A Jill, Victoria e Mari. Siete davvero
sempre con me.
A Miryel, che è la puffola pigmea del mio cuore.
It must be something that we call dream
When all you told me I know by heart
The type of beauty I call supreme
And how it's driving me crazy
No need to worry, rain falling down
It's our happiest story
And there's no one around
We will go for it and I know
You'll be mine forever
Windows wide open, flying so high
Both of us roaming
Through magnificent sky
Rain keeps on falling and I know
You'll be mine forever
Forever, Alekseev
"Ma
guarda un po' chi si rivede. La figliol prodiga."
Stronzo.
"Lo sai che esiste un mandato di cattura che grava sulla tua testa?
L’ha
redatto una commissione speciale, è stato creato
appositamente per te. Parlava
della meravigliosa prospettiva di te rinchiusa in una prigione di
massima
sicurezza e, mi sembra, venissero citate anche alcune torture, tanto
per
gradire, ma non ne sono sicuro. Perdonami, credo di essermi
addormentato
durante la noiosa riunione e di essermi perso qualche passaggio. In
fondo, non
era così interessante.”
Sei uno stronzo patetico
e insopportabile.
"O forse credevi che saresti semplicemente entrata qui dentro come se
nulla fosse, come se ti spettasse di diritto. Ma, Wanda, devi sapere
che ho
scoperto di recente un segreto. L’immaginazione è
una fonte inesauribile di
delusioni."
Stark le sorrise e i suoi denti bianchi fecero capolino alla luce del
sole, in
una smorfia divertita che strideva tagliente con le parole pronunciate
poco
prima.
Il suo improvviso cambio di atteggiamento e il suo sorriso aperto di
scherno la
infervorarono mentre osservava disgustata la metà del volto
ora scoperta dagli
occhiali da sole e l’aria spavalda ostentata più
del solito.
Scontrò malamente contro la consapevolezza che lui era un
essere orribile, un
terribile uomo, un assassino libero da pesanti catene nonostante il
sangue
scuro che gli sporcava le mani e le anime dei morti legate alle sue
spalle. Un
distruttore peggiore degli altri, un eroe senza coscienza, capace di
amare solo
se stesso: le rovine lasciate dietro ogni suo passo dimostravano che
non era
mai capitato nulla di buono ai poveri sventurati che si erano
avvicinati troppo
a lui, perché era un uomo tra le cui carni esisteva soltanto
venefico orgoglio,
devastazione, morte e infelicità.
Era, in definitiva, un uomo troppo simile a lei.
“Spero che tu sappia che, se sei riuscita a entrare qui
dentro e a superare
ogni guardia e ogni ostacolo, è solo grazie a me. Tu sei
qui, davanti a questa
porta, perché l’ho voluto io. Altrimenti, a
quest’ora, saresti già stata
scaraventata in una prigione costruita nel bel mezzo del nulla. Ti
è chiaro,
Wanda?”
Lei incrociò le braccia sotto al seno e fece schioccare la
lingua, evitando di
ricambiare il suo sorriso falsamente amichevole. Alzò il
mento e assunse un'espressione
annoiata, una maschera sottile che celava a stento il suo nervosismo e
la
tensione che le irrigidiva i muscoli e le chiudeva i polmoni.
“Che strano silenzio. Questi sei mesi da ricercata ti hanno
addomesticata?”
Stronzo.
“Spostati”, sibilò, livida di rabbia.
Aveva poco tempo e non sopportava di dover ascoltare le sue stronzate,
le
cazzate che sicuramente amava ripetersi allo specchio aggiustandosi i
capelli
disordinati. Se ne andasse via e la smettesse di pavoneggiarsi, si
allontanasse
dal suo fottuto orgoglio e dalle sue maledette convinzioni e la
lasciasse
passare.
Lei non era lì per Stark, né per i Vendicatori.
“Oh, allora parli ancora”, la derise, cattivo.
Fulmini rossi scoppiettarono tra le sue mani e salirono a contornarle i
gomiti,
irrigidendole la nuca.
“Stark, non sto scherzando. Non sono affari che ti
riguardano”, sillabò adirata
e compiendo un passo in avanti, verso l’abitazione. Il
passaggio le fu bloccato
dal corpo di Stark che la confinò nello spiazzo del
giardino, lontana dalla porta
a vetri che l’avrebbe condotta dentro gli appartamenti dove
lei stessa aveva
vissuto. Con la coda dell’occhio scorse il proprio riflesso
negli specchi e non
si riconobbe, accorgendosi tardi di essersi spaventata dinanzi
all’immagine di
quello che era diventata, di come era nuovamente cambiata.
La gonna ampia le arrivava a metà ginocchio e mostrava i
lividi che si era
procurata durante le missioni, altre ferite violacee e altre ancora che
dovevano cicatrizzarsi, mentre la maglietta nera le fasciava il corpo
spigoloso, evidenziando le spalle magre e le costole
sporgenti.
Nella sua mente
esplose l’idea che così conciata poteva ricordare
una bambina, con le occhiaie
profonde e il trucco sfatto, le guance tanto magre e le labbra
screpolate.
Pensò che sembrava indifesa, spaventata, con lo stesso
sguardo perso dei volti
terrorizzati delle persone sopravvissute al disastro di Sokovia.
Sokovia, Ultron, una città nel cielo.
Pietro.
Wanda si riscosse e cercò di raggiungere la porta,
mantenendo a stento il controllo
sui propri poteri e sulla propria magia, e Stark non volle
semplificarle la
situazione, a quanto poteva constatare, e ciò le fece
avvertire un inspiegabile
desiderio di ridergli in faccia e di beffarsi di lui che, stronzo
orgoglioso,
non aveva compreso nulla della sua disperazione. Non capiva, non
vedeva, che
lei quel giorno sarebbe stata disposta ad arrampicarsi a mani nude
sulle mura
bianche di quell’immenso edificio, a sacrificare ogni cosa
pur di completare la
sua impresa, la sua missione.
Perché
è una missione questa visita? È una questione di
vita o di morte, è un
piano da realizzare per un bene superiore?
O, forse, è
semplicemente il capriccio della bambina che sono? Il desiderio
irrequieto di vederlo, la necessità paralizzante di
guardarlo, di toccarlo, di
ascoltare la sua voce. E lui è qui e non sa che io lo sto
aspettando.
Lui è qui e
non immagina che io ho bisogno di capire se davvero non esiste
più
nulla per noi, se davvero ho rovinato tutto.
Se davvero ora siamo
niente.
“Permettimi di ricordarti che, mentre tu hai passato gli
ultimi mesi a
scorrazzare da una parte all’altra del pianeta e a giocare a
nascondino con
l’allegra compagnia, io... sono stato qui. Con
lui.”
Stark si staccò dalla porta e lei non si impaurì,
non arretrò di un passo. Lo
fronteggiò, le guance accaldate per l’affronto, un
senso di vertigini
implacabile che la costringevano a non compiere un gesto che poteva
apparire
avventato e ridicolo se visto dall’esterno.
Si costrinse, con forza e determinazione e non senza farsi del male, a
contenere il dolore ai palmi delle mani che la supplicavano di
schiaffeggiarlo.
“Quindi sì, Wanda. È un affare che
riguarda anche me. Io devo assolutamente
accertarmi che il motivo della tua improvvisa comparsa sia giusto e
magari non
potenzialmente distruttivo. Fammi un segno con la testolina, su e
giù, per
farmi intendere se hai compreso le mie parole”, la
sbeffeggiò, le mani nelle
tasche dei pantaloni eleganti, i movimenti lenti e misurati come quelli
di uno
squalo, a mostrarle come lei avrebbe dovuto muovere il capo.
“Sei suo padre?”, ribatté, inclinando a
destra la testa.
“Suo padre, amico, collega di lavoro o compagno di pigiama
party. Scegli tu.”
Piccola fuggitiva
psicopatica.
Non lo disse, eppure lei trovò quell’insulto tra
le righe delle sue frasi, tra
l’inflessione delle lettere e le pause attentamente studiate.
Era il soprannome
che doveva aver sputato, acido, in tutti quei mesi, il soprannome che
le aveva
affibbiato credendo così di denigrarla, di infastidirla.
Non aveva neppure bisogno di leggergli la mente, come aveva fatto tante
volte
in passato, scoprendo così gli appellativi poco lusinghieri
che le aveva sempre
riservato. Sapeva bene cosa lui pensava di lei, perché
odiarsi a vicenda era
l’unico sentimento che avevano il piacere di condividere,
l’unico modo in cui
erano in grado di rapportarsi quando si manifestava il bisogno
imprescindibile
di un dialogo fintamente civile tra loro.
