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Autore: Cress Morlet    19/10/2018    19 recensioni
Post Civil War
[Wanda/Visione]
Era un disastro di cicatrici aperte da un soffio di vento, di cellule pazze che si ribellavano e si suicidavano. C'era il buio anche dentro le sue ossa.
Di cosa mai doveva avere paura?
Lei era più spaventosa.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Natasha Romanoff/Vedova Nera, Tony Stark/Iron Man, Visione, Wanda Maximoff/Scarlet Witch
Note: Missing Moments, Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Everything 1

A Jill, Victoria e Mari. Siete davvero sempre con me.
A Miryel, che è la puffola pigmea del mio cuore.

It must be something that we call dream
When all you told me I know by heart
The type of beauty I call supreme
And how it's driving me crazy

No need to worry, rain falling down
It's our happiest story 
And there's no one around
We will go for it and I know
You'll be mine forever

Windows wide open, flying so high
Both of us roaming
Through magnificent sky
Rain keeps on falling and I know
You'll be mine forever

Forever, Alekseev

"Ma guarda un po' chi si rivede. La figliol prodiga."
Stronzo.
"Lo sai che esiste un mandato di cattura che grava sulla tua testa? L’ha redatto una commissione speciale, è stato creato appositamente per te. Parlava della meravigliosa prospettiva di te rinchiusa in una prigione di massima sicurezza e, mi sembra, venissero citate anche alcune torture, tanto per gradire, ma non ne sono sicuro. Perdonami, credo di essermi addormentato durante la noiosa riunione e di essermi perso qualche passaggio. In fondo, non era così interessante.”
Sei uno stronzo patetico e insopportabile.
"O forse credevi che saresti semplicemente entrata qui dentro come se nulla fosse, come se ti spettasse di diritto. Ma, Wanda, devi sapere che ho scoperto di recente un segreto. L’immaginazione è una fonte inesauribile di delusioni."
Stark le sorrise e i suoi denti bianchi fecero capolino alla luce del sole, in una smorfia divertita che strideva tagliente con le parole pronunciate poco prima.
Il suo improvviso cambio di atteggiamento e il suo sorriso aperto di scherno la infervorarono mentre osservava disgustata la metà del volto ora scoperta dagli occhiali da sole e l’aria spavalda ostentata più del solito.
Scontrò malamente contro la consapevolezza che lui era un essere orribile, un terribile uomo, un assassino libero da pesanti catene nonostante il sangue scuro che gli sporcava le mani e le anime dei morti legate alle sue spalle. Un distruttore peggiore degli altri, un eroe senza coscienza, capace di amare solo se stesso: le rovine lasciate dietro ogni suo passo dimostravano che non era mai capitato nulla di buono ai poveri sventurati che si erano avvicinati troppo a lui, perché era un uomo tra le cui carni esisteva soltanto venefico orgoglio, devastazione, morte e infelicità.
Era, in definitiva, un uomo troppo simile a lei.
“Spero che tu sappia che, se sei riuscita a entrare qui dentro e a superare ogni guardia e ogni ostacolo, è solo grazie a me. Tu sei qui, davanti a questa porta, perché l’ho voluto io. Altrimenti, a quest’ora, saresti già stata scaraventata in una prigione costruita nel bel mezzo del nulla. Ti è chiaro, Wanda?”
Lei incrociò le braccia sotto al seno e fece schioccare la lingua, evitando di ricambiare il suo sorriso falsamente amichevole. Alzò il mento e assunse un'espressione annoiata, una maschera sottile che celava a stento il suo nervosismo e la tensione che le irrigidiva i muscoli e le chiudeva i polmoni.
“Che strano silenzio. Questi sei mesi da ricercata ti hanno addomesticata?”
Stronzo.
“Spostati”, sibilò, livida di rabbia.
Aveva poco tempo e non sopportava di dover ascoltare le sue stronzate, le cazzate che sicuramente amava ripetersi allo specchio aggiustandosi i capelli disordinati. Se ne andasse via e la smettesse di pavoneggiarsi, si allontanasse dal suo fottuto orgoglio e dalle sue maledette convinzioni e la lasciasse passare.
Lei non era lì per Stark, né per i Vendicatori.
“Oh, allora parli ancora”, la derise, cattivo.
Fulmini rossi scoppiettarono tra le sue mani e salirono a contornarle i gomiti, irrigidendole la nuca.
“Stark, non sto scherzando. Non sono affari che ti riguardano”, sillabò adirata e compiendo un passo in avanti, verso l’abitazione. Il passaggio le fu bloccato dal corpo di Stark che la confinò nello spiazzo del giardino, lontana dalla porta a vetri che l’avrebbe condotta dentro gli appartamenti dove lei stessa aveva vissuto. Con la coda dell’occhio scorse il proprio riflesso negli specchi e non si riconobbe, accorgendosi tardi di essersi spaventata dinanzi all’immagine di quello che era diventata, di come era nuovamente cambiata.
La gonna ampia le arrivava a metà ginocchio e mostrava i lividi che si era procurata durante le missioni, altre ferite violacee e altre ancora che dovevano cicatrizzarsi, mentre la maglietta nera le fasciava il corpo spigoloso, evidenziando le spalle magre e le costole sporgenti. 
Nella sua mente esplose l’idea che così conciata poteva ricordare una bambina, con le occhiaie profonde e il trucco sfatto, le guance tanto magre e le labbra screpolate. Pensò che sembrava indifesa, spaventata, con lo stesso sguardo perso dei volti terrorizzati delle persone sopravvissute al disastro di Sokovia.
Sokovia, Ultron, una città nel cielo.
Pietro.

