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Autore: wanderingheath    13/10/2018    0 recensioni
Norwall, Connecticut.
Melanie Prescott, nata e cresciuta tra le grandi vie di scorrimento in periferia, diventa l'obiettivo preferito di Cindy Butler e delle sue sottoposte. Abbandonata a se stessa nella scuola più prestigiosa della città, osserva con dolore legami ormai strappati e l'instabile equilibrio raggiunto dalla madre.
Dall'altro lato del vetro c'è Daphne Barnett, con gli storici amici Logan e James, che non riesce a trovare la propria voce e si aggrappa ad ideali di amori fittizi. E mentre lei si consuma per Ethan Sallinger, ragazzo travolto dalla corrente di eventi drammatici, Isaac Barnett finisce nella rete di criminali che opera nel "Black Market"; rete che coinvolge anche gli abitanti della società dabbene, baluardo di una finta integrità.
In questo labirinto sporco ed intricato si snodano le vite di comuni adolescenti, equilibristi in bilico tra prime esperienze amorose, relazioni interpersonali danneggiate, un passato ombroso e un futuro sbiadito. Soli in balìa di forze esterne, i ragazzi si ritroveranno annodati alle vicende di Norwall e alla migliore detective da poco tornata in città: Ellen Ward.
Otto drammi diversi ma non distanti, otto vite parallele che troveranno un punto di incontro per conoscersi e riconoscersi negli altri.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 3.
 
Modern Sunsets
 

«Someone like you and all you know
and how you speak.
Countless lovers under cover of the street
You know that I could use somebody
You know that I could use somebody
someone like you.»

 
 
 
 
 
   10:09 a.m. – Marlow Lane
 
 
 
 
 