Ma, dopo tutti quei mesi, sopportare la sua alterigia era diventato
qualcosa di ancora più
ingestibile.
“Interessante. Adesso, Stark, ti consiglierei
di...”, venne interrotta, senza
alcun garbo.
“No, adesso parlano gli adulti. Hai capito?”
“E saresti tu l’adulto?”
Stark stava per risponderle con un’altra battuta tagliente e
crudele, un altro
insulto urlato dal suo sorriso obliquo, dal suo atteggiamento sfrontato
e dal
rapido scatto del braccio. Parole eclissate, scomparse, non appena
riecheggiò
il suono di una vocina sottile che squarciò la loro guerra,
congelando entrambi
sul posto.
Oh, io ho paura di
essere scoperta, di dover fuggire ancora, di dovermi
nascondere e proteggere. Tu, invece, perché sei tanto
rigido, stupido uomo di
metallo?
“Signor Stark? Signor Stark è in
giardino?”
Lo vide sgonfiare il petto e passarsi una mano sulla fronte, gli occhi
chiusi e
un sorriso accennato.
“Peter, sono qui.”
Un ragazzino, un adolescente nascosto da una voluminosa felpa rossa e
jeans,
aprì di scatto la porta a vetri e si rivolse subito a Stark,
il volto paonazzo,
i capelli scompigliati e una strana foga nella voce.
“Signor Stark, giuro che non è stata colpa mia!
Gli impianti di sicurezza sono
impazziti da soli, completamente da soli! Io ero persino in
un’altra stanza,
non può assolutamente essere stata colpa mia. Sono
totalmente, lo giuro,
totalmente innocente. Io sono...”, si interruppe non appena
la vide. Fece tre
passi avanti, dimenticando di chiudere la porta, e la
osservò incuriosito, con
gli occhi che studiavano la sua figura come dinanzi ad un insetto da
laboratorio schiacciato su un vetro sottile del microscopio.
Uno sguardo attento, non sfrontato, simile a quello di uno scienziato
nell’attimo esatto in cui riesce a risolvere un enigma
complicato, quasi
impossibile, insieme ad una non poco celata euforia che gli arrossava
ancora di
più le guance.
“Oh. Ma è lei?”, domandò,
gettando un’occhiata a Stark che gli rispose piano e
con le palpebre chiuse, il capo chino a terra e le mani di nuovo
infilate nelle
tasche.
“Sì.”
Il bambino dell’asilo fece allora qualche passo indietro,
continuando a
scrutarla.
“La Strega Rossa.”
Stark sbuffò e lei soffocò il malsano desiderio
di soffocarli entrambi o di
gettarli sull’asfalto facendoli prima cadere da un
grattacielo qualsiasi.
“Lei”, sputò quel viscido, mentre si
massaggiava la fronte con movimenti
circolari.
“Qui?”
“Non la vedi?”, la indicò, stendendo il
braccio destro verso di lei e
sforzandosi di non essere lo stesso stronzo che era stato poco prima.
“Ma come... Ah.”
Il ragazzo nascose le mani nella tasca della felpa e
cominciò ad annuire da
solo come se stesse seguendo un ragionamento che solo loro due potevano
comprendere, in silenzio e senza bisogno di altri sguardi o
parole.
Sembrava
affascinato, ancora più curioso, stranamente felice e
rilassato.
E non era minimamente spaventato.
“Esatto”, esalò Stark, guardandolo con
la coda dell’occhio in un atteggiamento
che non riuscì a definire.
Dunque cosa ti succede?
Cosa è questa strana quiete, cosa è questa calma
mai
mostrata a nessuno, nemmeno a Steve?
“E non dovremmo lasciarli soli? Aiutarli?”
E soprattutto cosa
è questo siparietto?
“Tu chi saresti?”
Wanda decise di intromettersi, dichiarando dentro se stessa che quella
situazione, già altamente ridicola, stava raggiungendo vette
inesplorate. Si
mise di fronte al ragazzino mingherlino e lo guardò
dall’alto verso il basso,
cercando di ricordarsi il motivo per cui aveva un’aria
così familiare.
“Sono Peter. Parker. Peter Parker. Mi ha incontrato in
Germania, io ero nella
squadra del Signor Stark e saltavo da una parte all’altra,
lanciavo ragnatele,
ho persino rubato lo scudo a Captain America. Lei forse non si ricorda
di me,
avevo il volto coperto, ma sono io, sono il bimbo ragno.”
Bimbo ragno.
“Ho capito, finalmente. Sei il nuovo passatempo preferito di
Stark, allora. Li
sceglie sempre più piccoli, non lo avrei mai detto. O forse
sì, quest’uomo è
pieno di sorprese in fondo. A questo punto bisogna solo aspettare e
capire se
tu durerai più degli altri. Facciamo una
scommessa?”, rise a denti stretti e
non smise mai di osservarlo, non si perse nulla del suo volto fin
troppo
giovane che rimase immobile e imperscrutabile, neanche minimamente
scalfito.
Aveva un’espressione triste, una tristezza che aveva
ritrovato spesso sul volto
di suo fratello, come se non fosse triste per se stesso ma avesse
pietà di lei
e delle sue parole talmente velenose da averle reso amare la bocca e la
lingua,
talmente appuntite da essersi ritorte contro la sua stessa gola
malamente
esposta.
Nessuno dei due fece vagare altrove lo sguardo e il ragazzino si
mangiò due
volte le labbra prima di formare una dura linea con la bocca e di
addolcirla
all’ultimo con un mezzo sorriso sdentato.
Stark si era messo alle sue spalle e lei non si era neppure accorta di
quel
movimento spontaneo, di quell’asse di equilibrio spezzato, di
quella strana
pace che uccideva le sue parole furiose, le sue frasi cattive.
“Mi dispiace che sia triste. Visione si trova nella sua
stanza e non si
spaventi, sono sicuro che...”
Si fermò impacciato non appena Tony gli pose le mani sulle
spalle e lo spinse a
dirigersi da un’altra parte, a muoversi a destra per
oltrepassare il giardino e
avvicinarsi al grande cancello che li avrebbe portati fuori da
quell’immenso
edificio, da quel posto di fantasmi e rimpianti.
“Andiamo, Peter. Hai ragione, è meglio lasciarli
soli.”
Notò che aveva stretto più forte le dita contro
la felpa del ragazzo e che poi
lo lasciò andare di scatto, indicandogli di nuovo la strada
con il mento e
rispondendo al suo tacito sguardo con un sorriso aperto e un movimento
d’assenso del capo.
Parker parve convincersi annuendo velocemente e si mosse in avanti
prima di
fermarsi un’ultima volta.
“Mi dispiace davvero”, proferì il
ragazzo con un filo di voce e gli occhi
lucidi.
Poi si avviò verso il giardino e non si voltò
più indietro. Wanda sentì
qualcosa di strano rimescolarle la pancia e, non appena Stark le
passò accanto,
lei non poté trattenersi e lo attaccò duramente.
“Dove hai trovato quel bambino, Stark? All’asilo?
Vuoi distruggere anche lui?
Cosa vuoi fare? Che cosa hai al posto del cuore, dei sentimenti, che
cosa hai
che ti rende così insensibile?”
Sembrava che non le avrebbe risposto e che non si sarebbe mai girato a
guardarla, sembrava che le sue domande non avrebbero mai trovato una
risposta e
che quelle accuse sarebbero rimaste per sempre perse nel vento e nel
silenzio
di quello spiazzo in cui era stata lasciata da sola. Era certa che lui
non
avrebbe mai tradito la sua posa rigida e le spalle sdegnosamente
voltate verso
di lei, ne era veramente certa.
Wanda si appoggiò alla maniglia della porta a vetri e poco
prima di entrare
sentì distintamente l’unica frase sfuggita al suo
patetico orgoglio, l’unica
risposta che le avrebbe mai concesso e che non avrebbe mai
più ripetuto, mai
più ammesso, mai più rivelato a nessuno.
“Lui è il mio ultimo peccato.”
***********
Perduta, amore mio, tu
sei perduta.
Tu cadi cadi
giù
il mondo non ti vuole
più.
Bisbiglia piano piano
non render tutto vano.
Non devi aver paura
tu sai la
verità più pura.
Wanda si fermò dinanzi alla porta socchiusa della camera di
Visione e cominciò
a ripetere queste breve frasi, come una nenia cantilenante nella sua
testa,
come una ninnananna ricordata all’improvviso e da sempre
conservata da qualche
parte dentro i suoi pensieri, dentro le sue paure più
mostruose.
Si fermò
davanti al legno scuro e respirò piano, pianissimo,
tormentandosi la coscia con
una mano e i capelli con l’altra, masticandosi le labbra
già spaccate e
mordendosi la lingua.