Wanda si riscosse e cercò di raggiungere la porta, mantenendo a stento il controllo sui propri poteri e sulla propria magia, e Stark non volle semplificarle la situazione, a quanto poteva constatare, e ciò le fece avvertire un inspiegabile desiderio di ridergli in faccia e di beffarsi di lui che, stronzo orgoglioso, non aveva compreso nulla della sua disperazione. Non capiva, non vedeva, che lei quel giorno sarebbe stata disposta ad arrampicarsi a mani nude sulle mura bianche di quell’immenso edificio, a sacrificare ogni cosa pur di completare la sua impresa, la sua missione.
Perché è una missione questa visita? È una questione di vita o di morte, è un piano da realizzare per un bene superiore?
O, forse, è semplicemente il capriccio della bambina che sono? Il desiderio irrequieto di vederlo, la necessità paralizzante di guardarlo, di toccarlo, di ascoltare la sua voce. E lui è qui e non sa che io lo sto aspettando.
Lui è qui e non immagina che io ho bisogno di capire se davvero non esiste più nulla per noi, se davvero ho rovinato tutto.
Se davvero ora siamo niente.
“Permettimi di ricordarti che, mentre tu hai passato gli ultimi mesi a scorrazzare da una parte all’altra del pianeta e a giocare a nascondino con l’allegra compagnia, io... sono stato qui. Con lui.”
Stark si staccò dalla porta e lei non si impaurì, non arretrò di un passo. Lo fronteggiò, le guance accaldate per l’affronto, un senso di vertigini implacabile che la costringevano a non compiere un gesto che poteva apparire avventato e ridicolo se visto dall’esterno.
Si costrinse, con forza e determinazione e non senza farsi del male, a contenere il dolore ai palmi delle mani che la supplicavano di schiaffeggiarlo.
“Quindi sì, Wanda. È un affare che riguarda anche me. Io devo assolutamente accertarmi che il motivo della tua improvvisa comparsa sia giusto e magari non potenzialmente distruttivo. Fammi un segno con la testolina, su e giù, per farmi intendere se hai compreso le mie parole”, la sbeffeggiò, le mani nelle tasche dei pantaloni eleganti, i movimenti lenti e misurati come quelli di uno squalo, a mostrarle come lei avrebbe dovuto muovere il capo.
“Sei suo padre?”, ribatté, inclinando a destra la testa.
“Suo padre, amico, collega di lavoro o compagno di pigiama party. Scegli tu.”
Piccola fuggitiva psicopatica.
Non lo disse, eppure lei trovò quell’insulto tra le righe delle sue frasi, tra l’inflessione delle lettere e le pause attentamente studiate. Era il soprannome che doveva aver sputato, acido, in tutti quei mesi, il soprannome che le aveva affibbiato credendo così di denigrarla, di infastidirla.
Non aveva neppure bisogno di leggergli la mente, come aveva fatto tante volte in passato, scoprendo così gli appellativi poco lusinghieri che le aveva sempre riservato. Sapeva bene cosa lui pensava di lei, perché odiarsi a vicenda era l’unico sentimento che avevano il piacere di condividere, l’unico modo in cui erano in grado di rapportarsi quando si manifestava il bisogno imprescindibile di un dialogo fintamente civile tra loro.
Ma, dopo tutti quei mesi, sopportare la sua alterigia era diventato qualcosa di ancora più ingestibile.
“Interessante. Adesso, Stark, ti consiglierei di...”, venne interrotta, senza alcun garbo.
“No, adesso parlano gli adulti. Hai capito?”
“E saresti tu l’adulto?”
Stark stava per risponderle con un’altra battuta tagliente e crudele, un altro insulto urlato dal suo sorriso obliquo, dal suo atteggiamento sfrontato e dal rapido scatto del braccio. Parole eclissate, scomparse, non appena riecheggiò il suono di una vocina sottile che squarciò la loro guerra, congelando entrambi sul posto.
Oh, io ho paura di essere scoperta, di dover fuggire ancora, di dovermi nascondere e proteggere. Tu, invece, perché sei tanto rigido, stupido uomo di metallo?
“Signor Stark? Signor Stark è in giardino?”
Lo vide sgonfiare il petto e passarsi una mano sulla fronte, gli occhi chiusi e un sorriso accennato.
“Peter, sono qui.”
Un ragazzino, un adolescente nascosto da una voluminosa felpa rossa e jeans, aprì di scatto la porta a vetri e si rivolse subito a Stark, il volto paonazzo, i capelli scompigliati e una strana foga nella voce.
“Signor Stark, giuro che non è stata colpa mia! Gli impianti di sicurezza sono impazziti da soli, completamente da soli! Io ero persino in un’altra stanza, non può assolutamente essere stata colpa mia. Sono totalmente, lo giuro, totalmente innocente. Io sono...”, si interruppe non appena la vide. Fece tre passi avanti, dimenticando di chiudere la porta, e la osservò incuriosito, con gli occhi che studiavano la sua figura come dinanzi ad un insetto da laboratorio schiacciato su un vetro sottile del microscopio.
Uno sguardo attento, non sfrontato, simile a quello di uno scienziato nell’attimo esatto in cui riesce a risolvere un enigma complicato, quasi impossibile, insieme ad una non poco celata euforia che gli arrossava ancora di più le guance.
“Oh. Ma è lei?”, domandò, gettando un’occhiata a Stark che gli rispose piano e con le palpebre chiuse, il capo chino a terra e le mani di nuovo infilate nelle tasche.
“Sì.”
Il bambino dell’asilo fece allora qualche passo indietro, continuando a scrutarla.
“La Strega Rossa.”
Stark sbuffò e lei soffocò il malsano desiderio di soffocarli entrambi o di gettarli sull’asfalto facendoli prima cadere da un grattacielo qualsiasi.
“Lei”, sputò quel viscido, mentre si massaggiava la fronte con movimenti circolari.
“Qui?”
“Non la vedi?”, la indicò, stendendo il braccio destro verso di lei e sforzandosi di non essere lo stesso stronzo che era stato poco prima.
“Ma come... Ah.”
Il ragazzo nascose le mani nella tasca della felpa e cominciò ad annuire da solo come se stesse seguendo un ragionamento che solo loro due potevano comprendere, in silenzio e senza bisogno di altri sguardi o parole. 
Sembrava affascinato, ancora più curioso, stranamente felice e rilassato.
E non era minimamente spaventato.
“Esatto”, esalò Stark, guardandolo con la coda dell’occhio in un atteggiamento che non riuscì a definire.
Dunque cosa ti succede? Cosa è questa strana quiete, cosa è questa calma mai mostrata a nessuno, nemmeno a Steve?
“E non dovremmo lasciarli soli? Aiutarli?”
E soprattutto cosa è questo siparietto?
“Tu chi saresti?”
Wanda decise di intromettersi, dichiarando dentro se stessa che quella situazione, già altamente ridicola, stava raggiungendo vette inesplorate. Si mise di fronte al ragazzino mingherlino e lo guardò dall’alto verso il basso, cercando di ricordarsi il motivo per cui aveva un’aria così familiare.
“Sono Peter. Parker. Peter Parker. Mi ha incontrato in Germania, io ero nella squadra del Signor Stark e saltavo da una parte all’altra, lanciavo ragnatele, ho persino rubato lo scudo a Captain America. Lei forse non si ricorda di me, avevo il volto coperto, ma sono io, sono il bimbo ragno.”
Bimbo ragno.
“Ho capito, finalmente. Sei il nuovo passatempo preferito di Stark, allora. Li sceglie sempre più piccoli, non lo avrei mai detto. O forse sì, quest’uomo è pieno di sorprese in fondo. A questo punto bisogna solo aspettare e capire se tu durerai più degli altri. Facciamo una scommessa?”, rise a denti stretti e non smise mai di osservarlo, non si perse nulla del suo volto fin troppo giovane che rimase immobile e imperscrutabile, neanche minimamente scalfito. 
Aveva un’espressione triste, una tristezza che aveva ritrovato spesso sul volto di suo fratello, come se non fosse triste per se stesso ma avesse pietà di lei e delle sue parole talmente velenose da averle reso amare la bocca e la lingua, talmente appuntite da essersi ritorte contro la sua stessa gola malamente esposta.
Nessuno dei due fece vagare altrove lo sguardo e il ragazzino si mangiò due volte le labbra prima di formare una dura linea con la bocca e di addolcirla all’ultimo con un mezzo sorriso sdentato.
Stark si era messo alle sue spalle e lei non si era neppure accorta di quel movimento spontaneo, di quell’asse di equilibrio spezzato, di quella strana pace che uccideva le sue parole furiose, le sue frasi cattive.
“Mi dispiace che sia triste. Visione si trova nella sua stanza e non si spaventi, sono sicuro che...”
Si fermò impacciato non appena Tony gli pose le mani sulle spalle e lo spinse a dirigersi da un’altra parte, a muoversi a destra per oltrepassare il giardino e avvicinarsi al grande cancello che li avrebbe portati fuori da quell’immenso edificio, da quel posto di fantasmi e rimpianti.
“Andiamo, Peter. Hai ragione, è meglio lasciarli soli.”
Notò che aveva stretto più forte le dita contro la felpa del ragazzo e che poi lo lasciò andare di scatto, indicandogli di nuovo la strada con il mento e rispondendo al suo tacito sguardo con un sorriso aperto e un movimento d’assenso del capo.
Parker parve convincersi annuendo velocemente e si mosse in avanti prima di fermarsi un’ultima volta.
“Mi dispiace davvero”, proferì il ragazzo con un filo di voce e gli occhi lucidi. 
Poi si avviò verso il giardino e non si voltò più indietro. Wanda sentì qualcosa di strano rimescolarle la pancia e, non appena Stark le passò accanto, lei non poté trattenersi e lo attaccò duramente.
“Dove hai trovato quel bambino, Stark? All’asilo? Vuoi distruggere anche lui? Cosa vuoi fare? Che cosa hai al posto del cuore, dei sentimenti, che cosa hai che ti rende così insensibile?”
Sembrava che non le avrebbe risposto e che non si sarebbe mai girato a guardarla, sembrava che le sue domande non avrebbero mai trovato una risposta e che quelle accuse sarebbero rimaste per sempre perse nel vento e nel silenzio di quello spiazzo in cui era stata lasciata da sola. Era certa che lui non avrebbe mai tradito la sua posa rigida e le spalle sdegnosamente voltate verso di lei, ne era veramente certa.
Wanda si appoggiò alla maniglia della porta a vetri e poco prima di entrare sentì distintamente l’unica frase sfuggita al suo patetico orgoglio, l’unica risposta che le avrebbe mai concesso e che non avrebbe mai più ripetuto, mai più ammesso, mai più rivelato a nessuno.
“Lui è il mio ultimo peccato.”

                                                                                                                                        ***********


Perduta, amore mio, tu sei perduta.
Tu cadi cadi giù
il mondo non ti vuole più.
Bisbiglia piano piano
non render tutto vano.
Non devi aver paura
tu sai la verità più pura.