Riaprì gli occhi a fatica.
Il peso della sbornia iniziava a farsi sentire: il mucchietto di mattoni accatastati sulla testa, la fronte pulsante, mentre con la coda dell’occhio intravedeva le pareti che sfrecciavano, provando inutilmente ad arginare la stanza.
Le era sufficiente tentare di mettersi a sedere per ritrovarsi su di un mare in piena, e tutto quell’ondeggiare la annientava, schiacciandola di nuovo sul cuscino di pietra e sul materasso ancora più scomodo.
Non ricordava come ci fosse tornata, a casa.
Casa, poi. Come se potesse considerare quel posto casa sua.
Accostò i palmi delle mani al capo, massaggiandosi lentamente le tempie.
Un bilocale di pochi metri quadri, mobili di una di quelle grandi aziende d’arredamento svedesi, angolo cottura dotato di forno a microonde, moquette e una libreria miniaturizzata.
Sintetico, funzionale, minimale: così le era stato presentato al momento del trasferimento. 
Sul funzionale non avevano mentito, per il resto le pareva solo molto freddo ed anonimo.
Era certa che Mia le avrebbe proposto almeno venti modi diversi per renderlo più accogliente  e confortevole – o chic, secondo le stupidissime espressioni francesi che adorava utilizzare – non appena vi avesse messo piede. Ma tutta quella roba – i quadri, i tappeti ricamati, centrini e tendaggi – non era per lei.
L’avrebbe lasciato così, esattamente come l’aveva trovato. Alla fine, costituiva solo un guscio, un luogo in cui appoggiarsi momentaneamente, poi avrebbe cercato una nuova sistemazione.
L’unico aspetto positivo era la vista sulla spiaggia, anche se già sapeva che non sarebbe mai andata a tuffarsi  in mare; no, non lì a Norwall, dove le acque sembravano cariche di nevischio perfino in estate.
Il trillo di una chiamata in arrivo le trapanò il cervello.
Sperava di poter lasciar squillare a vuoto, ma chiunque la stesse cercando si rivelò piuttosto ostinato.
Mugugnò qualcosa, passandosi le mani sul volto. Avrebbe cambiato quella dannata suoneria, prima o poi, le dava ai nervi ogni volta che la sentiva.
Scalciò le lenzuola sul fondo, rigirandosi a fatica nel letto.
Fortunatamente la Ellen della sera precedente aveva pensato di lasciare il telefono a portata, sul comodino.
«Pronto?»
Non aveva controllato il nome del mittente, ma rimase doppiamente sorpresa nel riconoscere una voce al tempo stesso familiare e persa nel tempo. Il suo stomaco si avvoltolò su se stesso in un triplo salto mortale.
Cos’era quello stupido nodo alla gola?
«Parlo con Ellen Ward?»
«S-sono io.»
Si umettò le labbra, passando in rassegna in una frazione di secondo i motivi che potevano nascondersi dietro quell’insolita chiamata.
«Dio, da quanto tempo! Non sapevo nemmeno se questo numero fosse ancora valido.»
Era frizzante, spumeggiante, fresco e disinvolto. Insomma, non era cambiato di una virgola.
«Nat?»
«C’est moi!», esclamò divertito. «Incredibile, Ellen Ward di nuovo a Norwall – o  forse dovrei chiamarti detective ora?»
Un caleidoscopio di suoni, immagini e ricordi si accatastò nella sua memoria, costringendola ad abbassare le palpebre e chiudere fuori il resto.
La brezza estiva, granelli dorati che sfuggivano fra le dita, l’applauso scrosciante il giorno del diploma, la stretta di mano del sergente Judd Horne, la targhetta sulla scrivania che riportava il suo nome, la voce della madre che la richiamava in casa dal giardino.
L’aveva sognata di nuovo, quella notte.
Assurdo, quasi paradossale, che ricordasse nitidamente il suo sogno da ubriaca, ma non riuscisse a ricomporre gli spostamenti che l’avevano riportata nel suo quartiere da Lowhood.
«Ellen può bastare», esalò in un sospiro.
Una pausa. Nat stava riflettendo.
Riusciva a immaginarselo, impacchettato in qualche polo firmata, nei suoi pantaloni di marca, seduto da qualche parte con quegli occhiali da sole che lo facevano sentire più attraente di quanto già non fosse.
Quella, però, era l’immagine che si era costruita controllando il suo profilo su Instagram, scorrendo fra le innumerevoli foto che lo ritraevano sullo yacht di famiglia, solo o in compagnia, con pregiati bicchieri di vino bianco, i lunghi capelli sparsi al vento che rimandavano riflessi ambrati nella luce serale.
Chissà adesso dove si trovava, cosa stava facendo.
«Stai bene? Ti sento devastata.»
«Mh?»
Nat ridacchiò nel microfono.
«Non dirmi che ti ho svegliata.»
Ellen si spostò all’altro capo del matrimoniale, sollevando la sveglia squadrata dal mobile.
Erano già le dieci del mattino: la sua prima mattinata a Norwall, l’aveva annegata nei postumi della sbornia.
«N-no! Tranquillo, ho la sveglia presto. È solo che stamattina faccio fatica a carburare.»
«Capisco», soffiò l’altro. «Anch’io mi annoio parecchio nel nuovo ufficio.»
Ad Ellen tutto ciò suonava stonante: Nathaniel era stato uno stakanovista fin da bambino, il sogno di divenire avvocato l’aveva partorito all’età di sette anni e perseguito con una costanza esemplare. Immaginarlo stanco, anzi annoiato, a Norwall le sembrava impossibile.
Si limitò a replicare con un poco convinto: «Ah sì?»
«Già.»
La conversazione, apparentemente destinata ad arenarsi nelle loro riflessioni mute, fu risollevata da una proposta inaspettata. «Allora, Det. Ward, posso portarti a bere qualcosa, una di queste sere?»
Al solo pensiero di altro alcool, Ellen avvertì un rigurgito nell’esofago.
«O sei troppo presa da rapine e terribili assassini?», Nat terminò sulla solita nota ironica.
«A dire il vero, mi devo ancora sistemare», ammise lei. «Però possiamo organizzare qualcosa. Anche Mia sicuramente vorrà incontrarmi…»
Nat si ravvivò ulteriormente.
«Perfetto! Allora ci sentiamo presto, Detective Ward.»
La donna riagganciò con un sospiro.
Ellen andava più che bene; già in troppi la chiamavano con quell’ufficioso “Detective”, tanto che era arrivata a perdere il significato della parola, considerandolo un semplice suono.
Norwall l’avrebbe distrutta, se lo sentiva.
 


