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Autore: ChrisAndreini    16/10/2018    1 recensioni
"Le prime cinque regole imposte alla società dei supereroi sono:
1) Ogni supereroe deve avere un localizzatore nel flusso sanguigno, che deve essere impiantato entro due anni dalla nascita del suddetto;
2) I supereroi non possono utilizzare i loro poteri se non in territorio da loro posseduto o con specifici permessi elargiti dalla DIS, pena la reclusione immediata;
3) Ogni supereroe deve indossare, non appena uscito di casa, uno speciale bracciale che elimina il potere, e non può essere rimosso per nessuna ragione fino al ritorno in casa o con il permesso elargito dalla DIS;
4) Non sono permesse relazioni romantiche e soprattutto procreazione tra supereroi e persone prive di poteri superumani, e ogni matrimonio tra supereroi deve essere approvato e supervisionato dalla DIS;
5) Se e solo se la DIS lo riterrà utile, un supereroe ha il dovere di servire la DIS con il suo potere e di lavorare in un ambito che possa sfruttarlo nel modo migliore"
Quando un'onda di energia magica si abbatte sulla città, creando il caos, Eryn Jefferson, supereoina nata senza poteri, cercherà di cambiare le cose.
Genere: Azione, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Triangolo
Capitoli:
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L’alba di una nuova era

 

L’attesa della pizza non era stata lunga, su questo Pat aveva avuto ragione, e la pizza era davvero buona.

Solo che il capo di Eryn non aveva calcolato la lunghissima chiacchierata che si erano fatti tra un morso e l’altro, perciò erano ormai già passate le undici di sera ed avevano appena finito di mangiare.

-Quindi… dov’è adesso tuo padre? Dicono tutti che alla fine lo hanno arrestato- stava chiedendo Pat alla ragazza, sinceramente interessato, e chiedendo il conto al cameriere, che lanciò loro un’occhiata maliziosa e si diresse alla cassa.

-Già, la stampa lo ha massacrato, odiosi Fontaine! Non lo hanno arrestato, anche se ci è mancato poco. Lo hanno sollevato da tutte le accuse a patto che non esca mai di casa, quindi praticamente è agli arresti domiciliari e gli è permesso uscire solo in cortile, cosa che non fa mai. Vive da un suo vecchio amico, anch’egli supereroe, ma non lo vediamo molto spesso- rispose lei, con una punta di tristezza.

All’inizio lo andava a trovare fio a tre volte a settimana, ma negli ultimi tempi aveva quasi del tutto smesso di vederlo, da una parte perché aveva sempre meno tempo, dall’altra perché vederlo ridotto in quello stato la faceva soffrire terribilmente.

-Mi dispiace molto. Quando ero piccolo ricordo che lo consideravo il più grande supereroe vivente. Mi sentivo davvero al sicuro sapendo che vegliava sulla città. Ed ora per colpa di un piccolo errore si sono tutti dimenticati quello che ha fatto- commentò Pat, con lo stesso sguardo indecifrabile che aveva assunto alla fermata dell’autobus, come se stesse cercando il risultato di un’equazione impossibile.

-Ma basta parlare di me, è tutta la sera che ne parliamo- cercò di cambiare discorso Eryn, e di risollevare la situazione.

Pat annuì, proprio mentre il cameriere portava il conto.

-Oh, giusto, quanto…- Eryn fece per prendere la borsa, ma Pat la fermò con un gesto della mano.

-No, lascia stare. Ho detto che offro io- le ricordò, pagando senza esitazione e lasciando anche una buona mancia.

-Pensavo che dicessi per dire- provò ad obiettare Eryn, ma era ormai troppo tardi.

-Non dico mai le cose tanto per dire, almeno quasi mai- le sorrise, alzandosi e offrendole la mano per aiutarla a sua volta.

Fu in quel momento che uno strano vento iniziò a soffiare forte nella loro direzione, entrando dalle finestre aperte e portando con sé un suono fastidioso che mise in allerta tutti i clienti e i camerieri del ristorante, che iniziarono a guardarsi intorno confusi.

Eryn sentì un fortissimo brivido di freddo lungo tutta la spina dorsale, e un’improvvisa nausea.

Si ritrovò per un attimo senza forze, e cadde tra le braccia di Pat, che la prese con grande prontezza di riflessi, e sgranò gli occhi, preoccupato.

-Eryn, va tutto bene?- chiese, rimettendola seduta e facendole aria con la mano.

-La signorina sta bene?- chiese il cameriere che li aveva serviti tutta la sera e che sicuramente iniziava a shipparli.

-Sì, sto bene, non preoccupatevi per me, è stato… ho bisogno solo di un po’ d’aria, tutto qui- Eryn provò ad alzarsi, ma le gambe le cedettero di nuovo e fu solo grazie a Pat che non si ritrovò a terra.

-Aspetta, reggiti a me- le suggerì lui, sostenendola e prendendo senza apparente sforzo la sua borsa dei libri.

Eryn avrebbe voluto protestare, ma non ci riusciva. Temeva che se avesse detto una qualsiasi parola avrebbe vomitato, e non voleva dare spettacolo e far pensare che era stata colpa di quell’ottima pizza, perché sapeva dentro di lei che non era quella la causa.

Una volta fuori, Pat la mise seduta sulla panchina, ed Eryn iniziò a respirare profondamente, cercando di recuperare le forze e smettere di tremare.

Pat si sedette accanto a lei, lasciandole comunque i suoi spazi e cercando di non soffocarla.

In un attimo, come il fastidio era venuto, se ne andò completamente, e, ancora tremante, soprattutto per lo spavento, Eryn si asciugò le lacrime che erano uscite senza che se ne accorgesse, e si voltò verso Pat.

-Sto bene, tutto passato. Possiamo avviarci- gli sorrise, un po’ incerta, e fece per alzarsi, ma Pat la prese per il polso, costringendola a fermarsi.

La guardava come cercando di leggerle la mente o scavare in fondo alla sua anima.

-Eryn, cosa…?- cominciò a chiedere, ma un tuono incredibilmente vicino lo interruppe, insieme a una quasi impercettibile scossa sismica che però mise entrambi sull’attenti.