Wanda si fermò dinanzi alla porta socchiusa della camera di Visione e cominciò a ripetere queste breve frasi, come una nenia cantilenante nella sua testa, come una ninnananna ricordata all’improvviso e da sempre conservata da qualche parte dentro i suoi pensieri, dentro le sue paure più mostruose. 
Si fermò davanti al legno scuro e respirò piano, pianissimo, tormentandosi la coscia con una mano e i capelli con l’altra, masticandosi le labbra già spaccate e mordendosi la lingua.
Sapeva che lui era lì e, forse, anche lui sapeva che lei era fuori dalla sua stanza, ferma come un’idiota, incapace di bussare e di articolare due stupide parole, un misero suono di saluto.
Cominciò a tremare, visibilmente, e a sentire la pelle fremere, prudere, mentre il Sole già basso non riusciva a stendere i suoi raggi verso di lei, all’interno di quel corridoio deserto.
Perduta, amore mio tu sei perduta.
Ingoiò aria, ingoiò bile, ingoiò il sapore amaro che le impastava la gola e chiuse gli occhi, sforzandosi con ogni fibra del suo essere ad aprire quella dannata porta.
Si strozzò con la sua stessa saliva e si infilò un pugno in bocca per soffocare il suo tossire, ricominciandosi a mordere le nocche escoriate. Una lancinante sensazione di panico la strangolò, riducendola in semplice e stupida polvere.
Pietro, ti prego dammi la forza, perché non credo di potercela fare, non penso di essere così forte, mi sento male, ti prego aiutami. Ti prego, dammi la forza di essere migliore di quello che sono sempre stata, aiutami a non scappare via, dammi la forza per non piangere perché sto già piangendo, singhiozzo già.
Ti prego, fratello mio, aiutami.
Ti prego.
“Ciao.”
La voce le era uscita talmente fioca da non averla udita neppure lei, da averla appena intuita, un fischio tremulo svanito nel nulla.
Fece un passo nella stanza, con la vista appannata, la voce smorzata e un calcio nella pancia che le arrotolava tutto lo stomaco. Un altro passo, un’altra preghiera, e lei era dentro la camera, poco oltre la soglia. 
Non aveva più respiro, aria, sangue nelle vene. Era un sacco vuoto che vedeva tutto annacquato, un burattino con i fili tagliati, il cuore scappato dalle costole fin troppo evidenti.
E lui, lui, lui, lui, lui non era stato nella sua vita se non nella forma di un’ombra, un fantasma, un’allucinazione crudele, per sei stramaledettissimi mesi.
Doloroso niente, luminosa solitudine della sua mente folle senza più il suono della sua voce: creiamo sempre ciò che temiamo di più e lei questo lo aveva imparato bruciandosi ogni quadrato di terra che aveva calpestato.
Intuì il suo volto dietro le lacrime e la bocca dello stomaco cominciò ad annodarsi, rendendole secca la gola.
“Ciao, Vis. Ciao.”
Tu cadi cadi giù.
Si pulì velocemente gli occhi per riuscire a vederlo e mantenne un’espressione calma, indecifrabile, una sottile carta velina sui suoi tratti tristi, mentre un formicolio dietro le ginocchia la spingeva verso il centro della stanza, scorrendole languido lungo tutta la sua colonna vertebrale.
Si ferì i palmi con le unghie e serrò i denti fino a provare un atroce dolore alla mandibola e a gustare un sapore metallico in bocca, nell’ansia di mantenere la calma.
Lui era lì.
Seduto composto dietro una scrivania su cui era posata una scacchiera, vestito con alcuni dei suoi semplici abiti umani, la mano ancora immobile, a mezz’aria, con un pedone bianco stretto dalle lunghe dita affusolate. Percepì quella mano stringerle il cuore, passare attraverso il suo corpo e rendersi carne tra la sua carne, il palmo tra il suo sangue e le coronarie, le unghie che le strappavano via ogni minima resistenza. Una tortura cristallizzata, un peso invisibile, un potere crudele.
Lo osservò e si sentì perduta, si sentì sconfitta, e percepì qualcosa sgretolarsi in gola e riversarsi sulla sua nuca bagnata e coperta dai capelli sudati.
Batté le ciglia una volta e, quando lo ritrovò di nuovo dinanzi a sé, capì che non era paura la sensazione spaventosa che stava vivendo, quel lieve calore stagnante tra le giunture delle sue ossa, e non era neppure panico né tristezza.
Era semplice accettazione.
“Ciao, Vis.”
“Wanda.”
Il mondo non ti vuole più.
Visione ricambiò il suo sguardo, ma non sembrava turbato o scosso. Stupito, era in parte stupito, un po’ pensieroso, attento a immagazzinare dati e niente altro. Il suo volto non tradiva alcuna emozione.
Lei pensò di avvicinarsi, ma non appena sollevò un piede decise di riabbassarlo, sforzandosi di rimanere al suo posto e di non correre da lui a nascondersi sotto il suo maglione, di non chiedergli di smetterla di fare così e di ricominciare a guardarla come aveva sempre fatto, di sfiorarla con i suoi tocchi gentili, attenti e dolci, di parlare sottovoce e di raccontarle una delle tante storie sagge e antiche che lui amava tanto leggere. Si trattenne dall’urlare mentre lo osservava rimanere lì, in quella posizione scomoda, in una maniera innaturale.
Sei diverso, questo non sei tu.
Si umettò le labbra e si passò una mano contro la fronte, costringendosi a controllare il tono della voce e a non biascicare.
Bisbiglia piano piano.
“Come stai?”
“Bene, Wanda. Grazie.”
La sua voce era meccanica, distante. Impersonale.
La agghiacciò e si insinuò tra i suoi incubi peggiori e li portò alla luce, quasi a volerle dimostrare che ciò che aveva sempre temuto si era alla fine avverato di fronte a lei. Lei che era impotente, vinta, sconfitta.
Perché lui non la voleva più.
Non render tutto vano.
“Sì. Sì, infatti, sì. Ti trovo bene. Stai bene.”
Sei diverso. Lo sento, sei diverso.
Sembri tu, ma non lo sei.
Sei rigido, come una macchina, proprio tu che una macchina non lo sei mai stato.
Mi guardi e non sbatti le ciglia, mi guardi e non mi vedi, sei qui e non lo sei.
Che cosa è successo?
Che cosa ti ho fatto?
Non riesco a leggerti la mente, non sento niente.
Niente.
Niente di niente.
“C’è qualche problema, Wanda?”
Non devi aver paura.
Rimase ferma ad osservarlo e lui posò il pedone vicino al profilo della scacchiera e poi si alzò dalla sedia, spostandosi dinanzi alla scrivania, con dei movimenti lenti e precisi che le calpestarono il cuore che aveva dimenticato lì, sul pavimento, da qualche parte. Le era caduto non appena aveva messo piede in quella stanza e non poteva adirarsi con nessuno, non ne aveva il diritto, perché lei aveva sempre avuto così poco riguardo nei confronti delle proprie cose, anche di quelle a cui teneva di più, che non poteva biasimare gli altri che seguivano semplicemente il suo esempio, no, non poteva adirarsi, non poteva.
“Che cosa hai combinato, Vis?”
Lo osservò ancora e smise di tremare, raddrizzando le spalle e concedendosi soltanto di continuare a tormentare le pieghe della gonna. Inclinò il capo e notò il modo in cui lui respirava, fin troppo lentamente, come se quell’alzarsi e abbassarsi del petto gli provocasse fatica. Quasi non deglutiva e aveva uno sguardo lontano, irraggiungibile.
I suoi occhi erano azzurri e senza più il cerchio dorato intorno alle pupille.
Tu sai la verità più pura.