 
*   *   *
 
 
 
Il Silver Park era rimasto identico dalla loro ultima visita.
L’estate sembrava essere rimasta impigliata lì, tra i rami di qualche albero, all’ombra fresca e riposante.
Mentre a Norwall regnava l’autunno, piccole gocce di mesi dimenticati si trovavano racchiuse oltre le mura di cinta del parco, uno dei polmoni verdi più ampi del quartiere.
Come ogni spazio pubblico a Ginger Blooms, il Silver era curatissimo centimetro per centimetro.
L’area da picnic si stendeva lungo un declivio soleggiato e abbracciava l’unico laghetto presente, un bacino idrico artificiale costruito nel 1993.
A quell’ora del pomeriggio la fauna era costituita perlopiù da bambini usciti da scuola in compagnia dei genitori, passeggiatori solitari, cani senza guinzaglio e anziani ritrovatisi per giocare nell’angolo degli scacchi. Vi era un’insolita quiete, un’atmosfera calda da serra.
«Dovevamo portare un pallone.»
Jason si lamentava per qualunque sciocchezza gli passasse per la testa. Travis gli indirizzò un’occhiata di rimprovero, prendendo una manciata di patatine dal sacchetto, per poi schiaffarle in faccia all’amico.
«Mangiati questa roba e non scocciare.»
James, che se ne stava supino sul telone rattoppato procurato da Logan, le scarpe gettate in un angolo e piedi all’aria, scoppiò in una fragorosa risata.
Il sole stava quasi tramontando dietro il profilo del lago, i raggi scivolavano sulla superficie disegnandovi sopra delle piccole chiazze argentate. Daphne inspirò a pieni polmoni l’aria, godendosi il debole venticello autunnale che le avvolgeva i capelli sulle spalle.
Se ne rimaneva seduta ad un angolo del telo, le braccia adagiate oltre la schiena, il capo reclinato all’indietro.
Il pomeriggio le era sembrato estremamente lungo all’inizio, quando non riusciva a spiccicare parola e si nutriva con famelica disperazione delle conversazioni altrui; adesso però rimpiangeva che stesse per terminare, sospingendola verso la normalità della propria vita.
La sua porzione di torta era rimasta nel piattino di plastica, gli sbuffi di panna ancora intatti.
Cercava di ignorare a tutti i costi il fastidioso martellare nella gabbia toracica e i suoni ovattati delle pulsazioni. Le si era stretto lo stomaco da quando Ethan Sallinger si era unito al gruppo, il solito paio di jeans sdruciti, la maglietta celestina con qualche stampa sopra, le scarpe consunte per metà slacciate.
C’era un filo di trascuratezza che lo avvolgeva; niente che lo facesse apparire sciatto, ma quanto bastava per accompagnare quell’aria malinconica che si trascinava negli occhi. Quanto bastava perché il suo cuore, da un paio di anni, accelerasse i battiti non appena ne individuava il profilo tra la folla – e sarebbe stata in grado di riconoscerlo ovunque.
«Hey, dico,» osservò James, tirandosi a sedere d’improvviso, «sentite anche voi che manca qualcosa a questa serata?»
«Per niente», replicò Logan. «Abbiamo perfino la torta grazie a Daphne.»
Travis diede il cinque alla ragazza, bofonchiando qualcosa su quanto fosse santa e meritasse una statua.
«No, no,» James non lasciò che il suo entusiasmo venisse minimizzato, «intendo un’altra cosa.»
Jason indicò Austin, il nuovo arrivato. «Austin qua è astemio, per cui niente birra.»
La ragione per cui Austin fosse tra loro, al compleanno di un ragazzo che conosceva a malapena, era da ricercare nelle pratiche di buon vicinato eseguite dalla madre di Logan.
La signora Woods si era preoccupata per l’infelice sorte del loro vicino di casa, di cui la mamma tesseva le lodi, commiserandolo. Talentuoso, acuto, studente modello: sembrava che Austin fosse da invidiare sotto ogni aspetto e non ci si capacitava del perché non avesse amici.
Adesso, quel perché era chiaro a tutti.
Un infante intrappolato nel corpo da sedicenne: questo era Austin Grayben.
Li aveva seguiti dall’uscita dell’Arcadian sgambettando dietro a Logan come un animale da compagnia o una scimmia ammaestrata, tutto profumato e infiocchettato nel completo scelto dalla mamma.
Parlava in continuazione, senza curarsi di interrompere gli altri, emetteva improvvise e immotivate urla, era manesco ed egoista, affatto interessato ai festeggiamenti o ad altri esseri umani all’infuori di sè.