Un tuono? Come era possibile? C’erano poche nuvole in cielo, fino a qualche minuto prima.

Quando Eryn e Pat alzarono lo sguardo in cielo, videro enormi nuvole nere e minacciose, che coprivano le stelle e sembravano venire attirate da un punto poco lontano, nella zona più malfamata della città a pochi isolati da lì, come se un enorme tornado di nuvole avesse in quella zona l’occhio del ciclone.

Era un evento del tutto fuori dal comune, poteva essere solo opera di supereroi… ma come era possibile?

E come poteva, un supereroe, essere così forte.

Senza sapere il motivo, Eryn iniziò ad avviarsi incerta verso la direzione, ignorando gli avvertimenti preoccupati di Pat.

-Eryn… cosa stai facendo? Dobbiamo andarcene da qui!- tentò di afferrarle nuovamente il polso che aveva lasciato andare per la sorpresa, ma la sua mano andò a sbattere contro un invisibile muro di vetro, o almeno contro qualcosa che sembrava tale e circondava interamente la ragazza.

-Eryn…- provò a chiamarla, mentre un’altra scossa, leggermente più forte della precedente, per poco non lo fece cadere.

La ragazza sembrava quasi in trance, mentre si dirigeva verso l’occhio del ciclone, ma Pat non aveva intenzione di abbandonarla.

-Eryn!- la chiamò nuovamente, più forte, e lanciò un’occhiata preoccupata al cielo.

Ma un’altra cosa attirò la sua attenzione a metà strada.

L’insegna di un vecchio cinema ormai del tutto abbandonato, rovinata e arrugginita, che pendeva come una spada di Damocle proprio sotto la ragazza, che non sembrava essersi resa conto del pericolo.

Fu questione di un secondo. Nel momento esatto in cui la terza scossa, la più forte, si dipanò nel terreno sotto i loro piedi, Patrick, con riflessi degni di Robin, si gettò contro Eryn, facendola cadere a terra e prendendo il suo posto sotto il cartello, che pochi attimi dopo gli cadde addosso.

Eryn sembrò svegliarsi solo in quel momento.

-Pat…- sussurrò, ancora a terra, incapace di credere a quello che era appena successo.

La consapevolezza la colpì come un pugno allo stomaco, e senza pensare, senza riflettere, spinta dall’adrenalina e sentendo i muscoli pervasi da una forza mai provata prima, corse verso di lui, e tentò di sollevare, con tutte le sue forze, il gigantesco cartello.

Non seppe neanche lei come ci riuscì, ma senza sforzo alcuno lo prese e lo gettò a qualche metro di distanza.

-Pat! Stai bene?- gridò, avvicinandosi a lui e controllando le sue condizioni.

Il peso del cartello sembrava essersi depositato in particolar modo sulle gambe, e ad eccezione di una ferita piuttosto profonda sulla fronte, e qualche taglio e livido sulle braccia, la parte superiore del suo corpo sembrava sana.

-Pat!- lo chiamò nuovamente lei. Le lacrime le offuscavano la vista, e non aveva il coraggio di esaminare accuratamente le sue ferite.

Avvertiva il senso di colpa come un fastidioso groppo lungo tutta la gola e lo stomaco.

Non credeva neanche di riuscire più a respirare, per quanto la stesse soffocando.

Era colpa sua, solo colpa sua.

-Eryn…- Pat sollevò leggermente la mano per tranquillizzarla, la voce era ridotta ad un filo, ma era cosciente, ed era già tanto.

-Chiamo l’ambulanza, non ti lascio. Resisti ancora un po’- Eryn provò a prendere il telefono, ma il tremore delle mani glielo fece cadere.

-No!- si impose Pat, prendendo il proprio -Chiama… col… mio- le ordinò lentamente, cercando di conservare le forze.

-Cosa?- Eryn non capì, ma decise di eseguire comunque.

Non aveva tempo da perdere e si fidava del giudizio del suo capo, anche se non sempre era al passo con il suo ragionamento.

Compose in fretta il numero dell’ospedale, e chiese di mandare i soccorsi, controllando la via ed indicando il cinema. 

Per fortuna era un posto facilmente raggiungibile, e l’ospedale non era molto lontano.

-Arriveranno presto. Tu devi resistere solo un pochino, solo un pochino- provò a rassicurarlo, cercando un modo di aiutarlo, magari tamponandogli qualche ferita o mettendolo in una posizione più comoda.

Non aveva la più pallida idea di cosa fare, e temeva di peggiorare solo la situazione.

Come se non bastasse, le nuvole portate da non si sa dove stavano lasciando cadere le prime gocce di pioggia.

Almeno le scosse sembravano essersi placate.

-Vattene…- la flebile voce di Pat, ad un passo dal perdere i sensi, la distolse dalla sua ricerca dei dintorni, e si girò verso di lui, senza capire.

-No! Io non ti lascio, non posso…- fece per protestare, ma lui la spinse via.

-Vattene! Vai a casa! Fidati di me…- la supplicò, rinunciando poi a muoversi più.

Eryn si alzò in piedi, e lo guardò incerta, senza capire.

La odiava? Perché era così a causa sua? Non le sembrava un comportamento da Pat, ma non lo avrebbe biasimato, nel caso.

Era davvero tutta colpa sua.

Ma la stava guardando con paura… era spaventato da lei? Ma per quale motivo.

Il suo sguardo si fermò sul cartello che aveva gettato in un angolo come se fosse un foglio di carta, e un terribile dubbio iniziò ad insinuarsi nella sua mente.

Aveva per caso utilizzato… un qualche superpotere?

No, non era possibile… eppure che altre spiegazioni potevano esserci, era un cartello piuttosto pesante, una persona sola non sarebbe riuscita neanche a sollevarlo di pochi centimetri, almeno non da sola.

E lei lo aveva addirittura spostato.

Si fermò sul posto, congelata.

-Vai!- la incoraggiò un’ultima volta Pat, e questa volta decise di non farselo ripetere.

Non sapeva perché, ma sentiva che Pat aveva ragione, e doveva allontanarsi da lì, prima che la DIS intervenisse, prima che ferisse Pat più di quanto avesse già fatto.