Consumò velocemente la loro distanza e pose le mani, aperte e con le dita distese al massimo, vicino alle sue tempie, impedendogli anche solo di capire che cosa lei aveva intenzione di fare. Lui arretrò, scostandola, ma lei si addossò completamente al suo corpo rigido e dai palmi lasciò fuoriuscire la sua magia, dei tentacoli rossi che la collegarono ai pensieri della sua mente e che le trasmisero immagini spezzate e rovinate, tagliate, in bianco e nero, di una serie di codici binari.
La lingua le si attaccò al palato ma lei riuscì a mormorargli un ‘fidati di me’ che le costò dei lampi viola dinanzi alle pupille nere. 
Allargò le dita e digrignò i denti, respirando male, irrigidendo i muscoli.
“Wanda, cosa stai facendo? Dovresti allontanarti, devi allontanarti.”
Ascoltò la sua voce cambiare, vibrare al pronunciare le ultime due parole, e allora chiuse gli occhi e si concentrò, sfogliando i messaggi cifrati che si ripetevano sistematicamente nella sua testa. Visione fece un altro passo indietro, ma fu fermato dal ripiano della scrivania, ritrovandosi ingabbiato tra il legno e lei, le sue gambe, la sua gonna.
Perse, come un oggetto in bilico che crolla, l’aura di compostezza che lo aveva cristallizzato fino a quel momento e tentò di allontanarla, toccandole le spalle e poi le braccia, senza potersi avvicinare alle mani. Le strinse i gomiti e lei ricordò l’incidente in Nigeria, quando non era stata in grado di controllare la sua magia, di seguire il flusso dei suoi poteri distruttori, e aveva fatto del male, senza volerlo, causando l’ennesima catastrofe e le ennesime morti. 
Mosse le dita ricoperte di anelli e attenuò il colore vermiglio dei lampi che si intrecciavano ai suoi polpastrelli e che scendevano verso la testa di Vis. Schiuse la bocca e tentò di calmarlo, mentre il suo animo tormentato non le dava tregua.
Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.
Che cosa hai fatto?
Perché i tuoi occhi sono diversi, perché? Dimmelo, che cosa è successo? Che cosa hai, che cosa posso fare? Parlami, per favore.
“Sei davvero qui”, udì lui sussurrarle, stanco, affaticato.
Wanda posò i polpastrelli sulla sua fronte e allentò il nodo dei tentacoli rossi che le stava legando le vene dei polsi, martellandole il centro del cranio. Si sistemò meglio tra le sue gambe, fasciate da dei pantaloni scuri, e la sua magia continuò a vagare, strisciando tra delle stringhe incomprensibili.
Lui sospirò, rumorosamente, e lei catalogò quel verso come uno di fastidio, di rabbia, di disappunto. Si odiò, si maledisse, e non resse il suo sguardo triste.
Non ti succederà nulla, non ti farò male, te lo prometto. Voglio solo aiutarti, voglio solo capire. Voglio solo ritrovarti.
Io non ti sento più.
“Sei qui, Wanda. Sei davvero qui.”
Lui strizzò le palpebre e poco dopo la sua voce tornò asettica, priva di inflessioni.
Le sue dita, che prima stavano indugiando vicino ai suoi fianchi, si chiusero a riccio, scottate. Riprese a respirare normalmente e ad apparire freddo come lucido metallo.
Non ti sento.
“Dovresti allontanarti e ripristinare le dovute distanze.”
Lei strinse le labbra e si avvicinò con le mani alla gemma, in una lenta carezza alla radice del naso.
Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace.
“Vis, te lo giuro. Io non ti farò del male, io non potrei mai farti del male.”
Bugiarda, non era vero.
Gli aveva già fatto del male e in tanti - troppi - modi in una volta sola.
“Wanda, tu non dovresti essere qui.”
Le sue unghie incontrarono la superficie calda della gemma e un pensiero si impose nella sua mente, pestando i piedi e scuotendole il corpo: lei aveva bisogno di toccarlo.
"Hai bloccato una sfera dei sentimenti.”
E aveva bisogno di stringergli la mano e di sentire una connessione, qualsiasi, avere la prova che esistesse ancora qualcosa tra di loro, qualcosa di salvabile. Cercò con la coda dell’occhio i suoi palmi rossi che stringevano il bordo del tavolo e volse interamente il capo verso la mano destra.
Settantatré.
Erano state settantatré le notti in cui lei si era svegliata, urlando in preda agli incubi, e aveva trovato lui, sdraiato sul pavimento, con le dita allacciate alle sue.
Lei la conosceva, quella mano, la conosceva bene. C’erano state delle notti, il mondo addormentato e silenzioso, in cui lui aveva lasciato aperto un carillon, sul comodino accanto al suo letto, la cui dolcissima melodia aveva il compito di tranquillizzarla e di concederle il ristoro di poche ore di sonno. Ma in diverse e tante notti, più buie e più spaventose, la lenta musica del carillon non le aveva impedito di risvegliarsi sudata, con i muscoli tremanti e la paura chiusa in gola, fermata a stento dai denti. In notti come quelle lui le aveva canticchiato una ninnananna russa, sottovoce, piano piano, cullandola e rassicurandola. 
Era rimasto sempre sdraiato sul pavimento, una mano stretta alla sua, le dita ben legate fino all'alba.
Aveva sempre fatto così.
Aveva tentato, notte dopo notte, senza che lei gli chiedesse nulla e senza poi parlarne durante il giorno, di salvarla da se stessa.
“Hai... inserito un virus e, è impossibile ma, ora c'è un muro nero che aggredisce quei sistemi. Come ragnatele.”
Una sola volta era cambiato qualcosa.
In un sogno orribile e malvagio le era apparso Pietro.
Amato fratello mio.
Con il corpo martoriato e un sorriso splendente, il petto ricoperto di sangue e gli occhi vitrei, i capelli bagnati dalla polvere e dalla terra.
Sono morta nello stesso istante in cui tu sei caduto a terra, con le palpebre spalancate.
Le aveva sorriso sfacciato e le aveva ricordato, con un tono insolente, di essere nato dodici minuti prima di lei. Ridendo le aveva sussurrato che lei, la sua adorata gemella, la sua Wanda dal broncio facile, doveva smetterla di impartirgli ordini, di comandarlo con quel piglio severo. Era lui il più grande, il più saggio, il più intelligente. Era lui a doversi prendere cura della sorellina minore, non il contrario.
Io sono nato dodici minuti prima di te. Ricordi?


