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Autore: Subutai Khan    20/10/2018    1 recensioni
Sfortuna. Tanta sfortuna.
È stata solo una congiuntura sfortunata per la classe 78.
[Questa storia partecipa a Una Festa in Zucca, challenge di Halloween indetta dal gruppo Facebook Il Giardino di EFP. La traccia è la ventesima, X Muore durante la Festa]
Genere: Angst, Sovrannaturale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Celestia Ludenberg
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'La Maledizione che Salvò il Mondo'
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È la mattina del 31 ottobre.
Halloween.
Ho paura. E non per i motivi che vi aspettereste.
Non sono mai stata il tipo da spaventarsi con le zucche, i marmocchi che ti bussano alla porta per Dolcetto o Scherzetto, le streghe di paglia e tutte quelle scemenze.
Figurati. Mai fatto il benché minimo effetto.
La mia paura deriva da cose ben più serie.
...quanto siete curiosi, oh. Potreste anche smetterla di farvi i fatti miei.
Ci tenete così tanto a sapere perché Taeko Yasuhiro, ex Super Gambler della Kibougamine, ha paura di Halloween?
Off. Siete sfiancanti.
E va bene, va bene. Avete vinto. Ve lo dirò.
Tutto è cominciato undici anni fa. Quando ancora avevo la voglia e la pretesa di farmi chiamare Celestia Ludenberg, cercando di passare come una sorta di sangue blu europeo col castello e tutti gli ammennicoli del caso.
Era il primo anno di frequentazione dell’accademia. La mia classe era la 78.
Da circa un paio di settimane l’intera scuola si era mobilitata per la grande festa del 31 sera. La nostra palestra sembrava quella del più pulcioso liceo americano, con esattamente tutte le cose che potreste immaginarvi.
Personalmente non ne volevo sapere nulla, anche se la frequenza era quasi obbligatoria (dico “quasi” perché sarebbe stato un notevole colpo al prestigio personale disertarla). Quindi la miglior via di mezzo che ho rimediato è stata piazzarmi sulle gradinate e osservare svogliatamente gli altri che si davano alla pazza gioia e al pubblico ludibrio.
Il mio sguardo vagava su quell’informe massa umana che si dimenava e si rendeva ridicola in mille modi diversi. Ricordo Oowada che bisticciava con Ishimaru, ricordo Maizono e Kuwata che ballavano stretti stretti cercando pateticamente di apparire romantici, ricordo Naegi che si muoveva come una sgraziata libellula con le ali storte.
A qualche passo da me, in ordine sparso, stavano Togami e Kirigiri. Non ho mai voluto esprimerlo ad alta voce, ma dentro di me li stimavo per essersi voluti tenere in disparte rispetto alla baraonda, al groviglio di braccia, al sudore che ti impregnava i vestiti.
Era una noia mortale e molto plebea, a cui non volevo di certo mischiarmi. Quindi ho passato buona parte della serata a sbadigliare e a cercare di svagarmi contando le macchie di sporco sul soffitto.
Poi, da un momento all’altro, accadde.
Si udì distintamente un tonfo. Non mi sono mai spiegata come quel singolo rumore sia riuscito a sovrastare le urla belluine e la musica.
Qualcuno urlò. Un urlo di quelli acuti, ottimi per frantumare le finestre con gli ultrasuoni.
Era Junko Enoshima. Crollata come un albero abbattuto dai boscaioli. Gli occhi spalancati, la lingua di fuori ed evidenti brividi che la percorrevano per tutto il corpo.
Immediatamente l’intera popolazione della palestra, me e gli altri membri del club Troppo Snob esclusi, si avventò su di lei. Il capannello di gente che la soffocava venne presto rotto dalle poderose gomitate di Mukuro Ikusaba, sua sorella gemella.
Ho presupposto che, essendo il Super Soldato, fosse esperta di primo soccorso e fosse la meglio attrezzata per rianimarla. Perché sì, lo ammetto: nonostante esternamente non avessi fatto un plissè che fosse uno, internamente non stavo facendo i salti di gioia per lo spettacolo.
Capitemi. Va bene dare di sé l’immagine della contessa ungherese, va bene non mostrare empatia palese per i contadini, va bene quello che volete. Ma nemmeno io arrivavo a non essere neanche un minimo preoccupata per la salute di qualcuno che era svenuto in modo tanto plateale.
Furono istanti concitati. Si fece di tutto per salvare il salvabile.
E si fallì.
Enoshima ci mise quattro minuti a morire.
Vi prego di scusarmi per il resoconto vago. Sono passati tanti anni e i dettagli si sono fatti nebulosi. Senza contare quanto si è accumulato nel frattempo.
Il preside, giunto colpevolmente in ritardo, si fece largo e si portò una mano alla bocca inorridito quando la vide. Fece due passi indietro, urtando gente a caso, e mi è stato riferito che cominciò a sussurrare a mo’ di mantra “Oddio… oddio… oddio… oddio… oddio… oddio...”.
Fu qualche giorno dopo, durante il funerale, che arrivò per la prima volta alle nostre orecchie quella cosa.
“Sai la storia della 73, no? Ma sì, quelli che qualche anno fa hanno fatto casino con la kokkuri-san…”.
“Oh, quelli? Ma è vero o no che due di quelle teste di cazzo ci sono rimasti secchi?”.
“Ah boh, non ne ho idea. I piani alti hanno tenuto la cosa più nascosta che potevano, non si sa una straminchia di nulla”.
“E statevene zitti, rincoglioniti! C’è Ludenberg, volete che ci senta?”.
Non avevo la minima idea di cosa stessero dicendo, pertanto decisi di ignorarli e rimanere nel mio austero silenzio di persona che deve mostrarsi in lutto anche se in realtà non lo è. Non sono mai stata particolarmente legata alla cara estinta, così come alla quasi totalità degli altri miei compagni (facevano eccezione Yamada, perché avere un servetto tuttofare è d’uopo per ogni nobildonna che si rispetti, e Togami con cui scambiavo ogni tanto due parole fra gente di un certo livello).
Vedere Ikusaba, solitamente il ritratto dell’apatia e della compostezza, buttarsi senza ritegno sulla bara e piangere come una mocciosa isterica a cui è morto il gatto… beh, un certo effetto me l’ha fatto. Non foss’altro perché mai mi sarei aspettata di vederla in una veste tanto emotiva. Sì, era sicuramente solo la sorpresa a parlare.
