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Autore: shilyss    20/10/2018    39 recensioni
Il fiero dio degli inganni è stato condannato dagli Asi a una pena atroce, più terribile della morte stessa. Incatenato a una roccia e torturato fino al Ragnarok, non gli resta che ripercorrere nella sua testa ogni nefandezza, vittoria, inganno, progetto, sconfitta. Anche le più terribili e dolorose. Solo che…
Sigyn sapeva che l’animo del dio degli inganni non era fatto per gli spazi claustrofobici di una cella o di una grotta. Ferito orrendamente nelle ambizioni, la sua mente stava iniziando a vacillare verso un baratro di follia che la giovane donna, suo malgrado, riconobbe. Si sarebbe arrovellato fino alla fine dei tempi sugli errori commessi, incapace di accettare la sconfitta e andare avanti, stretto nell’orgoglio disperato e arrogante che gli aveva impedito di chiedere perdono a Odino.
Ecco a voi il mito di Loki e Sigyn.
[Post Avengers][alternative Thor: Dark World/Infinity War] [Loki/Sigyn]
[ ♦ Storia Seconda Classificata parimerito al Contest “Cuore d’Ombra II Edizione” indetto da Laodamia94 sul forum di Efp. ♦ ]
[ ♦ Storia Vincitrice del Contest "La guerra del Raiting" indetto da missredlights sul forum di EFP. ♦ ]
Genere: Angst, Drammatico, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Loki, Odino, Sigyn, Thor
Note: Missing Moments, Movieverse, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Fino alla fine del tempo

 

 

 

I

 

Se solo il veleno del serpente

 

Disse Loki:

“Sappi che se su un picco roccioso, con le budella gli dèi

 del mio figlio freddo di brina mi legheranno,

che primo ed ultimo fui io a dar morte

quando mettemmo le mani su Thjazi.”

(Edda Poetica, Lokasenna v. 50)

 

 

 

 

 

 

 

“Devono morire come guerrieri, i feroci Asi. Le porte del Valhalla si spalancheranno solo per i fieri eroi che sono caduti in mezzo al fuoco, al sangue, al fango. Le corazze sono fatte per frantumarsi sotto i colpi delle armi nemiche, le spade per spezzarsi, gli elmi dalle lunghe corna per fracassarsi e rotolare a terra.”

Lo aveva detto e ripetuto come una nenia feroce – o una supplica – mentre Thor, bestemmiando, lo riportava ad Asgard sorreggendolo per le spalle, ordinandogli con voce roca di tamponarsi quello squarcio orrendo che gli tagliava il fianco prima che. Pensiero tremendo che aveva fatto tremare le vene dei polsi di entrambi e ora echeggiava nella grotta squallida e spoglia dove Loki sussultava scosso dalla febbre, torturato dal veleno che gli colava senza pietà sul viso.

 

Tu lo sapevi che mi avrebbero fatto questo, Thor, lo sapevi, vigliacco maledetto: dovevi lasciarmi crepare. Inghiottì il dolore e l’ira perché, alla fine, era stato lui, a tradirlo. Gli era mancato il coraggio di dargli il colpo di grazia con Mjollnir in nome di quella parola con cui si sporcava le labbra: fratello. La inghiottì, la masticò, la sputò fuori in un grido mentre la bava acida e corrosiva dell’impassibile serpente gli scivolava sulla pelle già ferita consumandogli gli occhi, togliendogli il respiro. Ogni goccia scavava la carne lasciando una scia di dolore che era difficile da sopportare. Si tese sulla roccia inarcandosi per evitare il contatto che le sue pupille, malamente coperte da una benda, non riuscivano a evitare: muscoli allungati nella tensione di uno spasmo atroce, incontenibile, respiro affannato nel tentativo disperato di smorzare le urla. In mezzo al delirio allucinante in cui era precipitato, rivide il se stesso di un altro tempo e un altro luogo giocare armato di una spada di legno insieme a quel fratello che era stato l’alleato perfetto, l’avversario più odiato. Thor. Che non aveva il coraggio di scendere in quella grotta umida per osservare da vicino gli effetti devastanti della giustizia degli Asi in generale, di Odino in particolare. Strinse i denti per inghiottire un’altra ondata di dolore – l’ennesima – fece gracchiare i ceppi che gli segavano i polsi già scorticati mentre si divincolava e tendeva e scalciava come se potesse evitare la bava urticante: il veleno gli scivolò sul collo insinuandosi sulla spalla, proseguendo implacabile verso il torace. Invocò e maledisse le Norne, Odino, suo fratello e chi lo aveva messo al mondo. Gli risposero la pietra e l’eco della sua voce e allora rise, nel delirio della febbre che ormai lo divorava, e ricordò l’armata dei Chitauri che aveva perso e la sua disfatta – l’ennesima, l’ultima – e, di nuovo, detestò Thor e la sua debolezza. Cadeva sempre nello stesso tranello; desiderava disperatamente salvarlo e, così facendo, aveva finito per condannarlo alla più atroce delle torture: morire come un prigioniero, chiuso in una grotta, incapace di distinguere la luce dal buio, la realtà dalla finzione.

