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Autore: Nadine_Rose    18/10/2018    1 recensioni
Sarah ed Hermann sono rispettivamente due tra le tante vittime e i tanti carnefici nell’ora più buia della storia dell’umanità. Il campo di Fossoli, anticamera dell’inferno nazista, sarà la loro comune e perenne prigione d’amore malato.
Matteo, un giovane pescatore, sarà colui che proverà a sciogliere il cuore di Sarah dalle catene del tenente Hermann, nello speranzoso e disperato scenario del dopoguerra napoletano.
[Capitolo 65: Un amore a Fossoli]
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Genere: Drammatico, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate | Contesto: Olocausto, Dopoguerra
Capitoli:
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Capitolo 2

 

Tristemente prescelta, felicemente amata

 

“Ciò che ero solito amare, non amo più; mento: lo amo, ma meno; ecco, ho mentito di nuovo: lo amo, ma con più vergogna, con più tristezza; finalmente ho detto la verità. È proprio così: amo, ma ciò che amerei non amare, ciò che vorrei odiare; amo tuttavia, ma contro voglia, nella costrizione, nel pianto, nella sofferenza. In me faccio triste esperienza di quel verso di un famosissimo poeta: «Ti odierò, se posso; se no, t’amerò contro voglia».”

Francesco Petrarca, Ascesa al Monte Ventoso

 


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Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”

 

Napoli, maggio 1946

 

Ogni mattina alla stessa ora, quando il sole iniziava a regalare il suo calore e l’asta del pesce era ormai conclusa, Matteo alzava gli occhi dalla rete che stava riparando e lei era lì, appoggiata alla ringhiera della banchina, con lo sguardo fisso verso il mare, avvolta da un alone di misteriosa e intrigante malinconia. Forse era il suo rituale prima di andare al lavoro, dato che indossava una divisa da cameriera. La camicetta bianca esaltava il colore nero dei suoi lunghi capelli e la gonna nera a campana si adattava perfettamente alle forme del suo corpo. L’eleganza nel portamento donava agli abiti che indossava particolare classe e dignità. Un forte scappellotto lo riportò alla realtà.

“Mattiuccio, acàla ’a capa e fatìca!”[1] lo rimproverò il compare e Matteo accennò un sorriso per nascondere il suo imbarazzo.

Anche la ragazza, guardando quella scena, sorrise per poi andare via in fretta.

“Faresti meglio a togliertela dalla testa, la romana non è pane per i tuoi denti”, continuò il compare con tono canzonatorio. “è una tipa un po’ altezzosa che sta sempre sulle sue, lavora al Gran Cafè.”

“Compàr, site addiventato ’nu carabinièr?”[2] lo interruppe Matteo e il discorso si concluse con una risata collettiva.

Il giorno dopo, Matteo era seduto a uno dei tavolini del Gran Cafè.

 

Sarah raggiunse in gran fretta il Gran Cafè, un bar poco lontano dalla banchina e a due passi dalla spiaggia, velocemente legò i capelli in uno chignon e indossò il grembiule bianco. Sempre carina e sorridente, lavorava con grande professionalità; educata e precisa, a volte assumeva un’espressione così seria da farla sembrare quasi presuntuosa. Tirò fuori il blocchetto dalla tasca della gonna e iniziò a prendere le ordinazioni ai tavolini all’aperto. Lavorava sodo per costruirsi una nuova vita in quella provata ma ridente città della provincia di Napoli, per mandar via i pensieri tristi e dimenticare gli anni della guerra, per dimenticare la sua prigionia a Fossoli. Di Hermann non le restava altro che il rumore atroce di un colpo alla testa e la mera speranza in una sua fortuita sopravvivenza. In fondo, era a lui che doveva la propria vita.

Dopo la battaglia partigiana di Gonzaga, Sarah era stata accolta da una famiglia modenese e aveva vissuto nascosta nel buio del loro seminterrato insieme a una bambina ebrea di cinque anni che divenne la sua ragione di vita in quegli interminabili mesi; finita la guerra, aveva fatto ritorno a Roma ma lì il dolore per l’assenza dei suoi cari era troppo opprimente e insieme ad Hannah, una sua vicina di casa e amica d’infanzia, anche lei sopravvissuta ai campi di concentramento e sola, decise di partire alla volta della terra del sole e del mare, dei pescatori e dei naviganti, dove un vecchio conoscente di suo padre aveva offerto loro lavoro e ospitalità. E in quella terra di persone semplici e cordiali, benedetta da Dio con ogni bellezza che la guerra non aveva potuto deturpare, il suo cuore trovava un po’ di pace.

Il Gran Cafè cominciò ad affollarsi, avvolto dai raggi del sole che ne penetravano le tende, mentre la radio trasmetteva una canzone dal ritmo dolce e malinconico e, sebbene lei non conoscesse la lingua napoletana, riuscì a capire che parlava di maggio, di amore, di un addio e di un ritorno[3]. Dal palazzo di fronte vide una donna stendere energicamente un lenzuolo bianco e un ricordo, né felice né triste, si fece strada tra i suoi pensieri.