L’autopsia parlò di un aneurisma cerebrale. Dissero di averle trovato un’arteria larga quanto un tubo in testa. Stando a sentire gli strepiti della sua gemella era una panzana, perché Enoshima conduceva una vita sana e non c’era motivo che le venisse una cosa del genere. Ma non era di certo laureata in medicina, di conseguenza la sua opinione venne considerata inattendibile.
Pian piano, col passare delle settimane, la classe si lasciò alle spalle quella che all’epoca era stata catalogata come una tragica fatalità. Certo, Hagakure non ci ha risparmiato i suoi anatemi sull’arrivo degli alieni e delle loro sonde anali (o in alternativa l’avvento del diavolo, o di suo cugino), ma cosa pretendete dal buffone di turno? Ikusaba fece ovviamente eccezione, ma era fin troppo evidente che era molto più coinvolta e che il fattaccio aveva lasciato una ferita molto più profonda in lei rispetto a me e agli altri. Grazie tante.
E nulla, riprendemmo le nostre usuali vite di studenti privilegiati.
Man mano che si avvicinava ottobre, però, si diffuse fra tutti noi una stranissima sensazione: l’impellente necessità di partecipare nuovamente alla festa di Halloween. Nonostante quanto fosse successo l’anno precedente.
Nessuno seppe spiegarsi cosa fosse, da dove venisse o il perché. Ma, parlandone fra di noi, fu chiaro che la condividevamo tutti e, soprattutto, che era molto marcata.
Misteriosa e immotivata. Ma c’era, per la miseria se c’era. Persino Ikusaba, che era ancora a lutto, ritenne poco prudente far finta di nulla e decise di essere della partita. In condizioni normali credo che avrebbe preferito un’isterectomia al ritornare in quel luogo, dove non era riuscita a salvare la vita di sua sorella.
Qualcuno ipotizzò che si trattasse semplicemente di voglia di ricordarla nel modo che avrebbe voluto, cioè facendo bisboccia in maniera selvaggia. Sembrava una spiegazione anche plausibile, alla fine. Ci convincemmo che fosse così. Chiaramente sbagliavamo, e pure di brutto.
Quel giorno arrivò.
Nel tentativo di evitare un episodio simile al precedente, il preside si diede da fare in lungo e in largo: assoldò una squadra di guardie giurate per neutralizzare ogni evenienza esterna, fece tenere pronti degli infermieri agli angoli della palestra, rafforzò le misure antincendio. Bisogna riconoscerglielo, non lasciò nulla d’intentato.
Peccato che non servì a un bel niente.
Lo svolgimento fu pressapoco il medesimo della volta prima, io e un paio d’altri che combattevamo il tedio supremo dalle gradinate e il resto in mezzo alla pista a fare i pagliacci arrotandosi su se stessi.
THUD.
Kyouko Kirigiri stramazzò a terra all’improvviso. Ebbe la compiacenza di farlo lontano da me, visto che si era alzata per andare a recuperare qualcosa da bere.
L’intera palestra cessò di muoversi. Dopo un microsecondo di stupore misto a disperazione, i paramedici scattarono come saette su di lei.
Alle mie orecchie arrivò di tutto. Hagakure che profetava la fine del mondo in preda al delirio, un tizio con una sciarpa viola che gli andava appresso blaterando di orrori tentacoluti al centro del cosmo, un ennesimo tipo strambo che da sotto la mascherina con cui si copriva la bocca urlava di maledizioni voodoo e riti satanici con madonne nere e altre vaccate che non ricordo bene.
Al contrario di quanto era successo con Enoshima, quella volta ebbi una reazione. Mi alzai e, con molto poco aplomb, feci fatica a trattenere quel che provavo.
Cosa provavo?
Detto con finezza, me la stavo facendo addosso.
Perché una volta… ok, non sto dicendo che fosse stato piacevole, però una morte inaspettata può succedere. Ma una seconda? Lo stesso giorno, anche se di due anni diversi? Per praticamente lo stesso motivo, cioè che son cascate come sacchi di patate?
L’apprensione e il timore dovettero dipingersi evidenti sul mio volto, se alla mia destra Togami prese a osservarmi manco fossi stata la Gioconda.
Il preside, avvisato in fretta e furia in quella che assomigliava tanto a una replica di fatti già avvenuti, stavolta fu più veloce. Giunse giusto in tempo per assistere alla dichiarazione dell’ora del decesso.
Sei minuti di agonia.
Va bene, ero ufficialmente fuori di me.
Ripeto, un incidente può starci. È triste, brutto e puzza ma capita. Ma che due membri della 78 fossero morti a distanza di esattamente dodici mesi l’una dall’altra… questo non ci stava per un cazzo. Eh sì, fu in quel momento che Taeko cominciò a risalire in superficie prendendo a calci sulle gengive la povera Celestia.
Jin Kirigiri, il preside probo e irreprensibile della Kibougamine, ci salutò quel giorno. Non morì, ma ebbe un esaurimento nervoso senza pari. Devo dire che posso arrivare a capirlo, tutto considerato. Nei mesi fra il precedente Halloween e questo si era comportato in maniera estremamente professionale, cercando di contenere i pettegolezzi e adoperandosi al suo meglio per evitare il ripetersi di un evento tanto luttuoso. Quando i suoi pur nobili sforzi fecero cilecca, e quando si avvide dell’identità della vittima… diede forfait. Non passava giorno che qualcuno, fossero studenti o insegnanti o bidelli, non lo vedesse vagare come un’anima in pena per i corridoi e le scale, cercando in qualche modo il perdono della figlia. Cadde quasi letteralmente a pezzi.
Al funerale fu lui a dare fuori di matto al posto di Ikusaba. Quasi sfondò il legno della bara a forza di prenderlo a pugni, minacciò violentemente il sacerdote che cercava di allontanarlo e si mise a urlare contro il cielo mandando insulti e bestemmie verso i kami. Era una furia incontrollabile, totalmente in preda a quello che definirei il peggior dolore nella vita di un padre.
Qualche giorno dopo venne mandato a farsi una vacanza forzata, data la sua evidente incapacità di gestire una scuola in quelle condizioni. In quel momento non avrebbe saputo neanche gestire il bagno di casa sua, a essere sinceri. Ma prima di andarsene trovò la lucidità (per modo di dire) di parlare con Naegi, e tramite lui con noi, a proposito di una certa cosa accaduta cinque anni prima.
Se pensate che avesse a che fare con la 73 bravi, avete vinto un tapiro d’aria fritta.
Gli raccontò di come girasse voce che un gruppetto di studenti di quella classe avesse fatto qualcosa di strano con una tavola ouija e forse avesse evocato dei demoni, un cerbiatto con gli occhi fiammeggianti o che cazzo ne so io. Pare che in quella debacle due di quei cretini fossero morti. E che, sempre stando ai bisbigli, noi avessimo ereditato le conseguenze di quel macello assieme all’aula in cui il tutto era avvenuto.