 

Eppure aveva lottato Loki di Asgard, figlio di Odino anzi no, di Laufey. Reliquia rubata ingannata fino alla fine, principe cadetto costretto a giocare una partita truccata in partenza, vinta dal vero figlio, dall’erede degno, dal futuro re di Asgard che, fino al giorno prima dell’esilio su Midgard, andava a puttane e beveva idromele fino a vomitare.

Certo, anche l’arrogante Thor era stato punito. Loki ogni tanto lo ricordava e ghignava soddisfatto, al ricordo della spedizione su Jotunheim; solo che poi, nella sua mente che già iniziava a sfilacciarsi oppressa com’era dal dolore e dalla solitudine, s’arrotolava inevitabilmente un pensiero amaro. Il banno di Padre Tutto nei confronti dell’adorato dio del tuono si era rivelato una punizione salvifica: il perfetto Thor, il principe fortunato, si era dimostrato degno di brandire nuovamente Mjollnir. In quell’atomo opaco di male, aveva smesso di essere lo spaccone viziato che prima colpiva e poi pensava ed era diventato l’erede designato due volte. E la sua, di punizione? Ferito e malmesso, sfuggito per un soffio all’ira tremenda e funesta del Titano inferocito, Loki aveva testato, per l’ennesima volta, quanto fosse parziale il senso della giustizia del dio delle forche. Non più padre, né signore, né re, ma Odino figlio di Bor, pirata e predone che, con l’oro sottratto ai popoli sottomessi, aveva ricoperto d’oro ogni guglia di Asgard.

 

Asgard distrutta, bruciata, che non c’è più. Un popolo in rovina che si è salvato solo perché, sul tetto dell’inutile Midgard, dopo aver ribattuto a Thor che era davvero troppo tardi, per un istante, uno solo, aveva pensato che non fosse esattamente vero. E così, nella battaglia contro il Titano aveva usato ogni fibra del suo essere, ogni goccia di seiðr e sangue, ogni lama a sua disposizione, per liberarsi. Il prezzo che aveva pagato per la sua eroica azione era quella benda lercia che ora gli stringeva la testa coprendogli gli occhi, il corpo martoriato e sconfitto, l’acida bava che gli corrodeva la pelle. Devono morire come guerrieri, i feroci Asi. Crepare su un campo di battaglia, soffocare nel proprio sangue con il ferro di una spada infilzato nello stomaco fino all’elsa. Sei un codardo, fratello.

 

Loki non aveva smarrito il suo istinto di conservazione, nient’affatto. La sua non era che una lucida analisi, una delle molte. L’ennesimo aggrovigliarsi di pensieri aguzzi e, allo stesso tempo, contorti che lo inseguivano nel suo supplizio probabilmente quasi eterno, che si sarebbe risolto solamente con l’arrivo del Crepuscolo degli dèi, il Ragnarok promesso dalla Voluspa, la profezia che raccontava il modo e la maniera in cui gli Asi sarebbero morti. Una fiaba antica e tremenda che, per lui, ora aveva quasi i tratti di una promessa consolante.

 

No, Loki Laufeyson non voleva morire: la voglia di vivere era ancora una bestia rabbiosa che gli mordeva il cuore impaziente, nonostante Thanos e la sua vendetta crudele fatta senza alzare nemmeno un sopracciglio in nome di quello scettro smarrito, dell’armata dei Chitauri rovinosamente perduta, del suo voltafaccia improvviso, ma certo non sorprendente. Mentre Thor lo trascinava via quasi esanime dal campo di battaglia, aveva raccattato le forze necessarie per schiudere le labbra riarse e spaccate e cercare gli occhi blu dell’altro. “Il dio delle forche non avrà pietà di me, fratello,” aveva boccheggiato. “Fammi morire come un Ase.”