Sapeva che lui era lì e, forse, anche lui sapeva che lei era
fuori dalla sua
stanza, ferma come un’idiota, incapace di bussare e di
articolare due stupide
parole, un misero suono di saluto.
Cominciò a tremare, visibilmente, e a sentire la pelle
fremere, prudere, mentre
il Sole già basso non riusciva a stendere i suoi raggi verso
di lei,
all’interno di quel corridoio deserto.
Perduta, amore mio tu
sei perduta.
Ingoiò aria, ingoiò bile, ingoiò il
sapore amaro che le impastava la gola e
chiuse gli occhi, sforzandosi con ogni fibra del suo essere ad aprire
quella
dannata porta.
Si strozzò con la sua stessa saliva e si infilò
un pugno in bocca per soffocare
il suo tossire, ricominciandosi a mordere le nocche escoriate. Una
lancinante
sensazione di panico la strangolò, riducendola in semplice e
stupida polvere.
Pietro, ti prego dammi
la forza, perché non credo di potercela fare, non penso
di essere così forte, mi sento male, ti prego aiutami. Ti
prego, dammi la forza
di essere migliore di quello che sono sempre stata, aiutami a non
scappare via,
dammi la forza per non piangere perché sto già
piangendo, singhiozzo già.
Ti prego, fratello mio,
aiutami.
Ti prego.
“Ciao.”
La voce le era uscita talmente fioca da non averla udita neppure lei,
da averla
appena intuita, un fischio tremulo svanito nel nulla.
Fece un passo nella stanza, con la vista appannata, la voce smorzata e
un
calcio nella pancia che le arrotolava tutto lo stomaco. Un altro passo,
un’altra preghiera, e lei era dentro la camera, poco oltre la
soglia.
Non aveva
più respiro, aria, sangue nelle vene. Era un sacco vuoto che
vedeva tutto
annacquato, un burattino con i fili tagliati, il cuore scappato dalle
costole
fin troppo evidenti.
E lui, lui, lui, lui, lui non era stato nella sua vita se non nella
forma di
un’ombra, un fantasma, un’allucinazione crudele,
per sei stramaledettissimi
mesi.
Doloroso niente, luminosa solitudine della sua mente folle senza
più il suono
della sua voce: creiamo sempre ciò che temiamo di
più e lei questo lo aveva
imparato bruciandosi ogni quadrato di terra che aveva calpestato.
Intuì il suo volto dietro le lacrime e la bocca dello
stomaco cominciò ad
annodarsi, rendendole secca la gola.
“Ciao, Vis. Ciao.”
Tu cadi cadi
giù.
Si pulì velocemente gli occhi per riuscire a vederlo e
mantenne un’espressione
calma, indecifrabile, una sottile carta velina sui suoi tratti tristi,
mentre
un formicolio dietro le ginocchia la spingeva verso il centro della
stanza,
scorrendole languido lungo tutta la sua colonna vertebrale.
Si ferì i palmi con le unghie e serrò i denti
fino a provare un atroce dolore
alla mandibola e a gustare un sapore metallico in bocca,
nell’ansia di
mantenere la calma.
Lui era lì.
Seduto composto dietro una scrivania su cui era posata una scacchiera,
vestito
con alcuni dei suoi semplici abiti umani, la mano ancora immobile, a
mezz’aria,
con un pedone bianco stretto dalle lunghe dita affusolate.
Percepì quella mano
stringerle il cuore, passare attraverso il suo corpo e rendersi carne
tra la
sua carne, il palmo tra il suo sangue e le coronarie, le unghie che le
strappavano via ogni minima resistenza. Una tortura cristallizzata, un
peso
invisibile, un potere crudele.
Lo osservò e si sentì perduta, si
sentì sconfitta, e percepì qualcosa
sgretolarsi in gola e riversarsi sulla sua nuca bagnata e coperta dai
capelli
sudati.
Batté le ciglia una volta e, quando lo ritrovò di
nuovo dinanzi a sé,
capì che non era paura la sensazione spaventosa che stava
vivendo, quel lieve
calore stagnante tra le giunture delle sue ossa, e non era neppure
panico né
tristezza.
Era semplice accettazione.
“Ciao, Vis.”
“Wanda.”
Il mondo non ti vuole
più.
Visione ricambiò il suo sguardo, ma non sembrava turbato o
scosso. Stupito, era
in parte stupito, un po’ pensieroso, attento a immagazzinare
dati e niente
altro. Il suo volto non tradiva alcuna emozione.
Lei pensò di avvicinarsi, ma non appena sollevò
un piede decise di
riabbassarlo, sforzandosi di rimanere al suo posto e di non correre da
lui a
nascondersi sotto il suo maglione, di non chiedergli di smetterla di
fare così
e di ricominciare a guardarla come aveva sempre fatto, di sfiorarla con
i suoi
tocchi gentili, attenti e dolci, di parlare sottovoce e di raccontarle
una delle
tante storie sagge e antiche che lui amava tanto leggere. Si trattenne
dall’urlare mentre lo osservava rimanere lì, in
quella posizione scomoda, in
una maniera innaturale.
Sei diverso, questo non
sei tu.
Si umettò le labbra e si passò una mano contro la
fronte, costringendosi a
controllare il tono della voce e a non biascicare.
Bisbiglia piano piano.
“Come stai?”
“Bene, Wanda. Grazie.”
La sua voce era meccanica, distante. Impersonale.
La agghiacciò e si insinuò tra i suoi incubi
peggiori e li portò alla luce,
quasi a volerle dimostrare che ciò che aveva sempre temuto
si era alla fine
avverato di fronte a lei. Lei che era impotente, vinta, sconfitta.
Perché lui non la voleva più.
Non render tutto vano.
“Sì. Sì, infatti, sì. Ti
trovo bene. Stai bene.”
Sei diverso. Lo sento,
sei diverso.
Sembri tu, ma non lo
sei.
Sei rigido, come una
macchina, proprio tu che una macchina non lo sei mai
stato.
Mi guardi e non sbatti
le ciglia, mi guardi e non mi vedi, sei qui e non lo
sei.
Che cosa è
successo?
Che cosa ti ho fatto?
Non riesco a leggerti la
mente, non sento niente.
Niente.
Niente di niente.
“C’è qualche problema, Wanda?”
Non devi aver paura.
Rimase ferma ad osservarlo e lui posò il pedone vicino al
profilo della
scacchiera e poi si alzò dalla sedia, spostandosi dinanzi
alla scrivania, con
dei movimenti lenti e precisi che le calpestarono il cuore che aveva
dimenticato lì, sul pavimento, da qualche parte. Le era
caduto non appena aveva
messo piede in quella stanza e non poteva adirarsi con nessuno, non ne
aveva il
diritto, perché lei aveva sempre avuto così poco
riguardo nei confronti delle
proprie cose, anche di quelle a cui teneva di più, che non
poteva biasimare gli
altri che seguivano semplicemente il suo esempio, no, non poteva
adirarsi, non
poteva.
“Che cosa hai combinato, Vis?”
Lo osservò ancora e smise di tremare, raddrizzando le spalle
e concedendosi
soltanto di continuare a tormentare le pieghe della gonna.
Inclinò il capo e
notò il modo in cui lui respirava, fin troppo lentamente,
come se quell’alzarsi
e abbassarsi del petto gli provocasse fatica. Quasi non deglutiva e
aveva uno
sguardo lontano, irraggiungibile.
I suoi occhi erano azzurri e senza più il cerchio dorato
intorno alle pupille.
Tu sai la
verità più pura.
Consumò velocemente la loro distanza e pose le mani, aperte
e con le dita
distese al massimo, vicino alle sue tempie, impedendogli anche solo di
capire
che cosa lei aveva intenzione di fare. Lui arretrò,
scostandola, ma lei si
addossò completamente al suo corpo rigido e dai palmi
lasciò fuoriuscire la sua
magia, dei tentacoli rossi che la collegarono ai pensieri della sua
mente e che
le trasmisero immagini spezzate e rovinate, tagliate, in bianco e nero,
di una
serie di codici binari.
La lingua le si attaccò al palato ma lei riuscì a
mormorargli un ‘fidati
di me’
che le costò dei lampi viola dinanzi alle pupille
nere.
Allargò le dita e
digrignò i denti, respirando male, irrigidendo i muscoli.
“Wanda, cosa stai facendo? Dovresti allontanarti, devi
allontanarti.”
