coordinate e noi abbiamo risposto ogni volta con la conferma e la ripetizione dell’ordine di lanciare.»
Freisehen sollevò il gotto di caffè bollente che si era fatto portare dalla cambusa: «Signori, direi che la missione è stata un successo! I miei complimenti a tutti! Ora non ci resta che attendere. Nel frattempo … timoniere! Procedere per le coste della Danimarca, come da programma.»
Mentre beveva il caffè comodamente appoggiato al tavolo da carteggio, il nuovo facente funzione di secondo si avvicinò al superiore, visibilmente sulle spine: «Ammiraglio, posso disturbarla?»
«Vuole chiedermi del suo predecessore, il tenente?»
«Sì, signore. Come dobbiamo comportarci con lui? È stato messo agli arresti come da suoi ordini, signore, ma …»
«Nessun ma, guardiamarina: ha sollevato dubbi sulla strategia al culmine di una missione di guerra, in presenza di altri ufficiali; questo è da considerarsi codardia di fronte al nemico. Lei sa qual è la pena prevista?»
Il secondo annuì: «Fucilazione.»
«Ottimo! Si è già risposto da solo! Ovviamente non intendo rischiare la nostra copertura: quando riemergeremo in acque più tranquille, questa notte, procederemo e concederemo al nostro ex-commilitone un funerale in mare, come vuole la tradizione.»
«Sissignore!»
«Ammiraglio! Venga, presto!» Era il marconista che chiamava dopo essersi strappato la cuffia dalla testa. «È cominciata!»
«Così presto? Non me l’aspettavo! Quale radio?»
«La BBC, signore!»
«Niente meno! Hanno le prove?»
«Stanno diffondendo le nostre comunicazioni della scorsa notte, ammiraglio! Parola per parola! Quel Gluchko! Bisognerebbe fargli un monumento!»
«Un monumento, davvero!» commentò asciutto Freisehen, sogghignando non visto dietro l’orlo della tazza.
Stavamo cincischiando gli ultimi rimasugli di una colazione faraonica, io e Maya, trascinatasi per tre ore buone: tanto c’era voluto per esporle le mie teorie in maniera comprensibile, integrando le nostre rispettive supposizioni con le notizie che avevo raccolto prima del mio arrivo in Francia; l’equipaggio di sommergibilisti giapponesi che si era suicidato schiantandosi contro una corazzata sotto la costa americana, dopo aver lanciato almeno tre missili di sicura fabbricazione tedesca, doveva per forza essere quello che aveva fatto visita al bordello giusto sei anni prima. Il fatto che si fosse trattato di un diversivo: era questo che la faceva letteralmente rabbrividire. «Manovrare qualcuno a quel modo … Spenderlo come una carta da gioco …»
«Alta strategia, Maya: un diversivo credibile per stornare l’attenzione da qualcosa di più importante, il loro obiettivo principale.»
«Stai insinuando che …»
«Loro puntavano ad indebolire i commerci via mare: memori del blocco attuato contro la Germania durante la Prima Guerra Mondiale, hanno pensato bene di rinverdire la guerra di corsa sottomarina nel corso della seconda. Qualcuno dei loro strateghi più lungimiranti deve aver intuito, giustamente, che se non era possibile colpire tutti i convogli in mare, l’unica altra mossa consisteva nell’eliminare direttamente i rifornimenti alla fonte: gli Stati Uniti.»
«Guerra batteriologica?»
«Esattamente! Combattuta in maniera discreta, in gran segreto.»
«Sei sicuro di quello che dici? Hanno perso la guerra comunque!» Maya cercava strenuamente di appigliarsi alla razionalità, faticava a cogliere il quadro d’insieme.
«Vero, ma sono riusciti ad influenzare l’equilibrio globale del dopoguerra lo stesso: dove sono gli Stati Uniti, adesso? Per nostra fortuna, sono loro occorsi molti anni per i preparativi: se fossero stati pronti prima …»
«Possibile che nessuno se ne sia accorto in anticipo? Potevano essere fermati!»
«Sospetti. Vaghi, inconsistenti. Troppo per poter intraprendere un’azione efficace, soprattutto da parte di una nazione che cercava di risollevarsi da una catastrofe biologica. E poi, come avrebbero reagito i sopravvissuti, quelli che avevano perso tutto, se il governo avesse dichiarato pubblicamente che riteneva di essere stato vittima di un attacco che non aveva saputo prevenire?»
«Ma tu adesso sai, hai le prove! Conducevano esperimenti su cavie umane nella nostra cantina! Ti hanno mandato quaggiù apposta per questo, no? Cosa hai intenzione di fare? Perché farai qualcosa, vero? Lo devi a Jean, se non altro.»