 

Campo di Fossoli, maggio 1944

 

Affacciata alla finestra della stanza di Hermann, Sarah osservava i bambini giocare all’acchiapparella rincorrendosi attorno alle loro mamme frettolosamente intente a lavare e stendere il bucato. Anche il sole si divertiva rincorrendo con i propri raggi i passi svelti dei bimbi che ridevano più forte e arrossendo i volti distesi, quasi contenti delle donne inconsapevoli del loro tragico destino. Sarah sapeva. Sapeva della tragica destinazione dei convogli ferroviari verso Auschwitz, Mauthausen, Dachau, Ravensbrück. Sapeva che a quelle donne, che si affaccendavano per l’imminente partenza, il bucato sarebbe stato tolto e che quei bambini probabilmente non avrebbero visto un’altra primavera. Destino che a lei era stato risparmiato. Lacrime di gratitudine e di senso di colpa si mescolarono sulle sue guance mentre un abbraccio l’avvolse da dietro.

“Non permetterò a nessuno di portarti via da me. Tu sei mia.”

 

Il ricordo della voce decisa e suadente di Hermann, sussurrata al suo orecchio, le attraversò con un brivido lungo tutta la schiena e si sorprese nel ritrovarsi desiderosa di sentirsi ancora al sicuro, protetta come in quella mattina assolata di metà maggio a Fossoli. Tristemente prescelta, felicemente amata. Ritornò subito in sé e, distolto lo sguardo dal balcone di fronte, continuò il giro per i tavolini.

 

Matteo arrotolò le maniche della camicia, impacciato in una tenuta per lui troppo elegante, preoccupato per la persistente ed inevitabile puzza di pesce che la quantità eccessiva di profumo non aveva di sicuro debellato. Ai suoi occhi, che non avevano smesso di fissarla, la misteriosa ragazza era sembrata allontanarsi verso un altro pianeta in un rapido viaggio che le aveva portato via il sorriso. Quando fu vicina al suo tavolino, le parole gli si impastarono in bocca come mai gli era capitato prima. Non aveva mai visto creatura più perfetta.

Sarah riconobbe subito nel volto di quel giovane uno dei pescatori che intravedeva ogni mattina alla banchina. I capelli scuri e ricci, scarmigliati gli coprivano in parte il viso un po’ stanco, precocemente segnato dal sole e dalla salsedine mentre gli occhi marroni si sgranavano in un’espressione di irrequieto stupore. Il giovane pescatore era lì per lei, intuì, già pronta a mettersi sulla difensiva.

“Che cosa desiderate, signore?” gli chiese in tono altero, corrugando la fronte e suscitando imbarazzo in Matteo.

“Un caffè espresso, grazie”, biascicò, mentre in cuor suo avrebbe voluto dirle altro, chiedere il suo nome, conoscerla di più e lo fece.

“Posso conoscere il vostro nome?” domandò con cuore a mille e, intanto, la canzone d’amore lasciò il posto a un’altra che assomigliava più al chiasso delle voci dei venditori ambulanti[4].

Sarah sospirò, alzando gli occhi al cielo in un’espressione infastidita, ma dovette rispondergli per non apparire scortese nei confronti di un cliente.

“Sarah”, disse, addolcendo il tono della voce.

“Complimenti, è un nome bellissimo, molto elegante.” La risposta del giovane piena di ammirazione le riportò alla mente un altro ricordo.

 

Campo di Fossoli, febbraio 1944

                      

Sull’attenti e tremante di paura, Sarah non osava alzare lo sguardo, limitandosi a guardare del tenente solo gli stivaloni neri. Iniziò a girarle lentamente attorno e a parlarle con voce bassa e autoritaria.

“Da questo momento sei al mio servizio, ti occuperai solo di me. Tutti i giorni dovrai tirare a lucido la stanza e il bagno, lavare e stirare le mie uniformi, soddisfare ogni mia necessità.”

Sarah era sempre più confusa e impaurita mentre una scia di profumo di ambra e muschio le penetrava nelle narici.

“In cambio sarai risparmiata al trasferimento, avrai doppia razione di cibo al giorno e, se farai la brava, ti porterò io qualcosa dalle cucine degli ufficiali”, concluse con tono beffardo per poi afferrarla per il mento, costringendola a sollevare il capo.

Sarah s’imbatté in due occhi verdi privi di un’espressione decifrabile: erano belli e feroci, ghiacciai che sembravano sciogliersi pian piano.

“Qual è il tuo nome?” le domandò severo e sprezzante.

“Sarah”, rispose con un fil di voce, incespicando nelle lettere.

è un bel nome, quasi reale”, fece il tenente, lasciandosi rabbonire nel tono e nello sguardo.

 

“Il caffè arriverà fra un attimo!” esclamò Sarah il cui sorriso tirato, forzato deluse Matteo.

E il caffè arrivò subito ma a portarglielo non fu Sarah.

“Potrei avere carta e penna gentilmente?” chiese alla cameriera con un nodo alla gola.

 

“Perché indimenticabile ancora sei per me

anche se i giorni passano più duri senza te.

Tutte le cose che farò avranno dentro un po’ di te

perché lo so dovunque andrai in ogni istante resterai

indimenticabile.”

 

Antonello Venditti, Indimenticabile



[1]“Matteo, abbassa la testa e lavora!”

[2]“Compare, siete diventato un carabiniere?”

[3]Riferito alla canzone “Era de maggio”, basata sui versi di una poesia del 1885 di Salvatore Di Giacomo e messa in musica da Mario Pasquale Costa.

[4]Riferito alla canzone “’A rumba de’ scugnizze”, scritta nel 1932 da Raffaele Viviani.

   
 
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