Non sapeva cosa fosse successo e come potesse rimediare, e si ritrovò a correre, come se ne dipendesse dalla sua vita, con la borsa in spalla stretta come fosse una bomba ad orologeria che doveva allontanare in tutta fretta o un orsacchiotto di peluche che l’avrebbe protetta dalla pioggia, dal vento e dalle avversità della vita.

Corse senza neanche sapere esattamente dove stava andando, con gli occhi pieni di lacrime e le mani sporche di sangue, pregando in cuor suo che fosse tutto un brutto sogno.

 

Le persone erano convinte che Madison si svegliasse la mattina già pronta e perfetta.

Tutti quelli che la conoscevano lo davano per certo, anche i membri della famiglia con cui aveva vissuto per gran parte della sua vita.

Solo sua madre conosceva però la verità, dato che era l’unica che l’aveva vista appena sveglia, in quanto sua sveglia personale fino ai tredici anni.

Madison, di prima mattina, era quanto di meno perfetto esistesse al mondo.

Nonostante ci provasse in tutti i modi ad essere l’equivalente di una principessa dei cartoni animati, la cosa non le riusciva per niente, e oltretutto, svegliarsi la mattina, per lei, era una vera tortura.

Soprattutto quando a svegliarla erano chiamate di lavoro.

Erano a malapena le cinque quando il cellulare iniziò a squillare, e la giovane donna, con la benda sugli occhi, lo cercò a tentoni con un certo fastidio.

-Pronto?- rispose, con il tono più professionale che riuscisse a tirar fuori, togliendo la benda e mettendosi a sedere sul letto.

-Un’effrazione? Dove?- chiese, mentre il suo capo le spiegava frettolosamente la situazione.

-Torre De Marco? È stato rubato qualcosa?- continuò ad indagare, andando alla toeletta e iniziando a sistemare i capelli.

L’informazione che sentì subito dopo per poco non le fece cadere il telefono dalle mani.

-Un supereroe? È sicuro?!- chiese incredula.

Possibile che con tutti i controlli della DIS un supereroe fosse riuscito ad intrufolarsi in uno degli edifici più controllati e sicuri della città?

Scosse la testa, cercando di non farsi film inutili, e iniziò a segnare su un bloc notes tutti i dettagli del caso. Sarebbe andata a dare un’occhiata appena pronta.

Certo che… un supereroe in uno degli edifici più protetti della città… sembrava piuttosto sospetto.

 

Quella mattina, in casa Jefferson, le cose cominciarono in maniera piuttosto insolita.

Quando Robin entrò in cucina, nervoso e pronto a litigare con la madre sulle regole che i supereroi dovevano rispettare, vi trovò Eryn già seduta a colazione, intenta a fissare il piatto di uova e pancetta senza averne preso neanche un boccone e con due borse sotto gli occhi così profonde che Robin era convinto che si sarebbero staccate dalla sua faccia e sarebbero corse nel negozio di Prada più vicino per vendersi a caro prezzo.

Si sedette senza dire una parola, e sua madre gli porse all’erta la tazza di latte e i cereali.

-Buongiorno, tesoro- lo salutò con un sorriso.

Robin però continuava a fissare la sorella, e rispose alla madre solo con un cenno.

Non era il più sveglio della casa, ma aveva capito che qualcosa non andava.

-Allora, Eryn, hai fatto le ore piccole stanotte?- indagò, in tono malizioso -Mamma ha detto che avevi un appuntamento- la prese in giro.

Eryn sobbalzò rendendosi conto solo in quel momento dell’arrivo nella stanza del fratello minore.

Scosse la testa violentemente.

-Non era un appuntamento, solo una cena tra amici! Non rompere Robin, non sono dell’umore!- gli sbottò contro, facendolo ritirare.

Eryn non perdeva mai la pazienza con lui in quel modo, o almeno non alla prima provocazione.

-Ti sei svegliata con il piede sbagliato, oggi, “senzapoteri”?!- si arrabbiò, incrociando le braccia e guardandola storto.

-Ragazzi, su, non litigate. Eryn, Robin non voleva…- cercò di troncare la discussione sul nascere Deborah, ma Robin non aveva intenzione di demordere.

-Non pensare di sapere sempre quello che voglio dire!- urlò contro la madre, che sospirò, stanca delle continue liti.

-Robin, non intendevo…- provò a fare un passo indietro, ma il ragazzo non aveva finito.

-Invece lo intendi sempre. Credi di conoscermi ma non sai assolutamente nulla di me, e…- ma il litigio solito, che Eryn aveva sempre assistito come spettatrice esterna da camera sua, venne interrotto da quest’ultima, che sbatté i pugni contro il tavolo, facendolo tremare interamente ed attirando l’attenzione dei due commensali.

-Piantatela di litigare ogni mattina per delle sciocchezze. Robin, sei davvero un ragazzino viziato e insopportabile e Madison ha ragione a dire che sei un ingrato e dovresti essere trattato peggio. Mamma, smetti di pensare di risolvere ogni cosa in modo passivo perché peggiori solo le cose! Ci sono problemi peggiori al mondo che quelli per cui sempre litigate, perciò dateci un taglio!- ordinò loro, alzandosi e lanciando ad entrambi un’occhiataccia prima di dirigersi in bagno, per lavarsi, vestirsi ed uscire, senza aver toccato cibo.

Robin e Deborah rimasero sbigottiti ed in silenzio.

C’era qualcosa che proprio non andava in Eryn quella mattina.

Sua madre aprì la bocca per dirgli qualcosa, ma Robin non era già più lì.

Era in camera della sorella e ispezionava il cellulare controllando se avesse ricevuto un qualche strano messaggio.

Non c’era niente di sospetto, così rivoltò la borsa che la sorella aveva utilizzato per uscire, e la ricompose subito dopo non trovando nulla.

Infine decise di controllare l’armadio, e per la prima volta in vita sua si fermò completamente, ghiacciato sul posto, quando si ritrovò a stringere una maglia sporca di sangue.

La sua mente non era abbastanza veloce per elaborare le possibilità, perciò rimase a fissare la maglia senza sapere cosa pensare per qualche secondo di troppo.