Sussurro mormorato appena che il tonante era riuscito a udire nonostante il clangore, il fumo, le fiamme. Eppure Thor non gli aveva risposto. Si era limitato a stringere con più forza la spalla del fratello senza riuscire a smentire quella frase di una lucidità disarmante, perché non è vero ciò che si dice del dio degli inganni: la menzogna è solo una delle tante abilità messe a punto dal principe perduto di Asgard, dal figlio ribelle e reietto che nasconde il suo aspetto sotto una maschera diversa. Perché l’inganno sia totale, completo, assoluto, la vittima deve convincersi, abbandonarsi a essa. L’abile bugiardo deve proporre qualcosa non di assurdo e totalmente falso, no, questo sarebbe da sciocchi dilettanti, ma una fiaba verosimile, plausibile, possibile. In ogni inganno c’è un fondo di verità che luccica come una moneta perduta dentro a un pozzo. Così, Loki non era un Ase d’aspetto – la sua immagine non era che il trucco di un muta forma – ma lo era il suo spirito fierissimo e indomito e per questo, alla fine, l’inganno di Odino si era rivelato perfetto: perché aveva creato un figlio di Asgard che era tale in tutto e per tutto.

 

Loki non aveva smarrito il suo istinto di conservazione, affatto, ma non ci teneva a crepare dentro una grotta o una cella, come una bestia lasciata a morire in gabbia. I principi guerrieri, i re mancati senza corona e senza scorta, dovrebbero lasciare questo mondo con onore, trafitti da una lancia, in maniera degna, non raggomitolati al buio, bloccati dai ceppi. Questo terrorizzava Lingua d’Argento: non la tortura né la solitudine, ma il pensiero raggelante di una morte indegna, quella che, fin da quando erano bambini, lui e Thor avevano imparato, allo stesso tempo, a temere e a guardare con il disgusto tipico dell’infanzia. Suo fratello non aveva potuto fare a meno di stringergli la spalla, di serrare tra la sua mano callosa e forte la manica della casacca verde e stropicciata che aveva ancora addosso, ma non era riuscito a rispondergli perché era incapace, allo stesso tempo, di mentirgli e di lasciarlo morire. Una debolezza, quest’ultima, che condividevano entrambi.

 

 

Il veleno colò ancora sul suo petto già segnato da grossi solchi rossi, sulla tunica scura lacerata dall’acido corrosivo della bestia. Stavolta urlò – pianse – contorcendosi dal dolore, perché la saliva del serpente scorreva sulla pelle già martoriata. Il dolore era annichilente. Rimase senza fiato mentre la benda attorno agli occhi offesi si allentava e già una nuova, terribile, goccia si apprestava a cadere. L’accolse con un brivido, mordendosi le labbra. Odino e gli Asi non avevano avuto pietà di Loki Lingua d’Argento. Padre Tutto aveva guardato il figlio adottivo ribellatosi alla sua volontà con l’occhio critico di un sovrano infuriato. Il dio dell’inganno aveva minacciato uno dei mondi posti sotto la sua protezione disobbedendo al suo volere, tradendo i principii sotto cui si reggevano Asgard e il complesso sistema di alleanze dei Nove Regni. Loki era giunto al suo cospetto boccheggiante, trascinando un ginocchio rimesso solo parzialmente in sesto dai guaritori del palazzo. Avrebbe dovuto invocare la pietà e il perdono, buttarsi a terra sfiorando con la fronte il pavimento di legno della sala del trono. Invece era stato, per l’ultima volta, protervo e arrogante, beffardo e insolente, fantastico e folle. Ma se si fosse prostrato davvero, se avesse chiesto pietà, anziché mostrarsi sprezzante e irriconoscente, davvero Odino, il dio delle forche e degli eserciti, lo avrebbe salvato? Nonostante fosse rimasto assai turbato dalla pietosa scena, il sovrano aveva deciso, di nuovo, che non poteva essere la morte la pena che spettava al figlio adottivo. Quella sarebbe stata un privilegio, dopotutto. Con gli occhi lucidi, lo aveva condannato a qualcosa di peggiore. L’ennesima goccia gli cadde addosso scivolando sulla fronte, raggiungendo la punta del naso, scendendo sulle labbra. Di nuovo, i ceppi gemettero assieme a lui e tutto il suo corpo si tese sotto quel dolore insopportabile. Da quanto tempo Odino aveva stabilito la sua pena, da quanto Thor non aveva il coraggio di scendere in quella grotta umida? Ancora scosso com’era, si rese conto di averlo dimenticato, di aver perso il senso del tempo. Fu allora che iniziò a ridere. Forse rideva ancora, quando il veleno smise di colare.