I suoi unici desideri, da quando erano arrivati al parco, erano stati di mangiare la torta e tuffarsi nel laghetto, possibilmente in quest’ordine. Logan aveva sospirato, spiegando agli amici che la sua compagnia era in via del tutto eccezionale; accoglierlo per un pomeriggio nel gruppo restituiva a lui e a sua madre un senso di umana filantropia. Provava quasi commiserazione per quell’essere isolato dal resto del mondo.
«No, nemmeno la birra», proseguì James. Agguantato il proprio smartphone, lo sventolò sotto gli occhi dei presenti, un sorrisetto soddisfatto a incurvargli le labbra. «Musica!»
Gli altri tre si esibirono in una smorfia insofferente, lamentandosi dei gusti musicali del ragazzo.
«Hey, io ascolto roba forte, grandi classici!», si difese l’altro.
«Sì, ma sul telefono conservi il peggio del trash», ridacchiò Logan.
Il giovane, però, si era già lanciato in un’appassionata ricerca nei meandri della memoria interna.
Austin intanto se ne stava a spulciare una margheritina selvatica in solitudine, raccolto in meditazioni troppo profonde per essere condivise. Travis e Jason si accaparrarono un’altra fetta di torta ciascuno.
«Ma l’hai fatta tu, Dee-Dee?», domandò il secondo con interesse.
Daphne, rannicchiata in una posizione comoda con le gambe acciambellate, avvampò inspiegabilmente e si coprì il viso con una mano, scuotendo piano il capo.
«Logan,» sibilò, «l’hai attaccato anche a loro?!»
«E dai, è un soprannome carino», si difese quello con una scrollata di spalle.
Daphne non sembrava affatto del suo stesso parere.
Gliel’aveva affibbiato anni prima, quando frequentavano le medie e lei passava nei corridoi strisciando lungo i muri con lo sguardo basso. Per quanto le orribili camicette a scacchi con pizzo fossero state ormai incenerite, Logan non se le sarebbe mai scordate.
«Ma poi, da dove è nato?», s’informò Jason.
Logan si strinse nuovamente nelle spalle. «Non so, così per caso. Daffy mi ricordava troppo Daffy Duck e quindi era da escludere: avrei riso ogni volta che la vedevo.»
Gli altri si unirono alla sua risata, annuendo a loro volta.
Daphne appallottolò l’involucro con cui avevano coperto biscotti e tartine e lo tirò addosso al compagno, centrando in pieno una spalla.
Ethan scoppiò a ridere ancora più fragorosamente. «Bel colpo!»
La conferma da parte della vittima fu immediata: «Già, bel colpo, Dee-Dee
Si meritò una linguaccia in risposta.
Fu James a irrompere nella conversazione, riproducendo la canzone a tutto volume.
Si era alzato in piedi e stava improvvisando un balletto, scuotendo le anche al ritmo del coro.
La melodia fu captata e riconosciuta all’istante dall’intero gruppo.
«No, James, ti prego!», implorò Jason.
Quello era già partito e non lo stava più ascoltando.
Nuova Brigitte Bardot, James si comportava come se il Silver Park fosse il suo palcoscenico e gli occhi degli amici i riflettori pronti a caricare ulteriormente la sua energia.
Si impossessò di un legnetto a terra, usandolo come microfono.
Gli altri scattarono in piedi non appena il ragazzo intonò l’attacco della canzone.
«This hit, that ice cold, Michelle Pfeiffer, that white gold.»
La voce angelica di James era perfettamente intonata con quella di Bruno Mars; nessuna novità per il cantante dei Wild Spirits of the Seventh Splendor.
Il nome, l’avevano ricostruito tassello dopo tassello come in un mosaico, fino ad ottenere una proposta pomposa, allitterata e nonsense che aveva conquistato i loro cuori.
Durante le esibizioni ristrette della band, James, che era il front-man, rubava sempre la scena a tutti gli altri, non solo con i suoi movimenti eccessivamente teatrali, ma anche grazie ad un ottimo senso del ritmo e ad un dono vocalico spettacolare. Tutti coloro che l’avevano sentito cantare almeno una volta concordavano nel ritenerlo un giovane prodigio non ancora scoperto da qualche talent scout.
Il particolare più straordinario era quanto risultasse accattivante al suo piccolo pubblico, senza una vera motivazione. James semplicemente teneva gli sguardi fissi su di sé.
Adesso gli altri avevano preso a fargli da coro, accompagnando gli assoli di Bruno Mars.