Ascoltò la sua voce cambiare, vibrare al pronunciare le
ultime due parole, e
allora chiuse gli occhi e si concentrò, sfogliando i
messaggi cifrati che si
ripetevano sistematicamente nella sua testa. Visione fece un altro
passo
indietro, ma fu fermato dal ripiano della scrivania, ritrovandosi
ingabbiato
tra il legno e lei, le sue gambe, la sua gonna.
Perse, come un oggetto in bilico che crolla, l’aura di
compostezza che lo aveva
cristallizzato fino a quel momento e tentò di allontanarla,
toccandole le
spalle e poi le braccia, senza potersi avvicinare alle mani. Le strinse
i
gomiti e lei ricordò l’incidente in Nigeria,
quando non era stata in grado di
controllare la sua magia, di seguire il flusso dei suoi poteri
distruttori, e
aveva fatto del male, senza volerlo, causando l’ennesima
catastrofe e le
ennesime morti.
Mosse le dita ricoperte di anelli e attenuò il colore
vermiglio
dei lampi che si intrecciavano ai suoi polpastrelli e che scendevano
verso la
testa di Vis. Schiuse la bocca e tentò di calmarlo, mentre il
suo animo tormentato non le dava tregua.
Mi dispiace, mi
dispiace, mi dispiace.
Che cosa hai fatto?
Perché i tuoi
occhi sono diversi, perché? Dimmelo, che cosa è
successo? Che cosa
hai, che cosa posso fare? Parlami, per favore.
“Sei davvero qui”, udì lui sussurrarle,
stanco, affaticato.
Wanda posò i polpastrelli sulla sua fronte e
allentò il nodo dei tentacoli
rossi che le stava legando le vene dei polsi, martellandole il centro
del
cranio. Si sistemò meglio tra le sue gambe, fasciate da dei
pantaloni scuri, e
la sua magia continuò a vagare, strisciando tra delle
stringhe incomprensibili.
Lui sospirò, rumorosamente, e lei catalogò quel
verso come uno di fastidio, di
rabbia, di disappunto. Si odiò, si maledisse, e non resse il
suo sguardo
triste.
Non ti
succederà nulla, non ti farò male, te lo
prometto. Voglio solo aiutarti,
voglio solo capire. Voglio solo ritrovarti.
Io non ti sento
più.
“Sei qui, Wanda. Sei davvero qui.”
Lui strizzò le palpebre e poco dopo la sua voce
tornò asettica, priva di
inflessioni.
Le sue dita, che prima stavano indugiando vicino ai suoi fianchi, si
chiusero a
riccio, scottate. Riprese a respirare normalmente e ad apparire freddo
come
lucido metallo.
Non ti sento.
“Dovresti allontanarti e ripristinare le dovute
distanze.”
Lei strinse le labbra e si avvicinò con le mani alla gemma,
in una lenta
carezza alla radice del naso.
Mi dispiace, mi
dispiace, mi dispiace.
“Vis, te lo giuro. Io non ti farò del male, io non
potrei mai farti del male.”
Bugiarda, non era vero.
Gli aveva già fatto del male e in tanti - troppi - modi in
una volta sola.
“Wanda, tu non dovresti essere qui.”
Le sue unghie incontrarono la superficie calda della gemma e un
pensiero si
impose nella sua mente, pestando i piedi e scuotendole il corpo: lei
aveva
bisogno di toccarlo.
"Hai bloccato una sfera dei sentimenti.”
E aveva bisogno di stringergli la mano e di sentire una connessione,
qualsiasi,
avere la prova che esistesse ancora qualcosa tra di loro, qualcosa di
salvabile. Cercò con la coda dell’occhio i suoi
palmi rossi che stringevano il
bordo del tavolo e volse interamente il capo verso la mano destra.
Settantatré.
Erano state settantatré le notti in cui lei si era
svegliata, urlando in preda
agli incubi, e aveva trovato lui, sdraiato sul pavimento, con le dita
allacciate alle sue.
Lei la conosceva, quella mano, la conosceva bene. C’erano
state delle notti, il
mondo addormentato e silenzioso, in cui lui aveva lasciato aperto un
carillon,
sul comodino accanto al suo letto, la cui dolcissima melodia aveva il
compito
di tranquillizzarla e di concederle il ristoro di poche ore di sonno.
Ma in
diverse e tante notti, più buie e più spaventose,
la lenta musica del carillon
non le aveva impedito di risvegliarsi sudata, con i muscoli tremanti e
la paura
chiusa in gola, fermata a stento dai denti. In notti come quelle lui le
aveva
canticchiato una ninnananna russa, sottovoce, piano piano, cullandola e
rassicurandola.
Era rimasto sempre sdraiato sul pavimento, una mano stretta
alla sua, le dita ben legate fino all'alba.
Aveva sempre fatto così.
Aveva tentato, notte dopo notte, senza che lei gli chiedesse nulla e
senza poi
parlarne durante il giorno, di salvarla da se stessa.
“Hai... inserito un virus e, è impossibile ma, ora
c'è un muro nero che
aggredisce quei sistemi. Come ragnatele.”
Una sola volta era cambiato qualcosa.
In un sogno orribile e malvagio le era apparso Pietro.
Amato fratello mio.
Con il corpo martoriato e un sorriso splendente, il petto ricoperto di
sangue e
gli occhi vitrei, i capelli bagnati dalla polvere e dalla terra.
Sono morta nello stesso
istante in cui tu sei caduto a terra, con le palpebre
spalancate.
Le aveva sorriso sfacciato e le aveva ricordato, con un tono insolente,
di
essere nato dodici minuti prima di lei. Ridendo le aveva sussurrato che
lei, la
sua adorata gemella, la sua Wanda dal broncio facile, doveva smetterla
di
impartirgli ordini, di comandarlo con quel piglio severo. Era lui il
più
grande, il più saggio, il più intelligente. Era
lui a doversi prendere cura
della sorellina minore, non il contrario.
Io sono nato dodici
minuti prima di te. Ricordi?
Si era svegliata sussultando, talmente agitata da esser quasi crollata
sul
pavimento, aveva mosso frenetica le mani e le gambe e aveva serrato la
mandibola non appena un sapore acido era salito a bruciarle il palato e
la
lingua, facendole rischiare di soffocare nel suo stesso vomito.
Lui era sempre stato lì.
Era stata l'unica volta, l’unica, in cui era salito sul letto
e l'aveva
abbracciata, come un cucchiaio, il suo petto duro contro la sua schiena
scossa
dai singhiozzi. Le aveva bloccato le braccia, quasi a volerla inglobare
con il
suo corpo, nel tentativo gentile di prendersi, di assimilare, tutto il
male che
lei non riusciva più a portare dentro di sé.
Tutto il male che il mondo le aveva infilato nel corpo, nello spazio
libero di
ogni cellula e nei percorsi aggrovigliati di tutti i nervi.
Era sempre rimasto
lì, con lei, fino all’arrivo di ogni alba.
Sempre.
E lei, alla fine, come lo aveva ripagato?
Sputandogli in faccia.
“Hai creato un blackout per una parte della tua mente. Un
blackout localizzato
che non interferisce con il tuo lato umano. Ti rende un automa. Buono,
servizievole, ma spento.”
Lasciò cadere le braccia lungo i fianchi e
abbassò il capo verso terra,
percependo all’improvviso delle strette allo stomaco e delle
viscere nella
pancia, intente a mangiarle il fegato e a toglierle l’aria.
“Perché non lo elimini?”
Perché lo hai
creato?
"Non voglio sbloccarlo. C’è un messaggio di
notifica che mi avverte delle
controindicazioni. Il dolore è classificato come altamente
intollerabile.”
Wanda sollevò la testa, simile a una molla, e
riposizionò le mani vicino alle
sue tempie.
"Ora sistemiamo ogni cosa."
Le bloccò i polsi, con una presa ferrea e decisa, e la
osservò sconcertato, gli
occhi attraversati da un lieve guizzo che sparì nello stesso
istante in cui era
comparso. Tornò negli abissi, talmente tanto velocemente da
farle credere di
averlo solo immaginato, quel rigurgito di umanità che
zoppicava e si dibatteva
sul fondo di un baule, e la lasciò di nuovo abbandonata a se
stessa. Da sola a
combattere, da sola a sopravvivere, mentre lui la guardava e le parlava
con lo
stesso tono piatto e monocorde dei computer.
Lui non c’era più.
"Il dolore è classificato come altamente intollerabile.
Vorresti davvero
rischiare?"
Sì.
No.
No, non rischierei.
"Forse ora è diverso. Forse adesso sarebbe niente."
Niente. Niente di
niente.
Noi siamo niente, a
causa mia, noi siamo niente. Perché dovrebbe fare male?
"Ne dubito. Già adesso è difficilmente
sopportabile e non voglio
immaginare senza il blocco, non voglio saperlo."