Dovevamo forse intendere di essere stati maledetti? Per qualcosa che neanche eravamo stati noi a fare, peraltro? Alè, allegria a catinelle.
Oddio, vedendo quanto ci stava succedendo l’ipotesi non era poi così tanto peregrina.
Junko Enoshima era morta durante la festa di Halloween del nostro primo anno e Kyouko Kirigiri era morta durante la festa di Halloween del nostro secondo anno. Halloween è notoriamente la festa in cui le forze oscure del mondo occulto sono più potenti, sempre che si creda a queste idiozie.
Personalmente non ci credevo, ma la sequela di disgrazie che ci stavano perseguitando mi aveva instillato il tarlo del dubbio. La mia posizione, ondeggiante fra il “Ma per piacere, chi è l’imbecille che si berrebbe ‘ste stronzate?” e il “Però, se stai a guardar bene forse forse…”, era condivisa dalla maggioranza dei miei compagni. Alcuni, come l’immancabile Hagakure e quell’altro premio Nobel di Kuwata, erano invece convintissimi che fossimo spacciati e che la maledizione di Montezuma ci avrebbe falciati uno a uno.
A sapere allora che avevano ragione…
L’unico che rifiutava con sdegno l’opzione era, indovina indovinello, quel pezzo di marmo di Togami. Troppo pragmatico e abituato a numeri e compravendite da anche solo pensare di contemplare una spiegazione soprannaturale. Oh, e Fukawa forse non condivideva l’ardore del suo cavaliere bianco, ma ci andava molto coi piedi di piombo a parlare di stregoneria e affini.
Nota a margine: anche Kyouko Kirigiri risultò passata a miglior vita per cause naturali. Medichese troppo complesso per ricordarselo.
A Jin Kirigiri subentrò momentaneamente Gentarou Hongou, il vicepreside. Tizio arcigno e molto vecchia maniera, non aiutava il fatto che portasse una benda sull’occhio. Un incidente capitatogli giocando a calcio, dicevano.
Di nuovo, come nella precedente occasione, riuscimmo a lasciarci alle spalle quanto accaduto. O almeno così credevamo.
Ma successe ancora: man mano che le stagioni si susseguivano e ottobre si faceva prossimo, nacque prepotente in noi il dovere di presenziare alla festa.
Se l’anno prima c’era stata la giustificazione per Enoshima, la cosa non valeva di certo per Kirigiri. Ricordo agli smemorati che faceva parte del gruppetto di pochi ma buoni che non voleva saperne di piantar bordello, quindi… cosa ci stava spingendo a volerci essere?
Per quale assurdo motivo avremmo dovuto ripetere lo stesso copione?
Nel frattempo Kirigiri si era ripreso a sufficienza da tornare al suo posto, e come potreste immaginarvi Halloween era diventata una parolaccia. Dopo la morte della figlia aveva imposto il divieto più assoluto di qualunque forma di festa, festino o festone. Senza contare il battage mediatico, perché per quanto i capoccioni si fossero sforzati di chiudere la diga qualcosa era inevitabilmente filtrato. Specie con Enoshima, che era comunque una personalità pubblica. Anche se di questo aspetto non ce ne fregava nulla.
In totale? Ci toccò fare da noi.
Nessuno aveva ovviamente voglia di festeggiare, anche perché non c’era nulla da festeggiare. C’erano solo due morti insensate da commemorare. E in realtà nessuno voleva davvero fare questa cosa, la paura del non c’è due senza tre strisciava virulenta in mezzo a noi.
Ma eravamo obbligati. Quella puttana di sensazione non ci lasciava in pace. Premeva sulle tempie, picchiava sui fianchi, martellava sugli stinchi. Penso ci avrebbe portati al soffocamento se non l’avessimo soddisfatta. E comunque, se davvero eravamo stati maledetti, meglio non essere sfrontati.
Quel giorno, mentre ci accordavamo sul da farsi, ho preso la decisione di scartare Celestia Ludenberg e di tornare a essere a tutti gli effetti Taeko Yasuhiro. Non so bene perché decisi così, non era una cosa che avrebbe avuto qualche impatto concreto sul nostro problema. Sentivo solo che dovevo farlo, giusto per passare le possibili ultime ore della mia vita come me stessa.
Già, mi stavo convincendo sempre di più. La maledizione era reale e uno di noi sarebbe morto quella sera.
Potevo essere io. Tanto valeva smettere di prendersi in giro, e di prendere in giro gli altri.
Qualche ora prima dell’appuntamento ho persino dato fuoco ai miei codini.
Il momento bussò alle nostre porte. Eravamo riluttanti ad aprire, ma impossibilitati a comportarci altrimenti.
Ci intrufolammo in palestra, cortesia di Fujisaki e della sua invidiabile prodezza tecnologica. Dopodiché passammo i successivi trenta minuti a guardarci in faccia, vitali e vogliosi di parlare come delle sardine surgelate. Solo qualche chiacchiericcio fintissimo a riempire il lungo, pesante, opprimente silenzio.
Infine, come volevasi dimostrare...
Makoto Naegi finì lungo e disteso.
Nessuno mosse un dito per salvarlo, ce lo aspettavamo. E l’unico che si ostinava a non aspettarselo, ovverosia l’esimio Byakuya Togami, era troppo fighetta per sporcarsi le mani e anche solo provare ad applicare un massaggio cardiaco o una respirazione bocca a bocca. Pensa te se quello lì si abbassa a tanto.
Gli ci vollero sette minuti per morire, soffrendo come un cane. Abbiamo sbagliato nel non cercare di alleviare il suo dolore, anche se i più pietosi fra noi hanno almeno tentato di confortarlo nei suoi ultimi istanti.
Per la prima volta, al terzo ripetersi di questo macabro scenario, si affacciò in me una sensazione non ancora sperimentata: sollievo.
Ero viva.
Non era toccato a me.
Non posso dire di andarne orgogliosa, ma venne da sé. Si palesò in maniera autonoma, e in maniera altrettanto autonoma mi fece i complimenti per aver vinto almeno un altro anno di sopravvivenza.
Mi sono fatta un po’ schifo.
Un piccolo drappello si è staccato dal gruppo, dirigendosi verso la camera da letto del preside. Avevamo brutte nuove da comunicare.