L’atmosfera era cambiata nel giro di pochi istanti e anche i passanti in lontananza si fermavano a osservare la scena con curiosità e un briciolo di perplessità.
Quasi traesse carburante da quelle attenzioni aggiuntive, James alzò ulteriormente il tono.
L’unica rimasta seduta sul telone era Daphne; il viso affondato nei palmi delle mani, avrebbe preferito sprofondare al centro della terra piuttosto che essere così terribilmente cosciente di ciò che avveniva intorno.
«Girls hit your hallelujah, girls hit your halleluljah, ‘cause uptown funk gon’ give it to you
Logan le si avvicinò tendendo una mano, mentre la ragazza scuoteva il capo convulsamente, come seduta su di una sedia elettrica. Il teatrino di James diveniva più intenso di secondo in secondo, in un’escalation di trovate pirotecniche supportate dal resto del gruppo: ora si arrampicava sul tronco di un albero, sperando di trovare uno spazio da cui arringare ai suoi fans, ora saltellava sul posto sollecitando gli altri ad imitarlo.
Daphne si lasciò sfuggire una risatina di imbarazzo, mentre la compagnia abbozzava un balletto.
Logan non voleva mollare la presa: «Dai, Dee-Dee. Balla con noi.»
«No, davvero, Logan, sono una frana. E poi ci guardano tutti.»
Ethan si accostò ai due, una mano sprofondata nella tasca dei jeans, l’altra speculare a quella dell’amico. Le stava facendo cenno di alzarsi.
James gridava a squarciagola: «Don’t believe me just watch!»
«No, dai ragazzi. Non mi va», Daphne iniziava a spazientirsi. Non si sarebbe messa a ballare davanti a loro e agli sconosciuti che attraversavano indisturbati il parco. Odiava il modo in cui il suo corpo ondeggiava al ritmo della musica, la sensazione di cinquanta paia d’occhi incollati su di sé, la maniera impacciata con cui provava ad arrangiare le mani non sapendo assolutamente cosa farvi.
«Daphne, è il mio compleanno», le ricordò l’altro. «Non puoi tirarti indietro.»
«Non so ballare e lo sai.»
Ethan le rivolse uno sguardo d’incoraggiamento. «Che ti importa? Nessuno sa cosa fa quando balla. Dai, ci stiamo solo divertendo.»
Prima che la ragazza potesse replicare, l’avevano afferrata per entrambe le braccia e tirata in piedi, ignorando deliberatamente le proteste che si indebolivano mano a mano che raggiungevano il resto del gruppo.
James saltò perfino giù dal proprio tronco di legno, muovendosi a tempo e fomentando la combriccola.
«Un mito, cazzo!», sbottò Austin entusiasta. «Sei senza dubbi il mio nuovo mito.»
L’altro gli rivolse un occhiolino, per poi avvicinarsi a Daphne e afferrarla per la vita, tirandola a sé. Avvicinava alternativamente il finto microfono a sé e alle labbra dell’amica, attendendo risposta al suo: «I’m too hot! Called a police and a fireman.»
Il viso di Daphne era in procinto di esplodere, infiammato fin sulla punta del naso. Nonostante tutto, si lasciò trascinare dal giovane che continuava a urlare anche agli sconosciuti sullo sfondo del parco.
Il cellulare adesso giaceva sul telone, mera base musicale alle corde vocali dell’intera combriccola.
«Come on, dance, jump on it. If you sexy then flaunt it, if you’re freaky then own it
«James, sei un caso perso», ridacchiò Daphne.
L’altro si limitò a gettare via il legnetto-microfono e ad intrecciare la propria mano a quella della compagna, senza mai smettere di canticchiare il ritornello, imponendole intanto di ondeggiare avanti e indietro insieme a lui.
Volta al termine la canzone, qualche passante proruppe in un applauso a cui Travis e Jason risposero in lontananza con un piccolo inchino. La traccia musicale fu interrotta e il gruppo si riaccomodò sul telone a riprendere fiato.
L’esclamazione di Jason richiamò l’attenzione di tutti. «Ragazzi, guardate che tramonto!»
Il cielo aveva assunto delle tonalità delicate, rabbuiandosi negli angoli più distanti, regalando un tramonto appena nuvoloso alla giornata trascorsa.
Mentre Travis e Austin discutevano sulle sfumature cromatiche, Daphne accostò il mento alle ginocchia allacciate al petto. Osservava l’intera scena senza fasi notare. Sbirciava timidamente, quasi con remissività, nel timore di avvicinarsi troppo e rovinare quella strana sintonia che si era venuta a creare.
