Serie TV > Elisa di Rivombrosa
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Autore: wolfymozart    14/10/2018    0 recensioni
La storia tra Anna e Antonio sarà messa a dura prova da scottanti questioni sociali e drammatiche vicende private che si intrecceranno in un inestricabile garbuglio nel quale ritrovare il "filo rosso del destino" non sarà affatto facile.
Per questo sequel è stato necessario forzare un po’ i tempi dell’ambientazione per motivi di ordine storico, viceversa non sarebbe stato possibile far incontrare la Storia con la storia. Lo slittamento temporale consiste in un lasso di una decina d’anni. Mi auguro che chi leggerà mi vorrà perdonare.
Genere: Azione, Drammatico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Anna Ristori, Antonio Ceppi, Nuovo personaggio, Un po' tutti
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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Le faceva quasi pena la costanza con cui le faceva recapitare lettere e biglietti da Parigi, nonostante i suoi dinieghi, le sue laconiche risposte. Possedeva una tenacia invidiabile, quell’uomo: non c’era da stupirsi che avesse intrapreso quella brillante carriera. Tuttavia gli mancava quel tatto, quella delicatezza, quello slancio del cuore che l’avrebbero potuto rendere amabile. Troppo insistente, ingombrante, pieno di sé. Pensava Anna accingendosi a leggere il contenuto di quell’ennesima lettera. Nonostante tutto, solleticavano il suo amor proprio quei profusi complimenti che le elargiva. La sua attenzione tuttavia ricadde su di una parola, un nome. Antonio. Da giorni Jerome non ne faceva menzione nelle sue lettere e da quella notte lei non aveva più avuto il coraggio di entrare nell’argomento. Ma quelle sette lettere che si stagliavano al centro del foglio le procurarono un intenso batticuore. Saltò i convenevoli, ignorò i commenti sulle sue brevi risposte, saltò immediatamente al corpo centrale, in cui, finalmente, le forniva informazioni sulle sorti di Antonio. Una combinazione di stizza, risentimento e preoccupazione si impadronì di lei: non gli perdonava quell’abbandono, quel biglietto scarno in cui si congedava da lei, affidandola a Jerome; non gli perdonava di non aver più cercato di mettersi in contatto con lei, di non averla raggiunta in seguito a Rivombrosa. Qual era il motivo che lo tratteneva a Parigi? La folle gelosia le offuscava la mente ogni volta che ci rifletteva. Quella serva, che cos’altro se no? Non sapeva darsi altre risposte e Jerome era su questo molto elusivo: che cos’aveva anch’egli da nasconderle? Non gli sarebbe convenuto svelare per intero l’infedeltà dell’amico nella speranza di conquistare il suo cuore infranto? Molti aspetti di quella storia le sfuggivano e da giorni non si dava pace.
Gli occhi scorrevano veloci sulla carta, nervosi, poi increduli, angosciati, disperati. Il foglio le cadde di mano, le labbra le tremarono. Chiuse gli occhi e passò qualche minuto in silenzio, mentre dal corridoio giungevano come ovattate le voci concitate della servitù e quella allegra di Elisa, i pianti della bambina, mentre il resto del mondo proseguiva per la sua strada, preso dai preparativi per il Natale, dal calore della festa, dalla promessa di una giornata felice. Riprese per un attimo lucidità, si chinò ad afferrare la lettera che era scivolata ai suoi piedi e la rilesse. Daccapo. Tutta.
 
- Gli mancano dignità ed amor proprio, dal momento che pone tale domanda ad una donna che sa già appartenere ad un altro.
-Un altro che vi ha lasciato, un altro che non avete idea se ritornerà o meno, un altro che non ha avuto il coraggio di dirvi in faccia la verità. È questo che volete? – reagì insolitamente scomposto a quella sua risposta tagliente.
- Non vi permettete, avvocato. Non avete alcun diritto di parlare di lui, nemmeno di nominarlo. – sibilò lei fra i denti, cercando di abbassare i toni per non destare dal sonno Emilia.
