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Autore: Happy_Pumpkin    14/10/2018    2 recensioni
Il detective Shisui Underwood è stato mandato alla città di Innsmouth per risolvere uno strano caso di omicidio che vede presumibilmente coinvolta una setta locale. Ma già a partire dalla notte stessa ha modo di ricredersi ancora sulla realtà dietro gli oscuri avvenimenti della cittadina popolata da misteriosi personaggi.
Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Parole. Nomi. Suoni gutturali che sembravano vomitati dalle profondità della terra e delle acque abissali. Le sentivo nella testa, sibilanti, gorgheggianti nelle orecchie, mi avvolgevano la lingua, stringendomela come per mozzarmela.

[Accenni ShiIta | Presenza di luoghi e nomi ispirati a H.P. Lovecraft]
Fanfiction partecipante alla challenge 20.000 storie sotto i mari indetta dal gruppo SasuNaru Fanfiction Italia
Genere: Dark, Mistero, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Itachi, Shisui Uchiha
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
Capitoli:
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Abisso


III
Luce




Giungemmo presso la zona costiera di fronte a Nodens nel tardo pomeriggio. Lungo la strada ci eravamo fermati a mangiare qualcosa; meglio, io avevo mangiato ma Itachi si era limitato a bere, perché sembrava indifferente al cibo, come se non gli riguardasse.