Si era svegliata sussultando, talmente agitata da esser quasi crollata sul pavimento, aveva mosso frenetica le mani e le gambe e aveva serrato la mandibola non appena un sapore acido era salito a bruciarle il palato e la lingua, facendole rischiare di soffocare nel suo stesso vomito.
Lui era sempre stato lì.
Era stata l'unica volta, l’unica, in cui era salito sul letto e l'aveva abbracciata, come un cucchiaio, il suo petto duro contro la sua schiena scossa dai singhiozzi. Le aveva bloccato le braccia, quasi a volerla inglobare con il suo corpo, nel tentativo gentile di prendersi, di assimilare, tutto il male che lei non riusciva più a portare dentro di sé.
Tutto il male che il mondo le aveva infilato nel corpo, nello spazio libero di ogni cellula e nei percorsi aggrovigliati di tutti i nervi. 
Era sempre rimasto lì, con lei, fino all’arrivo di ogni alba.
Sempre.
E lei, alla fine, come lo aveva ripagato?
Sputandogli in faccia.
“Hai creato un blackout per una parte della tua mente. Un blackout localizzato che non interferisce con il tuo lato umano. Ti rende un automa. Buono, servizievole, ma spento.”
Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e abbassò il capo verso terra, percependo all’improvviso delle strette allo stomaco e delle viscere nella pancia, intente a mangiarle il fegato e a toglierle l’aria.
“Perché non lo elimini?”
Perché lo hai creato?
"Non voglio sbloccarlo. C’è un messaggio di notifica che mi avverte delle controindicazioni. Il dolore è classificato come altamente intollerabile.”
Wanda sollevò la testa, simile a una molla, e riposizionò le mani vicino alle sue tempie.
"Ora sistemiamo ogni cosa."
Le bloccò i polsi, con una presa ferrea e decisa, e la osservò sconcertato, gli occhi attraversati da un lieve guizzo che sparì nello stesso istante in cui era comparso. Tornò negli abissi, talmente tanto velocemente da farle credere di averlo solo immaginato, quel rigurgito di umanità che zoppicava e si dibatteva sul fondo di un baule, e la lasciò di nuovo abbandonata a se stessa. Da sola a combattere, da sola a sopravvivere, mentre lui la guardava e le parlava con lo stesso tono piatto e monocorde dei computer.
Lui non c’era più.
"Il dolore è classificato come altamente intollerabile. Vorresti davvero rischiare?"
Sì.
No.
No, non rischierei.
"Forse ora è diverso. Forse adesso sarebbe niente."
Niente. Niente di niente.
Noi siamo niente, a causa mia, noi siamo niente. Perché dovrebbe fare male?
"Ne dubito. Già adesso è difficilmente sopportabile e non voglio immaginare senza il blocco, non voglio saperlo."
Gli sfiorò le guance, gli angoli della bocca.
"Ti fa male?"
Osservò i suoi occhi spenti e si sentì morire dentro.
"Mi fai male”, le rispose, e poi volse la testa a sinistra, confuso.
Sembrava si fosse spezzato qualcosa, dentro di lui, come un vetro sottoposto alla continua pressione di una punta di diamante, un vetro destinato a scomporsi in miliardi di cocci.
"Sai che non ti avrei mai lasciato sola”, gli scappò dalle labbra, di getto. 
Ma erano istanti che si dissolvevano in fretta, scomparivano nella nebbia dei suoi occhi.
E lei tentava di aggrapparsi a quegli spiragli, di sfondare i muri dibattendosi tra mattoni di fango secco, con le mani scorticate e colanti strisce di sangue fresco.
"Tu sai cosa ho provato quando è morto Pietro. Tu c'eri, tu mi hai vista”, disse, con veemenza, mangiandosi le parole e cercando il suo sguardo. 
Gli parlava, arraffazzonava scuse e motivazioni, lo supplicava, eppure aveva la sensazione di sbattere la testa contro uno specchio rotto che rifletteva soltanto volti spezzati, bellezze rubate. 
Non lo sentiva, non lo sentiva e basta.
Lui non c’era più.
"Ti sto lasciando libera, sto facendo quello che mi hai chiesto. Anche perché gli algoritmi...”
"Al diavolo gli algoritmi, al diavolo quello che ho detto, al diavolo tutto!", lo interruppe, illudendo se stessa, illudendo i suoi ricordi che ritornavano a piegarle le costole.
"Non funziona così, non possiamo muoverci in base ai sentimenti. Catastrofi, nascono solo catastrofi.”
Percepì una straziante nausea ritornare a tormentarle la gola e la bocca, il panico colpirle i tratti del viso che non poterono più rimanere impassibili e che si sciolsero come neve buttata su una spiaggia rovente. Si morse il labbro inferiore, serrò le palpebre, e frenetica tirò fuori dalla scollatura il ciondolo che aveva appeso al collo, un semplice cerchio scuro. 
Glielo porse e Vis prese tra le dita la collana, attento a non toccare anche lei.
E il suo respiro non mutò, la sua voce non cambiò, i suoi occhi rimasero dei distanti pozzi blu.
Dove sei?
"La indossi ancora."
Che cosa posso fare?
"Non l'ho mai tolta."
Visone giocò con quel ciondolo e lo girò da una parte e dall’altra, esaminandolo.
"Pensavo che non ti sarebbe piaciuto, però sapevo che dovevo farmi perdonare."
No. No, non dovevi.
"Perché eri entrato un'altra volta nella mia stanza, senza bussare, e mi hai trovato in accappatoio. Ti sei scusato così tanto ed eri talmente dispiaciuto e mortificato che non potevo arrabbiarmi né infierire”, tentò di essere leggera, mentre ripercorreva il ricordo, ma un crampo al petto glielo impedì.
Perduta, amore mio tu sei perduta.
Tu cadi cadi giù.
"Ero molto imbarazzato."
Abbassò il mento e guardarono insieme il pendente che lei non aveva mai mostrato a nessuno: un anello di vibranio, all'altezza del cuore. Affinché quel grumo scuro potesse essere sempre protetto, nelle battaglie e nella vita.
Quando glielo aveva regalato lei non lo aveva capito.
Aveva impiegato molto tempo a comprendere, ad accettare, quanto a fondo lui l'avesse vista e con quanta intensità desiderasse proteggerla dal mondo crudele che le aveva già tolto tanto, - tutto.
Mesi, mesi e mesi: notti di cui aveva perso il conto e mattine silenziose in cui si era crogiolata, strafottente, nel suo antico dolore. Non aveva prestato attenzione a niente altro se non a se stessa e al suo patetico compiangersi.
Poi, quando aveva compreso la realtà e la verità, era già troppo tardi ed era già finito tutto.
Il mondo non ti vuole più.
“Perdonami, Vis. Scusami, per favore.”

Si sporse verso il suo viso, ma lui si mostrò insofferente e sgusciò lontano dal tavolo,
raggiungendo il centro della stanza, vicino al lato del letto e all’armadio addossato alla parete. 
Il suo petto sembrava in affanno, i suoi sistemi compromessi. Le parlò senza guardarla, concentrandosi su un punto qualsiasi dell’intonaco bianco del muro.
"Ogni parola porta ad una conseguenza."
“Quindi non mi perdonerai?”
Ascoltò le sue parole che gli uscivano a fatica, elaborate lentamente, e lei percepì altri calci colpirle la pancia.
Bisbiglia piano piano.
“Nulla deve essere perdonato, non è stato compiuto nulla di male”, lo vide portarsi una mano al petto, in un gesto tanto umano che non riuscì a controllare, “Ho sbagliato io.”
Non render tutto vano.
“Ascolta, Vis, è importante. Io provo qualcosa per-“
“Ti prego, Wanda. Ti prego vattene”, pronunciò dolorosamente quelle parole, coprendosi la testa con le mani, così da nasconderle gli occhi e la fronte.
Si sentì impotente, invischiata in un muco di ragnatele che aveva creato lei stessa, in cui, masochista, si era lasciata fagocitare. Una rete di bugie, di falsità, di cattiverie, di incubi, di autocommiserazione: qualcosa che la stava uccidendo e che coinvolgeva chiunque era sulla sua stessa strada, una trappola mortale di cui aveva fatto scattare troppo presto la molla, ritrovandosi prigioniera e carnefice allo stesso tempo. 
Era stato semplice in passato, quasi divertente, inveire contro la vita e l’universo e urlare improperi contro il destino e contro una fantomatica maledizione pendente sul suo capo. Si era appesa alle mani di lui, perché tra loro era sempre stato un gioco di mani, e invece di risalire dagli abissi aveva voluto tirarlo a fondo, osservare quanto lui avrebbe sopportato per amor suo. Si era incisa sulla fronte la parola sopravvissuta e si era immedesimata tanto bene in quella condizione esistenziale, che non aveva pensato a far sopravvivere qualcun altro vicino a lei. 
Aveva compiuto una cazzata dopo l’altra, una stronzata dopo l’altra, in continuazione, e aveva sbagliato senza fermarsi a riflettere neanche per un fottuto secondo, certa di poter essere perdonata ogni volta. 
Tronfia aveva marciato sul suo amore, incurante lo aveva calpestato, denigrato.
Fino a ritrovarsi all’angolo.
Lì, in quella stanza, con lui che la pregava di andarsene.
“Non so come hai fatto a entrare nell’edifico, immagino solo chi ti abbia aiutato. Ma ora dovresti andartene, conviene anche a te.”
Visione si rifiutò di girarsi e la voce le giunse ovattata, ostacolata dalle mani. Aspettava invano un suo ultimo sguardo, un suo ultimo sorriso, pur sapendo che non ci sarebbe stato, non ora che non aveva più senso. 
Gli aveva promesso di non fargli del male e invece gliene stava facendo, lo stava facendo ancora, continuava a farlo, perché non sapeva neanche iniziare un discorso e spiegargli, provare a giustificare la sua cattiveria infantile.
Aveva trascurato il suo affetto, aveva compiuto delle ingiustizie imperdonabili.
Non voglio lasciarti, non più, non adesso che ho compreso, non adesso che respiro.
Ma devo. Per te, solo per te.
“Mi dispiace. Steve mi aveva consigliato di prepararmi un discorso, Natasha mi ha riso in faccia e Stark mi ha minacciato sulla porta. Tutti hanno provato a farmi capire che avevo oltrepassato il limite e io non ho voluto ascoltare nessuno di loro. Nessuno. Ho voluto, poco poco, almeno una volta, vivere di speranze. Io ti ho fatto del male e mi dispiace, mi dispiace, non mi perdonerò mai per questo, non posso, non ne sono capace. E fai bene anche tu a non farlo, non mi merito altro. Avevo tutto e l’ho capito troppo tardi.”
Riprese a torturarsi l’orlo della gonna e le labbra spaccate, intimandosi di non avvicinarsi, di non abbracciarlo un’ultima volta, di non baciarlo per soddisfare il desiderio mai sopito di sapere quale sapore avessero le sue labbra, di non dirgli che anche lei lo amava, da tempo, da sempre. Intravide malamente le sue spalle, - era di nuovo tutto annacquato -, e accettò di lasciarlo andare.
Per amore tuo, solo per amore tuo.
Non voglio più essere egoista, solo per amore tuo.
“Va bene me ne vado. Sì, vado via. Scusami, scusami.”