 

 

 

La riconobbe dal profumo. Dal sentore di vaniglia e miele che emanava. Non si era accorto che era entrata, e questa consapevolezza lo inchiodò su quella roccia che gli faceva, allo stesso tempo, da giaciglio e da prigione. La risata secca che lo sconquassava da troppo tempo gli morì in gola mentre, nella sua testa, si faceva strada la contezza raggelante di quello che stava accadendo – che era appena accaduto. Lei no. Qualsiasi cosa, ma lei no, per le Norne. Strinse le labbra, quando indovinò che si stava chinando verso di lui, strattonò le catene, mentre gli posava con delicatezza una mano sulla fronte madida di sudore.

“Cosa ti hanno fatto, amore mio,” sussurrò Sigyn, e la sua voce era dolce e malinconica assieme.

 

Loki Laufeyson non rispose. Avvertì il tocco gentile dei polpastrelli della donna e tentò di ritrarsi, di fuggire quel contatto peggiore persino del veleno del serpente. La sentì sospirare e armeggiare con quella cosa che impediva al siero venefico di gocciargli addosso – un bacile, forse – e chissà che altri oggetti. Decise di non parlarle perché non si discorre con uno spettro, con un miraggio, anche se il fatto che la bava avesse smesso di colare avrebbe dovuto suggerirgli come Sigyn fosse davvero lì, a fissare con uno sguardo pietoso il suo corpo incatenato e teso sulla roccia, la pelle consumata dal veleno. Doveva apparirle come uno sconfitto. Un prigioniero umiliato e vilipeso, un guerriero che sul corpo portava i segni di una tortura orrenda, un re detronizzato senza trono né popolo, ma pur sempre un re. S’inorgoglì a quel pensiero, mentre lei continuava a carezzargli con dolcezza i capelli neri e scarmigliati leggermente arricciati, sfilava lentamente la benda senz’altro lercia che gli copriva gli occhi.

 

Sei un’illusione, Sigyn, sei un’allucinazione provocata dal seiðr che non riesco a usare in un modo più opportuno, sei il segno innegabile che sono diventato pazzo e confondo la realtà con il delirio. Lo disse a se stesso, lo pronunciò a voce così bassa che lei – ma questo Loki non poteva saperlo – aggrottò le sopracciglia preoccupata.

“Sono qui. Sono davvero qui, Loki.”

“È la pietà che ti ha spinta a tornare? Ti ha chiesto Thor di venire?” Lo disse con un livore gelido che dovette ferirla; se ne accorse dal sospiro strozzato, dalle dita che cessarono la loro lenta carezza. “Sei venuta per quale motivo, dolce Sigyn?”

Lei esitò a lungo sulla risposta da dargli. “Cosa ci siamo fatti,” soffiò infine.

 

 

Sigyn sapeva che l’animo del dio degli inganni non era fatto per gli spazi claustrofobici di una cella o di una grotta. Ferito orrendamente nelle ambizioni, la sua mente stava iniziando a vacillare verso un baratro di follia che la giovane donna, suo malgrado, riconobbe. Si sarebbe arrovellato fino alla fine dei tempi sugli errori commessi, incapace di accettare la sconfitta e andare avanti, stretto nell’orgoglio disperato e arrogante che gli aveva impedito di chiedere perdono a Odino. Cosa che aveva fatto lei al posto suo. Era tornata ad Asgard col viso bagnato dalle lacrime e, per un giorno e una notte, era rimasta inginocchiata di fronte al trono di Odino implorando clemenza. E se le Norne non scioglieranno il vostro cuore e non è ancora vostra intenzione concedergli la grazia, mio signore, che almeno possa lenire i suoi tormenti. Così aveva detto. Il re degli Asi aveva assottigliato il suo occhio azzurrissimo, come per osservarla meglio. Poi, lentamente, si era deciso a parlare lisciandosi la barba canuta.

“Mio figlio è stato molto crudele con te.”

“È vero,” aveva ammesso lei.

“E, nonostante questo, lo hai amato?”

Sigyn aveva sfiorato con i polpastrelli la bella collana di perle che portava sempre al collo distogliendo lo sguardo.

 

 

“Cosa ti hanno fatto, amore mio?” ripeté.

“Critichi i modi di Odino? Il Padre di Tutto mi vuole solo salvare da me stesso,” disse Loki, e l’aria parve vibrare di sarcasmo, alle sue parole.

No, Lingua d’Argento non era più il principe sveglio e brillante di Asgard, la cui intelligenza vivace aveva reso grande il regno degli Asi. Era il dio degli inganni che si era perduto e corrotto, ormai, e il suo cuore era così gonfio di rancore che Sigyn temette non vi potesse essere più spazio per nient’altro.