Sospirai: «Non è tanto semplice, Maya. Abbiamo diverse possibilità, ovviamente, ma sostanzialmente le nostre opzioni si riducono a due: avvertire i governi coinvolti in forma privata oppure contattare i media e lasciare che siano loro a far scoppiare il caso a livello mondiale. Quali scenari nascerebbero nei due casi? Riesci ad immaginarlo?»
«Tu sì?»
«Fa parte del mio lavoro, cara, ed è uno dei motivi per cui a volte lo odio così profondamente: nel primo caso, i governi interessati potrebbero decidere di mettere tutto a tacere e risolvere la questione in incognito, molto probabilmente sul mero piano diplomatico; avremmo una strenua caccia all’uomo fino  a quando tutti i colpevoli non fossero stati catturati e, con ogni probabilità, giustiziati per crimini di guerra e contro l’umanità, ma soltanto dopo aver rivelato ogni aspetto delle ricerche e della tecnologia sviluppata per portare a termine la loro missione. Il tutto ovviamente senza clamore, in sordina. Potrebbero anche decidere che lo smacco subito sia stato troppo grave per essere perdonato in maniera tanto semplice e passare alle vie di fatto per cauterizzare la ferita inferta al loro prezioso onore, scatenando un’altra guerra, con le tutte conseguenze del caso.»
Sorbii il resto del caffè, osservando il gioco di espressioni che si rincorrevano sul volto di Maya: avevo imparato ad amare quei lineamenti leggermente asimmetrici, quel rapido mutare che le rendeva virtualmente impossibile mentire; amavo Maya, il suo aspetto, la sua dolcezza, i suoi momenti di tristezza e di sconforto …
Non volevo abbandonarla. Non volevo perderla, ma se si fosse reso necessario per salvarla lo avrei fatto all’istante! Sorrisi tristemente nel rendermene conto, ad un tempo fiero e rattristato dalla mia fermezza di propositi.
«Non ci pensare neppure: io non ti lascio!» Sollevai lo sguardo su di lei, genuinamente sorpreso da quella sua affermazione: evidentemente ero diventato altrettanto trasparente per lei quanto lei lo era diventata per me.
«Maya, potrebbe essere necessario: non voglio …»
«Inutile insistere: io non me ne vado da nessuna parte senza di te! Chiaro?» Piangeva! In maniera discreta, certo, cercando di nascondere le lacrime nella finta ricerca di qualcosa sfuggitole sul piano del tavolo, ma erano indubbiamente lacrime versate per me, per noi. Strofinandosi il naso con un polso, chiese: «E la seconda ipotesi? Potrebbe aiutarci?»
Scossi la testa, sconsolato: «Tu che ne dici? Se i fatti diventassero di dominio pubblico senza mediazione alcuna, quale pensi potrebbe essere la reazione delle masse di gente comune coinvolta? Quanto tempo trascorrerebbe prima che scoppiasse il caos? Un mese? Due? D’altra parte …»
Il mio tono la mise immediatamente sul chi vive: «Cosa? Cosa stanno pianificando, adesso?»
«Ricordi l’elleboro?»
«Il mio sfogo dopo la nostra gita? Che centra adesso? Non capisco!»
Non c’era un modo delicato per dirlo, purtroppo ed io non ci provai neppure: «Gas nervino. Una piccola perdita, oppure qualche prodotto di scarto nella sua produzione. I sintomi che presentavi erano esattamente quelli conseguenti ad un avvelenamento lieve.»
«La belladonna!»
«Un antidoto naturale. Quando ho cominciato a sospettare, me ne sono procurato un poco e te l’ho somministrato nella tisana.» «Avresti potuto dirmelo, invece di mentire spudoratamente!»
«Non volevo farti preoccupare più di quanto già non fossi. Scusa.»
Maya sogghignò nel vedere la mia espressione contrita: «Troverò il modo di fartela pagare salata in seguito, non ti preoccupare! Adesso però torniamo ai tuoi sospetti: hai detto che non avrebbero lasciato inoperativo il loro investimento per lungo tempo. Secondo te stanno per lanciare un secondo attacco con i gas nervini?»
Annuii: «È quasi sicuro: tutto concorda, se ci pensi attentamente.»
«Contro chi?»
«Questo, purtroppo, ancora non lo so.» dovetti confessarle abbacchiato: «Cioè, no, non è esatto: ho un’idea abbastanza precisa di quale sia il loro bersaglio a livello strategico, ma non saprei davvero dirti come intendano conseguirlo.»