Rubava frammenti di tempo, pezzetti di immagine da conservare per le ore insonni che avrebbe trascorso tra le coperte, a rianalizzare le mosse sbagliate compiute durante la giornata.
Era nel cuore della notte che diveniva difficile, quasi insostenibile, tutto. Si ammassava, pesava, mutava forma e le ricordava il prezzo di qualche momento di spensieratezza.
Adesso però, quel tutto era racchiuso in uno strano equilibrio, come all’interno di una bolla di sapone o sotto una campana di vetro in cui si sentiva protetta, accolta, coinvolta. Non le capitava mai di provare simili sensazioni in compagnia di Alyssa.
James, afferrata la custodia scura, ne estrasse una chitarra classica e si accovacciò sul tappeto di tessuto. Proponeva di suonare qualcosa di acustico, idea accolta dal resto dei presenti.
I capannelli di gente all’orizzonte si erano dissolti nel nulla.
«Cosa possiamo suonare?»
Austin si picchiettò l’indice sul mento, in una posa di finta riflessione. Fu Ethan però ad avanzare la migliore alternativa: la decisione doveva ricadere sul festeggiato.
«Assolutamente,» concordò Travis, «anzi, prendi anche la chitarra. Tanto sei tu il nostro musicista preferito.»
Logan la accolse tra le braccia con la delicatezza di chi trattava con gli strumenti da tempo immemore, come se stesse sollevando per la prima volta dalla culla un bambino appena nato.
Le lunghe falangi assunsero una posizione neutrale, accarezzando appena le corde.
«Cosa vi suono?», ripropose con un sorrisetto accennato.
Daphne lo guardò intensamente. «I Kings of Leon
La protesta di Jason fu immediata e sonora: «Ma che roba ti ascolti, Daphne?»
«Dai,» si aggiunse Travis, «dopo Uptown Funk va bene qualunque cosa.»
Logan accettò, estraendo dalla tasca posteriore dei jeans un plettro arancione.
Ne portava sempre uno dietro, per qualunque esigenza musicale si potesse presentare.
«D’accordo, e Kings of Leon sia!»
La scelta si orientò verso uno dei pezzi più conosciuti della band, di cui tutti conoscevano il testo a furia di sentirlo alla radio e nei negozi in giro per la città.
Al festeggiato venne affidato l’onere, nonché l’onore, dell’assolo iniziale. Il ragazzo si schiarì la voce ed accordò lo strumento, per poi iniziare sotto lo sguardo attento di tutti. Logan non soleva cantare, se non come coro o  durante le prove della band in accompagnamento a James; faceva uno strano effetto sentirlo esibirsi da solista.
La sua voce differiva del tutto da quella dell’amico: meno cristallina e angelicata, possedeva una venatura rauca, quasi dolceamara, eppure risultava piacevolissima all’ascolto.
Inoltre, mentre James era consapevole del proprio talento, Logan pareva del tutto all’oscuro del potenziale che nascondeva sottocoperta, rivelando una piccola dose di imbarazzo nell’attacco. Al di là di ogni incertezza, tuttavia, si affacciava tutta la passione che racchiudeva in un semplice hobby.      
«I’ve been roaming around, always looking down at all I see. Painted faces fill the places I can’t reach.»
Gli altri tenevano il ritmo in maniera tribale, battendo mani e piedi ora sulle ginocchia ora sul telone o contro il terriccio.
«You know that I can use somebody.»
Piegato com’era sulla chitarra, la fronte aggrottata e l’espressione concentrata, dalla scollatura della maglietta nera emerse il ciondolo a forma di dente di lupo, solo un vezzo estetico che il giovane si permetteva per una questione allacciata al passato. Il suo vegetarianismo doveva affondare le radici in qualche casella della propria infanzia. 
«Someone like you and all you know and how you speak
Il suo sguardo incrociò quello di Daphne, che gli restituì un sorriso spontaneo.
Nel secondo successivo, si aggiunsero le voci di James, Travis e Jason.
Daphne si concesse un’occhiata obliqua, che incapsulava l’infrangersi degli ultimi bagliori sulla fronte di Ethan; il modo in cui la luce giocava con il colore dei suoi capelli, mescolando oro, nocciola, cenere e grano, le mozzava il fiato. Appariva coinvolto dall’intera situazione, ma al tempo stesso la sua attenzione era risucchiata in chissà quale pensiero distante.
Avvertì una stretta alle viscere. Sospirò appena e si aggregò al resto dei coristi, tenendo per sé un accenno di sorriso. «You know that I could use somebody. Someone like you.»
 