Per un attimo, quando il giorno dopo venimmo convocati in presidenza, temetti il peggio. Pensavo volesse cuocerci a fuoco lento, essendosi magicamente convinto che Naegi l’avessimo ucciso. E invece, per nostra fortuna, si mostrò tutto sommato comprensivo. Non lo ammise, ma si capiva che ormai anche lui stava cominciando a credere alla storia della maledizione (mi chiedo quanto dev’essere stato difficile per un ex detective dare credito a qualcosa che non poteva essere dimostrato). Pertanto ce la cavammo solo con una piccola punizione per l’ingresso non autorizzato in palestra.
Cosa vuoi che siano due settimane di lavori extra quando c’è la possibilità che, dopo un anno, potresti finire sotto terra?
Il funerale, almeno per quanto ci riguardò, fu… anomalo. Se nelle due occasioni precedenti c’era stata partecipazione emotiva generalizzata, quella volta tenemmo un profilo molto più basso. Persone meno affrante, pochissimi o nulli pianti, nessun magnete dell’attenzione che attira su di sé gli sguardi dei presenti. Al contrario, il motivo di principale interesse fu la presenza di un paio di troupe televisive, venute a seguire in diretta il terzo episodio di quello che ormai era stato soprannominato Il Poltergeist Omicida della Kibougamine (...’sti cazzoni di giornalisti che danno i nomi a caso. Dove l’avete visto il poltergeist, nelle vostre mutande?). Non si riusciva più a tenere la cosa sotto silenzio, era diventato impossibile, i casi erano troppi per far finta di nulla con una scrollata di spalle. Se non altro fu una cerimonia tranquilla e senza troppo casino, se si eccettua un momento in cui la sorella del defunto sembrò minacciare un crollo psico-fisico completo. Ma appunto si trattava della sorella, era una situazione del tutto comprensibile.
Fu lì, in quel frangente, che mi accorsi di un’altra cosa che non mi faceva piacere: ci stavamo desensibilizzando. Naegi era il terzo e, che ci piacesse o meno, ci stavamo facendo l’abitudine. Capirete da soli che non lo definirei simpatico come sviluppo.
L’autopsia sentenziò come causa un infarto. A diciotto anni, senza una storia medica congrua. Stavamo probabilmente battendo ogni record in tema di decessi bizzarri e poco frequenti.
Bene. Dopo il diploma cominciarono i veri problemi.
Sì, non fatico a credere alle vostre facce perplesse. Solo dopo il diploma sono cominciati i problemi? Perché prima era stata una passeggiata di salute, vero?
Lasciate che mi spieghi meglio.
Innanzitutto abbiamo preso un gigantesco granchio. Ci siamo convinti che questa cosa si sarebbe esaurita da sé una volta superato il cancello della Kibougamine.
Seguite il ragionamento: avevamo involontariamente ereditato il pastrocchio combinato dalla 73, esatto? Ebbene, essendo una cosa nata a scuola abbiamo furbescamente concluso che lì sarebbe rimasta.
Ma non solo, perché come si suol dire piove sempre sul bagnato. Oltre a questa intelligente presa di posizione, noi tredici rimasti abbiamo convenuto di non voler mai più piegare la testa di fronte a tutto ciò. Questo perché prevedevamo che, esattamente come gli anni precedenti, con l’appropinquarsi della data avremmo sentito l’insopprimibile obbligo di partecipare a una festa. Previsione poi rivelatasi corretta.
Ci siamo lasciati con la ferma intenzione di non ripetere l’esperienza, proprio per essere sicuri. E poi tanto avevamo deciso che la storia era chiusa, no? Che ce ne importava?
Cristo, che branco di stronzi.
Non avremmo potuto commettere un errore più grande neanche se ci fossimo sforzati per farlo di proposito.
Scommetto che Kirigiri, dall’aldilà, ci ha ripetutamente mandati a quel paese.
Ancora la sera del 30 abbiamo organizzato una videochat via Dissension, ribadendo la nostra ferma intenzione di non muovere un solo muscolo per la sera del giorno successivo. Anzi, per non farci mancare niente abbiamo deciso di andare tutti assieme a fare visita alle tombe di Enoshima, Kirigiri e Naegi. Sentivamo di doverglielo.
Il 31 ottobre di quell’anno è filato liscio.
I dolori sono cominciati il primo novembre.
Eravamo rimasti d’accordo che, per prima cosa, avremmo controllato la buona riuscita del piano.
Da una parte era riuscito. Eravamo tutti vivi.
Dall’altra…
Mettiamola così: c’eravamo, ma non esattamente interi.
Togami ci disse che non vedeva più niente, solo una coltre di buio.
Maizono ci comunicò a gesti che era diventata muta.
Ishimaru non fu in grado di rispondere. Deducemmo che aveva perso l’udito.
Fukawa ci mostrò alcune zone del suo corpo, dicendoci che le facevano molto male e che si era già imbottita di antidolorofici senza alcun effetto. Più avanti apprendemmo il nome di quanto le stava capitando: fibromialgia.
Kuwata non c’era. Scoprimmo più tardi che si era fratturato entrambi i femori scendendo dal letto. Pensammo a un’osteoporosi, che sotto ai cinquant’anni è un miracolo al contrario.
Vi risparmierò gli altri, sarebbe solo un elenco di gente menomata o comunque malata.
Insomma, avevamo smesso di essere una classe ma in compenso eravamo diventati un lazzaretto.
Io e Ikusaba, invece, sembravamo a posto. Ci vedevamo, ci sentivamo, potevamo parlare normalmente.
Nulla di guasto, a quanto pareva.
Certo, come no.
Lei ci mise poco. Chiusa la chiamata, rimase coinvolta in un incidente stradale in cui perse braccio e gamba sinistre. La riabilitazione fu lunga e perigliosa, e per molti mesi soffrì di acuto dolore agli arti fantasma.
Per quanto riguarda me… ho avuto in premio forse la cosa peggiore. E non lo dico per fare quella che ce l’ha più lungo, ma perché lo penso sul serio.
Un giorno, non ricordo le circostanze, ho finito per mettere una mano su una stufa accesa senza accorgermene. Quando mi è stato fatto notare dalla gente allarmata attorno a me, l’ho scostata come se nulla fosse successo.
Me la sono guardata ed era di un rosso vivissimo.
Continuavo a non avere reazioni, anche se in teoria avrei dovuto sentirla andare a fuoco.
Lì mi sono spaventata.
Ho scoperto più tardi che, in maniera inspiegabile per la scienza, ero diventata affetta da quella che viene chiamata in gergo CIPA, ovvero una sindrome che priva chi ce l’ha della capacità di provare dolore e di essere sensibile al caldo e al freddo.