La donna provò di nuovo a scostargli dal viso le ciocche scure e Loki, ancora una volta, allontanò il volto, quasi il contatto con lei fosse qualcosa di insopportabile e tremendo, ma le dita di Sigyn riuscirono comunque a sfiorarlo e il suo tocco gentile lo colpì più di tutte le torture passate sotto Thanos prima, gli Asi poi.

“Solo cadendo ti passerà la paura,” mormorò lei. “Così mi dicevi quando mi portavi a pattinare nel lago ghiacciato fuori dalle nostre finestre. Te lo ricordi? E dopo non devi far altro che rialzarti,” tentò di aggiungere, ma scoprì che la sua voce era rotta e incrinata dal pianto. Quando sei scomparso nell’abisso sotto al ponte color dell’arcobaleno, nel momento in cui sei stato tu cadere, ti sei scontrato con i tuoi incubi, amore mio?

 

Una mezza risata rantolò dal petto sofferente dell’altro. “La paura è passata. È il dolore che è rimasto,” ammise accarezzando le parole tra le labbra screpolate, ma mentiva, perché timori e tormenti lo avrebbero perseguitato per sempre – fino a quando avesse avuto un alito di vita, fino all’ultimo dei suoi disperati giorni, fino al Ragnarok.

Le dita di Sigyn ripresero a pulire le ferite ancora aperte, lenirono le parti offese con infinita premura.

“Sono ancora belli, i tuoi occhi,” mormorò con dolcezza, “e torneranno a vedere.”

Ma Loki lo sapeva già. Le sue pupille erano riuscite a registrare un lieve cambiamento, la tenebra aveva lasciato il posto a una luce indefinita. Sigyn. Profumava di miele e di vaniglia, e la sua pelle era morbida seta. Sigyn, che non viveva più ad Asgard da tempo, a cui non avrebbe potuto né voluto chiedere perdono. Lei era reale, dopotutto – purtroppo.

 

Quando la sua voce aveva riempito la grotta, il dio degli inganni aveva pensato che lei fosse nient’altro che un’illusione. L’ennesimo trucco, si era messo a ragionare mentalmente con la voce grave di Odino che aveva imitato per una vita intera. Il tono amaro e sarcastico di Padre Tutto si era tramutato nel contraltare beffardo della sua coscienza che gli suggeriva – ricordava – ogni volta con amaro disincanto la sua posizione di principe ingannato, di reliquia rubata e strappata alla morte solo per diventare la marionetta di un popolo di conquistatori spietati. Odino lo aveva trovato su un picco di ghiaccio dove sarebbe dovuto crepare perché troppo debole per essere il vero figlio di Laufey; la morte avrebbe dovuto ghermirlo per fame o assideramento, oppure perché sbranato da un lupo in cerca di carni tenere. Eccola, la fine orrenda e solitaria di un erede indegno, che solo la pietà condita da interessi dello spietato Odino aveva evitato: il prezzo di quella scelta erano state le fiamme che avevano corroso Asgard fino alle fondamenta, Midgard assediata dai Chitauri, il Bifrost infranto. E tutto questo per cosa? Per morire lentamente come un prigioniero sconfitto, non come meritava un re o un guerriero. E ora la voce di Odino – la sua, di Loki stesso, solo più amara – gli suggeriva che era la follia a fargli immaginare che Sigyn fosse venuta ad alleviare i suoi tormenti. Ma l’odore di vaniglia ormai era tutto attorno a lui, le sue mani delicate e lisce applicavano fasce e unguenti con infinita dolcezza e la sua voce vellutata, come una nenia, continuava a mormorare quella frase colma di rammarico che bruciava più del veleno del serpente. Cosa ti hanno fatto, amore mio.

Deglutendo, il dio degli inganni si era morso le labbra per non risponderle né parlarle perché se lei fosse stata un miraggio, di nuovo, la sua mente avrebbe definitivamente perso ogni appiglio con la realtà già sfumata e con il tempo che non riusciva più a misurare. Ma Sigyn, stavolta, forse davvero era reale perché nemmeno lui, il dio degli inganni in persona, avrebbe avuto il coraggio di creare col seiðr una copia e metterle in bocca quelle due parole assurde e fuori contesto, amore mio. No, se Sigyn fosse stata un’allucinazione crudele gli avrebbe detto ben altre parole. E così quella frase strana era stata la spia, l’indizio, che forse l’incubo si era trasformato in realtà, alla fine. E poi, c’era il resto: il tono spezzato con cui lei aveva pronunciato quelle poche sillabe. Loki aveva letto pietà nella sua voce, commiserazione.

Si sbagliava. Sigyn lo amava da sempre, e la nota incrinata che le era sfuggita dalla gola si chiamava dolore.