 
*   *   *
 
 
 
Melanie abbandonò il proprio panino nel piatto, nauseata.
Se c’era una cosa che non poteva soffrire della mensa scolastica, quella era senza dubbio il sapore di plastica che ogni alimento conservava. Solamente i budini si salvavano da quella strage di omologazione sensoriale.
Mangiare una frittata o della carne o un trancio di pizza, lì era la stessa cosa.
Se soltanto avesse avuto più tempo per se stessa la mattina, si sarebbe portata il pranzo nella cartella. Farselo preparare dalla zia era fuori discussione, ammesso poi che sapesse cucinare qualcos’altro che esulasse dal solito menù di zuppe e passati di verdura.
A volte, aveva l’impressione che non vi fosse un vero legame di parentela con la zia Lydia. Si chiedeva come fosse possibile per due sorelle essere educate in modo così divergente, indirizzando l’una verso un sentiero di instabilità e aggrovigliamento, l’altra verso certezze ferme e abitudini perenni.
Non sembravano neppure cresciute sotto lo stesso tetto.
Si guardò attorno, gustando gli ultimi attimi di libertà prima del termine della pausa pranzo.
Le piaceva mangiare da sola. Certo, a volte avvertiva un lumicino, come una puntura d’insetto, nel fondo del petto che le dipingeva scenari di condivisione e socialità; ma poi si ricordava che avrebbe dovuto parlare in continuazione – o peggio, farsi sommergere da valanghe di chiacchiere altrui – e la consapevolezza di non poterlo tollerare l’angosciava.
L’arte dei rapporti sociali, non la coltivava da tempo ed era certa di aver perso la mano, di non riuscire a stare con altre persone per più di dieci minuti. La relazione con sua madre e con zia Lydia le erano sufficienti, prosciugando già metà della propria carica giornaliera.
Quasi ad averle letto nel pensiero, un gruppo di cinque ragazze si avvicinò al suo tavolo.
Tutte sintonizzate su di una stessa andatura, vestite in maniera identica, apparivano come copie di una copia di un brutto modello. Melanie le squadrò con diffidenza.
Cindy Butler fece un passo verso di lei, le mani sui fianchi, un’aria di finta contrizione sul volto.
Un cerotto color carne le solcava la sella del naso, un paio di bottoncini d’ovatta ad ostruirle le narici.
Doveva sanguinarle ancora, evidentemente.
«Ciao, Prescott.»
«Cindy», rispose con un cenno del mento.
«Volevo…», tossicchiò appena con lo sguardo che spaziava altrove, «volevo chiederti scusa per l’altro giorno. Mi sono comportata da sciocca.»
Melanie passò in rassegna una serie di aggettivi che sarebbero stati più adatti, ma preferì mordersi un labbro e rimanere in ascolto. Si rendeva conto perfettamente che era tutta una pagliacciata, una pantomima a cui la ragazza era stata costretta – magari dall’istruttore o dai genitori – per salvaguardare la reputazione virtuosa.
Avrebbe fatto il suo gioco, giusto per vedere fin dove era disposta a spingersi. Impostò la voce, conformandola a quella dell’interlocutrice, com’era abituata a fare nel trattare con sua madre.
«Oh, non preoccuparti,» minimizzò, «è stata solo un’incomprensione.»
Una sincera manifestazione di sorpresa. Forse, Cindy non si aspettava una simile arrendevolezza.
«Ah..bene,» si voltò a cercare il supporto delle sue amiche, «tutto risolto allora?»
Melanie pensò perfino di sorriderle, ma la repulsione che provava glielo impedì.  «Tutto risolto.»