Vi vedo, bastardi. Vi vedo ridere e sfottere perché, rispetto a quanto capitato agli altri, la ritenete una cazzata.
Non è così, ve lo assicuro. È una cosa brutta, debilitante, invalidante in molti aspetti della vita comune. Due anni fa mi ruppi un piede e, se non me l’avessero detto, avrei continuato a camminare imperterrita (non sentire dolore non significa non avere il piede rotto, significa solo che lo metti sotto sforzo quando non devi).
Fra l’altro rischiai di diventare una cavia da laboratorio, perché la C di CIPA sta per congenito. È una malattia genetica che si ha sin dalla nascita e non spunta come un funghetto da un giorno all’altro.
Mi devo sottoporre costantemente a controlli medici approfonditi per assicurarmi di non avere ferite o lesioni di cui non mi sono avveduta (e con costantemente intendo tutti i giorni, cascassero i kami, alle nove di mattina devo essere nell’ufficio del mio dottore). Sono off-limits forni, stufe, frigoriferi e qualsiasi ambiente con una temperatura troppo alta o troppo bassa. Devo prestare estrema attenzione a ogni movimento, ci vuole un nulla per spaccarsi qualcosa senza neanche rendersene conto. Oh, e non parliamo dell’assenza di sintomi nel caso di malattie.
Ora capirete perché non è la stronzata che potrebbe sembrare.
Beh, se non altro c’è un lato positivo. Quando toccherà a me non soffrirò, al contrario degli altri che hanno avuto lunghi minuti di tormento.
Avevo accennato a dei problemi, giusto? Immaginatevi cosa può essere successo dopo questa fenomenale trovata.
Come dei veri geni, abbiamo cominciato a rimbalzarci la colpa. L’isteria scalò, giungendo a tanto così dal farci interrompere del tutto i rapporti (e quindi saltare un secondo Halloween con conseguenze… brrrr, non ci voglio neanche pensare). Dobbiamo ringraziare Oogami, forse l’unica a tenere la testa sulle spalle, la quale riuscì con gran fatica a farci ragionare. L’assenza di Kirigiri e Naegi ci ha fatto davvero male in quella circostanza, sarebbero stati molto utili.
Gli strappi peggiori vennero sanati, ma delle piccole crepe rimasero. Togami, se possibile, si allontanò ancora di più dal resto del gruppo e tagliò praticamente i ponti, emergendo dal suo pantano giusto per la nefasta occasione. Anche un paio d’altri, come Yamada e Kuwata, subirono un contraccolpo, sebbene non così grande.
Che dire? Non solo eravamo ormai tutti convintissimi della maledizione, escluso lo Scion fuoriuscito, ma avevamo pure a che fare con una maledizione meschina e che si offendeva facilmente. Poi dicono che la vita è bella.
Abbiamo vissuto il secondo anno dopo la scuola nel terrore.
Ora mi dovete scusare, ma eviterò volentieri di soffermarmi sui singoli casi. Sono molto simili, tristi e insensati allo stesso modo. Inoltre non mi voglio dilungare più del necessario, considerato quanto potrebbe succedermi stasera. Suvvia, mettetevi nei miei panni e venitemi incontro.
Naturalmente, per far sì che non mancasse l’episodio di ironia crudele, la prima del nuovo corso post-scolastico è stata Oogami. Probabilmente la persona che più devo ringraziare per poter dire di essere ancora qui, oggi, tutto sommato integra e funzionante. La reazione di Asahina fu sopra le righe, ma una parte di me ne fu biecamente felice: il processo di desensibilizzazione forse non era così veloce come avevo temuto in un primo momento. Eravamo ancora capaci di piangere di fronte a uno del gruppo che ci lasciava le penne senza motivo.
Il secondo è stato Hagakure. Chiamatemi pure perfida se lo credete, ma su di lui non c’è molto da dire. Il dolore per la sua morte è stato il minimo sindacale. Non piaceva particolarmente a nessuno.
Il terzo è stato Kuwata. Ricordo alla perfezione che Maizono ha passato tutto il tempo a cullarlo mentre spirava, probabilmente rompendogli ogni osso che gli toccasse, cercando di comunicargli a smorfie e gesti che le si stava spezzando il cuore o giù di lì.
Il quarto è stato Fujisaki. Oowada, pur con le difficoltà dovute dalle stampelle, e Ishimaru si sono prodigati nel lenirgli il più possibile il trapasso, lanciandosi anche in promesse che tutti sapevamo non erano in grado di mantenere (nello specifico di portare avanti i suoi studi sull’intelligenza artificiale. Oowada, l’uomo che sapeva a malapena fare 2+2. Cosa non si dice per lo yaoi).
La quinta è stata Asahina. Nel suo caso c’è stato un ritorno di fiamma generale, nel senso che quasi tutti ci siamo accoccolati al suo fianco per tenerle la mano, scostarle i capelli dalla faccia sofferente e tutte ‘ste smancerie. Quello stronzo di Togami ha addotto come scusa la cecità per evitarselo.
Il sesto è stato Oowada. Ishimaru ha prevedibilmente bissato la scenata greca di due anni prima. Dopo quello che Celestia avrebbe definito “un delizioso paggetto”, aveva infatti perso il suo kyoudai, la persona con cui aveva legato di più nel periodo scolastico. E che, per quanto ne sapevo, non era stata soppiantata da nessun altro. Bella doppia mazzata a relativamente breve termine.
Il settimo è stato Yamada. Nel vederlo rantolante per terra… non ho resistito, proprio non ho resistito. Mi sono accucciata su di lui e ho fatto del mio meglio per fargli capire che tutto il tempo di onorato servizio non è stato sprecato. Al contrario, l’ho davvero apprezzato e gliene sono stata grata. La reazione di sorpresa non è stata rumorosa come forse era lecito aspettarsi.
Ed eccoci qui, a oggi.
Siamo rimasti in sei. Io, Ikusaba, Maizono, Fukawa, Togami e Ishimaru.
Stasera uno di noi saluterà la vita, andando ad aggiungersi alla sempre più nutrita schiera di ex alunni della 78 nella loro classe in cielo.
Pffft. Non sarò mai una persona capace di dire una frase del genere senza risultare ridicola, o scoppiare a ridere subito dopo.
Va bene, restare nel letto non ti è utile. Devi fare il tuo check-up quotidiano. E poi, prima di quanto credi, saranno qui e tanto vale prepararsi.
Già, quest’anno tocca a me ospitare la “festa”. Per evitare qualunque possibile problema con le autorità, difatti, abbiamo deciso di cambiare ogni volta il luogo. Meno grane, meno probabilità di vedere i poliziotti e i medici degli anni precedenti, meno possibilità di passare per dei serial killer.