Gli sfiorò le guance, gli angoli della bocca.
"Ti fa male?"
Osservò i suoi occhi spenti e si sentì morire
dentro.
"Mi fai male”, le rispose, e poi volse la testa a sinistra,
confuso.
Sembrava si fosse spezzato qualcosa, dentro di lui, come un vetro
sottoposto
alla continua pressione di una punta di diamante, un vetro destinato a
scomporsi in miliardi di cocci.
"Sai che non ti avrei mai lasciato sola”, gli
scappò dalle labbra, di
getto.
Ma erano istanti che si dissolvevano in fretta, scomparivano nella
nebbia dei suoi occhi.
E lei tentava di aggrapparsi a quegli spiragli, di sfondare i muri
dibattendosi
tra mattoni di fango secco, con le mani scorticate e colanti strisce di
sangue
fresco.
"Tu sai cosa ho provato quando è morto Pietro. Tu c'eri, tu
mi hai vista”,
disse, con veemenza, mangiandosi le parole e cercando il suo
sguardo.
Gli
parlava, arraffazzonava scuse e motivazioni, lo supplicava, eppure
aveva la
sensazione di sbattere la testa contro uno specchio rotto che
rifletteva
soltanto volti spezzati, bellezze rubate.
Non lo sentiva, non lo sentiva e
basta.
Lui non c’era più.
"Ti sto lasciando libera, sto facendo quello che mi hai chiesto. Anche
perché gli algoritmi...”
"Al diavolo gli algoritmi, al diavolo quello che ho detto, al diavolo
tutto!", lo interruppe, illudendo se stessa, illudendo i suoi ricordi
che
ritornavano a piegarle le costole.
"Non funziona così, non possiamo muoverci in base ai
sentimenti.
Catastrofi, nascono solo catastrofi.”
Percepì una straziante nausea ritornare a tormentarle la
gola e la bocca, il
panico colpirle i tratti del viso che non poterono più
rimanere impassibili e
che si sciolsero come neve buttata su una spiaggia rovente. Si morse il
labbro
inferiore, serrò le palpebre, e frenetica tirò
fuori dalla scollatura il
ciondolo che aveva appeso al collo, un semplice cerchio scuro.
Glielo porse e
Vis prese tra le dita la collana, attento a non toccare anche lei.
E il suo respiro non mutò, la sua voce non
cambiò, i suoi occhi rimasero dei
distanti pozzi blu.
Dove sei?
"La indossi ancora."
Che cosa posso fare?
"Non l'ho mai tolta."
Visone giocò con quel ciondolo e lo girò da una
parte e dall’altra,
esaminandolo.
"Pensavo che non ti sarebbe piaciuto, però sapevo che dovevo
farmi perdonare."
No. No, non dovevi.
"Perché eri entrato un'altra volta nella mia stanza, senza
bussare, e mi
hai trovato in accappatoio. Ti sei scusato così tanto ed eri
talmente
dispiaciuto e mortificato che non potevo arrabbiarmi né
infierire”, tentò di
essere leggera, mentre ripercorreva il ricordo, ma un crampo al petto
glielo
impedì.
Perduta, amore mio tu
sei perduta.
Tu cadi cadi
giù.
"Ero molto imbarazzato."
Abbassò il mento e guardarono insieme il pendente che lei
non aveva mai
mostrato a nessuno: un anello di vibranio, all'altezza del cuore.
Affinché quel
grumo scuro potesse essere sempre protetto, nelle battaglie e nella
vita.
Quando glielo aveva regalato lei non lo aveva capito.
Aveva impiegato molto tempo a comprendere, ad accettare, quanto a fondo
lui
l'avesse vista e con quanta intensità desiderasse
proteggerla dal mondo crudele
che le aveva già tolto tanto, - tutto.
Mesi, mesi e mesi: notti di cui aveva perso il conto e mattine
silenziose in
cui si era crogiolata, strafottente, nel suo antico dolore. Non aveva
prestato
attenzione a niente altro se non a se stessa e al suo patetico
compiangersi.
Poi, quando aveva compreso la realtà e la verità,
era già troppo tardi ed era
già finito tutto.
Il mondo non ti vuole
più.
“Perdonami, Vis. Scusami, per favore.”
Si sporse verso il suo viso, ma lui si mostrò insofferente e
sgusciò lontano
dal tavolo,
raggiungendo il centro della stanza, vicino al lato del letto e
all’armadio
addossato alla parete.
Il suo petto sembrava in affanno, i suoi sistemi compromessi.
Le parlò senza guardarla, concentrandosi su un punto
qualsiasi dell’intonaco
bianco del muro.
"Ogni parola porta ad una conseguenza."
“Quindi non mi perdonerai?”
Ascoltò le sue parole che gli uscivano a fatica, elaborate
lentamente, e lei
percepì altri calci colpirle la pancia.
Bisbiglia piano piano.
“Nulla deve essere perdonato, non è stato compiuto
nulla di male”, lo vide
portarsi una mano al petto, in un gesto tanto umano che non
riuscì a
controllare, “Ho sbagliato io.”
Non render tutto vano.
“Ascolta, Vis, è importante. Io provo qualcosa
per-“
“Ti prego, Wanda. Ti prego vattene”,
pronunciò dolorosamente quelle parole,
coprendosi la testa con le mani, così da nasconderle gli
occhi e la fronte.
Si sentì impotente, invischiata in un muco di ragnatele che
aveva creato lei
stessa, in cui, masochista, si era lasciata fagocitare. Una rete di
bugie, di
falsità, di cattiverie, di incubi, di autocommiserazione:
qualcosa che la stava
uccidendo e che coinvolgeva chiunque era sulla sua stessa strada, una
trappola
mortale di cui aveva fatto scattare troppo presto la molla,
ritrovandosi
prigioniera e carnefice allo stesso tempo.
Era stato semplice in passato, quasi
divertente, inveire contro la vita e l’universo e urlare
improperi contro il
destino e contro una fantomatica maledizione pendente sul suo capo. Si
era
appesa alle mani di lui, perché tra loro era sempre stato un
gioco di mani, e
invece di risalire dagli abissi aveva voluto tirarlo a fondo, osservare
quanto
lui avrebbe sopportato per amor suo. Si era incisa sulla fronte la
parola
sopravvissuta e si era immedesimata tanto bene in quella condizione
esistenziale, che non aveva pensato a far sopravvivere qualcun altro
vicino a
lei.
Aveva compiuto una cazzata dopo l’altra, una stronzata dopo
l’altra, in
continuazione, e aveva sbagliato senza fermarsi a riflettere neanche
per un
fottuto secondo, certa di poter essere perdonata ogni volta.
Tronfia aveva
marciato sul suo amore, incurante lo aveva calpestato, denigrato.
Fino a ritrovarsi all’angolo.
Lì, in quella stanza, con lui che la pregava di andarsene.
“Non so come hai fatto a entrare nell’edifico,
immagino solo chi ti abbia
aiutato. Ma ora dovresti andartene, conviene anche a te.”
Visione si rifiutò di girarsi e la voce le giunse ovattata,
ostacolata dalle mani.
Aspettava invano un suo ultimo sguardo, un suo ultimo sorriso, pur
sapendo che
non ci sarebbe stato, non ora che non aveva più
senso.
Gli aveva promesso di
non fargli del male e invece gliene stava facendo, lo stava facendo
ancora,
continuava a farlo, perché non sapeva neanche iniziare un
discorso e
spiegargli, provare a giustificare la sua cattiveria infantile.
Aveva trascurato il suo affetto, aveva compiuto delle ingiustizie
imperdonabili.
Non voglio lasciarti,
non più, non adesso che ho compreso, non adesso che
respiro.
Ma devo. Per te, solo
per te.
“Mi dispiace. Steve mi aveva consigliato di prepararmi un
discorso, Natasha mi
ha riso in faccia e Stark mi ha minacciato sulla porta. Tutti hanno
provato a
farmi capire che avevo oltrepassato il limite e io non ho voluto
ascoltare
nessuno di loro. Nessuno. Ho voluto, poco poco, almeno una volta,
vivere di
speranze. Io ti ho fatto del male e mi dispiace, mi dispiace, non mi
perdonerò
mai per questo, non posso, non ne sono capace. E fai bene anche tu a
non farlo,
non mi merito altro. Avevo tutto e l’ho capito troppo
tardi.”
Riprese a torturarsi l’orlo della gonna e le labbra spaccate,
intimandosi di
non avvicinarsi, di non abbracciarlo un’ultima volta, di non
baciarlo per
soddisfare il desiderio mai sopito di sapere quale sapore avessero le
sue
labbra, di non dirgli che anche lei lo amava, da tempo, da sempre.