Tra le arruolate nell’esercito Butler, un’unica ragazza si distingueva. A differenza degli altri doppioni, portava una semplice gonnellina al ginocchio, di un color rosa antico e dal sapore vintage; le spalle minute erano raccolte in un maglioncino azzurro polvere, da cui spuntava il colletto di una camicia linda.
Melanie si sforzò di spostare lo sguardo altrove, per non risultare più inquietante di quanto già non fosse considerata.
«Senti,» riprese Cindy con poca convinzione, «ti andrebbe di…ehm…venire alla mia festa?»
Un invito? Aveva appena ricevuto un invito ad una festa dei Butler?
La osservò allibita, senza saper cosa rispondere. Il suo cervello pareva aver collassato, nessun segnale di reattività da parte del sistema centrale.
Era uno scherzo? L’ennesima occasione per umiliarla?
Melanie allontanò il pensiero intrusivo di ricalcare le vesti della protagonista di un romanzo di Stephen King, Carrie. Nessuno aveva tempo o interesse nell’architettare un piano diabolico contro di lei. Doveva smetterla con tutte quelle paranoie – e con i libri dell’orrore.
«Tra una settimana è il mio compleanno,» proseguì la giovane, «do un party al Galaxy. Ti va di venire?»
Il Galaxy. Beh, non si sarebbe aspettata nulla di meno dalla giovane rampolla dei Butler. Di sicuro i genitori non avrebbero badato a spese per assicurarle la festa più spettacolare del secolo.
Nemmeno nei suoi più remoti sogni avrebbe mai potuto sognare di entrare nell’hotel lussuoso per eccellenza a Ginger Blooms. In definitiva, voleva rifiutare con tutta se stessa.
Poi, Cindy aggiunse la parolina magica: «Mia madre ci tiene così tanto.»
Ed ecco spiegata la profusione di gentilezza e scuse. Proprio come s’immaginava, dietro quella tela di affabilità si celavano i progetti megalomani materni, troppo preoccupati di mantenere alto il nome della famiglia.
Sua figlia in una rissa? Ma no, certo che no. Doveva esserci stato un errore. Anzi, Cindy era talmente buona da dispensare inviti anche ai più bisognosi.
Intuito il muro dell’interlocutrice, Cindy si affrettò a dire: «Non accetto un no come risposta.»
Melanie si prese il suo tempo. Non le rimanevano molte scelte, d’altronde.
Come un magnete, la sua attenzione fu attirata di nuovo dalla giovane che se ne stava in silenzio, alle spalle di Cindy. I capelli dorati erano raccolti in una coda alta che le lasciava scoperto il viso pulito, poco truccato, evidenziando la sagoma affusolata degli occhi.
L’aveva già notata un paio di volte nei corridoi, sempre al seguito del suo capetto, rimanendone puntualmente affascinata. Aveva dei modi così discordi dall’armata Butler, un’eleganza e raffinatezza uniche nel loro genere. Melanie si rivolse direttamente a lei.
«Tu ci sarai?»
La sconosciuta trasalì appena. Non si aspettava di dover partecipare alla discussione.
«Certo,» Cindy appariva turbata, «certo che ci sarà. »
«Tutte noi ci saremo», confermò Ronnie Marbles con una malcelata aria di sfida.
Melanie ignorò le loro risposte. Le sue iridi erano incatenate a quelle chiare della giovane; le pareva impossibile adesso contemplare altro al di fuori delle screziature verdi che cingevano quel celeste intenso. Le ricordavano corolle di fiori.
«Quindi…», si intromise Cindy, «posso confermare la tua presenza?»
Dopo un lungo silenzio, l’altra annuì. «Sì. Sì, contami pure.»
 

 
   
 
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