- Vi meritate di meglio, marchesa. – replicò, stavolta con il solito garbo. – Vi meritate qualcuno che vi renda felice. –
 - E voi avete la presunzione di poterlo fare? – domandò in atteggiamento di sfida.
- Pensatela come volete. Fra poco ci fermeremo a Nemours, poi proseguirete da sole. La mia presenza non è più necessaria. –
- No. Tornerò a Parigi con voi. – ribatté innervosita dal tono placido di lui.
- Questo è fuori discussione. Pensate a Emilia. Non sareste sicure a Parigi di questi tempi! – cercò di dissuaderla Jerome.
- Non mi importa, non mi importa…voglio sapere perché. – si ostinava Anna, le labbra serrate in un’espressione di rabbia trattenuta, mentre deglutiva amaramente le lacrime.
- Perché…che domanda stupida chiedere perché. Voi non lo farete. Non tornerete a Parigi perché non mettereste mai a repentaglio la vita di vostra figlia. E perché quello che scoprireste sul conto di Antonio vi farebbe solo del male. – provò ad essere convincente, accompagnando queste parole con un’espressione accorata che non gli si addiceva.
- LeBlanc, ve lo chiedo per l’ultima volta, c’è di mezzo un’altra donna? C’è di mezzo quella dannata serva di cui mi avevate parlato? Mi ha tradita, non è così? - sibilò a mezza voce, come avesse lei stessa paura della conferma che stava chiedendo circa le sue supposizioni.
- Ve l’ho detto, Anna, quello che scoprireste vi farebbe soltanto soffrire. A che serve farsi queste domande?-
I cavalli stavano rallentando la loro corsa, schizzando l’acqua delle pozzanghere, nell’oscurità della campagna si intravedevano le luci della stazione di posta.  
-Io voglio la verità. A qualunque costo. Sono disposta a tornare a Parigi questa notte stessa. –
Jerome, messo alle strette, sembrava aver perso quella prontezza di spirito che lo contraddistingueva. Non sapeva come cavarsi d’impaccio in quell’assurda situazione in cui il suo amico l’aveva cacciato.
-Christine. È questo il suo nome, di più non so. – confessò, infine, mentre il cocchiere fermava la carrozza davanti alla stazione di posta di Nemours. Jerome saltò giù di scatto, senza lasciare ad Anna il tempo per ulteriori spiegazioni.
 
 Fuori dal vetro appannato della finestra la luna riluceva contornata da un gelido alone, presago di imminenti nevicate; il tempo era scandito dalle folate di vento che sibilavano tra gli infissi e dai pigri rintocchi della vecchia pendola usurata che tuttavia non la smetteva di fare il suo dovere, là dal salotto. Un tempo vuoto, un tempo inutile, ormai, un lento disgregarsi di attimi di cui non aveva più senso tenere il conto. Scosso da brividi, tremava sotto le pesanti coperte sgualcite, mentre rivoli di sudore freddo gli solcavano la fronte. La febbre gli offuscava la mente, gli impediva di formulare un qualsiasi ragionamento di senso compiuto. Forse non era nemmeno in sé, mentre seguiva il corso della luna, figurandosi il viaggio attraverso la campagna francese che Anna in quel momento stava compiendo. In quel momento sarebbero giunti ormai nei pressi di Nemours, in salvo, se Jerome avesse seguito alla lettera le indicazioni che gli aveva dato. Se non avesse avuto qualche cedimento, se non si fosse lasciato impietosire da lei: ma il suo amico non era tipo capace di impietosirsi davanti ad una donna, su questo sarebbe potuto stare tranquillo, Jerome non avrebbe fallito. Ma lei? Lei che cosa avrebbe pensato? Stava soffrendo? L’avrebbe maledetto, l’avrebbe odiato per il resto dei suoi giorni? In quel momento, mentre spiava dal suo letto sudato il corso delle stelle, non gli importava nulla dell’odio di lei, temeva soltanto una cosa: che stesse soffrendo a causa sua. Eppure sarebbe stata una sofferenza inevitabile, necessaria, la doveva proteggere da rischi ben peggiori, accettava il disprezzo di lei, il suo biasimo, pur di saperla al sicuro insieme ad Emilia. – Mi perdonerai mai, Anna? – mormorava tra sé, dibattendosi nel tremore della febbre. Il suo unico pensiero, la sua unica angoscia.