Intravide
malamente le sue spalle, - era di nuovo tutto annacquato -, e
accettò di
lasciarlo andare.
Per amore tuo, solo per
amore tuo.
Non voglio
più essere egoista, solo per amore tuo.
“Va bene me ne vado. Sì, vado via. Scusami,
scusami.”
Gli occhi presero a bruciarle e non si accorse del tavolino vicino a
lei contro
cui sbatté le ginocchia ridotte a gelatina, facendo in quel
modo cadere il
carillon posato all’angolo sinistro. Si rovesciò a
terra e si schiuse, lo
specchietto rivolto verso l’alto e la povera ballerina che
non riusciva a
girare contro il parquet. Con i polsi si stropicciò le
palpebre e mise a fuoco
l’oggetto ai suoi piedi.
Il suo carillon.
La musica occupò il silenzio della stanza e lei si
inginocchiò a terra,
scovando un disegno ripiegato e nascosto in uno spazio vuoto, oltre le
molle
della figura della danzatrice con il tutù rosso.
“Non devi aver paura, tu sai la verità
più pura... è la ninnananna. La
ninnananna che mi cantavi quando avevo troppi incubi, quando nulla
riusciva a
calmarmi.”
Pescò il foglio con le unghie e lo aprì, veloce,
anche se non ce ne era
bisogno, non sarebbe stata fermata. Lui non si muoveva e non si
spostava di un
passo.
"Questo disegno l'ho fatto io."
Un disegno semplice, quasi uno schizzo, con i loro contorni abbozzati e
i
tratti del volto rilassati, felici. Perché un giorno,
piegata dai suoi stessi
desideri, aveva iniziato a ritrarre loro due insieme, sereni e
innamorati. Il
suo volto senza più le lacrime agli occhi.
"Sì."
Ma non lo aveva mai terminato e aveva voluto sbarazzarsene, pentita.
Aveva
voluto rinnegare ogni cosa, ogni sua debolezza. Dibattersi in una
guerra persa
in partenza, fermamente convinta di essere immune a qualsiasi emozione.
Che stronza orgogliosa.
"L'ho buttato nella spazzatura tempo fa. Tantissimo tempo fa."
Accarezzò il loro ritratto e delle immagini scoppiarono
nella sua testa: codici
binari che si rompevano a metà e si scioglievano in
coriandoli, stringhe che si
arrotolavano su loro stesse e si disintegravano, spezzoni in bianco e
nero che
cominciavano a colorarsi a macchie, a riprendere vita.
Vis si voltò, le braccia stese lungo il corpo, e
sospirò. Lui sospirò e i suoi
occhi si schiarirono, le pagliuzze dorate tornarono a contornargli le
pupille.
Erano lì i puzzle del loro amore.
Un carillon, una collana, un disegno.
E la fine della ninnananna, le parole che lei aveva sempre trascurato.
Chi è amato
è salvo, ricordalo. Ricordatelo, Wanda, è
fondamentale.
Chi è amato
è salvo.
"Non mi piaceva molto l'idea che noi fossimo... da buttare”,
le disse, e
poi sorrise. Lui sorrise e lei crollò.
Fanculo alle parole di
tutti.
Fanculo al sorriso
compassionevole di Steve, agli scherni di Nat, all’arroganza
di Stark.
Fanculo agli algoritmi e
alla logica.
Fanculo al passato e
agli incubi.
Io mi all'ultimo
spiraglio mi ci aggrappo con le unghie e con i denti.
"A me non piace neanche adesso”, gli rispose, con foga.
Gettò il carillon e il foglio sul tavolino e
eliminò il poco spazio che li
separava.
Le loro braccia si incontrarono a metà strada, si sporsero
entrambe a cercare
l’altro e lei si abbarbicò a lui mentre veniva
sollevata e stretta, fortissimo,
fino a non avere più respiro. Le salirono talmente tanti
gemiti, dalla gola,
che li riversò dentro di lui, bocca contro bocca. Erano
schiocchi, era uno
scontro di labbra su labbra, delle sue mani che vagavano inquiete e che
si
fermavano con i polpastrelli dietro le sue orecchie, solo per poco. Vis
la
baciava gentile e le toccava il corpo con una tale venerazione che le
fece
perdere la testa, la fece impazzire.
Infilò le mani sotto il suo maglione e liberò
alcuni bottoni della camicia.
Toccò la sua pelle, su e giù, in punta di dita,
dagli addominali e poi lungo
tutta la linea alba fino a vezzeggiargli i fianchi, senza mai superare
l'orlo
dei pantaloni.
"Wanda. Wanda."
Lui non riusciva a pronunciare altro se non il suo nome, voleva parlare
e lei
non gli concedeva il tempo, non voleva pensarci, non voleva fermarsi,
non ora,
non più.
Non dopo aver rischiato di perderlo per sempre.
Corse ad aggrapparsi alle sue scapole e immerse la testa nel suo petto,
stringendolo in un abbraccio goffo.
“Perdonami.”
“Wanda.”
Le parole fuggirono via dalla sua gola, uscirono frettolosamente e male.
"Tu sei l'unico uomo di cui io mi sia mai innamorata. Sei il primo e
sarai
anche l'ultimo. E mi dispiace per te perché sono una ragazza
insicura e a cui
la vita fa paura. Tanta paura." Gli baciò tutto il viso. Le
guance, gli
zigomi, il mento, scese giù lungo il collo e poi la
mandibola, gli occhi, il
naso, le tempie, la bocca. Non si concesse di respirare, non gli
permise di
parlare, rimase stretta tra le sue braccia e gli cercò le
labbra, gli parlò
sulla lingua, si rinchiuse tra il suo corpo e niente altro.
"Ma amo solo te. Solo te.”
Lo amava con una disperazione tale da impazzire, da respirare male, da
soffocare a bocca aperta.
Coincideva tutto con lui.
L'unico vero motivo per cui svegliarsi ogni mattina e non sperare di
morire
presto. L'unica ragione per cui tornare a sorridere anche quando i
ricordi la
imprigionavano e gli incubi si insinuavano lenti, inesorabili.
Lo amava davvero.
Di un amore che spaventava e che l'aveva spaventata, troppo potente e
intenso,
un raggio di vita capace di illuminare le ombre del suo passato
costellato da
morti e rovine, un amore bello e dolce nonostante il buio della sua
anima
difettosa.
Lui era vita e speranza e tutto ciò che di più
meraviglioso esistesse al mondo.
E lei lo amava, lo amava con ogni rimasuglio di se stessa e lo avrebbe
amato,
ogni giorno, ogni secondo, fino al suo ultimo respiro.
"Sei mio", gli sfilò il maglione marrone e gli
gettò le braccia al
collo, "Sei completamente mio."
Dal momento in cui lei era diventata sua.
C'era una pioggia di stelle nei suoi occhi, c'era l'universo intero con
la
purezza della sua luce.
Ed era bellissimo.
"Wanda", le sussurrò, come in preghiera.
Posò le labbra sulle sue, lo azzittì, e
intrecciò le dita dietro la sua nuca,
spingendolo contro la sua bocca schiusa, baciandolo come una condannata
a
morte. Sentì le guance umide e poi un sapore salato sulla
lingua e una parte
della sua mente fu cosciente del fatto che lei stava piangendo e che
stava
ingoiando il suo stesso pianto. Si aggrappò alle sue spalle
e baciò la sua
mandibola lasciando schiocchi lungo tutto il suo profilo, risalendo
verso gli
zigomi, le palpebre, la fronte. Strofinò la punta del naso
sulla sua tempia
destra e ingoiò un singhiozzo e poi un altro, un altro e un
altro ancora fino a
interromperne uno sulla sua bocca, di nuovo.
Era per il modo in cui scioglieva ogni muscolo in tensione, leggera tra
le sue
braccia, perdendo ogni difesa e piegando ogni paura che le tormentava
gli
occhi.
L'unico momento in cui dimenticava i suoi muri.
"Wanda, non piangere, non...”
"Fai l'amore con me."
Già prima gli aveva slacciato alcuni bottoni della camicia e
ora gliela stava
sfilando dai pantaloni, in una piena carezza di tutta la base della
schiena.
Lui le alzò il volto coprendole le guance con le mani,
ingabbiando tutto il suo
viso tra i polpastrelli e i palmi.
"Non so neanche se sono in grado di farlo.”
"Scopriamolo insieme”, gli rispose, di getto.
“No. Perché piangi?”