La giornata si trascina stancamente.
Verso l’ora di cena cominciano ad arrivare.
Il primo, come tradizione vuole, è Ishimaru. Dopo aver aperto la porta e avergli mimato un saluto, lo invito ad accomodarsi.
È la prima persona da non ricordo nemmeno quanto che mette il naso nella mia umilissima dimora da single impenitente. Persi nelle nebbie del tempo i deliri giovanili su castelli e servitori vampiri, anche perché non sarei nemmeno riuscita a godermeli.
Per lui e gli altri questa è la prima visita. Spero non sia l’ultima.
Oh, sarà brutto da dire ma voglia di imparare il linguaggio dei segni per usarlo una volta all’anno non ce l’avevo proprio. Anche se, per mia fortuna, forse ha in parte rimediato all’handicap comprandosi l’ennesimo trabiccolo per la sordità. I precedenti non sono stati incoraggianti, ma magari stavolta è quella buona.
Decido di tastare il campo: “Ishimaru, mi senti?” provo a voce alta, in un’ottima imitazione dell’infermiera che chiede al vecchio se gli deve cambiare il pannolone.
Lui, che pareva aver preso a fissare la porta d’ingresso, se ne accorge (anche se con qualche secondo di ritardo) e si volta nella mia direzione: “Un po’, Yasuhiro-san. Ma molto poco. Per fortuna l’apparecchio funziona bene”.
“Beh, dai. È già qualcosa”.
“Quale cosa?”.
Scuoto la testa, un po’ sconsolata. Ma è meglio dovergli ripetere le cose che arrendersi in prima istanza.
Arriva Maizono. Il suo ormai usuale saluto senza rumore. Vorrei provare a parlare di qualcosa (ahah, bella uscita Taeko), ma sappiamo entrambe che ha preso malissimo la perdita della voce, anche per questioni legate al suo ambito lavorativo. Comunica il meno possibile e solo quando è strettamente necessario.
Arriva Ikusaba.
“Buonasera, Ikusaba”.
“Buonasera” grugnisce, chiaramente non intendendo quanto ha appena detto.
Entra cigolando. Ohibò, qualcosa non va nella protesi?
“Che hai da guardare?” mi apostrofa.
“Nulla, nulla. Ho solo notato che la tua gamba…”.
“Sì, ho intenzione di cambiarla. Da un paio di settimane mi dà problemi. Poi però ho pensato: e se quest’anno fosse il mio turno? Al che ho preferito posticipare. Che senso avrebbe spendere soldi a vuoto? In caso di responso negativo, sarà la prima cosa che farò domani”.
Ragionamento ineccepibile. Crudele, ma ineccepibile.
Arriva Fukawa. Io e lei siamo quelle che Asahina aveva ribattezzato “i due lati opposti della medaglia”: io insensibile al dolore, lei piagata a ripetizione dallo stesso. Se potessimo in qualche modo fondere i nostri patemi, in modo da ridistribuirli equamente e avere un po’ più d’equilibrio…
“Buonasera, Fukawa”.
“Mpf. Fammi passare, che il ginocchio mi scricchiola”.
“Oggi è il suo turno, quindi”.
“A rotazione tutto ‘sto rottame di corpo si indolenzisce. Lo sai. E poi cosa me ne frega, tanto stasera tocca a me. Così la finirò di trascinarmi in giro come la carcassa che sono diventata”.
“Uh? Perché dici così?”.
“Ne sono certa”.
“Sai che probabilmente è solo la depressione a parlare?”.
“Non è importante. Da una parte sono contenta di smettere di soffrire, ho preso e prendo camionate di farmaci di ogni genere e nulla fa effetto. Mi manca giusto il Viagra e poi li ho tutti, tipo collezione delle figurine dei giocatori di baseball”.
Non riesco a trattenere una risatina di fronte alla battuta, controprova del fatto che ogni tanto il suo spirito riesce a combattere efficacemente tutto il carico fisico e psicologico che una simile sindrome ti getta addosso.
Arriva, finalmente, Togami. Non appena apro la porta mi rifila un leggero colpo di bastone sulla coscia, che è il suo modo di stabilire la mia posizione e potermi dribblare mentre entra. Con lui non ho tanta voglia di chiacchierare.
Ci ritroviamo tutti e sei seduti sui divani del soggiorno.
L’atmosfera è ovviamente tesa, cupa. Non siamo qui per un’occasione lieta, dopotutto.
Eppure qualcosa mi porta a cercare di instaurare un minimo di conversazione: “Kerumph. Allora gente, come vi va?”.
“Cos’è che c’è là, Yasuhiro-san?”.
“Incriccata, come hai notato da te. Stupido arto metallico”.
“Sono stanca e giù di morale, al solito. Ma fra un po’ sarò libera da tutti questi affanni”.
Maizono tenta un sorriso stiracchiato, come a dire “Va una merda, ma grazie per l’interessamento”.
Togami non risponde.
Eccellente. Era proprio così che vi volevo. Scusatemi un secondo, devo staccare il mio Sarcasmometro cerebrale che ha preso a suonare all’impazzata.
Ritento: “Avete visto? La Kibougamine ha riaperto per quest’anno scolastico. Pare si siano ripresi dallo scandalo del Poltergeist Omicida. Credo che il padre di Kirigiri sia ancora il preside, nonostante abbiano cercato di farlo dimettere in tutti i modi e di addossargli la responsabilità per Enoshima, Naegi e sua figlia”.
“Feh. L’unica responsabile è quella bastarda di maledizione, quella che mi ha conciata in questa maniera patetica” sputa Fukawa “E che spero abbia il buon gusto di fare la scelta giusta, adesso”.
Maizono, che è seduta accanto a lei, le prende le mani nelle sue e cerca di dirle qualcosa. Conoscendola, immagino voglia farle capire che le sue ultime parole sono dettate dal suo stato alterato e che non se lo merita.
Ma chi se lo meritava? Non Enoshima, non Kirigiri, non Naegi. Non gli altri che se ne sono andati una volta finita la scuola.
Non di certo noi, che siamo ancora dalla parte giusta della barricata. Per ora.
“Oh, ma insomma!” sbotta Togami alzandosi in piedi “La vogliamo piantare con questa buffonata? Non sono venuto qui per vedervi mentre sprecate il mio prezioso tempo”.
Devo infilare la frecciata per la sua infelice scelta di parole, è più forte di me: “Sei stato miracolato, Togami caro? Ora ci vedi?”. Giustamente mi ignora.