Quando la porta si aprì, fu abbastanza veloce da rimettere tutto a posto e posarsi sulla scrivania con nonchalance, nascondendo le mani sporche dietro la schiena.

-Robin! Che ci fai in camera mia?! Esci immediatamente!- Eryn gli indicò la porta con veemenza, facendolo sobbalzare, ma il ragazzo tentò di mantenere il sangue freddo e la calma.

Sbuffò sonoramente, ma si vide bene dall’incrociare le braccia per evitare che la sorelle gli vedesse le mani.

-Uff, esco. Mi sono sbagliato, ok?! Capita a tutti! Ti lascio, vedo che hai le tue cose- quella che doveva essere una provocazione detta senza pensare fece impallidire Eryn, che bloccò la porta prima che Robin potesse uscire, improvvisamente spaventata.

-Perché dici questo?- chiese in tono più acuto del normale.

Robin non capì subito, dato che non aveva fatto del tutto attenzione a quello che lui stesso aveva detto, ma quando se ne rese conto sgranò leggermente gli occhi.

Il sangue sulla maglia. Forse Eryn pensava che lo avesse visto.

Fece l’ignorante, e sbuffò di nuovo.

-Sei più nervosa e rompiscatole del solito. Perché fai quella faccia? È una faccenda di stato? O sei solo sconvolta che so queste cose? Nel caso non te ne fossi accorta, sono ormai diciassettenne, e vivo con sole donne, sfortunatamente! Con un solo bagno!- la provocò.

Eryn tirò un discreto sospiro di sollievo, e si scansò dalla porta, aprendola e indicando fuori.

-Non sono tenuta a risponderti. Ora esci, mi devo vestire!- lo incoraggiò, sempre irritabile ma con tono leggermente addolcito.

“Spero con abiti puliti” pensò Robin tra sé, senza però osare dire nulla. Uscì come un fulmine, facendo quasi cadere la sorella, e si chiuse in fretta in bagno, guardandosi le mani leggermente sporche di sangue.

Se le lavò il più in fretta possibile, e iniziò a respirare profondamente per calmarsi.

Doveva pensare bene alla situazione.

Forse era davvero con le sue cose, anche se non spiegava perché la maglietta fosse sporca e non i pantaloni.

Poi magari anche i pantaloni erano sporchi, ma comunque non aveva molto senso, anche vista la sua reazione.

E poi era davvero nervosa, e aveva espressamente detto alla loro madre che c’erano problemi gravi al mondo. Cosa era successo quella sera?! Perché Eryn era così nervosa e soprattutto cosa poteva fare Robin per aiutarla?

Perché voleva trovare un modo per aiutarla, non poteva starsene con le mani in mano rischiando che portassero via l’ultimo membro della famiglia rimasto a cui volesse davvero bene.

La DIS aveva già portato via suo padre, Eryn era praticamente tutto ciò che gli rimaneva.

Con sua madre, dopotutto, aveva un rapporto davvero conflittuale.

E Madison… beh, Madison non la considerava neanche lontanamente parte della sua famiglia.

 

La Madison in questione aveva raggiunto la torre De Marco, accompagnata dal suo collega, un uomo sulla cinquantina burbero e davvero professionale di nome William Anderson, che era più bravo a lanciare occhiatacce e a trovare indizi piuttosto che ad intrattenere una conversazione decente.

Questo lo rendeva di pessima compagnia, ma Madison non aveva il potere di lamentarsi e di farsi cambiare collega, perciò rimaneva in silenzio e pensava al suo lavoro, senza preoccuparsi troppo di quello che faceva lui.

Gli fece suonare il campanello e si mise dietro di lui dritta e in attesa, con il bracciale bene in vista in modo che si capisse chi fosse.

Era il protocollo, e lei lo trovava anche giusto. Dopotutto perché nascondere il suo ceto d’appartenenza. La trasparenza era fondamentale nel mondo.

Ad aprire la porta fu Oscar De Marco in persona, il più ricco e potente uomo d’affari della città.

Imponente e di bell’aspetto, nonostante l’età si facesse sentire e una cicatrice causata da un supereroe gli marchiasse il volto, aveva uno sguardo calcolatore perennemente presente negli occhi castani e un dente d’oro che lo rendeva più simile ad un criminale che a un uomo di successo.

Madison sapeva che suo figlio maggiore aspirava ad entrare in politica, e benché non apprezzasse particolarmente i loro affari, doveva ammettere che il programma di Finnegan De Marco le sembrava buono e in linea con il suo pensiero.

-Accomodatevi, prego. Siete mandati dalla DIS per controllare l’effrazione?- chiese accomodante, squadrandoli da capo a piedi e adocchiando con particolare interesse il bracciale di Madison.

-Sì, sono l’agente William Anderson, del dipartimento di controllo e regolazione delle leggi applicate ai supereroi della DIS, e lei è la mia collega Madison Jefferson- William mostrò il documento, e Madison fece lo stesso, poi entrambi entrarono, e cominciarono a guardarsi intorno.

-Il supereroe è salito sul tetto e sembra che abbia usato uno strano macchinario fatto in casa. Non ha rubato nulla, ma è scappato senza lasciare traccia ad eccezione del macchinario. Distrutto, purtroppo- 

-Il vostro sistema di sicurezza comprende telecamere di sicurezza che possono dirci come e dove è uscito?- chiese Madison pratica, notando la telecamera all’ingresso.

Il signor De Marco le lanciò un’occhiata obliqua, e non rispose, ignorando del tutto la sua domanda.

Il silenzio si protrasse per qualche minuto, poi William prese la parola.

-Possiamo visionare le telecamere del vostro sistema di sicurezza?- chiese, burbero.

-Certamente, ma tre le dieci e mezzanotte il sistema è rimasto fuori uso, perciò non penso troverete le informazioni che cercate- rispose subito il signor De Marco, accompagnandoli nella stanza di sicurezza.

La porta si aprì prima che loro ci arrivassero, e ne uscì fuori un uomo di circa ventotto anni vestito con giacca e cravatta, perfettamente ordinato ed elegante. I capelli biondi erano corti e pieni di gel che risaltavano il ciuffo, e la barba era ben fatta e lo faceva sembrare l’uomo dalla faccia pulita che svettava sui manifesti elettorali.