Nonostante l’acqua e il fatto che si fosse bagnato sotto uno dei lavandini presso le stazioni di servizio, vedevo chiaramente la pelle seccarsi: le minuscole scaglie che rendevano la superficie simile a un caleidoscopio di colori erano ora spente, prosciugate dalla luce del sole e da un’idratazione evidentemente non sufficiente.
Parlammo poco, anche se io sentii una sorta di fastidio in gola, quasi un raschiare alla base dell’epiglottide e poi giù, lungo la trachea, quindi per colpa della mia tosse nervosa il viaggio non era proseguito nel più completo silenzio.
Fermai la macchina in un parcheggio poco distante dal mare. Non dovetti nemmeno faticare per trovare posto perché era totalmente deserto: sembrava quasi che quella zona costiera fosse nota solo a noi, persino i cartelli segnaletici posti qualche chilometro più indietro erano sbiaditi e scavati dalla ruggine, come se a nessuno importasse mantenere la conoscenza di quei luoghi.
Non appena uscimmo dall’auto mi sembrò che Itachi, respirando l’aria odorosa di salsedine, avesse ripreso vita, simile a una scarica elettrica sparata in pieno petto, capace di far ripartire un cuore. Provai una fitta al torace, di sollievo misto a disagio, un disagio che mi lambiva anche la gola come sabbia divorata fino a soffocarmi. Appoggiai per riflesso il palmo della mano sulla tasca, dove c’era il leggero rigonfiamento del fazzoletto con all’interno il frammento di vetro; ovunque fossimo andati, anche in mezzo all’acqua dove la pistola non poteva sparare, avrei comunque avuto un’arma per difendermi. Non esattamente il meglio del meglio, ma dovevo farmelo bastare.
Spostai lo sguardo verso Nodens: c’era bassa marea, dunque in realtà l’isola era collegata alla terraferma da una sottile striscia di terra sabbiosa che si allungava per interi chilometri, con in lontananza barche da pesca di legno consumato dal sale arenate in pozze d’acqua. Si intravedevano alghe rattrappite e molluschi rifugiati nelle loro conchiglie che avanzavano pigri, in attesa di venire lentamente lambiti dal mare.
Al fondo del percorso sabbioso si stagliava l’isola che pareva concentrare su di sé le ombre e le nuvole della sera prossima, regalando scorci di una notte precoce ed edifici dal profilo aguzzo, frastagliato come i pendii scoscesi che finivano a strapiombo nelle onde spumose. Attorno, invece, il sole in procinto di affondare all’orizzonte regalava ancora raggi dalle sfumature rossastre e aranciate, portando l’acqua a risplendere simile a un cesto pieno di cristalli.
Senza dire una parola Itachi si tolse le scarpe, lasciandole ordinatamente disposte all’inizio della strada, poi cominciò ad avanzare. Lo seguii da breve distanza, guardando la sua figura alta e longilinea stagliarsi su quell’infinito percorso che poche ore prima apparteneva al mare, circondata dall’ultimo sole capace di far risplendere ancora le sue scaglie disidratate e i capelli che raccoglievano in sé vita millenaria.
Dopo qualche metro, a mia volta senza pensarci particolarmente tolsi le scarpe e le lasciai indietro; fu liberatorio affondare nella sabbia morbida, coi granelli umidi che s’infilavano tra le dita. Tra poco quel sentiero sarebbe stato inghiottito a sua volta dal mare, con la sabbia e le conchiglie, per poi venire trascinate chissà dove dalla corrente. Una parte di me riteneva che tanto le scarpe stesse non mi sarebbero più servite.
A metà del percorso, però, mi arrestai. Itachi continuò per un paio di metri, ma più lento, così io lo chiamai, mentre lenta l’acqua cominciava a risalire in un lento gorgoglio di risacca che divorava il terreno, accarezzandolo.
“Dimmelo.”
Lui si voltò. Il corallo delle ciglia folte sembrò più rosso, abbandonando l’antracite che la notte prima gli aveva impolverato le gote.
“Cosa vuoi sentirti dire, Shisui?”
Mi sembrò ci fosse una nota di affetto nel pronunciare il mio nome, il che mi trasmise ancora più dubbi e tristezza.
“Hai ucciso tu Sasuke Uchiha, un anno fa? Era tuo fratello.”
Sapevo di aver dato un istintivo tono d’accusa in quell’era tuo fratello.
Non mi rispose, ma continuò a guardarmi. Sentii uno scroscio d’acqua più forte, voltai la testa e vidi che il mare stava avanzando con una velocità del tutto innaturale, come sospinto da mani invisibili capaci di riversare in un bicchiere la forza sconfinata dell’oceano: l’alta marea stava arrivando. Presto, quella striscia di terra sarebbe scomparsa e io con essa.
“Dobbiamo andarcene, Shisui.”
Sgranai gli occhi, furente. Avanzai verso Itachi che non mosse un passo, anche se l’acqua ormai aveva cominciato a lambire i margini della sottile strada sabbiosa, con le barche in secca che ora galleggiavano inquiete:
Io devo andarmene, a te cosa importa?! E non hai risposto alla mia domanda! Sasuke era tuo fratello, vero? L’hai ucciso, tu e quella famiglia di pazzi!”
Non tirai fuori il vetro, in quel momento, preso dalla rabbia e dalla paura me ne dimenticai completamente per scattare di fronte a Itachi e slanciarmi in modo da spingerlo, come se ci stessi lottando e dovessi sopraffarlo. Sentii che in quel gesto e da quella scelta sarebbe dipesa la mia stessa vita, cambiata per sempre.
Ma appena i miei polpastrelli toccarono i petto squamoso della creatura, quest’ultima mi afferrò i polsi, con una forza tale da bloccarmeli.
Non lo spostai di un millimetro, pareva anzi aver assorbito tutta la violenza del mio colpo, senza però rispedirmelo indietro. Lo sentii spostare una gamba e lo guardai negli occhi: il tempo sembrò fermarsi, un solo istante in cui le sue pupille oscure mi intrappolarono, con il mare che rispettava quel momento, arrestando la sua furiosa avanzata.
La creatura torse il busto e avvertii il mio corpo muoversi con lui, leggero, fluttuante, capace di elevarsi sopra la spuma e la sabbia.
“Itachi.” espirai.
Non seppi perché lo avessi pronunciato, fu un’evocazione.
Con quel nome che si elevò nell’aria, Itachi mi lanciò via.
Uno slancio potente, carico di una forza ancestrale che mi fece saettare nell’aria, incapace di respirare o aprire gli occhi mentre sentivo il mio corpo cadere, fendendo il cielo, anche le nuvole e le stelle stesse, in alto, per sempre, fino al collasso profondo fatto di vuoto capace di risucchiare le viscere.
Sconquassai la terra, in un’esplosione di calcinacci, sabbia e resti oscuri che schizzarono verso altra terra. I miei polmoni già rarefatti si svuotarono con l’urto e sgranai gli occhi in maniera tanto improvvisa da pensare che sarebbero saltati fuori, come la vita e i denti che vibravano. Mi resi conto che ero io a tremare, per la paura e lo shock, con i muscoli rigidi che tentai di muovere mentre annaspavo in cerca d’aria, con la vista che tornava lenta, al pari del calore dopo il gelo della neve.
Mi alzai in piedi, appoggiandomi a un muro: lo sentii viscido, coperto di alghe come se fosse stato immerso per anni e le acque si fossero appena ritirate. Per qualche minuto credetti di essere sott’acqua a mia volta, incapace di respirare o di avere controllo sul mio corpo, ma quando cominciai a camminare realizzai di trovarmi su di una superficie: opprimente, oscura, eppure era pur sempre la terraferma.
“Dove sono…” mormorai. La mia voce era ridicola, un suono debole, roco, che si perse tra le strade di quella che sembrava una cittadina antica. Sollevai lentamente lo sguardo e rischiai di perdermi ancora, scorgendo edifici dalle guglie aguzze che ricordavano mani fatte di unghie demoniache capaci di squarciare il cielo, costruiti nella roccia nera, opaca e contaminata da strati viscidi di alghe altrettanto oscure. Le poche finestre presenti erano più fenditure simili a quelle dei bastioni, attraverso le quali ombre danzavano in attesa che calasse il buio; o forse ero solo io a credere che ci fosse della vita in quel posto dove l’unica cosa che avvertii era il mio stesso, rantolante, respiro.
Per il resto le strade strette inerpicate in salite ripide erano deserte, caratterizzate da massi piatti incassati nel terreno, con gli edifici immensi e oscuri che sembravano volerle inghiottire, cadendo su loro stessi nell’ambiziosa risalita verso il cielo.
“Questa è Nodens.”
Mi voltai e vidi Itachi: il suo corpo gocciolava acqua, le labbra sottili e violacee sembravano voler parlare ancora, eppure non provenne alcun suono. I suoi coralli erano sfumature nere ma lucide, vibranti di vita millenaria al pari dei suoi occhi e i capelli fluttuavano, simili a radici in cerca di terra, capaci di sfiorare quelle pietre e rivestirle di nuovo fulgore.
“Mi hai scaraventato fino a qui.” abbassai gli occhi e con orrore vidi delle bruciature all’altezza del petto, scavate nella mia pelle. Schiuma biancastra del mare gorgogliava attraverso, macchiando i vestiti.
Realizzai di aver perso la pistola, mentre la camicia era strappata.
Risollevai la testa e guardai la creatura di fronte a me. Mi toccai la tasca, sentendo il vetro ancora all’interno; mi ritenni stupido per aver aspettato tutto quel tempo.
“Riprenderò il controllo!”
Esclamai e, quando dissi quelle parole, quando estrassi il frammento di vetro facendo volare il fazzoletto, mi accorsi di star piangendo. Parallelamente, realizzai che Itachi era triste, così triste da bucarmi il petto e farmi venire voglia di ingoiarmi il cuore.
Ma il mio corpo continuò a muoversi e io non riuscii a fermarlo: la mia razionalità mi diceva che quella creatura era un pericolo, sarei morto, per cui doveva andarsene per sempre, anche se era doloroso e non sapevo perché.
Ti conosco, Itachi?
Sentii delle parole scorrere nella mia testa fino a strabordare come acqua.
“Non preoccuparti, me la caverò. Ma tu sei il prossimo, è scritto nelle stelle e Idra ci ha parlato: se rimani qui morirai, Shisui.”
Le aveva già dette quelle parole, o me le stavo sognando, o la mia mente… il tempo era confuso, giocava con i miei sentimenti e i miei ricordi devastati.