 
- Dominique! – chiamava con voce strozzata il garzone, che, viste le condizioni del padrone, si era deciso a non lasciarlo solo la notte.
- Dominique! – ripeteva quasi disperato, ma la voce non gli usciva potente come avrebbe voluto.
Il ragazzo, tuttavia, sentì e si affacciò alla porta. – Che succede signore? Avete bisogno di me? – domandò impensierito, con la voce ancora impastata dal sonno e i capelli arruffati.
-Sì, ho bisogno di un favore. Una lettera. Io te la detterò e tu devi farla recapitare al più presto all’indirizzo che ti dirò. Sai scrivere, giusto? –
- Ma, dottore, non conosco la vostra lingua. E poi ora è notte fonda. Dovreste riposare. –  cercò di svicolare, titubando un po’.
- Carta e penna. Va’ a prendere carta e penna, svelto. – ordinò concitato, tossendo senza requie.
-Domattina. La scriveremo domattina questa lettera. Ora riposate, dottore. – ribatté il ragazzo. – Vi porto dell’acqua? –
- Portami carta e penna! –
Il giovane obbedì, ritornò dopo pochi istanti con una brocca di acqua e carta e penna nell’altra mano, poi uscì dalla stanza, richiudendo silenziosamente la porta.
-Mia cara Anna, non riesco a fare a meno di pensare a te, questa notte…- esordì con grafia tremolante.
Le parole non gli uscivano dalla penna come avrebbe desiderato. Che cosa le avrebbe dovuto dire? Qual era la cosa giusta per lei? Lasciarla andare o richiamarla a sé, gettandole addosso tutta la sua sofferenza? Troppo difficile decidere, per lui, quella notte. Era certo soltanto di una cosa, di avvertire la mancanza di lei in modo straziante, fisico.
 Quanto avrebbe voluto incrociare di nuovo il suo sguardo, fosse pure per un’ultima volta, quanto avrebbe voluto congedarsi dalla vita stringendole la mano o sotto il tocco delle sue carezze. Quanto avrebbe desiderato averla accanto quella notte, mentre la paura di morire lo assaliva, strozzandogli il respiro in gola.
 
Come aveva potuto Jerome tenerle nascosto per settimane quel segreto? Perché aveva retto il gioco in modo così egoistico al suo amico? Se solo l’avesse saputo, sarebbe accorsa da Antonio, non l’avrebbe mai lasciato solo in quelle condizioni, gli sarebbe stata accanto, avrebbe fatto di tutto per la sua guarigione. Atroci sensi di colpa le invasero irrazionalmente l’animo. Era stata lei ad abbandonarlo, non il contrario; lei a lasciarlo solo, malato, per salvare se stessa da pericoli infondati; lei ad aver creduto alle parole di quell’impostore di Jerome, lei ad essersi lasciata abbindolare dalle sue spire, lei a cedere nuovamente ad un suo bacio.
Ormai era troppo tardi per qualsiasi cosa, tutto era perduto. Immobile sul divanetto, la sua mente ordiva a velocità incessante idee di viaggi, tentativi disperati di ricerche. La notizia che Jerome le portava era tremenda, ma non sicura, lasciava adito a flebili speranze. Le aveva comunicato che da cinque giorni non aveva alcuna notizia di Antonio, che dall’interno della sua abitazione non rispondeva nessuno e questo lo preoccupava notevolmente, date le condizioni di salute in cui versava l’amico. Le raccontò della malattia, del silenzio che gli aveva imposto per amore di lei, perché non avrebbe mai voluto costringerla a restare in una città in preda ai tumulti. Le descrisse il suo deperimento, che aveva notato durante le brevi visite che gli aveva fatto; le parlò di quando si era deciso infine a scriverle la verità, ma Antonio vi si era opposto con forza, non volendo che le fosse dato questo dispiacere.