“Non dovevi tornare,” mormorò con voce arrochita.

Lei si fermò. “Sono tua moglie.”

“Un vincolo da cui ti ho sciolto.”

“Lascia che sia io a decidere a quale causa votarmi, a chi donare la mia fedeltà,” lo redarguì severa e orgogliosa.

“Fedeltà.” L’Ase rise, beffardo. “Non avresti dovuto pronunciarla, quella parola. Il dio del tuono ti ha chiesto di venire qui. Ora lo so.”

“Non hai avuto pietà di me, dio degli inganni, nemmeno per un giorno,” gli ricordò lei. “Sei ingiusto e crudele persino ora, qui, incatenato a una roccia con un serpente orrendo che ti sputa addosso il suo veleno.” Seguì il silenzio rotto solo dal gocciare del veleno nel bacile mezzo pieno. “Avremmo potuto essere felici.”

Di fronte a quelle parole, l’Ase increspò le labbra in una smorfia. “Ti avrei spezzato il cuore.”

“Lo hai fatto comunque. Possibile che tu non te ne renda conto?”

“Perché sei tornata, Sigyn? Non ho bisogno, non voglio la tua pietà né quella di Thor o di Odino.”

“Tuo padre ti ha condannato, Loki, è vero: la giustizia di Asgard non poteva lasciarti impunito, lo sai.” La voce della dea della fedeltà era mesta, mentre raccontava. “Ma ogni sera,” proseguì, “al banchetto, c’è un posto, alla sua sinistra, che viene apparecchiato e nessuno osa occupare. Non fu senza dolore che prese quella scelta.”

Loki esplose, furibondo. Ricordò l’occhio grave di Odino che mal si accordava con il suo giudizio implacabile. “Non è mio padre! Guardami! Chi mi ha incatenato, chi mi ha condannato? Considera se debba davvero provare pietà per il dio delle forche che ha scelto per me un destino così crudele! E dov’è Thor, dimmi, dolce Sigyn: dov’è il campione di Asgard, il figlio degno, il grande erede al trono? Quello che mi chiama fratello e poi gira la testa d’altra parte?”

“Ti ha salvato la vita, su Midgard e in mille altre battaglie,” soffiò Sigyn.

Loki aveva il fiato corto. “E io l’ho salvata a lui, su Midgard e in mille altre battaglie.”

“Sta raccogliendo prove affinché Odino possa mutare la sua decisione nei tuoi confronti. Chiederà un appello,” aggiunse la donna, a disagio.

“Sta?”

Una pausa. “Stiamo.”

“Il nobile Thor e la devota Sigyn.” Dal petto del dio degli inganni uscì una risata secca e crudele. “Una notizia del genere andava annunciata come prima cosa, non estorta. Potrai finalmente ammirarlo da vicino. Il paragone mi sarà sfavorevole anche questa volta, temo,” aggiunse, e poi si morse le labbra perché era stato ingiusto e crudele.

La risposta di Sigyn giunse dopo un tempo che gli parve infinito. “Una notizia incerta, una flebile speranza che stiamo cercando con tutte le nostre forze di rendere reale.” Sospirò. “Sei sempre stato così cieco e crudele, Loki di Asgard.”

 