Gli occhi presero a bruciarle e non si accorse del tavolino vicino a lei contro cui sbatté le ginocchia ridotte a gelatina, facendo in quel modo cadere il carillon posato all’angolo sinistro. Si rovesciò a terra e si schiuse, lo specchietto rivolto verso l’alto e la povera ballerina che non riusciva a girare contro il parquet. Con i polsi si stropicciò le palpebre e mise a fuoco l’oggetto ai suoi piedi.
Il suo carillon.
La musica occupò il silenzio della stanza e lei si inginocchiò a terra, scovando un disegno ripiegato e nascosto in uno spazio vuoto, oltre le molle della figura della danzatrice con il tutù rosso.
“Non devi aver paura, tu sai la verità più pura... è la ninnananna. La ninnananna che mi cantavi quando avevo troppi incubi, quando nulla riusciva a calmarmi.”
Pescò il foglio con le unghie e lo aprì, veloce, anche se non ce ne era bisogno, non sarebbe stata fermata. Lui non si muoveva e non si spostava di un passo.
"Questo disegno l'ho fatto io."
Un disegno semplice, quasi uno schizzo, con i loro contorni abbozzati e i tratti del volto rilassati, felici. Perché un giorno, piegata dai suoi stessi desideri, aveva iniziato a ritrarre loro due insieme, sereni e innamorati. Il suo volto senza più le lacrime agli occhi.
"Sì."
Ma non lo aveva mai terminato e aveva voluto sbarazzarsene, pentita. Aveva voluto rinnegare ogni cosa, ogni sua debolezza. Dibattersi in una guerra persa in partenza, fermamente convinta di essere immune a qualsiasi emozione.
Che stronza orgogliosa.
"L'ho buttato nella spazzatura tempo fa. Tantissimo tempo fa."
Accarezzò il loro ritratto e delle immagini scoppiarono nella sua testa: codici binari che si rompevano a metà e si scioglievano in coriandoli, stringhe che si arrotolavano su loro stesse e si disintegravano, spezzoni in bianco e nero che cominciavano a colorarsi a macchie, a riprendere vita.
Vis si voltò, le braccia stese lungo il corpo, e sospirò. Lui sospirò e i suoi occhi si schiarirono, le pagliuzze dorate tornarono a contornargli le pupille.
Erano lì i puzzle del loro amore.
Un carillon, una collana, un disegno.
E la fine della ninnananna, le parole che lei aveva sempre trascurato.
Chi è amato è salvo, ricordalo. Ricordatelo, Wanda, è fondamentale.
Chi è amato è salvo.
"Non mi piaceva molto l'idea che noi fossimo... da buttare”, le disse, e poi sorrise. Lui sorrise e lei crollò.
Fanculo alle parole di tutti.
Fanculo al sorriso compassionevole di Steve, agli scherni di Nat, all’arroganza di Stark.
Fanculo agli algoritmi e alla logica.
Fanculo al passato e agli incubi.
Io mi all'ultimo spiraglio mi ci aggrappo con le unghie e con i denti.
"A me non piace neanche adesso”, gli rispose, con foga.
Gettò il carillon e il foglio sul tavolino e eliminò il poco spazio che li separava.
Le loro braccia si incontrarono a metà strada, si sporsero entrambe a cercare l’altro e lei si abbarbicò a lui mentre veniva sollevata e stretta, fortissimo, fino a non avere più respiro. Le salirono talmente tanti gemiti, dalla gola, che li riversò dentro di lui, bocca contro bocca. Erano schiocchi, era uno scontro di labbra su labbra, delle sue mani che vagavano inquiete e che si fermavano con i polpastrelli dietro le sue orecchie, solo per poco. Vis la baciava gentile e le toccava il corpo con una tale venerazione che le fece perdere la testa, la fece impazzire.
Infilò le mani sotto il suo maglione e liberò alcuni bottoni della camicia. Toccò la sua pelle, su e giù, in punta di dita, dagli addominali e poi lungo tutta la linea alba fino a vezzeggiargli i fianchi, senza mai superare l'orlo dei pantaloni.
"Wanda. Wanda."
Lui non riusciva a pronunciare altro se non il suo nome, voleva parlare e lei non gli concedeva il tempo, non voleva pensarci, non voleva fermarsi, non ora, non più.
Non dopo aver rischiato di perderlo per sempre.
Corse ad aggrapparsi alle sue scapole e immerse la testa nel suo petto, stringendolo in un abbraccio goffo.
“Perdonami.”
“Wanda.”
Le parole fuggirono via dalla sua gola, uscirono frettolosamente e male.
"Tu sei l'unico uomo di cui io mi sia mai innamorata. Sei il primo e sarai anche l'ultimo. E mi dispiace per te perché sono una ragazza insicura e a cui la vita fa paura. Tanta paura." Gli baciò tutto il viso. Le guance, gli zigomi, il mento, scese giù lungo il collo e poi la mandibola, gli occhi, il naso, le tempie, la bocca. Non si concesse di respirare, non gli permise di parlare, rimase stretta tra le sue braccia e gli cercò le labbra, gli parlò sulla lingua, si rinchiuse tra il suo corpo e niente altro.
"Ma amo solo te. Solo te.”
Lo amava con una disperazione tale da impazzire, da respirare male, da soffocare a bocca aperta.
Coincideva tutto con lui.
L'unico vero motivo per cui svegliarsi ogni mattina e non sperare di morire presto. L'unica ragione per cui tornare a sorridere anche quando i ricordi la imprigionavano e gli incubi si insinuavano lenti, inesorabili.
Lo amava davvero.
Di un amore che spaventava e che l'aveva spaventata, troppo potente e intenso, un raggio di vita capace di illuminare le ombre del suo passato costellato da morti e rovine, un amore bello e dolce nonostante il buio della sua anima difettosa.
Lui era vita e speranza e tutto ciò che di più meraviglioso esistesse al mondo. 
E lei lo amava, lo amava con ogni rimasuglio di se stessa e lo avrebbe amato, ogni giorno, ogni secondo, fino al suo ultimo respiro.
"Sei mio", gli sfilò il maglione marrone e gli gettò le braccia al collo, "Sei completamente mio."
Dal momento in cui lei era diventata sua.
C'era una pioggia di stelle nei suoi occhi, c'era l'universo intero con la purezza della sua luce.
Ed era bellissimo.
"Wanda", le sussurrò, come in preghiera.
Posò le labbra sulle sue, lo azzittì, e intrecciò le dita dietro la sua nuca, spingendolo contro la sua bocca schiusa, baciandolo come una condannata a morte. Sentì le guance umide e poi un sapore salato sulla lingua e una parte della sua mente fu cosciente del fatto che lei stava piangendo e che stava ingoiando il suo stesso pianto. Si aggrappò alle sue spalle e baciò la sua mandibola lasciando schiocchi lungo tutto il suo profilo, risalendo verso gli zigomi, le palpebre, la fronte. Strofinò la punta del naso sulla sua tempia destra e ingoiò un singhiozzo e poi un altro, un altro e un altro ancora fino a interromperne uno sulla sua bocca, di nuovo.
Era per il modo in cui scioglieva ogni muscolo in tensione, leggera tra le sue braccia, perdendo ogni difesa e piegando ogni paura che le tormentava gli occhi.
L'unico momento in cui dimenticava i suoi muri.
"Wanda, non piangere, non...”