Davvero Antonio pensava che lei, tenuta all’oscuro di tutto, non soffrisse? Davvero pensava che di lui si fosse dimenticata in un batter d’occhio, magari consolandosi con il suo amico Jerome? La faceva così volubile, così fatua e superficiale? Lei non avrebbe mai smesso di amarlo, non ha mai smesso di amarlo. Ed era pronta a partire immediatamente per raggiungerlo, anche solo raccogliere il suo ultimo respiro, per un’ultima parola, per un ultimo bacio.
Si alzò dal divano ancora scossa, ripiegò la lettera e si avviò verso la porta. Buio e poi solo il rumore di cocci in frantumi.
 
Una notte insonne, buttata su quel pagliericcio umido, scomodo, di certo poco adatto ad una marchesa avvezza al lusso. Emilia continuava a dormire profondamente, mentre la pioggia cadeva leggera tamburellando sulle finestre. Se lo sarebbe dovuta immaginare, eppure…Molte cose continuavano a non esserle chiare. Che le avesse mentito così spudoratamente? Che quei due giorni passati insieme non fossero stati altro che una farsa? L’aveva già fatto una volta, del resto. Già una volta le aveva promesso fedeltà, già una volta le aveva giurato amore eterno per poi abbandonarla. E per giunta, in quest’occasione, era stata lei a spingerlo tra le braccia di un’altra, lei a tradirlo per prima. Mille pensieri le affollavano la mente, mille dubbi, rimorsi, recriminazioni. Ma un pensiero predominò su tutti. Quello di Emilia. In fondo si era decisa per quella partenza repentina in virtù del fatto che la città di Parigi nel giro di poco sarebbe stata nuovamente messa a ferro e fuoco e che, dunque, Emilia, oltre che lei stessa, fosse in pericolo. Andarsene, fuggire da quel guazzabuglio prima che fosse troppo tardi, così avevano stabilito lei ed Antonio. L’incolumità di Emilia prima di tutto, prima delle sue gelosie, prima dei suoi avventati tentativi di conoscere la verità, prima di Antonio, prima di lei stessa. Avrebbe riportato Emilia a Rivombrosa, al sicuro. Questa era la cosa giusta da fare in quel frangente: una scelta differente non se la sarebbe mai perdonata.
Senza aver ottenuto una risposta al suo bussare, spalancò la porta, facendo entrare con sé una folata di aria gelida che rischiò di spegnere il mozzicone di candela che continuava ad ardere flebilmente sulla scrivania, in mezzo alle carte disordinate a cui Jerome stava lavorando. Lui sussultò destandosi di soprassalto. Sollevò il capo dai fogli sparpagliati sopra i quali si era addormentato poco prima, si passò una mano sulla faccia stropicciandosi gli occhi ed esclamò sorpreso:
- Ah siete voi! – Non riusciva a mettere a fuoco il motivo per cui la marchesa si fosse introdotta nella sua stanza a notte fonda, dopo che qualche ora prima l’aveva respinto in malo modo. Per un istante si illuse che avesse cambiato idea su di lui, ma lei prevenne ogni falsa aspettativa.
- Sapete benissimo perché sono qui. Voglio la verità. – esclamò a bruciapelo, senza lasciare al suo interlocutore il tempo di riemergere del tutto dal dormiveglia.
- Anna, vedete, vi ho già detto quello che so. Sono desolato di non potervi aiutare. – rispose, sforzandosi di trovare il sorriso adatto, che, in quel frangente, chissà come, non gli usciva spontaneo.
Non gli diede il tempo di mettere insieme altre parole, gli si parò davanti con aria ostile, imbronciata. Gli occhi scuri scintillavano di indignazione mentre lo fissava a meno di un metro da lui. Jerome ritenne opportuno alzarsi in piedi e piantarle in viso il suo sguardo più convincente.
-Non mi immischio nelle faccende private dei miei amici, se permettete. So soltanto quello che Antonio mi ha riferito. – si giustificò.