Avevano le labbra talmente vicine che ogni parola era un altro bacio,
ogni movimento
era una bellissima tortura che la faceva respirare, finalmente, la
faceva
respirare dopo sei mesi di apnea. Il sollievo si mescolò ad
un improvviso calo
di adrenalina che le sciolse ancora di più gli occhi e che
le fece comprendere,
realmente, quanto aveva rischiato di rovinarsi la vita.
"Sono proprio diventata quello che ho sempre disprezzato. Una terribile
bambina piagnucolosa e lamentosa. Vero?"
Le aggiustò i capelli che le si erano attaccati alle labbra
e le pulì il viso,
strofinando dolcemente i polpastrelli.
“No. Sei solo un po’ spaventata e mi dispiace,
credo sia colpa mia. Non era mia
intenzione farti piangere.”
Tirò su con il naso e si rifugiò contro il suo
collo, stringendogli fianchi e
sospirando pianissimo ogniqualvolta lui passava le dita, a rastrello,
tra le
sue ciocche rosse.
“Quando ti ho visto in quel modo, spento, io non so
spiegartelo.”
Prese tra i pugni la sua camicia e si fece male alle ossa, a tutti i
muscoli,
pur di ancorarsi a lui, pur di abbracciarlo tanto forte, pur di
accertarsi che
fosse tutto vero.
“Ho creduto di aver distrutto ogni cosa. Io non pensavo
nessuna delle
stupidaggini che ti ho detto in ospedale, e tu mi sei mancato, ogni
giorno, e
io non volevo fare del male a te, mai, mai, mai a te, e invece
l’ho fatto e ho sofferto,
e ti pensavo sempre e ho fatto spaventare Steve e Natasha, un
po’ tutti ho
fatto spaventare, perché io non dormivo, io non... non
riesco a spiegarmi, sono
un’incapace con le parole.”
Tacque e si immerse nel suo petto, con l’orecchio destro
rivolto verso il suo
sterno che si alzava e abbassava accarezzandole la guancia, e che
cominciò a
muoversi un po’ più veloce. Schiacciò
il viso sulla sua camicia sbottonata e
contro porzioni libere delle sua pelle rossa, ascoltando la sua voce
limpida e
chiara.
“Vicino a te, per me, è molto difficile rimanere
una macchina. Rendi vivo
persino un androide, Wanda. Tu pensi di portare morte e distruzione,
insieme ai
tuoi passi, non accorgendoti mai della vita che crei, delle
emozioni”, le cercò
gli occhi tra tutti i suoi capelli aggrovigliati e poi
continuò, “E sono
davvero desolato di averti rattristato, non volevo. Ma dopo la tua
partenza
gestire le sensazioni era diventato stancante, deludente. Nessuna mia
programmazione sapeva come comportarsi, come applicarsi in una
situazione del
genere. Ho pensato fosse la soluzione ideale per tutti. Rincontrarti
non era
assolutamente previsto.”
Leggeva tra le righe, lei lo conosceva, quello che lui ometteva al solo
fine di
proteggerla. Taceva sulla tristezza dei mesi passati, sul dolore
insopportabile
che non era riuscito a fronteggiare a causa dei mancati sistemi di
programmazione, sull’impossibilità di guardare al
futuro con gli occhi di
prima. Sfumava, sorvolava, sulla decisione di spegnersi pur di
dimenticare.
Forse questo l’aveva enormemente spaventata, non appena era
entrata nella
stanza, forse questo era il motivo per cui un’ansia cieca
ancora le solleticava
la pelle, come aghi dritti nelle sue vene. Perché le avevano
insegnato, con
attenzione, e la vita glielo aveva ricordato ogni giorno, che quando il
male
supera l’amore inizia il distacco.
Non l’odio, ma il distacco.
E lui in quel modo le era apparso: distante, perso, lontanissimo dalla
sua
anima difettosa.
Aveva temuto, più di ogni altra cosa, che avessero superato
il punto di non
ritorno.
“Fai l’amore con me.”
E allora la febbre di toccarlo, la febbre di averlo, il tremito di
sentirlo in
ogni modo possibile, il desiderio di viverlo dentro di lei
così da esser certa
che fosse tutto vero.
Così da placare i suoi demoni, così da fermare i
suoi incubi, così da provare
qualcosa di bello in mezzo a tanto male. Così da
sopravvivere insieme in un
oceano di niente.
“Fai l’amore con me, Vis.”
Ma lui scosse la testa e allentò lentamente il loro
abbraccio, sbattendo le
ciglia con poco controllo.
“Wanda, no. Non chiedermelo.”
“Perché?”
“Sai che non posso. Sai che... ti amo e che non posso darti
altro, che vorrei
darti tutto, ma che non ho altro.”
Wanda indietreggiò di un solo passo e si sfilò la
maglietta nera, gettandola a
terra vicino alle loro scarpe. Visione tentò di fermarla, di
chiudersi i
bottoni della camicia, di bloccarla dallo slacciarsi il reggiseno, e
invece
ottenne solo di riavere lei tra le braccia.
La strinse di nuovo a sé e a lei sembrò di
sentire un rumore, distintamente,
nel petto di lui.
“Wanda, fermati. È meglio fermarsi, è
meglio parlare.”
Aveva paura e rischiava di balbettare, contro ogni regola e
programmazione,
rischiava di tremare e di mordersi la lingua e lei non voleva questo,
mai
questo.
Allora lo baciò e si allontanò fino a sfiorare le
lenzuola del letto con i
polpacci.
“Possiamo scoprirlo insieme, possiamo scoprire tutto insieme.
Possiamo, guarda,
non sono spaventata, possiamo affrontare ogni cosa, io e te, insieme. E
se tu
ancora desideri un tempo vissuto con me, io non temerò
più il nostro futuro. Se
tu lo vuoi ancora, io non fuggirò più.”
Lascia che ti mostri
quanto sei umano, quanto sei splendido, quanto sei tutto.
Lascia che io, che ho
sempre vissuto nella paura, ti mostri quanto ti amo e
quanto voglio essere tua. Lascia che io ti ami come non ho potuto mai,
fidati
di me.
Lascia noi due qui,
insieme, in questa stanza, e che l’intero universo rimanga fuori.
“Non posso.”
Lei prese il palmo della sua mano rossa e lo baciò,
stringendogli le dita con
forza.
Sollevò lo sguardo e condusse quelle dita alla gonna, al
tessuto liscio che le
fasciava la pancia, e annuì senza mai smettere di guardarlo.
“Sì. Tu puoi.”
Lo aiutò a slacciarle il bottone e ad abbassarle la cerniera.
Quando la gonna scivolò a terra le sembrò che
anche il cuore fosse caduto ai
suoi piedi. Di nuovo.
“Se mi vuoi, io sono tua. Tutto ciò che rimane di
me, gli avanzi lasciati dopo
le ferite dei lutti e delle calamità, sarà tutto
per te. Non è nulla di
conveniente, non è granché di bello. Ma
ciò che è mio è tuo.”
Si sedette sul materasso e non gli lasciò le dita, non
lasciò i suoi occhi
chiari, la sua bocca sottile.
“Per sempre. Per sempre, Vis.”
Si stese sul letto e trascinò lui sopra di lei.
*********
Voleva rimanere così.
Così, per sempre, per tutta la vita.
Nuda, sopra il suo petto, la bocca premuta contro la sua gola, le mani
e le
gambe intrecciate.
Così, per sempre.
Mosse l’indice in una carezza piena, a partire dal fianco
destro di Visione
fino a risalire verso la spalla, verso l’incavo del collo,
percependo
all’improvviso una strana sensazione al tatto.
Lui, con lei, era pelle.
Era sempre
stato pelle.
Eppure adesso i suoi polpastrelli registravano qualcosa di diverso,
vero calore
di una diversa consistenza, e toccavano un’illusione che non
sarebbe potuta
esistere.
Wanda sollevò il capo e rimase sbigottita alla vista del
volto di un uomo
maturo, con i capelli corti e biondi, gli occhi chiarissimi, il corpo
sano e
perfetto.
Si sentì stranita, un istante, poi scosse la testa e
sorrise,
baciandogli il mento.
“Che cosa fai? Ti nascondi?”
Lui fuggì il suo sguardo e si concentrò a
risponderle, chiudendo le palpebre
stanche e spostando la guancia sul cuscino.
"Ho pensato fosse più umano in questo modo”, le
disse, calmo,
cauto,-tormentato.
"Mi basti tu”, gli confessò, baciandogli il suo
mento e cercando i suoi
tratti in quello strano gioco di apparenze e paure.
"Io non sono umano”, lui le rispose, cingendole i fianchi,
più
disperatamente. Forse perché credeva che quella frase, che
quella realtà,
l’avrebbe fatta scomparire al pari di cenere al vento. Lo
osservò sospirare e
quel gesto sofferente contrasse a pugno gli organi ingabbiati tra le
sue
costole e mangiò la sua serenità.