La mia mano si mosse in un gesto rapido, fulmineo, senza quasi ricevere un comando: affondai la lama di vetro nel collo della creatura, recidendone la pelle dalle scaglie lucenti fino a vedere sgorgare del sangue; melma vischiosa, oscura, un fondale marino che si stava riversando al di fuori della sua gola tranciata. Itachi continuava a guardarmi e realizzai che non rantolava come mi sarei aspettato, avvertii dei brividi per la potenza del gesto compiuto, travolto da quella massa oscura che mi si addossò gelida.
In quell’istante, la creatura mi afferrò il polso: avvertii il gelo, la forza d’acciaio della sua presa capace di stritolare le ossa. Cercai di oppormi ma questi mi piegò il braccio, fino a costringermi a lasciare la presa dal vetro. Percepii il bruciore del taglio sui miei palmi, vista la mia presa massiccia e ostinata, ma provai un senso di panico e allo stesso tempo di vuoto quando Itachi tenne nelle sue mani il frammento dello stesso bicchiere che mi aveva portato.
Cercai di aprire la bocca, di dire qualcosa, ma non feci in tempo: con ancora la gola dilaniata, la creatura mi afferrò il capo, liberandomi il polso, e in un gesto altrettanto rapido mi tagliò con il vetro. Non la gola, né gli occhi, o qualsiasi zona esposta della mia patetica persona.
Bensì il punto più nascosto della mia testa: la pelle dietro le orecchie.
Compì due tagli veloci eppure precisi, affondando la lama talmente dentro che sentii le mie vene e le mie arterie spingersi contro fino a venire recise. Percepii il sangue schizzare, l’aria defluire anche se non era stata toccata la trachea, il mio ossigeno venire consumato, mangiato, inglobato da quelle ferite capaci di risucchiarmi anche il pensiero.
Mi aggrappai a Itachi e provai rabbia, disperazione, all’idea di essere io a rantolare in quel momento, con il cuore che batteva feroce fin dentro la testa, come per illudermi di poter vivere ancora.
La creatura mi lasciò la testa, afferrandomi la gola sanguinante con una mano, mentre l’altra era sul mio braccio. Avvertii i suoi polpastrelli affondare in me, esattamente come lo sguardo abissale, nel quale ancora cercavo di intravedere un uomo, quando invece scorgevo il mio riflesso, tragico, sporco di sangue e di melma oscura che lenta scivolava dalla ferita di Itachi.
Poi, all’improvviso, senza lasciarmi scaraventò il mio corpo contro una delle porte di legno scuro, simile a pregiato ebano, incassata nelle pietre scintillanti nere al pari dell’inchiostro. Non riuscii neanche a svuotarmi i polmoni: non avevo aria da espellere con l’urto, anche se faceva male e i tagli bruciavano, come cosparsi di fuoco e sale.
Avvertii un rombo distante, il suolo sotto ai miei piedi tremò: scosse brevi eppure in rapida successione, anche se nessuno degli edifici si mosse, non perché massicci e imponenti, ma quasi come se fossero essi stessi la terra.
Itachi avvicinò le sue labbra alle mie orecchie, mentre io con le mani tentai di scavare nel suo petto, terrorizzato, con la vista sfocata e la paura folle, tremenda, di morire. Lì, in quel posto, senza sapere nulla di me, o di quello che sarebbe stato del mondo.
Poi, la sua voce. L’eco del mare gettato nella conchiglia delle mie orecchie.
“Sasuke – rabbrividii, quasi fossi anch’io fatto di terra – in realtà avevi ragione… l’ho ucciso io. Per te.”
Sgranai gli occhi, spalancai la bocca in un rantolo fischiante di dolore e incredulità. Annaspai.
No. Non è possibile. Io…
La porta si aprì e la terra tremò in un rombo che ricordò l’urlo di un gigante in procinto di risvegliarsi dall’abisso. Avvertii il mio peso e l’inclinazione del corpo cambiare, all’improvviso, fino a sentire la gravità spingermi con una mano invisibile fin dentro la stanza oltre la porta, nel mezzo dell’oscurità. Il pavimento, realizzai, si stava inclinando e Itachi, ancora con le sue mani su di me, aveva cominciato a scivolare al mio fianco.
“Ti terrò io – mi disse all’improvviso – l’aria presto non sarà più un problema.”
Fu come un’esplosione. Il pavimento si inclinò sempre di più e con esso le mura, la porta che cigolò fino a spalancarsi, i pochi mobili presenti all’interno scivolarono assieme a noi, gli oggetti più piccoli slittarono rapidi sul terreno fatto di mattonelle simili a riquadri d’ombra.
Itachi non aveva paura. La ferita si stava rimarginando e la sua mano aveva fatto cadere lentamente il vetro che cadde nel vuoto, fino a schiantarsi contro la parete dove si stavano accumulando i mobili ribaltati in scricchiolii sinistri e poi schianti potenti, man mano che l’inclinazione ci fece cadere a nostra volta.
Finii con la schiena accanto alla finestra, la cui imposta era stata spalancata e ora ondeggiava nel vuoto. Con gli occhi incapaci di battere ciglio e il peso inconsistente di Itachi addosso a me, i suoi capelli che mi solleticavano le guance gocciolando lentamente acqua, realizzai che da quel punto potevo vedere la strada in verticale, gli altri edifici sulla cui muratura erano finiti ciottoli un tempo presenti nel vicolo, mentre il rombo della terra assordava le orecchie e la risacca del mare riecheggiava in un ringhio feroce.
Una sedia si schiantò contro la finestra, spezzandosi; vidi schegge volare, ma ero talmente sconvolto da non riuscire nemmeno a chiudere gli occhi. Il legno cadde oltre l’apertura, continuando a precipitare, finché non lo sentii impattare contro la roccia traslucida dell’edificio di fronte.
Avvertii un senso di nausea allo stomaco, uno dei miei organi ribaltati per via del cambio d’inclinazione esattamente come i mobili.
“Cosa… sta… – cercai di dire, rantolando, con gli occhi che bruciavano e l’odore del mare che mi stordiva – succedendo…”
“Nodens è la chiave, te lo avevo detto. R'lyeh aprirà le sue porte per noi, ma agiremo appena loro ci vorranno.”
Loro? Rilessi nella mia mente le scritte sul muro della cantina, il sacrificio... R'lyeh. Allen aveva ragione, credeva io sapessi cose… come? Come poteva sospettare di me?
Voltai la testa di scatto e udii il gorgogliare dell’acqua oltre la finestra. Ogni cosa stava venendo inondata, lambita da onde feroci che sembravano crescere di potenza, portando con sé Nodens fino a farla scomparire.
In quell’istante, la stanza si ribaltò ancora.
In un rombo terribile, arrabbiato e sordo, venni bruscamente sbalzato sul soffitto e Itachi sembrò quasi sospingermi. Evitai un’altra sedia; in realtà fu Itachi a trascinarmi con sé, facendomi rotolare sul fianco, mentre in cigolii e schianti secchi ogni oggetto sopravvissuto si accatastava sul soffitto. Trattenni un conato di vomito, avvertendo le viscere rimestarsi; in un getto di spuma grigiastra, simile a pietre liquefatte, l’acqua aveva cominciato a entrare dalla finestra ormai totalmente al contrario.
“Andiamo, dobbiamo uscire da qui.”
Annunciò Itachi. Mi resi conto di non respirare da tempo, tanto tempo. E di non riuscire a oppormi quando la creatura mi alzò in piedi e camminammo su quello che prima era il soffitto della stanza, mentre il pavimento adesso era sopra le nostre teste.
I suoi capelli cominciarono a fluttuare, resi vivi, meravigliosi, dalla potenza del mare, la pelle richiamava i colori dell’oceano con le sue scaglie vibranti di sfumature blu e gli occhi riflettevano l’intensità delle onde, schiantate contro la cornea fatta di spuma.
Il corpo si sollevò nell’aria rarefatta e io con lui; capii che voleva lanciarsi oltre la finestra, nel turbinio dell’acqua che stava sgorgando inondandomi i piedi. Fino a poche ore fa avrei pensato che sarei morto, schiacciato dalla pressione e soffocato; ma ora… non avevo vie d’uscita e in un certo senso pensavo che sarebbe stato meglio così, piuttosto che rantolare ancora. Mi sembrava giusto.
Con un salto ci fiondammo nel gorgoglio che eruttava dalla finestra e quando misi una prima parte di me, del mio corpo, a contatto con quello specchio turbinante, sentii che tutto sarebbe cambiato. Avrei smesso per sempre di essere Shisui, di toccare ancora la terra o avere preoccupazioni mortali, perché mi sarei ricongiunto con l’abisso e l’accettai.
Venni accarezzato, sballottato, schiaffeggiato dalla spuma fatta di bolle frenetiche e dalle correnti, fino ad avvertire la presa di Itachi che, ancora, mi trascinava via. La luce era cambiata: c’era buio e fiotti azzurrognoli di una luminescenza oscura provenienti dagli spiragli delle finestre, nient’altro che questo.
Lo realizzai quando mi ritrovai a galleggiare nell’acqua, acqua del mare. Attorno a me c’erano gli edifici, le feritoie e le pietre lucide ma... l’intera città, l’isola con la sua terra e gli scogli erano stati totalmente ribaltati. Le guglie e i tetti aguzzi che fino a poco fa avevano cercato di sfondare il cielo ora erano artigli immersi, le cui estremità scomparivano nelle oscurità abissali.
L’isola si era del tutto capovolta.
Provai un fiotto di terrore all’idea di essere schiacciato da quella massa di terra, circondato solo dal gelo oscuro del mare rischiarato da spiragli azzurrognoli, intermittenti come il respiro stanco di una creatura gigantesca.
Non potevo più respirare. Le ferite bruciavano e la pressione mi stava comprimendo, assieme alla paura. Stavo morendo e dovevo concludere i miei giorni così, dimenticato, anche da me stesso.
Itachi mi guardò: non sanguinava più, il taglio si era rimarginato. Poi mi prese per il collo e io non riuscii a fare nulla eccetto piantargli le mani sulle braccia, con disperato orgoglio. Forse poteva uccidermi allora, mi avrebbe risparmiato un’agonia finale.
Ma, in quel momento di ultima lucidità, di disperazione e vuoto, Itachi fece tutt’altro: mi baciò.
E io avvertii il mare nel mio petto, ma anche tutta la vita che lo abitava, la sua forza, il moto delle onde che sospingeva le barche e gli esseri viventi.
Lui prese qualcosa di me, ma io entrai nella sua mente.