“Hai forse qualcosa di meglio da fare, signor capo supremo della Zaibatsu?” gli risponde per le rime Ikusaba.
“No, ma non vuol dire che voglia stare a sentirvi mentre cianciate di insulsaggini”.
Sentendomi tirata in causa, mi prendo la briga di difendermi: “Non alterarti, Togami. Stavo solo cercando di dissipare un po’ di tensione. Gli altri anni, secondo me, siamo stati troppo chiusi e incapaci di dare spazio a quanto ci portiamo dentro”.
“Il tuo tentativo è premuroso, Yasuhiro, ma futile. Che senso ha chiedere come va e parlare di fuffa sulla Kibougamine? Guardaci, per la miseria. Siamo condannati a morte in attesa dell’esecuzione”.
“Byakuya-sama ha ragione” si limita a dire Fukawa, in tono spento.
“Io dico che, perso per perso, tanto vale occupare al meglio quanto ci resta” mi dà invece manforte Ikusaba “Alla maledizione non frega nulla di cosa facciamo. Lei arriva, miete e se ne va. Sta a noi cercare di cavare qualcosa di almeno passabile”.
Forse per quieto vivere o forse perché si rende conto della verità di queste parole, si risiede e ci concede la sua benedizione silenziosa. È ancora arrabbiato. Se ne farà una ragione.
Il povero Ishimaru ha fatto una fatica assurda a seguire il discorso, mentre Maizono è rimasta sul pezzo ma si è limitata a muovere la testa, affermativamente o negativamente a seconda di chi parlava.
Andiamo avanti così per un po’. Io butto l’amo su un argomento, chi ha voglia di abboccare abbocca e se ne discute finché la conversazione non si esaurisce da sé.
Poi giunge.
È Ishimaru. Si porta una mano sul cuore e comincia ad ansimare come se avesse appena finito di correre i diecimila metri piani.
Abbiamo visto la scena troppe volte per non riconoscerla al volo: infarto.
Ikusaba e Maizono, con tutta la calma del mondo, si alzano e gli si avvicinano. Da parte mia non ho dovuto faticare, era già seduto accanto a me.
Gli altri due non si muovono. E anzi, sul viso di Fukawa traspare chiara la delusione.
“Q-Quindi… stavolta… sono io…”.
Non gli rispondiamo. Non mi pare il caso di insultare la sua intelligenza.
Dove normalmente ci sarebbe isteria e agitazione nel cercare di soccorrerlo, in noi c’è solo la quieta rassegnazione di chi si è suo malgrado abituato.
Raccogliamo le sue ultime volontà senza interromperlo. Niente di davvero importante, principalmente cose riguardanti la famiglia e su come è nostro dovere essere loro vicini in questo momento di lutto. La solita lagna, se proprio devo dirla tutta.
Poi chiude gli occhi per sempre, sorridendo. Forse era felice di ricongiungersi a Fujisaki e Oowada.
Sì tizio, ti sento. So che ti saresti aspettato una descrizione più dettagliata, con più pathos e bla bla bla bla.
Che cazzo pretendi? È l'undicesima persona che mi muore davanti e potrebbe non essere l’ultima. Ho o no il diritto di farci il callo, per quanto brutto sia?
Gli ormai standard otto minuti.
Mi alzo e afferro il telefono. C’è un’ambulanza da chiamare.
Mi viene in mente una cosa poco rassicurante, mentre chiudo la comunicazione. Siamo rimasti quattro femmine e un solo maschio. Le probabilità dicono che l’anno prossimo facilmente toccherà a un’esponente del gentil sesso. La cosa, come vi immaginerete, non mi fa piacere, che potrei essere io quell’esponente del gentil sesso.
Lo scopriremo solo vivendo. O morendo.

*

Per essere una donna lo è stata. Ma si è trattato di Maizono.
E poi di Fukawa.
E poi di Ikusaba.
L’ultimo mio compagno di viaggio è stato Togami, rendetevi conto. Byakuya Togami. Quando si dice la sfiga.
Se non altro siamo riusciti a giungere a un compromesso civile: “Togami, diciamoci le cose come stanno. Io ti sto sulle palle, come pressapoco tutto il resto dell’umanità, e tu stai sulle palle a me. Ma siamo gli ultimi due sopravvissuti. Dobbiamo davvero continuare a comportarci come adolescenti pieni di ormoni? Direi che è superfluo. Pertanto vorrei che chiunque di noi due sia destinato a morire oggi riceva la quantità minima di rispetto dall’altro. Dove, dicendo così, intendo che il vivo non sputa sul cadavere del morto, né lo prende a calci. Ci stai?”. Ho tenuto fede al proposito.
Vi dirò, sono abbastanza sicura che lui avrebbe fatto lo stesso a ruoli invertiti. Il modo in cui ha accudito Fukawa mentre spirava, tenendole la testa e restandole vicino, la dice lunga su quanto fosse molto più cuor di panna di quanto ci tenesse a dimostrare. Io e Ikusaba ci siamo guardate, complici come non lo siamo mai state, ed entrambe abbiamo pensato la stessa cosa, cioè che lo Scion brutto e cattivo in realtà avesse un debole per la Scrittrice.
E quindi la sottoscritta Taeko Yasuhiro è tutto ciò che rimane della classe 78 della Kibougamine, a un’età in cui normalmente si fanno le rimpatriate in palestra per far conoscere i figli agli ex compagni. Questo onestamente non mi dispiace, se fossi rimasta Celestia non avrei sopportato avere una manica di mocciosi pestiferi che cercava di entrarmi sotto la gonna. Ti prego.
È il 31 ottobre, ovviamente. Sono a casa mia, da sola. Ora, sarò tarda io… ma spero che la maledizione non si offenda se non festeggio. Anche perché mi si deve spiegare come posso farlo da sola, se non versandomi un bicchiere di vino e brindando con l’aria ai miei amici trapassati.
Riservo un’alzata di calice a ognuno di loro, lanciandomi in brevi frasi di ricordo. Al termine mi scolo il contenuto del bicchiere e lo riempio nuovamente, passando al successivo.
Morirò mezza ubriaca, solitaria, depressa, ad appena trentun'anni. E io sono stata la più fortunata, considerato che la maggior parte di loro non ha neanche visto i trenta e in tre ci hanno lasciato sotto i venti.
No, sul serio. Ora lo devo proprio dire. Mi voglio togliere il sassolino dalla scarpa.
Che abbiamo fatto di male per meritarci un simile TIR di sofferenza direttamente sullo sterno? Sfortuna, semplice sfortuna? Tutto qua, davvero? La sfortuna può giustificare tutto questo?