«Ma perché non  ripetersi? Perché non utilizzare un’altra volta le loro armi batteriologiche?»
«Per non fornire ulteriori indizi a coloro che sicuramente già sospettavano qualcosa! Loro …»
La radio sino a quel momento aveva fatto da sottofondo alla nostra conversazione con un gradevole programma di musica ballabile; l’intromissione improvvisa dell’annunciatore per un aggiornamento straordinario ci colse entrambi di sorpresa:
«Edizione straordinaria! Attacco a sorpresa sovietico nel golfo di Botnia! Secondo fonti autorevoli, attorno alla mezzanotte di ieri, un sottomarino sovietico ha condotto un attacco con razzi balistici contro tre porti finlandesi vicini al confine con la Svezia! Sembra accertato che siano state utilizzate armi chimiche, in particolare gas nervini. Sono state intercettate trasmissioni in codice pochi minuti prima di ogni lancio. Non è stato possibile intercettare il sottomarino in questione, ma i governi interessati hanno già elevato una protesta formale in ambito diplomatico che …»
Maya ed io ci fissammo a lungo attraverso la tavola: un attacco con armi di tipo sovietico, l’indignazione causata dall’utilizzo di gas nervini sicuramente riconducibili al loro arsenale, comunicazioni in codice facilmente attribuibili; il bersaglio, una nazione che si era sempre opposta fieramente all’occupazione, obbligata nel dopoguerra ad un’alleanza con il colosso confinante; la vicinanza di un paese neutrale che possa sentirsi minacciato: una trappola magistrale! A nulla sarebbero servite le giustificazioni di Mosca, perché coincideva tutto troppo bene con le loro manifeste ambizioni di espandere l’egemonia sovietica in Europa e nel resto del globo; di sicuro sarebbero emersi altri particolari nel corso delle indagini, che d’altra parte era poco probabile che venissero mai intraprese: come per la prima volta, erano state distribuite ad arte prove inconfutabili di colpevolezza, sufficienti a motivare le reazioni ostili di tutti. Pensieri come lampi mi attraversarono il cervello, mentre tutti i pezzi andavano al proprio posto: alla decisa negazione del governo sovietico, destinata a cadere nel vuoto, sarebbe seguita una richiesta di indennizzo da parte degli stati via via coinvolti – perché nel frattempo ci sarebbero stati sicuramente altri attacchi – finché l’unica mossa restante per tutti sarebbe stata l’azione militare, in un teatro preparato ad arte.
«Equilibrio!» mormorai, giungendo all’ovvia conclusione. «Mi sbagliavo, dopotutto!»
«Cosa?»
«Equilibrio, Maya: la prima operazione portò all’indebolimento di un colosso mondiale. Ora si è reso necessario ristabilire l’equilibrio perduto. E per quale motivo? Per liberare Berlino!»
«Sei pazzo! Non può essere soltanto per questo! Scatenare una guerra per una città?!»
«Un simbolo, tesoro mio. Un simbolo. Per qualcuno è sufficiente.»
Ci avevano giocati, preceduti, impossibilitati ad agire: giunti a quel punto era perfettamente inutile, deleterio persino, rivelare le nostre scoperte a chicchessia, avrebbero contribuito unicamente a fomentare il nuovo conflitto che si prospettava all’orizzonte.
Non era necessario parlarne: bastava uno sguardo. Spostata la sedia accanto a Maya, restammo in silenzio ad ascoltare le notizie che si susseguivano ininterrottamente.

14 – LA VITA CONTINUA

Sono trascorsi anni da quel giorno: non ho mai lasciato il villaggio, neppure per una breve vacanza, c’era già abbastanza in quei luoghi per tenermi occupato per tutta la vita ed oltre. Poco alla volta, i protagonisti sono scomparsi, morti di morte naturale, alcuni, altri non sono stati altrettanto fortunati. Ora i bambini giocano a rincorrersi in giardino, mentre Maya li osserva, l’attenzione divisa tra loro e il mare immenso oltre la cancellata. Il segreto che condividiamo e conserviamo gelosamente ci rende impossibile lasciare questo posto: la trappola per gli orsi tesa dall’ammiraglio, da Mirò e da tutti gli altri è scattata come un congegno ad orologeria perfettamente calibrato. La domanda è: chi ha catturato? Solamente un vecchio orso siberiano? Un grizzly di mezza età? Qualcun altro che ancora non conosco? Una cosa è certa: ho smesso di ficcanasare nelle tane di mezzo mondo.
   
 
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