-Padre, ho controllato ovunque ma nono trovato un singolo indizio utile- Iniziò a parlare con il signor De Marco senza dare segno di notare i due agenti della DIS.

-Finnegan, la DIS ha mandato qualcuno per controllare la questione. Ti presento l’agente Anderson e…- si fermò un attimo, prima di indicare Madison -…la signorina Jefferson-

-Agente Jefferson, signor De Marco. Sono un membro qualificato della DIS- lo corresse lei, in tono pacato e con un ampio sorriso formale

-Scusate, non vi avevo visto. Io sono Finnegan De Marco. Vi auguro buona fortuna, hanno davvero fatto le cose in grande. Con permesso, devo dirigermi a lavoro- fece un cenno con il capo a ciascuno dei due, soffermandosi per qualche secondo in più sul volto di Madison, che notò che gli occhi castani uguali a quelli del padre erano decisamente meno ostili, poi con un sorriso di circostanza si diresse in salotto, probabilmente per prendere il necessario prima di uscire.

Madison lo osservò finché non fu completamente fuori dalla portata visiva, poi seguì il signor De Marco e l’agente Anderson nella stanza di sicurezza.

-Ecco qui, potete girare liberamente per il palazzo, fare tutte le indagini che volete. Io devo andare a lavoro purtroppo, ma potete rivolgervi a mia figlia Drusilla se avete bisogno di qualcosa. È in camera sua, al settimo piano. Non si sente molto bene, perciò spero non la disturbiate per motivi futili- lanciò in particolare un’occhiata ammonitrice in direzione di Madison, che non diede segno di notarlo.

-La casa era vuota ieri notte?- chiese la ragazza, mentre l’agente Anderson iniziava ad analizzare i file dal computer.

-Certo che era vuota, altrimenti avremmo notato l’effrazione- rispose il signor De Marco, come se stesse parlando ad una bambina piuttosto stupida.

-Non c’erano neanche domestici o una sorveglianza?- insistette Madison, prendendo appunti ed annotando mentalmente anche l’atteggiamento con cui lui le avrebbe risposto.

-Il fatto che sia una grande casa non vuol dire che sia sempre popolata. Abbiamo i sistemi di sorveglianza apposta- rispose lui, iniziando ad irritarsi e controllando l’orologio -Vi devo proprio lasciare, prendetevi il tempo che volete- e con un cenno del capo rivolto quasi esclusivamente all’agente Anderson, fece dietro front ed uscì.

-Sembra nascondere qualcosa- commentò Madison una volta assicuratasi che fosse fuori dalla portata d’orecchio.

-Solo perché ha dei preconcetti non significa necessariamente che nascondi qualcosa- William scosse la testa, e iniziò ad analizzare i dati del computer per controllare che qualcuno avesse effettuato l’accesso per cancellare i video di sorveglianza e a quale orario. Stranamente, la ricerca non portò ad alcun risultato.

-Chiunque sia entrato nel computer non ha lasciato la minima traccia. Deve essere un hacker davvero esperto- William sospirò, e si alzò per controllare eventuali segni di effrazione sulla porta della stanza.

-Dovremmo requisire le telecamere di sorveglianza di tutti i negozi vicini, devono aver per forza aver ripreso qualcuno lasciare l’edificio. Se nessuno ha visto nulla, come fanno a sapere che sia opera di un supereroe?- chiese Madison, chiamando la DIS per richiedere un permesso.

-Hanno trovato un bracciale, accanto al macchinario rotto- rispose il collega, arrendendosi al fatto che nessuno si era introdotto nella sala di controllo e iniziando a dirigersi verso il tetto per controllare il macchinario, che si rivelò, a primo impatto, davvero sorprendente. Sebbene chiaramente fatto in casa, la cura che il criminale ci aveva messo era incredibile, e Madison trovò che fosse davvero uno spreco che fosse ormai quasi completamente distrutto. La parte destra sembrava essere implosa, e squarci si erano aperti sul davanti.

Quello che colpì di più Madison, però, furono due fiale internamente sporche di liquido rosso, ma del tutto vuote.

Una si era rotta contro il muro, come fosse stata sparata via dalla macchina all’improvviso, mentre l’altra era a terra, solo leggermente scheggiata, e con residui di gocce rosse che Madison riconobbe subito come sangue.

Lei e William si lanciarono un’occhiata.

-Dobbiamo analizzare il sangue, non penso appartenga al supereroe ma potrebbe esserci stato un omicidio o un complice- osservò William, prendendo la fiala e mettendola al sicuro.

-Chiamo i Navarra affinché recuperino i pezzi. Non voglio lasciarli qualche minuto in più nelle mani dei De Marco- Madison prese il telefono, ma William la interruppe.

-Li chiamo io. Tu controlla che il resto della casa sia perfettamente in ordine- la incoraggiò, prendendo a sua volta il telefono e avvicinandosi al macchinario distrutto per controllarlo meglio.

Madison strinse i denti, infastidita, ma fece come le era stato ordinato dall’agente anziano, e rientrò nell’edificio per dare un’occhiata ai dintorni e fare un quadro del probabile percorso del supereroe.

C’erano cose che non le tornavano. Come aveva fatto la DIS a lasciarsi sfuggire un supereroe, come potevano non averlo già catturato nonostante il localizzatore, e perché si era introdotto proprio in quell’edificio, di tanti posti?

Forse il macchinario, per funzionare, aveva bisogno di essere il più in alto possibile, e la torre De Marco era l’edificio più alto e imponente della città, nonché tra i più centrali.

Ma il macchinario non sembrava avesse funzionato, anzi si era completamente distrutto.

Valeva la pena rischiare così tanto per qualcosa che non era certo funzionasse? Se il supereroe si era trovato nel mezzo dell’impatto, come era riuscito a trovare la forza di scappare? Si era disintegrato nel nulla? 

E possibile che fosse una coincidenza che proprio quella sera ci fossero state tre scosse sismiche a poca distanza le une dalle altre?