“Quando diventiamo Abitatori del Profondo tramite il rituale, Itachi, ci portano fino a Nodens e ci lasciano sull’Isola, finché con la marea si ribalta per farci ricongiungere con coloro che ci hanno preceduto. Sarò io ad aprire il passaggio: Idra ci è apparsa in sogno, portando angoscia e richiamo. Ma non la voglio ascoltare, non più.
I nostri predecessori si connettono alle profondità abissali, lo so. Però... si nutrono di ciò che siamo, disprezzando quanto invece ospita gli umani, tenendoli al sicuro.
Posso contaminarmi una volta trasformato, e portare con me, fino a R'lyeh, la traccia della mia umanità.
Morirei. Ma morirebbero anche loro.”
Guardai Shisui, ascoltando i suoi discorsi pericolosi. L’avevo sempre reputato una persona capace di farmi stare bene: per questo se ne doveva andare, altrimenti sarebbe stato più difficile realizzare quello che avevo in mente; il suo piano era altrettanto folle, ma non potevo accettarlo.
Lo pensai nel guardarlo seduto sulla banchina del porto avvolto dalla nebbia, chiedendomi in che maniera trovasse la forza per sorridermi nel voltarsi. Sentii una stretta al cuore, mentre le stelle nel cielo ci comunicavano le variazioni astrali di ogni anno e Idra lo reclamava a sé.
“Domani scappa. Fallo.” Gli dissi serio. Quanti sorrisi ero riuscito a dargli, io, in tutti quegli anni?
“Non posso, Itachi. Tutto questo finirà – mi prese la mano, facendomi sussultare – né tu, né tuo fratello avete buona compatibilità, nemmeno proveranno a iniziare il rito: ogni cosa sarà distrutta.”
Gli osservai le dita, leggendovi lo sguardo:
“Ti perderò, Shisui.”
Dovevo avere un’espressione dura, forse distante, anche se dentro sentivo il peso schiacciarmi. La tunica di canapa grezza che aveva addosso solleticava la pelle: sarebbe svanita, assieme alla sua umanità.
“Pensi troppo, Itachi. Non essere arrabbiato con me – mi mostrò un sacchetto e realizzai che c’era della terra dentro – nella prossima vita... andrà meglio.”
“La contaminazione...”
Ma cambiò improvvisamente argomento, impedendomi di continuare.
“Dai, ricordi come faceva quel motivetto in stile charleston? Un giorno dovrai ballarlo e conquistare qualche bella ragazza giù a Boston.”
Batté una mano sulla coscia per tenere il tempo e, dopo qualche istante, lo seguii, mentre il mare immobile di Innsmouth rifletteva gli spiragli di luna attraverso le nuvole.