- Avete un bel modo di non immischiarvi nelle faccende private dei vostri amici…- alludendo non troppo velatamente al modo in cui si era insinuato fra lei ed Antonio.
- In questo sono stato aiutato da voi. – disse lui avvicinandosi fino a pochi centimetri dal suo viso.
- LeBlanc, che intenzioni avete? Quando la smetterete con questa farsa? – lo minacciò, portando le mani avanti, sulla difensiva.
- Farsa? Quella che ha inscenato il vostro Antonio, forse. Io non fingo con voi. – rispose, indignato, ferito nel suo amor proprio.
-Voglio, dunque, che mi sveliate quale sia questa farsa. Anzi, lo pretendo. – rinfocolò lei la discussione, voltandogli le spalle come per dargli il tempo di riflettere.
- Non lo so che cos’abbia in mente Antonio, non capisco il motivo per cui voglia rinunciare a una donna come voi. – le rispose francamente, appoggiandosi alla scrivania a braccia conserte, intenzionato a non proseguire oltre quel discorso.
Anna si voltò per scrutarne lo sguardo, mentre la candela, ridotta ormai ai minimi termini, stava esalando gli ultimi bagliori e la stanza stava precipitando sempre più nell’oscurità, nonostante fuori cominciasse ad albeggiare. Le stava tenendo nascosto qualcosa, era più che evidente. Ma che cosa? E soprattutto, quale ruolo aveva Antonio in tutto questo?
- Vedete, – fu costretto ad aggiungere per spezzare quel silenzio che si era fatto troppo greve, carico di parole non dette, di rimproveri muti, di congetture senza riscontro – abituato come sono a passare la giornata fra queste carte, ho perso dimestichezza con i sentimenti, ammesso che io l’abbia mai avuta. Dunque non riesco a comprendere il mio amico Antonio e non so spiegare a voi il motivo del suo comportamento. –
Anna lo studiava, guardinga, sospettosa, mentre le si accostava nuovamente, cercando il suo sguardo quasi con impertinenza.
- Di una cosa, però, sono certo: al suo posto non vi avrei mai lasciato andare, non avrei mai accettato di perdere una donna straordinaria come voi. Per niente al mondo. Una parola, Anna, una sola parola e farò quello che vorrete, verrò con voi a Rivombrosa. – Ogni parola venne pronunciata con tono sommesso, quasi bisbigliata nell’oscurità, come se gli mancasse il coraggio di sentirle risuonare. La guardava, ormai, da molto vicino.
Anna si irrigidì, arretrò e, voltandosi di scatto, afferrò la maniglia della porta.
- Tornerò a Parigi. – dichiarò sulla soglia.
- Ma come…- tentò di obiettare Jerome.
- Non ora. Il bene di Emilia prima di tutto. La accompagnerò a Rivombrosa. Ma appena mi sarà possibile tornerò. Voglio che Antonio mi dica in faccia come stanno le cose, visto che voi vi rifiutate di dirmelo. – concluse abbassando lo sguardo stizzita. Poi, sollevando gli occhi su Jerome. – Avete detto che esaudirete quello che vorrò. Mi dovete promettere una cosa: mi terrete al corrente di tutto quello che succederà a Parigi, di tutto quello che saprete sul conto di Antonio. È l’unico favore che vi chiedo. – e si congedò con un cenno del capo, richiudendo la porta dietro di sé, mentre l’alba plumbea d’inverno si insinua tra le imposte, rischiarando il viso contrito di Jerome.
 
-Arrivederci, marchesa, arrivederci Emilia. – si congedò nella bruma di un mattino grigio e freddo, in piedi sul predellino della carrozza, sporgendosi per qualche istante all’interno. – Fate buon viaggio. – concluse senza aver ottenuto alcuna risposta.
- Arrivedervi, Jerome. – lo salutò infine Emilia, con un sorriso riconoscente per averle accompagnate. Anna, invece, si chiuse nel suo silenzio, osservando la sagoma scura, avvolta in un pesante mantello di pelliccia, allontanarsi sempre più nella campagna nebbiosa.
 
   
 
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