"Fai l'amore con me."
Già prima gli aveva slacciato alcuni bottoni della camicia e ora gliela stava sfilando dai pantaloni, in una piena carezza di tutta la base della schiena.
Lui le alzò il volto coprendole le guance con le mani, ingabbiando tutto il suo viso tra i polpastrelli e i palmi.
"Non so neanche se sono in grado di farlo.”
"Scopriamolo insieme”, gli rispose, di getto.
“No. Perché piangi?”
Avevano le labbra talmente vicine che ogni parola era un altro bacio, ogni movimento era una bellissima tortura che la faceva respirare, finalmente, la faceva respirare dopo sei mesi di apnea. Il sollievo si mescolò ad un improvviso calo di adrenalina che le sciolse ancora di più gli occhi e che le fece comprendere, realmente, quanto aveva rischiato di rovinarsi la vita.
"Sono proprio diventata quello che ho sempre disprezzato. Una terribile bambina piagnucolosa e lamentosa. Vero?"
Le aggiustò i capelli che le si erano attaccati alle labbra e le pulì il viso, strofinando dolcemente i polpastrelli.
“No. Sei solo un po’ spaventata e mi dispiace, credo sia colpa mia. Non era mia intenzione farti piangere.”
Tirò su con il naso e si rifugiò contro il suo collo, stringendogli fianchi e sospirando pianissimo ogniqualvolta lui passava le dita, a rastrello, tra le sue ciocche rosse.
“Quando ti ho visto in quel modo, spento, io non so spiegartelo.”
Prese tra i pugni la sua camicia e si fece male alle ossa, a tutti i muscoli, pur di ancorarsi a lui, pur di abbracciarlo tanto forte, pur di accertarsi che fosse tutto vero.
“Ho creduto di aver distrutto ogni cosa. Io non pensavo nessuna delle stupidaggini che ti ho detto in ospedale, e tu mi sei mancato, ogni giorno, e io non volevo fare del male a te, mai, mai, mai a te, e invece l’ho fatto e ho sofferto, e ti pensavo sempre e ho fatto spaventare Steve e Natasha, un po’ tutti ho fatto spaventare, perché io non dormivo, io non... non riesco a spiegarmi, sono un’incapace con le parole.”
Tacque e si immerse nel suo petto, con l’orecchio destro rivolto verso il suo sterno che si alzava e abbassava accarezzandole la guancia, e che cominciò a muoversi un po’ più veloce. Schiacciò il viso sulla sua camicia sbottonata e contro porzioni libere delle sua pelle rossa, ascoltando la sua voce limpida e chiara.
“Vicino a te, per me, è molto difficile rimanere una macchina. Rendi vivo persino un androide, Wanda. Tu pensi di portare morte e distruzione, insieme ai tuoi passi, non accorgendoti mai della vita che crei, delle emozioni”, le cercò gli occhi tra tutti i suoi capelli aggrovigliati e poi continuò, “E sono davvero desolato di averti rattristato, non volevo. Ma dopo la tua partenza gestire le sensazioni era diventato stancante, deludente. Nessuna mia programmazione sapeva come comportarsi, come applicarsi in una situazione del genere. Ho pensato fosse la soluzione ideale per tutti. Rincontrarti non era assolutamente previsto.”
Leggeva tra le righe, lei lo conosceva, quello che lui ometteva al solo fine di proteggerla. Taceva sulla tristezza dei mesi passati, sul dolore insopportabile che non era riuscito a fronteggiare a causa dei mancati sistemi di programmazione, sull’impossibilità di guardare al futuro con gli occhi di prima. Sfumava, sorvolava, sulla decisione di spegnersi pur di dimenticare.
Forse questo l’aveva enormemente spaventata, non appena era entrata nella stanza, forse questo era il motivo per cui un’ansia cieca ancora le solleticava la pelle, come aghi dritti nelle sue vene. Perché le avevano insegnato, con attenzione, e la vita glielo aveva ricordato ogni giorno, che quando il male supera l’amore inizia il distacco.
Non l’odio, ma il distacco.
E lui in quel modo le era apparso: distante, perso, lontanissimo dalla sua anima difettosa.
Aveva temuto, più di ogni altra cosa, che avessero superato il punto di non ritorno.
“Fai l’amore con me.”
E allora la febbre di toccarlo, la febbre di averlo, il tremito di sentirlo in ogni modo possibile, il desiderio di viverlo dentro di lei così da esser certa che fosse tutto vero.
Così da placare i suoi demoni, così da fermare i suoi incubi, così da provare qualcosa di bello in mezzo a tanto male. Così da sopravvivere insieme in un oceano di niente.
“Fai l’amore con me, Vis.”
Ma lui scosse la testa e allentò lentamente il loro abbraccio, sbattendo le ciglia con poco controllo.
“Wanda, no. Non chiedermelo.”
“Perché?”
“Sai che non posso. Sai che... ti amo e che non posso darti altro, che vorrei darti tutto, ma che non ho altro.”
Wanda indietreggiò di un solo passo e si sfilò la maglietta nera, gettandola a terra vicino alle loro scarpe. Visione tentò di fermarla, di chiudersi i bottoni della camicia, di bloccarla dallo slacciarsi il reggiseno, e invece ottenne solo di riavere lei tra le braccia.
La strinse di nuovo a sé e a lei sembrò di sentire un rumore, distintamente, nel petto di lui.
“Wanda, fermati. È meglio fermarsi, è meglio parlare.”
Aveva paura e rischiava di balbettare, contro ogni regola e programmazione, rischiava di tremare e di mordersi la lingua e lei non voleva questo, mai questo.
Allora lo baciò e si allontanò fino a sfiorare le lenzuola del letto con i polpacci.
“Possiamo scoprirlo insieme, possiamo scoprire tutto insieme. Possiamo, guarda, non sono spaventata, possiamo affrontare ogni cosa, io e te, insieme. E se tu ancora desideri un tempo vissuto con me, io non temerò più il nostro futuro. Se tu lo vuoi ancora, io non fuggirò più.”
Lascia che ti mostri quanto sei umano, quanto sei splendido, quanto sei tutto.
Lascia che io, che ho sempre vissuto nella paura, ti mostri quanto ti amo e quanto voglio essere tua. Lascia che io ti ami come non ho potuto mai, fidati di me.
Lascia noi due qui, insieme, in questa stanza, e che l’intero universo rimanga fuori.
“Non posso.”
Lei prese il palmo della sua mano rossa e lo baciò, stringendogli le dita con forza.
Sollevò lo sguardo e condusse quelle dita alla gonna, al tessuto liscio che le fasciava la pancia, e annuì senza mai smettere di guardarlo.
“Sì. Tu puoi.”
Lo aiutò a slacciarle il bottone e ad abbassarle la cerniera.
Quando la gonna scivolò a terra le sembrò che anche il cuore fosse caduto ai suoi piedi. Di nuovo.
“Se mi vuoi, io sono tua. Tutto ciò che rimane di me, gli avanzi lasciati dopo le ferite dei lutti e delle calamità, sarà tutto per te. Non è nulla di conveniente, non è granché di bello. Ma ciò che è mio è tuo.”
Si sedette sul materasso e non gli lasciò le dita, non lasciò i suoi occhi chiari, la sua bocca sottile.
“Per sempre. Per sempre, Vis.”
Si stese sul letto e trascinò lui sopra di lei.