Aprii gli occhi.
Quello ero io, a Innsmouth. Confuso, avvertii un calore irradiarsi dal mio petto mentre Itachi galleggiava di fronte a me, le sue mani su di me. Abbassai lo sguardo per vederle e realizzai che i miei vestiti erano scomparsi, mentre la mia pelle... la mia pelle era vernice brillante che si sgretolava tramite la pennellata dell’acqua, lasciando dietro di sé scaglie, scalini rifrangenti metallica luce cobalto, onde marittime che disegnavano il mio torace e il ventre.
No. Impossibile.
I miei arti... le mani velate da un guanto trasparente che si intersecò alle dita, rendendole palmate, le mie unghie erano andate perse per sempre, nel cuore del mare. Sollevai lo sguardo e mi portai una mano tra i capelli: più lunghi, consistenti, li sentii fluttuare al mio contatto, alghe intrecciate alla mia testa e accarezzate dalla corrente.
Respiravo il mare e la sua vita millenaria. Dentro di me. Piansi, le mie lacrime erano la salsedine racchiusa nel mio petto, resa salata dalla realizzazione di chi fossi e di quanto avevo amato la vita, al punto da lasciarla per chi amavo di più: Itachi.
Lo dissi nella mia testa e lui mi rispose. Lo vidi così umano, con le sue scaglie e le sue alghe, vestito di stupidi abiti per nascondersi, quando era così bello da farmi piangere di più. Perché non saremmo tornati ancora in superficie, su quel porto con la luna e il charleston da ballare.
“Mi dispiace – mi disse senza aprire bocca, lo sentii vibrare nel mio encefalo – tu volevi sacrificarti un anno fa, ma io te l’ho impedito.”
Luci azzurre fluttuarono tra le feritoie, mentre io cercavo di ricostruire il percorso della mia vita, le menzogne e le illusioni.
“Che cosa hai fatto, Itachi? E io chi sono, adesso? Quelle memorie che mi hai mostrato: sono reali?”
La mia testa annaspava, come se dovessi ancora respirare per parlare: avevo paura, però... volevo sapere e sentivo di non avere più tempo, circondati da oscurità e la terra di Nodens che incombeva su di me.
Itachi allungò una mano e mi sfiorò la tempia. Sentendo le sue dita, me la toccai a mia volta e realizzai che la cicatrice era sparita.
“L’anno scorso sarebbe toccato a te, eri predestinato, ma avevi il tuo piano per farla finita. Io... non sono stato in grado di accettarlo: ti ho quasi ucciso, costringendoti a dimenticare. Ti ho portato il più lontano possibile, ma lui... deve averti trovato, salvandoti, quando è venuto per mio fratello.”
Quante immagini avevano preso a scorrere nella mia testa, ricordi, tanti, così tanti. Mentre la mia identità veniva plasmata e le ferite dietro le orecchie erano divenute branchie capaci di farmi vivere.
Il fratello di Itachi. Non avrebbero dovuto ucciderlo – ricordai le mie parole dai ricordi trasmessi in un bacio –  Sasuke non ha buona compatibilità.
Senza rendermene conto nella mia testa gli gridai:
“Io ero pronto a morire per salvarti! Potevo riuscirci, potevo... – le parole si accavallarono, ingarbugliate, non riuscivano a star dietro alla mia mente iperattiva – lui. Allen!”
Vidi il senso di colpa, la tristezza, la nostalgia sul volto di Itachi. Quanto dovevamo somigliarci e quanto mi sentii triste nel realizzarlo.
Le luci si fecero più intense e mi ricordarono, all’improvviso, le stelle nel cielo sopra una distesa lontana dalla civiltà.
Ricordai di averle guardate, un anno fa, e di essermi meravigliato per quanto potessero essere intense lontane da Innsmouth. Non mi era venuto in mente il nome, allora, ma ero certo di aver pensato al luogo della mia nascita senza altro sentimento eccetto angoscia.