Lui non lo avrebbe mai detto, no, lui non avrebbe mai ammesso che
l’insicurezza
non cessava di frastornarlo, non un solo istante, e che era triste, era
inquieto, non credendosi degno, e che quindi questi strani pensieri gli
impedivano di rimanere sdraiato con lei nel loro letto
stretto.
E amarlo,
consolarlo, capirlo, accettarlo erano istinti radicati a fondo nel suo
animo e
nel suo corpo, era ciò che la spingeva a diventare una
persona migliore.
"Sei più umano di me”, gli rivelò, a
bassa voce. Si sistemò più
comodamente, stesa sul suo addome, e le loro gambe continuarono a
intrecciarsi,
a giocare, a cercarsi.
“E mi piace il modo in cui mi ami. È
gentile”, continuò a svelargli, bloccando
con le dita e con le labbra ogni sua contestazione, “E mi
piace come mi guardi,
come mi osservi, come ti prendi cura di me. Mi piace come mi abbracci,
come mi
baci, come mi insegni a fare l’amore.”
Lo pregò con ogni gesto di lasciare andare
l’illusione e di ritornare se
stesso, lo pregò con ogni carezza e bacio di abbandonare
certi pensieri e di
crederle, di fidarsi di lei, perché non un solo giorno lui
si era dimostrato un
androide, non una sola volta lui aveva avuto bisogno di fingere certi
sentimenti che invece gli uomini di carne avevano dimenticato da secoli
e
secoli. Ritornò a stringersi al suo corpo e gli
mormorò frasi belle, frasi
proibite, frasi che non avrebbe mai più ripetuto se non
avvolta tra le loro
lenzuola.
Continuò, perseverò, fino a quando non vide di
nuovo il suo volto rosso e fino
a quando non tremò al contatto delle sue mani grandi che
vagavano tra le sue
scapole e poi giù lungo la schiena. Non si fermò
neppure quando le sue ciocche
iniziarono a ostacolare i loro baci e il suo petto non
iniziò a bruciare.
“Come posso lasciarti andare?”
Altri baci, altri movimenti dolci, sottili, che le scombussolarono
calorosamente la pancia.
“Non devi, Vis. Non devi”, affermò, e
sollevò il petto, attirandolo a sé.
“Sì, devo. E tu devi fuggire, non sei al sicuro
qui, noi non possiamo rischiare
oltre.”
Le coprì la bocca con un palmo, le fermò il
bacino con un braccio e,
riservandole un’espressione mortificata, rafforzò
la presa intorno ai suoi
fianchi nel tentativo di allontanarla. Lui le parlava, lui desiderava
proteggerla, e lei non voleva ascoltarlo, non voleva andarsene, non
voleva
fermarsi. Solo immaginarlo, solo tentare di formulare il pensiero nella
sua
mente, la spezzava in più pezzi, la rendeva coriandoli di
polvere e fumo
inconsistente.
Ti amo, ti amo da morire.
Tu mi chiedi, domandi
accorato, come puoi mai lasciarmi andare, ma credi che io
sia capace di fare lo stesso? Pensi che io sia in grado di abbandonarti
qui, in
questo edificio vuoto e morto, e di rassegnarmi a non vederti
più, a non
viverti più?
No, non posso, no, non
possiamo.
Non ora, è
troppo presto.
Non ora che ti ho
ritrovato, non ora che stiamo insieme, non ora che uscire da
questa stanza mi sembra impossibile, se non insieme a te.
“Devi scappare. Sfidare la sorte è avventato e se
loro provassero a farti del
male, se loro ti toccassero, io non riuscirei a trattenermi. Non
potrei.
Nessuno al mondo deve più farti del male.”
Lei gli circondò le spalle larghe e gli
mordicchiò le dita, chiedendogli con
dispetto di liberarle la bocca. Vis l’accontentò,
pregandola con gli occhi di
fuggire, di mettersi in salvo subito. Incredula, - davvero lui credeva
che lei
fosse così forte? Riteneva di ferro il suo cuore? -, si
avvicinò al suo
orecchio.
Temette di non riuscire a contenere se stessa, di precipitare dalla
linea
sottile che le imbavagliava la bocca e di dirgli tutto, di riversargli
i suoi
sentimenti senza alcun freno, limite, in una maniera folle e
sconsiderata.
Temette di sciogliersi e di ridursi a brandelli tra le sue braccia.
“Insieme. Te lo ricordi? Insieme possiamo affrontare ogni
cosa”, si nascose
dietro le ciglia e sorrise imbarazzata, “Allora, allora vieni
via con me. So
che tu hai fatto delle promesse a Stark e che io... io anche ho fatto
delle
promesse agli altri. Ma possiamo creare del tempo per noi, possiamo
rubarlo se
necessario. E possiamo iniziare a farlo adesso.”
Deglutì, sonoramente, e avvertì i muscoli pesanti
e i nervi al di fuori della
propria pelle. Deglutì ancora e riavvertì la
paura, il panico che le offuscava
le idee e i progetti, i sogni, il futuro. Deglutì piano,
rischiando anche così
di strozzarsi, e gettò fuori dai denti le parole rimaste
incastrate.
“Ti piacerebbe visitare Edimburgo? Ho visto tantissime foto
di questa città e
sono tutte belle, tutte bellissime. So che è una
città fredda. Cioè, sì, il
tempo è freddo, tanta tanta neve e pioggia, sai?
Però forse le persone sono
gentili. O forse non lo sono ed è meglio così,
meglio non attirare
l’attenzione, meglio essere invisibili. Ma Edimburgo
è bella, sono certa che le
foto non mentano. Edimburgo sembra speciale, molto speciale.”
Si morse la lingua e bofonchiò qualcosa a cui lei stessa non
prestò attenzione,
che si dimenticò dopo aver pronunciato, ammutolita soltanto
dall’azzurro
cristallino dei suoi occhi, dai filamenti dorati dalle strane forme e
dalle
cangevoli dimensioni intorno alle sue pupille. Represse
l’istinto di fare
qualsiasi cosa sbagliata e attese, attese, attese. Fu solo mezzo
minuto, furono
trenta secondi esatti, e ciononostante lei ebbe la percezione di
galleggiare in
uno spazio di bolle e in un tempo di lancette lentissime e secondi
interminabili, i cui suoni scoppiavano e scomparivano a intermittenza.
Attese, il freddo del vibranio adagiato sul suo seno.
Attese, vivendo un po’, almeno un po’, di speranze.
Attese.
E quando lui le parlò, lei si ritrovò a ridere e
a piangere, a singhiozzare e a
sorridere, senza rendersene conto.
Intuì la verità non appena udì un
lieve balbettio precedere le parole di Vis.
“S-sì, Wanda. Sì, voglio visitare
Edimburgo.”
La felicità era sempre stata dentro di lei.
You'll always sing me something new
I will always follow
When I first saw you here I knew
That I was blind before you
Forever, Alekseev
Note
Vi lascio qui delle noti veloci che riguardano la storia.
Prima di tutto troverete all'interno del capitolo delle evidenti riprese di frasi e battute di diversi film Marvel e penso le conosciate un pò tutti, come quella di Stark "Adesso parlano gli adulti" ripresa da SpiderMan HomeComing, oppure quella di Pietro "Sono nato dodici minuti prima di te. Ricordi?" ripresa da Avengers Age of Ultron e infine qualche frase ripresa da Infinity War che non posso scrivere ancora perchè altrimenti mi si spezzerà il cuore.
Questo storia voleva essere un ponte tra Civil War e Infinity War e spero possa esservi piaciuta, io ci tengo tantissimo.
Spero di tornare prestissimo a scrivere su loro due, mi mancano già.
E mi dispiace se troverete errori o refusi nella storia, non esitate a segnalare e perdonatemi se potete ma questa storia ha a sua volta una storia molto molto tormentata dietro.
Grazie a chi ha recensito e a chi lo farà.
Ringrazio ancora infinitamente Miryel, perchè si è beccata così tanti messaggi deliranti nell'ultimo periodo da parte mia e perchè questa storia è qui specialmente grazie a tutti i suoi consigli e le sue opinioni, le sue impressioni, i suoi suggerimenti! Ogni cosa bella qui presente è solo merito suo.
E salutate affettuosamente le comparse di Tony e Peter, completamente vivi e bellissimi grazie alle sue storie.
Infine grazie ad Alekseev, dalla sua canzone è nata tutta questa storia, una delle più belle canzoni d'amore che io abbia mai ascoltato.
A presto :)