Madison era così immersa nei suoi pensieri che non si accorse nemmeno della minuta figura bionda che la osservava con brillanti e taglienti occhi castani, almeno finché lei non parlò.

-Sei della DIS? Perché hanno mandato una supereroina distratta?- la insultò con voce squillante, facendola sobbalzare.

Madison si girò verso la voce, che si rivelò appartenere ad una ragazza di circa 15 o 16 anni, con un elegante tuta da casa in seta e i capelli color paglia lunghi fino alle spalle legati in un piccolo codino scomposto che stonava nell’insieme elegante.

La guardava con superiorità e giudizio, uno sguardo a cui Madison era abituata ma che mal sopportava se proveniva da una ragazzina di quell’età.

-Drusilla De Marco, giusto?- indovinò, riconoscendo in quegli occhi la stessa sfumatura castana che aveva già notato nel signor De Marco e in suo figlio maggiore.

-Vedo che gli anni di studio come detective hanno dato i loro frutti- la prese in giro la ragazza, superandola per prendere un bicchiere d’acqua e senza più degnarla di un’occhiata.

Certo che per essere “malata”, come aveva sostenuto il signor De Marco, sembrava avere fin troppe energie.

Madison decise di ignorarla. Non aveva niente da chiederle, e continuò la sua ispezione, che non diede, purtroppo, nessun risultato.

Non che lei ci sperasse, più di tanto.

 

Robin era stato così occupato e preoccupato a pensare al “Problema Eryn” che aveva passato una giornata di scuola quasi normale, e non si era messo nei guai in nessun modo, né aveva lanciato risposte sarcastiche o aggressive alle domande dei professori.

Ma purtroppo la giornata non era ancora finita.

Durante la pausa pranzo, infatti, era tranquillo e non molto sereno intento a mangiare il panino che sua madre gli aveva preparato, seduto su una panchina all’aria aperta, dato che non era accettato in nessun tavolo della mensa, quando delle voci concitate e risatine canzonatorie attirarono la sua attenzione, e per un attimo lo distolsero dal pensiero del sangue ritrovato sulla maglia di sua sorella.

Alzò lo sguardo e lo puntò su Travis Roberts, bulletto da strapazzo rimandato parecchi anni e la sua banda di seguaci tutti muscoli e niente cervello, che se la stavano prendendo con una ragazzina del secondo anno un po’ in carne e con lo stesso bracciale che circondava il polso di Robin.

Strinse i denti, infastidito.

-Con i soldi illegali che tuo padre si fa potresti permetterti di vestirti un po’ meglio, sai?- Travis punzecchiava la ragazza, tirandole la gonna, che lei cercava invano di tenere bassa.

-Per favore, lasciatemi stare- si lamentò lei, a voce così bassa che Robin riuscì a malapena a sentirla. 

La riconobbe, e la sua rabbia aumentò.

Era la figlia di Henry Hopper, alias “Incubus”, l’ex-supereroe più controverso, ovviamente escluso Steven Jefferson. Il suo potere era di riuscire a prendere l’energia al minimo contatto, e a controllare in parte la mente e soprattutto le emozioni. Più il contatto era intimo, più il suo potere era forte. Un tema davvero scomodo.

Senza neanche rendersene conto, ma con l’istinto che vinceva su ogni cosa, Robin si alzò, e posò il vassoio in un angolo. Erano in pochi in cortile, e tutti gli altri non avevano neanche alzato lo sguardo, noncuranti della situazione.

-Dicono tutti che hai i suoi stessi poteri, cosa si prova ad essere nate con il gene della prostituzione nelle vene?- le chiese Travis, facendole abbassare lo sguardo.

-Devi sentirti fortunata, con il tuo fisico solo con dei poteri potresti convincere un ragazzo a stare con te- aggiunse un altro, sollevando uno scroscio di risa e battendo il cinque al capo del gruppo.

Gli occhi della ragazza erano pieni di lacrime, e si abbracciava come a proteggersi, senza successo.

-Lasciatela stare!- questo era troppo per Robin, che si diresse senza esitazione verso il gruppetto, nonostante fosse in netta minoranza e le leggi gli impedivano di fare alcun male a chiunque non avesse poteri.

-Ecco qui uno traviato dai suoi poteri- commentò uno dei bulli.

-No, macché, questo è il figlio di Mr. Change. Ha preso il caratterino del padre. Adorabile. Che vuoi farci, eh?- lo provocò Travis, dandogli una spinta, quasi divertito.

Robin avrebbe voluto rispondere con una frase intelligente o un commento sveglio, magari che mettesse in mezzo bullismo psicologico. Avrebbe potuto ricordargli che nonostante il suo essere migliore non avrebbe comunque mai trovato lavoro dato che era stupido come una capra, oppure parlare dei suoi genitori, decisamente peggio di quelli della ragazza che stava importunando, ma Robin non era bravo con le parole, nonostante fosse bravo a litigare, e soprattutto sapeva già che parlare, con un gorilla del genere, non sarebbe servito assolutamente a nulla.

Perciò fece la prima cosa che gli venne in mente, e che non avrebbe dovuto neanche pensare di fare. 

Sfogò la frustrazione che si portava da anni e anni in un pugno ben assestato che mandò Travis a terra, cogliendolo del tutto alla sprovvista.

I pochi ragazzi in cortile si girarono verso di loro, e senza neanche aspettare un cenno del loro capo, i compari del bullo presero Robin per le braccia, cercando di immobilizzarlo.

La ragazza indietreggiò lentamente e scappò via, e Robin ne fu felice. Almeno era riuscito nel suo intento.

Cercò di liberarsi dalla presa dei due ragazzi che lo stavano torchiando, ma erano più grossi e forti di lui.

Travis si alzò massaggiandosi la guancia sinistra, sulla quale era ben visibile una ferita dalla quale iniziava a sgorgare sangue. I suoi occhi mandavano scintille. Era furente.

-Te ne pentirai amaramente, vermiciattolo- lo minacciò alzando il pugno.

Robin chiuse gli occhi e si preparò all’impatto, ma il pugno che gli arrivò allo stomaco gli tolse comunque il respiro, e se i compari di Travis non lo avessero tenuto con forza sicuramente sarebbe crollato a terra.