Non so per quanto tempo avevo continuato a camminare. La macchina rubata era entrata in panne e avevo temuto che toccandola ancora l’avrei ulteriormente danneggiata. Avrei voluto non doverci più avere a che fare.
Mi sistemai meglio Shisui sulla schiena e ripresi ad avanzare, avvertendo il sangue proveniente dalla sua tempia gocciolarmi sulle spalle in ticchettii lenti. Ormai ero al limite delle forze, io non potevo proseguire oltre: dovevo lasciare Shisui dove qualcuno avrebbe potuto prendersene cura e rientrare, almeno per Sasuke.
Era quasi l’alba.
Giunsi presso un motel, dove pagai per una stanza in cui riposare qualche ora. Stavo pensando di lasciare Shisui lì dopo avergli curato la ferita, d’altronde gliel’avevo causata io per imperdirgli di ricordare: siamo una razza fedele a Idra, manipolare la mente è un processo invasivo ma fattibile.
Gli ho lasciato l’occorrente per andarsene, finché nel parcheggio non ho incontrato un uomo con un fedora in testa e l’aspetto stanco, persino scavato. Quando mi vide mi bloccò, fissandomi per poi dire:
“Tu sei un Uchiha. Stamattina ne ho visti tanti come te. Siete uguali, uguali e pazzi sanguinari.”
“Vattene – ribattei, nascondendo la tensione – non so chi sei, né di cosa stai parlando.”
“Seguo le vicende di Innsmouth da una vita e non sono mai riuscito a fermarvi, voi e i Marsh. Sono sicuro che tu sei un Uchiha, così come sono sicuro che da anni uccidete la vostra stessa progenie, ma questa è la prima volta che qualcuno chiama il Dipartimento Omicidi, un vecchio ubriacone per giunta. Perché? Cos’è andato storto nei loro piani?”
Il respiro mi si bloccò. Cercai l’aiuto della mia razionalità, perché non avevo Shisui cosciente in grado di parlare con disinvoltura. Io non ero bravo con gli esseri umani.
“Dipartimento Omicidi?”
“È da stanotte che sono in viaggio. Ritentro da Innsmouth. Tu ne sai qualcosa, dell’assassinio di un ragazzino? Era uguale a te.”
Non mi mossi. Ma i miei organi, il mio cuore, si schiantarono al suolo, liquefacendosi. Dovevo decidere in fretta.
“Dentro la stanza c’è un uomo. Portalo via, rientra a Boston. Tienilo lontano da Innsmouth o sarà la prossima vittima.”
Si tenne il fedora quando gli dissi quelle parole, come se non se le aspettasse. Lanciò un’occhiata alle mie spalle e replicò:
“Non pensare di andartene. Ti prendo in custodia, tu sai troppe cose.”
Indietreggiai, lo vidi mettere mano alla pistola:
“Non tornare più a Innsmouth. Togliti l’ossessione, o morirai. Salva un essere umano, questo puoi farlo.”
Lo vidi esitare. Pensai davvero di aver avuto fortuna quel giorno, presso un motel lungo la statale.