Junko Enoshima è morta a sedici anni. Kyouko Kirigiri a diciassette. Makoto Naegi a diciotto.
Quando abbiamo osato sgarrare, quando abbiamo osato provare a lasciarci quello schifo alle spalle, ci sono state tirate addosso delle cose terribili. Alcuni di noi non vedevano l’ora che arrivasse Halloween per smettere di soffrire come dei poveri derelitti privati di ogni speranza, di ogni futuro, di ogni minuscola gioia.
Ve la ricordate Fukawa, no? Se n'è andata col sorriso sulle labbra, finalmente libera da quel corpo sfibrato dalla malattia.
Non è stata l’unica. Ikusaba ci teneva a essere stoica, ma l’aver perso un braccio e una gamba le aveva tolto anche la remota possibilità di poter imbracciare un fucile e tornare a fare l’unica cosa in cui era brava (parole sue, non sto insultando i morti). Da quel disgraziato giorno, pur cercando di tenersi assieme, si vedeva benissimo che aveva perso ogni possibile voglia di vivere.
Più in generale tutti noi sembravamo degli spettri. Non è salutare passare il proprio tempo a chiedersi se la sabbia nella tua clessidra si sta esaurendo, specie per un motivo così… non motivo. La volta di Ishimaru, ve lo giuro su quel che volete, è stata forse l’unica in cui abbiamo cercato di contrastare l’apatia. Sostanzialmente fallendo, ma almeno dateci punti per il tentativo.
Non è giusto, cazzo! La 73 ha pisciato fuori dal vaso e siamo noi a doverne pagare le conseguenze? Perché, dannazione? Perché? Perché?
Mi alzo e urlo verso il soffitto: “Ti diverti, gran zoccola che non sei altro? Ti diverti a falciarci come se fossimo spighe di grano? Non siamo stati noi a venire a provocarti, per quello devi rivolgerti a quegli altri idioti che vent’anni fa si sono messi a giocare con le tavole spiritiche. E invece scommetto che, a parte i due o tre che hai tolto di mezzo subito, gli altri membri di quella classe ora sono là fuori, felici e realizzati, mentre noi siamo stati obbligati a sottostare a tutta ‘sta merda!”.
Sono palesemente esaurita. Mettersi a strepitare contro una maledizione incorporea non è sintomo di buona salute.
D’altronde ho smesso di godere di buona salute da troppo tempo.
...ok, il tuo sfogo l’hai avuto. Ora datti una calmata, tanto non cambia nulla.
Mi risiedo, un pochino barcollante. Non ho mai sviluppato resistenza all’alcool e ora lo soffro fin troppo. L’ultima delle mie preoccupazioni.
Faccio mente locale.
Testamento l’ho fatto, certo che l’ho fatto. Ho preso l’abitudine da quando è morto Naegi, quando la nostra realtà si è fatta chiara. Non ho molto da lasciare, in realtà, ma spero che la Croce Rossa non si offenderà per la somma modesta.
Ho già avvisato il dottor Murasaki che domani non potrò presentarmi nel suo studio per il check-up, e anzi gli ho lasciato intendere che sarebbe carino da parte sua passare da queste parti domattina. Non vorrei che la vecchia dell’appartamento vicino cominci a rompere le palle all’intero piano per l’odore.
Spero di poter constatare che faccia farà durante la macabra scoperta, e una parte di me sarebbe soddisfatta di vederlo buttarsi per terra in lacrime. Mi piace pensare che il nostro rapporto, negli ultimi dodici anni, sia andato oltre il semplice dottore/paziente. È sempre stato molto gentile con me, l’interesse che mostrava per il mio caso clinico era genuino e poi è proprio una brava persona. Ho perso il conto delle volte che l’ho chiamato a orari improbabili perché mi sentivo inquieta, agitata o semplicemente avevo bisogno di fare due chiacchiere con qualcuno.
Mi è spiaciuto non potergli raccontare la storia, ma mi avrebbe fatta internare e avrebbe fatto bene (almeno dal suo punto di vista, che comunque comprendo). “Ciao Doc, come butta? Parliamo della CIPA, la malattia per cui mi segui tutti i giorni con apprezzabilissima dedizione. Sai meglio di me che è congenita e io non ce l’avevo alla nascita. Beh, se vuoi ti spiego cosa mi è successo. È colpa di una maledizione che mi sono presa a scuola, io e i miei compagni di classe. Maledizione di Halloween. Ti ricordi il Poltergeist Omicida della Kibougamine, quella serie di morti inspiegabili? Era la mia classe. Ogni anno dovevamo trovarci il 31 ottobre e uno di noi tirava le cuoia davanti ai nostri occhi. L’anno che non abbiamo voluto farla… eccoti la tua sindrome d’insensibilità al dolore. La maledizione ce l’ha fatta pagare salata, a me e a tutti loro. Chi ha perso la voce, chi la vista, chi l’udito, chi s’è beccato un’osteoporosi a vent’anni. In tutto questo, ti va di uscire con me?”.
Sì, a questo punto non vale la pena nasconderlo più. C’è del tenero, almeno da parte mia. È un bell’uomo, è colto, è onesto e continua ad avere le qualità positive sopra descritte.
Non ho mai fatto cenno della cosa perché sapete, mettere in scena una brutta copia di Sweet November non mi intrigava troppo come prospettiva. E poi quel film è una martellata nei coglioni notevole.
Però, a sipario calato, voglio che ne sia messo a conoscenza. Ho approntato, qui vicino a me, tutto il materiale che gli serve: i tre annuari della Kibougamine del periodo in cui frequentavo, con tanto di foto di classe ritoccate ad arte (cioè la faccia di chi è morto quell’anno circondata da un cerchio e la scritta “Quell’anno è morta/o lei/lui”), e un biglietto su cui ho trascritto ciò che mi sono appena immaginata di dirgli. Ma più poetico e più romantico.
Altri affari in sospeso non ci sono, e se ci sono li ho dimenticati.
Il giro di tutti i cimiteri di Tokyo per visitare gli altri l’ho fatto ieri. Compito impegnativo, mi ha preso tutta la giornata. Deh, d’altronde si parla di quindici tombe sparse per un po’ tutta la città. Spero che Shinobu Togami, nuovo boss dell’omonima Zaibatsu, abbia ricevuto i miei ringraziamenti per avermi consentito l’accesso al loro mausoleo privato.
Va bene, basta così. Ho divagato abbastanza.
È quasi l’ora.
Chiudo gli occhi, attendendo.
Tanto, qualunque cosa sarà, non la sentirò.

 
   
 
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