Cercò ancora una volta di liberarsi, ma era inerme, e il secondo pugno lo colpì in pieno volto, togliendogli la vista e facendogli vedere le stelle.

Sentiva il brusio dei suoi compagni divertiti, che osservavano la scena come fosse uno spettacolo.

Razzisti, ignoranti, odiosi.

Gli montò nel petto una rabbia così forte da fargli male quasi come i pugni ricevuti, e prima che Travis potesse colpirlo di nuovo tentò un ultimo approccio disperato verso la libertà.

Questa volta, con sua somma sorpresa, lo sforzo non fu vano, ma i risultati furono disastrosi.

Riuscì a colpire con il polso destro uno dei ragazzi, ma nel farlo il bracciale che teneva al polso si sganciò violentemente, e la rabbia uscì sotto forma di una scarica elettrica che gettò  tutti i bulli da un lato, e fece urlare i ragazzi intorno.

Robin sgranò gli occhi e cadde a terra, sorpreso.

Prese poi il bracciale in tutta fretta e cercò di rimetterselo.

-Finirai in guai grossi per questo!- gli gridò Travis, rialzandosi e puntandogli il dito contro, leggermente tremante e tenendosi lo stomaco con il braccio libero.

Tutti i ragazzi intorno a lui lo fissavano, e per la prima volta nella sua vita Robin vide negli occhi delle persone che da sempre lo guardavano con superiorità la paura che aveva permesso all’umanità di soggiogare in quel modo i supereroi.

In soggezione, sommerso da una strana nausea e con la paura delle conseguenze che iniziava a farsi largo nella sua mente, Robin rinunciò a riattaccare il bracciale e scappò via, il più in fretta possibile, nel luogo più isolato che potesse raggiungere a quell’ora. Per fortuna beccò lo sgabuzzino delle scope e non finì in mensa. Almeno quella volta il suo potere non lo aveva tradito.

Cercò in tutti i modi di rimettersi il bracciale, ma sembrava rotto, e sicuramente la DIS, in quel momento, era già sulle sue tracce pronta ad arrestarlo.

Pregò con tutto il cuore che Madison non assistesse alla scena, non avrebbe sopportato il suo sguardo di giudizio. 

 

Eryn non era mai stata più stressata in tutta la sua vita.

Aveva rinunciato ad andare a lezione, quel giorno, e aveva passato la giornata a cercare informazioni su come stesse Pat e su quello che era successo la sera prima, senza il minimo successo sull’ultima parte.

Si sentiva davvero strana, e tremava, tremava da quella mattina, e non capiva assolutamente il motivo, ma era davvero all’erta, e preoccupata, e si sentiva completamente scombussolata.

Aveva scoperto che Pat era vivo, ma in condizioni critiche, e dovevano operarlo quanto prima. L’avevano trovato privo di conoscenza e ancora non si svegliava. L’ospedale non aveva voluto darle ulteriori informazioni, dato che non era un familiare, e non sapeva quando sarebbe riuscita a scoprire qualcosa e soprattutto se avrebbe avuto il coraggio di avere notizie. 

Si sentiva ancora tremendamente in colpa, e i ricordi di quella sera erano anche confusi e incomprensibili.

Come se non bastasse, al suo clima teso si era aggiunta una telefonata di sua madre che tra le lacrime l’aveva quasi implorata di andare a prendere Robin dalla sede principale della DIS e riportalo a casa, perché lei doveva lavorare e non poteva farlo, e Robin non poteva girovagare per la città da solo.

Non aveva perso tempo, e al momento passeggiava diretta nel loro minuscolo appartamento con Robin appresso, che si sistemava un enorme e sicuramente fastidiosissimo bracciale che gli copriva buona parte dell’avambraccio e si poteva aprire solo con una chiave magnetica che Eryn aveva nella borsa e che avrebbe dovuto installare in casa una volta arrivati.

Il silenzio tra di loro era denso come una lastra di vetro, ed Eryn avrebbe davvero voluto parlargli, ma non aveva idea di cosa dire e soprattutto non era abbastanza lucida per commentare quello che lui aveva fatto.

Ciò che più la preoccupava della questione, però, era che Robin non sembrava minimamente scosso, anzi, sembrava quasi soddisfatto.

Ed Eryn temeva davvero che avrebbe cercato un modo di rifarlo, e non credeva che sua madre sarebbe sopravvissuta ad un altro colpo al cuore. Aveva a malapena risolto con la DIS dimostrando in modo inoppugnabile che Robin aveva utilizzato i suoi poteri accidentalmente e che la colpa era del bracciale ma fabbricato che si era rotto.

Questo non aveva impedito alla scuola di sospenderlo, né aveva fermato la DIS da imporgli regole più dure e il bracciale più spesso, ma almeno non era stato arrestato, ed era già un risultato quasi miracoloso.

Probabilmente se Madison fosse stata lì Robin si sarebbe già trovato nelle segrete della DIS, e il fatto che fosse ancora minorenne era stato un ulteriore punto a suo favore, ma non sembrava vergognarsi di quello che aveva fatto, ed Eryn doveva assolutamente dirgli qualcosa, qualsiasi cosa.

Alla fine non riuscì più a trattenersi, e le preoccupazioni accumulate la fecero sbottare.

-Cosa diavolo ti è saltato in mente?!- chiese, spaventando Robin, che non si aspettava che lei avrebbe parlato. Molte persone in strada si girarono a guardarli.

-Non l’ho fatto apposta- rispose lui, sulla difensiva, provando ad incrociare le braccia e gemendo quando il bracciale gli fece male nel tentativo.

Si limitò quindi ad alzare le spalle.

-Robin, non credo che tu ti renda conto della situazione precaria in cui ti trovi. Perché mai ti sei infilato in quella rissa? Ti diverte tanto cercare di uccidere mamma dandole ulteriori preoccupazioni?- lo accusò, facendogli sgranare gli occhi ed inspirare bruscamente.

Non rispose, così Eryn continuò, proprio mentre arrivavano davanti casa.

-So che sei frustrato, ma non puoi semplicemente usare i tuoi poteri sugli altri. Scava solo la fossa ai supereroi, e non aiuta minimamente la nostra causa- cercò di farlo ragionare, aprendo la porta ed entrando in casa, seguita da Robin, che iniziava ad irritarsi.