Lui ti porterà lontano, Shisui, avrai così nuove memorie, senza essere contaminato dal ricordo di Innsmouth: non ti troveranno. Per me, invece, non c’è speranza. Camminerò, anche se cercheranno di riprendermi con loro, percepisco la rabbia che li anima. Ho perso Sasuke, non mi rimane altro che tentare.

“Mi hanno trovato, alla fin fine.”
Mi guardò nel dirlo e mi allontanai dal suo ricordo. Stavo perdendo consapevolezza del mio corpo umano, non percepivo più il freddo e la paura stava diventando un sentimento distante.
“Allen mi ha mentito. Tutti quei mesi.”
Era uno attaccato alla bottiglia. Allora aveva parlato di Daves, come se lo conoscesse. E in effetti era così: quel vecchio, un anno prima, aveva denunciato l’omicidio di Sasuke.
“Daves mi aveva detto di non fidarmi, perché sapeva chi fosse Allen.” Conclusi.
“Daves era un codardo figlio di puttana la cui mente è stata piegata dagli Uchiha per asservire i loro scopi – ribatté Itachi improvvisamente secco, al punto da farmi provare ancora stupore – per colpa sua hanno richiamato Allen, con il pretesto del mio omicidio. Gli Uchiha hanno visto la sua ossessione e l’hanno sfruttata, sapendo tramite me che tu eri con lui e non ti avrebbe lasciato andare. Io sono stato ingenuo e disperato, errando a fidarmi di un poliziotto che ti ha usato con la speranza che a Innsmouth ricordassi.
Ma nessuno ha previsto una cosa: che io non ero morto davvero. Anche se tardi, la mia trasformazione ha funzionato.”
Non ero mai stato un detective, né avevo frequentato la Miskatonic. Allen si aspettava che io sapessi leggere quelle righe del rituale. Soprattutto quando ha capito che Sasuke era il fratello di Itachi.
Lo stesso Itachi che, a distanza di un anno, aveva cambiato nuovamente le carte in tavola.
“Ma allora perché mi hai portato qui? Io cosa volevo fare, sacrificandomi, come avrei potuto mettere fine a ogni cosa?”
All’improvviso, la luce azzurrognola delle finestre divenne più intensa, fino a far rilucere le nostre scaglie. Avevo paura di cos’ero diventato: quel sentimento, in fondo, ritornava.
Sentii un richiamo verso l’oscurità, nell’abisso sotto di noi. Le luci sembrarono vive, forme animate unite per generare fasci azzurri che iniziarono a tracciare un sentiero.
Ph'nglui mglw'nafh Cthulhu R'lyeh wgah'nagl fhtagn.
Guardai Itachi e mi ritrovai a pensare, intersecando alle mie parole nella testa le sue, in perfetta armonia.
“Nella sua dimora di R'lyeh, il morto Cthulhu attende sognando”
Ai nostri piedi, c’era...
“L’accesso a R'lyeh.”
All’improvviso, dal nero delle profondità, degli occhi: due, quattro, dieci e infine centinaia, centinaia di occhi azzurri e malati che ci osservavano divorati dal buio, distanti chilometri di distanza eppure vicini, addosso, senza pupille o ciglia, incapaci di chiudersi.
Delle voci cominciarono a parlare, rese vibranti dall’eco nell’acqua e riecheggianti nelle pietre lucide degli edifici sopra le nostre teste che ci si addossavano, soffocando l’accesso al cielo. Mi portai le mani alle orecchie, ma sentivo comunque quei suoni, mentre Itachi immobile guardava.
Dopo interminabili momenti d’agonia le voci sembrarono sintonizzarsi su di un’unica frequenza e parlarono, entità millenarie che trasmettevano ricordi folli.
È per Idra che uccidiamo la nostra progenie, così che abbandonino loro odiose spoglie mortali per diventare puri Abitatori del Profondo.
I Marsh sono immondi esseri corrotti. Tramite la nostra perfezione il passaggio a R'lyeh sarà aperto e Cthulhu, Gran Sacrdote, si sveglierà destando coloro che come lui sognano.
Noi siamo voi. Raggiungeteci.
Gli occhi cominciarono a riverberare di ulteriore luce: sembrò allungarsi diventando consistente, tentacoli che fendettero il mare oscuro per risalire e arrivare sino a noi.
Spostai lo sguardo su Itachi:
“Io... – le parole uscirono fuori controllo, la mia mente era nel passato e nel futuro, io ero Shisui Underwood e Shisui Uchiha – non volevo questo, quando eravamo umani entrambi.
Non dovevi trasformarti, dovevi andare a Boston, ballare il charleston, trovarti una famiglia, dei figli...”
Itachi mi portò le mani sulle guance. Lentamente i suoi vestiti si stavano digregando e fluttuavano attorno al suo corpo come i capelli.
Avvertii qualcosa toccarmi i piedi, qualcosa di gelido, capace di bloccare sangue e respiro: i tentacoli luminescenti, occhi che fendevano il buio, si avvinghiarono attorno alle mie caviglie fino a cominciare a risalire. Avevano preso anche Itachi e lentamente ci stavano portando giù, tra scie di luce e macchie d’ombra.
“Shisui. Io non potevo restare a guardare mentre ti sacrificavi per farmi vivere una vita migliore.  Non avrei mai voluto che tu tornassi, dopo quello che ho fatto. Dovevi dimenticare e fuggire lontano – le sue mani risalirono su di me, tra i miei capelli, e smisi di provare paura mentre scendevamo nell’abisso – quando invece mi sono trasformato e ho realizzato di essere ancora vivo, con te di nuovo a Innsmouth dovevo... dovevo agire per fare qualcosa. Tu non ricordavi nulla, Shisui, nemmeno me.
Se solo avessi saputo, se solo non mi fossi fidato di Allen, forse non saremmo arrivati a tutto questo.”
Gli presi le mani.
Sopra le nostre teste, la città di Nodens era scomparsa: attorno c’era solo più buio totale e silenzio, eccetto i mormorii delle entità millenarie che, come noi, erano arrivate fino a lì, in attesa dell’energia e della concessione di Idra per aprire il varco. I tentacoli erano arrivati attorno al mio torce e stavano risalendo fino alla gola. Non avevano consistenza, li avvertivo ma era come se non esistessero, schiarendo le nostre scaglie e i nostri volti per vederci un’ultima volta prima di venire avvolti dal buio.
Poi, lessi i suoi occhi, uno spiraglio nell’oscurità.
“Abbiamo ancora qualcosa di contaminato dall’umanità, dentro di noi.”
Venne avvolto dalla luce. Io lo guardai e nella mia bocca entrò quella stessa luce, le scie luminose mi si incastrarono in gola, poi negli occhi. Non lo lasciai, anche se persi consapevolezza del mio corpo e di quello di Itachi, per vedere buio e luce assieme, gelo e calore, pressione che schiacciava e sollevava.