Si alzò per vuotare il bacile ormai colmo. Il dio degli inganni colse il timore della giovane donna nel togliere il salvifico recipiente da sopra la sua testa e strinse i denti, cercando si sfoderare quel coraggio tronfio che gli aveva consentito di ingannare re e principi, dèi e titani. Persino il grande e possente Thanos si era lasciato incantare dal suo sorriso sbieco tanto da cedergli un’armata gigantesca e, assieme a lei, lo scettro d’incredibile potenza su cui, forse, splendeva addirittura una delle Gemme dell’Infinito. Eppure, nonostante fosse un guerriero nato per essere re e un mago d’indicibile abilità, il dio degli inganni non riuscì a trattenere un singulto spezzato, quando il veleno tornò a colargli sul corpo, sul viso. Il dolce profumo di Sigyn si era allontanato per lasciare di nuovo il posto al dolore lacerante, tremendo, assoluto, annichilente. Pulsante. Capace di annientare i pensieri e sconvolgere la ragione, spazzare via il tempo e cancellare il confine sottile tra ciò che era reale e ciò che, invece, non lo era. Il liquido venefico corrose una volta di più la sua carne aggiungendo dolore a dolore, perché ogni goccia era come fuoco che gli scavava sentieri di sangue fino a raggiungere i muscoli, le vene, i nervi già provati. Gridò e si divincolò, sopraffatto da quello strazio indicibile, tentando, per l’ennesima, disperata e ultima volta, di fuggire dal supplizio spietato degli Asi e spezzare i ceppi infrangibili che gli scorticavano i polsi. Era uno spettacolo miserabile, quello che stava offrendo a Sigyn? L’immagine pietosa di un dio sconfitto, piegato, incatenato? Cosa vedeva, lei? Se solo il veleno del serpente non gli avesse ferito orrendamente gli occhi, avrebbe potuto leggere, sul viso della donna che aveva sposato, il disagio e il rancore, la pietà e l’amore. Invece la udì corrergli incontro e sistemare rapida e nervosa il bacile sopra la sua testa, sentì la propria irriconoscibile voce bisbigliarle di non andare via, non lasciare mai più che quella bava urticante gli bruciasse di nuovo il corpo e la faccia. Di nuovo, le dita di Sigyn gli carezzarono con dolcezza infinita la pelle lenendo ogni ferita con unguenti e bende – anche se non era giusto, non doveva essere lì, non c’era più niente tra loro né ci doveva essere. Il cuore iniziò lentamente a riprendere il consueto ritmo e la sofferenza abbandonò il suo corpo ancora teso sulla roccia. Si ritrovò fiaccato e ansante e, sforzandosi di recuperare almeno un barlume di lucidità, si mise a parlare nonostante avesse la bocca secca. La sua voce arrochita gli suonò estranea come mai prima.

 

“Sigyn, ho sciolto ogni legame. Con te, con Odino, con Thor. Torna ad Asgard. Non ho bisogno della tua pietà.” Ecco cos’era rimasto della Lingua d’Argento di Asgard: parole impastate, dette dopo aver deglutito a lungo.

“Non è pietà,” lo corresse la donna con forza. “Non lo è mai stata. Come puoi non capire neanche adesso? Come hai potuto non capire allora? Oggi sei ferito e non puoi vedermi: ma prima, Loki? Il dio dell’inganno, l’astuto stratega di Asgard…”

“Sigyn…”

“Ti ho sempre amato. Nel mio cuore, ti ho sempre amato. E tu lo sapevi e, nonostante questo, hai fatto ogni cosa in tuo potere per distruggere tutto. Avremmo potuti essere felici,” ripeté lei convinta.

C’era una punta di rabbioso rimpianto, nella voce di Sigyn. L’accusa che gli muoveva era giusta come tutte quelle che gli erano state rivolte dacché era ritornato ad Asgard, solo che l’ipotesi appena sfiorata dalla sua bionda e perduta moglie aveva in sé una nota triste impossibile da ignorare persino per il fiero ingannatore.

Loki s’inumidì le labbra in cerca delle parole giuste da dire. “Non mi pento di quello che ho fatto. Di niente. Ci saremmo comunque ritrovati così, alla fine,” ammise freddamente.

“Nemmeno della lettera ti sei pentito, amore mio?”

Loki s’irrigidì di fronte a quella battuta uscita dalla bocca di lei che bruciava come il sale su una ferita ancora aperta. “Cosa vuoi che ti risponda, Sigyn?”

Lo disse con lentezza, volgendo il capo dalla parte opposta a quella dove intuiva ci fosse la donna. Il velo grigio ancora non si era diradato dai suoi occhi. “Desideri di nuovo essere ingannata?” La frase venne pronunciata dalle sue labbra beffarde in maniera più cruda di quanto forse non volesse, ma ormai era troppo tardi per ricacciarla indietro.

Sigyn incassò il colpo, meditò sulla risposta giusta da dare forse mordendosi le labbra com’era suo solito – l’ingannatore si accorse di ricordare ancora ogni dettaglio e abitudine della ragazzina che aveva sposato solo grazie a un inganno e questo lo infastidì. Se solo avesse potuto vederla.

Infine, lei rispose. Lo fece continuando a medicarlo con tocchi sicuri, ma la sua voce altera gli giunse alle orecchie appena incrinata. “Sei sicuro che si è trattato di un inganno? O non è stato, piuttosto, il tentativo, l’ennesimo, di distruggere ciò che avevi di più caro, come hai finito per fare con tuo padre, tuo fratello, la bella Asgard?”

Loki deglutì. “Odino non è mio padre e Thor non è mio fratello,” puntualizzò.

“Bugia. Lo sono, lo sono sempre stati. Ha ragione Frigga; non sei affatto perspicace quando si tratta di te. L’ho scoperto a mie spese.”