-Vorrai dire la nostra causa, non la tua. Tu non sei una supereroina, non sai cosa significa!- la accusò lui, sbattendo la porta dietro di sé e cercando di togliersi, in un riflesso incondizionato, il bracciale dal polso, senza successo.

-Fidati, lo capisco più di quanto non pensi, e comunque solo perché non sono nata con i vostri strabilianti poteri non vuol dire che non tenga alla vostra libertà. Perché pensi che stia studiando giurisprudenza?!- obiettò lei, iniziando a scaldarsi, e iniziando a sentire una strana forza scorrerle nelle vene.

-Certo, perché imparare un paio di leggi ci aiuterà senz’altro, vero? Ma fammi il favore! È agendo che le cose cambiano!- rispose sarcastico Robin.

-E non ha torto su questo, è vero. Ma non credo che utilizzare i tuoi poteri terrorizzando mezza scuola permetterà ai supereroi di tornare ad essere apprezzati. Credo che tu agisci nel modo più sbagliato possibile!- gli fece notare Eryn, alzando sempre di più la voce. Dei libri sulla libreria iniziarono a tremare, ma nessuno dei due se ne accorse, troppo investiti nella conversazione.

-È stato un incidente!- gridò Robin, con tutto il fiato che aveva nei polmoni, facendo poi uscire un singhiozzo.

Eryn si calmò vedendo che alcune lacrime iniziavano a scorrergli lungo le guance. I libri smisero di muoversi.

-Cercavo solo di aiutare una ragazza. La stavano importunando e nessuno faceva nulla. È questo che devono fare i supereroi. Aiutare il prossimo. Ma poi il bracciale si è rotto. Non l’ho fatto apposta. Ti prego, Eryn, lo sai che non sono violento, e non attaccherei mai senza motivo!- cercò di convincerla, abbassando la voce e asciugandosi le lacrime.

Eryn tirò un profondo sospiro, e gli si avvicinò, abbracciandolo stretto.

Lui singhiozzò più forte.

-Non voglio che mamma muoia per la preoccupazione- sussurrò con voce impastata, ed Eryn sorrise tra sé, e gli diede qualche pacca sulla testa.

-Lo so, Bobi, lo so. Mi dispiace di averlo detto- lo rassicurò.

Dopo qualche minuto di conforto, Eryn sciolse l’abbraccio e riuscì ad installare la chiave magnetica per permettere a Robin di togliersi il bracciale. Poi ognuno tornò in camera propria, con i rispettivi pensieri e preoccupazioni, ma felici di essersi in parte chiariti tra di loro.

 

 

Una ragazzina dai codini biondi e un sorriso vagamente inquietante si avvicinò curiosa alla cella metallica e super tecnologica dove aveva rinchiuso la figura incappucciata, che tremante e debole, continuava a tenere il cappuccio premuto sul volto, non tanto per non essere riconosciuta, ma per pudore. 

In ogni caso era improbabile che qualcuno avrebbe riconosciuto il suo volto, ormai distrutto da cicatrici che gli avevano sfregiato la parte destra del corpo.

-Ti ho portato degli antidolorifici. Papà dice di trattarti bene, quello che hai fatto lo incuriosisce davvero tanto- la ragazzina lanciò nella cella un contenitore di pillole enormi, e si avvicinò per osservare la figura.

I grandi occhi castani la osservarono con avidità, come un predatore che studia la preda prima di agire.

La figura non le badò molto, e si limitò a prendere le pillole, tremante e a mandarne giù un paio, nonostante non avesse acqua.

La gola faceva male, ma non ci badò più di tanto.

Se lo meritava, in fondo.

Non aveva tenuto conto delle possibili conseguenze sul suo corpo.

-Senti, prima che papà torni a controllarti ed eventualmente a torturarti… è opera tua, vero? L’onda sonora, l’ho sentita chiarissima, e sono stata male tutto il giorno, ma poi…- la ragazzina si portò la mano davanti al viso, e lentamente le dita iniziarono ad unirsi, e la mano ad assottigliarsi, finché all’estremità del braccio era comparso quello che sembrava un affilato coltello da macellaio.

-È merito tuo? Perché se è così, grazie. Amo i coltelli. Ho sempre voluto essere una supereroina così. Potrò proteggere la mia famiglia, e diventare la ragazza più potente del mondo! E la DIS non potrà fermarmi- iniziò a ridacchiare eccitata.

Una risata maniacale, malata.

La figura non emise un fiato, e si limitò ad osservare il suo operato, senza traccia di rimpianto o soddisfazione.

Era solo molto, molto stanca.

Sperò solo che, alla fine, avrebbe raggiunto il suo obiettivo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(A.A.)

Il capitolo è abbastanza pronto da un po’, e ho anche quasi finito il prossimo, ma ho avuto difficoltà con la scena di Madison, non sapevo bene quanto dire, come dirlo, quanto descrivere. Alla fine è uscita abbastanza bene (e più lunga di quanto pensassi), ma comunque è stato complesso.

Ho introdotto nuovi personaggi, molti nuovi personaggi, e ce ne saranno ancora di più.

Che ne pensate di William Anderson? E dei De Marco?

Immagino che la lista di persone odiose si stia ampliando più di quella delle persone decenti, ma ogni cosa a suo tempo.

Molte sono le domande di questo capitolo. Pat se la caverà? Come ha fatto Eryn a sollevare tutto quel peso? Robin si calmerà o il suo sgarro gli darà la carica per riprovarci? Madison capirà cosa è successo alla torre De Marco? L’onda sonora ha causato altre conseguenze? 

E chi è la ragazza con i codini biondi (ok, questa è scontata e ovvia) ?

Fatemi sapere cosa ne pensate della storia, che spero continuerà a piacere alle due persone che la stanno leggendo, e se avete teorie, ship, richieste o commenti di alcun genere fatemelo sapere con una recensione o un messaggio privato.

Spero di sentire qualcuno.

O no, alla fine non mi aspetto nulla.

Un bacione e alla prossima :-*

   
 
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