Uscii dalla camera del motel mentre Shisui dormiva. Strascicando l’acqua e il peso del mio corpo inadatto alla lontananza dal mare, andai fino al giardino sul retro e con un cucchiaio rimediato di fortuna scavai. Scavai fino a tenere tra le mie dita palmate un pugno di terra.
Socchiusi un istante gli occhi.
Poi entrai nella stanza dove contemplai Shisui dormire, inconsapevole. Mi ricordai di quando l’avevo ammirato allo stesso modo un anno fa.
Mi sedetti al suo fianco e gli aprii la bocca, avvertendo il suo respiro contro le mie mani. La memoria sarebbe ritornata dopo tutto quello a cui aveva assistito e io non potevo più compromettergli la mente cancellandola ancora. Ormai non potevamo più fuggire.
“Mi dispiace. Un giorno rinasceremo e saremo più felici.”
Gli misi la terra in bocca e lui la divorò, inghiottendola dentro di sé. Provò a rigettarla, ma glielo impedii, sigillandogli le labbra con la mano mentre lo stringevo a me.
“Perdonami e ricorda.” Mormorai.
Ma almeno sarà davvero finita, avevi ragione tu.

Ci fu solo oscurità e parole di una litania oscura che richiamava i Grandi Antichi. Poi un istante di silenzio. Infine bruciore e, ancora, urla: urla feroci, di rabbia e dolore, un dolore più profondo perché dimenticato.
Le entità stavano... morendo.
La terra.
Certo, certo, che stupido, come avevo fatto a non capire?
La terra dentro di me, l’ultima traccia di qualcosa che aveva ospitato l’umanità ora contaminava l’intoccabile abisso: nel trascinarci con loro, nel portarci fino ai cancelli di R'lyeh, gli Abitatori del Profondo ci avevano assorbito.
Credetti di sentire Itachi, la sua mano stretta attorno alla mia. Mi aveva baciato e io l’ho corrotto: la splendida creatura che era, ridotta come me a perire nel flusso di coscienze e di rancori, di sacrifici e di vite spezzate.
Mi sentii esplodere. Per un attimo fui luce e udii la musica di un locale: scorsi Itachi accanto, delle donne e degli uomini ballare, mentre attorno la serata a Boston si animava.
Nodens si sgretolò, perdendo ogni contatto con la terraferma, e il suo rumore per me fu il ticchettare delle scarpe durante i balli scatenati sulle piste di legno, con cravatte allentate e pendenti che ondeggiavano, fumo sulle teste che copriva il rombo della terra sprofondante e vino che scorreva nei bicchieri, la spuma gorgheggiante dell’abisso.
Il sorriso di Itachi era la mia luce prima di scomparire e... fu come se stessimo danzando, un’ultima volta.



Sproloqui di una zucca

Ebbene, dopo settimane di ritardo infine ce l'ho fatta. Ancora non ci credo, ma pure quest'avventura è conclusa. Una storia strana, sostanzialmente un racconto che nulla ha a che fare con una fanfiction, ma tant'è, la challenge era per il fandom di Naruto XD
Grazie per aver letto fino a qui, spero che questa storia vi abbia acchiappato.

Immagine: http://malignedaffairs.tumblr.com

   
 
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