                                                                                                                                   *********

Voleva rimanere così.
Così, per sempre, per tutta la vita.
Nuda, sopra il suo petto, la bocca premuta contro la sua gola, le mani e le gambe intrecciate.
Così, per sempre.

Mosse l’indice in una carezza piena, a partire dal fianco destro di Visione fino a risalire verso la spalla, verso l’incavo del collo, percependo all’improvviso una strana sensazione al tatto.
Lui, con lei, era pelle.
Era sempre stato pelle.
Eppure adesso i suoi polpastrelli registravano qualcosa di diverso, vero calore di una diversa consistenza, e toccavano un’illusione che non sarebbe potuta esistere.
Wanda sollevò il capo e rimase sbigottita alla vista del volto di un uomo maturo, con i capelli corti e biondi, gli occhi chiarissimi, il corpo sano e perfetto. 
Si sentì stranita, un istante, poi scosse la testa e sorrise, baciandogli il mento.
“Che cosa fai? Ti nascondi?”
Lui fuggì il suo sguardo e si concentrò a risponderle, chiudendo le palpebre stanche e spostando la guancia sul cuscino.
"Ho pensato fosse più umano in questo modo”, le disse, calmo, cauto,-tormentato.
"Mi basti tu”, gli confessò, baciandogli il suo mento e cercando i suoi tratti in quello strano gioco di apparenze e paure.
"Io non sono umano”, lui le rispose, cingendole i fianchi, più disperatamente. Forse perché credeva che quella frase, che quella realtà, l’avrebbe fatta scomparire al pari di cenere al vento. Lo osservò sospirare e quel gesto sofferente contrasse a pugno gli organi ingabbiati tra le sue costole e mangiò la sua serenità.
Lui non lo avrebbe mai detto, no, lui non avrebbe mai ammesso che l’insicurezza non cessava di frastornarlo, non un solo istante, e che era triste, era inquieto, non credendosi degno, e che quindi questi strani pensieri gli impedivano di rimanere sdraiato con lei nel loro letto stretto. 
E amarlo, consolarlo, capirlo, accettarlo erano istinti radicati a fondo nel suo animo e nel suo corpo, era ciò che la spingeva a diventare una persona migliore.
"Sei più umano di me”, gli rivelò, a bassa voce. Si sistemò più comodamente, stesa sul suo addome, e le loro gambe continuarono a intrecciarsi, a giocare, a cercarsi.
“E mi piace il modo in cui mi ami. È gentile”, continuò a svelargli, bloccando con le dita e con le labbra ogni sua contestazione, “E mi piace come mi guardi, come mi osservi, come ti prendi cura di me. Mi piace come mi abbracci, come mi baci, come mi insegni a fare l’amore.”
Lo pregò con ogni gesto di lasciare andare l’illusione e di ritornare se stesso, lo pregò con ogni carezza e bacio di abbandonare certi pensieri e di crederle, di fidarsi di lei, perché non un solo giorno lui si era dimostrato un androide, non una sola volta lui aveva avuto bisogno di fingere certi sentimenti che invece gli uomini di carne avevano dimenticato da secoli e secoli. Ritornò a stringersi al suo corpo e gli mormorò frasi belle, frasi proibite, frasi che non avrebbe mai più ripetuto se non avvolta tra le loro lenzuola.
Continuò, perseverò, fino a quando non vide di nuovo il suo volto rosso e fino a quando non tremò al contatto delle sue mani grandi che vagavano tra le sue scapole e poi giù lungo la schiena. Non si fermò neppure quando le sue ciocche iniziarono a ostacolare i loro baci e il suo petto non iniziò a bruciare.
“Come posso lasciarti andare?”
Altri baci, altri movimenti dolci, sottili, che le scombussolarono calorosamente la pancia.
“Non devi, Vis. Non devi”, affermò, e sollevò il petto, attirandolo a sé.
“Sì, devo. E tu devi fuggire, non sei al sicuro qui, noi non possiamo rischiare oltre.”
Le coprì la bocca con un palmo, le fermò il bacino con un braccio e, riservandole un’espressione mortificata, rafforzò la presa intorno ai suoi fianchi nel tentativo di allontanarla. Lui le parlava, lui desiderava proteggerla, e lei non voleva ascoltarlo, non voleva andarsene, non voleva fermarsi. Solo immaginarlo, solo tentare di formulare il pensiero nella sua mente, la spezzava in più pezzi, la rendeva coriandoli di polvere e fumo inconsistente.
Ti amo, ti amo da morire.
Tu mi chiedi, domandi accorato, come puoi mai lasciarmi andare, ma credi che io sia capace di fare lo stesso? Pensi che io sia in grado di abbandonarti qui, in questo edificio vuoto e morto, e di rassegnarmi a non vederti più, a non viverti più?
No, non posso, no, non possiamo.
Non ora, è troppo presto.
Non ora che ti ho ritrovato, non ora che stiamo insieme, non ora che uscire da questa stanza mi sembra impossibile, se non insieme a te.
“Devi scappare. Sfidare la sorte è avventato e se loro provassero a farti del male, se loro ti toccassero, io non riuscirei a trattenermi. Non potrei. Nessuno al mondo deve più farti del male.”
Lei gli circondò le spalle larghe e gli mordicchiò le dita, chiedendogli con dispetto di liberarle la bocca. Vis l’accontentò, pregandola con gli occhi di fuggire, di mettersi in salvo subito. Incredula, - davvero lui credeva che lei fosse così forte? Riteneva di ferro il suo cuore? -, si avvicinò al suo orecchio.
Temette di non riuscire a contenere se stessa, di precipitare dalla linea sottile che le imbavagliava la bocca e di dirgli tutto, di riversargli i suoi sentimenti senza alcun freno, limite, in una maniera folle e sconsiderata.
Temette di sciogliersi e di ridursi a brandelli tra le sue braccia.
“Insieme. Te lo ricordi? Insieme possiamo affrontare ogni cosa”, si nascose dietro le ciglia e sorrise imbarazzata, “Allora, allora vieni via con me. So che tu hai fatto delle promesse a Stark e che io... io anche ho fatto delle promesse agli altri. Ma possiamo creare del tempo per noi, possiamo rubarlo se necessario. E possiamo iniziare a farlo adesso.”
Deglutì, sonoramente, e avvertì i muscoli pesanti e i nervi al di fuori della propria pelle. Deglutì ancora e riavvertì la paura, il panico che le offuscava le idee e i progetti, i sogni, il futuro. Deglutì piano, rischiando anche così di strozzarsi, e gettò fuori dai denti le parole rimaste incastrate.
“Ti piacerebbe visitare Edimburgo? Ho visto tantissime foto di questa città e sono tutte belle, tutte bellissime. So che è una città fredda. Cioè, sì, il tempo è freddo, tanta tanta neve e pioggia, sai? Però forse le persone sono gentili. O forse non lo sono ed è meglio così, meglio non attirare l’attenzione, meglio essere invisibili. Ma Edimburgo è bella, sono certa che le foto non mentano. Edimburgo sembra speciale, molto speciale.”
Si morse la lingua e bofonchiò qualcosa a cui lei stessa non prestò attenzione, che si dimenticò dopo aver pronunciato, ammutolita soltanto dall’azzurro cristallino dei suoi occhi, dai filamenti dorati dalle strane forme e dalle cangevoli dimensioni intorno alle sue pupille. Represse l’istinto di fare qualsiasi cosa sbagliata e attese, attese, attese. Fu solo mezzo minuto, furono trenta secondi esatti, e ciononostante lei ebbe la percezione di galleggiare in uno spazio di bolle e in un tempo di lancette lentissime e secondi interminabili, i cui suoni scoppiavano e scomparivano a intermittenza.
Attese, il freddo del vibranio adagiato sul suo seno.
Attese, vivendo un po’, almeno un po’, di speranze.
Attese.
E quando lui le parlò, lei si ritrovò a ridere e a piangere, a singhiozzare e a sorridere, senza rendersene conto.
Intuì la verità non appena udì un lieve balbettio precedere le parole di Vis.
“S-sì, Wanda. Sì, voglio visitare Edimburgo.”
La felicità era sempre stata dentro di lei.

                                              

You'll always sing me something new
I will always follow
When I first saw you here I knew
That I was blind before you
Forever, Alekseev





Note
Vi lascio qui delle noti veloci che riguardano la storia.
Prima di tutto troverete all'interno del capitolo delle evidenti riprese di frasi e battute di diversi film Marvel e penso le conosciate un pò tutti, come quella di Stark "Adesso parlano gli adulti" ripresa da SpiderMan HomeComing, oppure quella di Pietro "Sono nato dodici minuti prima di te. Ricordi?" ripresa da Avengers Age of Ultron e infine qualche frase ripresa da Infinity War che non posso scrivere ancora perchè altrimenti mi si spezzerà il cuore.
Questo storia voleva essere un ponte tra Civil War e Infinity War e spero possa esservi piaciuta, io ci tengo tantissimo.
Spero di tornare prestissimo a scrivere su loro due, mi mancano già.
E mi dispiace se troverete errori o refusi nella storia, non esitate a segnalare e perdonatemi se potete ma questa storia ha a sua volta una storia molto molto tormentata dietro.
Grazie a chi ha recensito e a chi lo farà.
Ringrazio ancora infinitamente Miryel, perchè si è beccata così tanti messaggi deliranti nell'ultimo periodo da parte mia e perchè questa storia è qui specialmente grazie a tutti i suoi consigli e le sue opinioni, le sue impressioni, i suoi suggerimenti! Ogni cosa bella qui presente è solo merito suo.
E salutate affettuosamente le comparse di Tony e Peter, completamente vivi e bellissimi grazie alle sue storie.
Infine grazie ad Alekseev, dalla sua canzone è nata tutta questa storia, una delle più belle canzoni d'amore che io abbia mai ascoltato.
A presto :)
   
 
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