 

Non le rispose. Non poté, non volle, non riuscì, ma ripensò a tutto, a ogni cosa. A quella notte, innanzi tutto, lontana nel tempo e nello spazio eppure scolpita nella sua mente in maniera indelebile, l’ultima che avevano trascorso insieme. Com’era bella, quella sera. Adesso Sigyn gli era tanto vicina che Loki riusciva ad avvertire il suo lieve profumo di miele, ma il suo viso, per le Norne, gli era ancora negato: poteva solo ricostruirlo scavando nei ricordi sbiaditi che aveva provato ad affogare nel sangue e nel fango dei campi di battaglia mentre guidava le armate di Odino prima, quelle meno gloriose di Thanos, poi. Era riuscito a seppellire la sua immagine sotto l’ambizione oscena che gli aveva fatto accarezzare con dita avide l’Hlidskjalf, il trono di Odino, il dio delle forche bugiardo e ingannatore che lo aveva salvato da una morte orrenda per il solo gusto di ammirare l’ennesima delle reliquie che aveva rubato e che intendeva usare per rendere Asgard ancora più grande. Sotto tutto questo, il dio degli inganni aveva nascosto il ricordo di Sigyn, ma ora lei era lì, al suo fianco e non era un fantasma nostalgico e impalpabile che non poteva nemmeno sfiorare; era viva, presente, maledettamente reale e gli chiedeva conto della notte lontana in cui lui le aveva spezzato il cuore.

Com’era bella, quella sera. Se solo fosse stata davvero sua. Se solo Sigyn avesse potuto sopportare, intuire il peso di quello che le aveva fatto e accettarlo, così come era riuscita a guardare oltre il sarcasmo spesso bieco, la crudeltà quasi esibita che sfoggiava con altero disprezzo.  Loki non desiderava essere perdonato: ognuna delle sue azioni, anche la più meschina, era scaturita da una precisa volontà che ricusare a posteriori sarebbe stato vile, ipocrita e indegno del principe degli Asi cui spettava il trono, ma il prezzo da pagare per i suoi inganni e per le scelte spietate che aveva fatto a testa alta era stato perderla inevitabilmente, per sempre. Cosa che, alla fine, era avvenuta comunque e per cui non si era stupito – anche se il modo, per le Norne, quello, era stato straziante.

Il punto era che Sigyn non gli era mai appartenuta fino in fondo, così come non era stato davvero suo il posto alla sinistra di Odino ai banchetti e sulla scala che conduceva al trono d’oro degli Asi: come ogni cosa, anche quella si era rivelata l’ennesima illusione. Ma se il fiero dio degli inganni aveva tentato con ogni fibra del suo essere di pareggiare i conti con l’astuto genitore adottivo – prova ne era quell’inenarrabile supplizio cui era costretto – con Sigyn non c’era stato mai alcun chiarimento, e lei era rimasta un discorso sospeso che ora tornava a tormentarlo proprio mentre scontava la sua pena. Per un ingiusto contrappasso, sua moglie incarnava, allo stesso tempo, la salvezza e la perdizione.

 

Com’era bella, quella sera. Come Asgard ricoperta d’oro che non c’era più. Cercò in fondo alla sua mente provata dalla prigionia e dal dolore l’immagine evanescente di lei e di quell’abito color tempesta che la avvolgeva come un guanto, rivide splendere la collana di perle che le aveva messo al collo con un ghigno mentre era seduta allo specchio. Nel riflesso, aveva osservato Sigyn arrossire e sfiorare il gioiello e si era chinato su di lei per accarezzarle con le labbra l’orecchio e sussurrarle che la trovava incantevole. Odino fingeva ancora di non aver deciso chi dovesse ereditare Asgard, e Loki Lingua d’Argento viveva nella menzogna perfetta che Padre Tutto aveva confezionato per lui e per gli Asi tutti. Si illudeva che il dio delle forche avrebbe finito per riconoscere la sua sagacia e il talento diplomatico che sempre sfoggiava concedendogli quel trono promesso e offerto in cambio di una lealtà assoluta – della vita, persino.

La notte in cui perse Sigyn, Loki si crogiolava ancora in una realtà che, di lì a poco, si sarebbe sgretolata con tremenda precisione. Lei fu l’inizio, la prima, profonda crepa che avrebbe incrinato ogni sua certezza. Ma davvero era così? Non aveva sempre saputo dove lo avrebbero portato i suoi piani scellerati? Era ancora capace di mentire a se stesso, Loki di Asgard, o di Jotunheim? Quando aveva osato rendere l’inganno reale, non aveva forse ventilato quell’ipotesi – il disprezzo eterno dell’irraggiungibile dea della fedeltà?

 

   
 
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