Fino alla fine
del tempo
I
Se solo il
veleno del serpente
Disse Loki:
“Sappi
che se su un picco roccioso,
con le budella gli dèi
del
mio figlio freddo di brina mi legheranno,
che primo ed
ultimo fui io a dar
morte
quando mettemmo
le mani su Thjazi.”
(Edda Poetica,
Lokasenna v. 50)
“Devono
morire come
guerrieri, i feroci Asi. Le porte del Valhalla si spalancheranno solo
per i
fieri eroi che sono caduti in mezzo al fuoco, al sangue, al fango. Le
corazze sono
fatte per frantumarsi sotto i colpi delle armi nemiche, le spade per
spezzarsi,
gli elmi dalle lunghe corna per fracassarsi e rotolare a
terra.”
Lo aveva detto e
ripetuto
come una nenia feroce – o una supplica – mentre
Thor, bestemmiando, lo
riportava ad Asgard sorreggendolo per le spalle, ordinandogli con voce
roca di
tamponarsi quello squarcio orrendo che gli tagliava il fianco prima che. Pensiero tremendo che aveva
fatto tremare le vene dei polsi di entrambi e ora echeggiava nella
grotta squallida
e spoglia dove Loki sussultava scosso dalla febbre, torturato dal
veleno che
gli colava senza pietà sul viso.
Tu
lo sapevi che mi avrebbero fatto questo, Thor, lo sapevi, vigliacco
maledetto: dovevi lasciarmi crepare.
Inghiottì il dolore e l’ira perché,
alla fine, era stato lui, a
tradirlo. Gli era mancato il
coraggio di dargli il colpo di grazia con Mjollnir in nome di quella
parola con
cui si sporcava le labbra: fratello.
La inghiottì, la masticò, la sputò
fuori in un grido mentre la bava acida e
corrosiva dell’impassibile serpente gli scivolava sulla pelle
già ferita
consumandogli gli occhi, togliendogli il respiro. Ogni goccia scavava
la carne
lasciando una scia di dolore che era difficile da sopportare. Si tese
sulla
roccia inarcandosi per evitare il contatto che le sue pupille,
malamente
coperte da una benda, non riuscivano a evitare: muscoli allungati nella
tensione di uno spasmo atroce, incontenibile, respiro affannato nel
tentativo
disperato di smorzare le urla. In mezzo al delirio allucinante in cui
era
precipitato, rivide il se stesso di un altro tempo e un altro luogo
giocare
armato di una spada di legno insieme a quel fratello che era stato
l’alleato
perfetto, l’avversario più odiato. Thor.
Che non aveva il coraggio di scendere in quella grotta umida per
osservare da
vicino gli effetti devastanti della giustizia degli Asi in generale, di
Odino
in particolare. Strinse i denti per inghiottire un’altra
ondata di dolore –
l’ennesima – fece gracchiare i ceppi che gli
segavano i polsi già scorticati
mentre si divincolava e tendeva e scalciava come se potesse evitare la
bava
urticante: il veleno gli scivolò sul collo insinuandosi
sulla spalla, proseguendo
implacabile verso il torace. Invocò e maledisse le Norne,
Odino, suo fratello e
chi lo aveva messo al mondo. Gli risposero la pietra e l’eco
della sua voce e
allora rise, nel delirio della febbre che ormai lo divorava, e
ricordò l’armata
dei Chitauri che aveva perso e la sua disfatta –
l’ennesima, l’ultima – e, di
nuovo, detestò Thor e la sua debolezza. Cadeva sempre nello
stesso tranello;
desiderava disperatamente salvarlo e, così facendo, aveva
finito per
condannarlo alla più atroce delle torture: morire come un
prigioniero, chiuso
in una grotta, incapace di distinguere la luce dal buio, la
realtà dalla
finzione.
Eppure aveva
lottato Loki
di Asgard, figlio di Odino anzi no, di Laufey. Reliquia rubata
ingannata fino
alla fine, principe cadetto costretto a giocare una partita truccata in
partenza, vinta dal vero figlio, dall’erede degno, dal futuro
re di Asgard che,
fino al giorno prima dell’esilio su Midgard, andava a puttane
e beveva idromele
fino a vomitare.
Certo, anche
l’arrogante
Thor era stato punito. Loki ogni tanto lo ricordava e ghignava
soddisfatto, al
ricordo della spedizione su Jotunheim; solo che poi, nella sua mente
che già
iniziava a sfilacciarsi oppressa com’era dal dolore e dalla
solitudine,
s’arrotolava inevitabilmente un pensiero amaro. Il banno di Padre Tutto nei confronti
dell’adorato dio del tuono si
era rivelato una punizione salvifica: il perfetto Thor, il principe
fortunato,
si era dimostrato degno di brandire nuovamente Mjollnir. In
quell’atomo opaco
di male, aveva smesso di essere lo spaccone viziato che prima colpiva e
poi
pensava ed era diventato l’erede designato due volte. E la
sua, di punizione?
Ferito e malmesso, sfuggito per un soffio all’ira tremenda e
funesta del Titano
inferocito, Loki aveva testato, per l’ennesima volta, quanto
fosse parziale il
senso della giustizia del dio delle forche. Non più padre,
né signore, né re,
ma Odino figlio di Bor, pirata e predone che, con l’oro
sottratto ai popoli
sottomessi, aveva ricoperto d’oro ogni guglia di Asgard.
Asgard
distrutta,
bruciata, che non c’è più. Un popolo in
rovina che si è salvato solo perché, sul
tetto dell’inutile Midgard, dopo aver ribattuto a Thor che
era davvero troppo
tardi, per un istante, uno solo, aveva pensato che non fosse
esattamente vero.
E così, nella battaglia contro il Titano aveva usato ogni
fibra del suo essere,
ogni goccia di seiðr e sangue, ogni lama a sua disposizione,
per liberarsi. Il
prezzo che aveva pagato per la sua eroica azione era quella benda
lercia che
ora gli stringeva la testa coprendogli gli occhi, il corpo martoriato e
sconfitto, l’acida bava che gli corrodeva la pelle. Devono
morire come guerrieri,
i feroci Asi. Crepare su un campo di battaglia, soffocare nel proprio
sangue
con il ferro di una spada infilzato nello stomaco fino
all’elsa. Sei un codardo, fratello.
Loki non aveva
smarrito
il suo istinto di conservazione, nient’affatto. La sua non
era che una lucida
analisi, una delle molte. L’ennesimo aggrovigliarsi di
pensieri aguzzi e, allo
stesso tempo, contorti che lo inseguivano nel suo supplizio
probabilmente quasi
eterno, che si sarebbe risolto solamente con l’arrivo del
Crepuscolo degli dèi,
il Ragnarok promesso dalla Voluspa, la profezia che raccontava il modo
e la
maniera in cui gli Asi sarebbero morti. Una fiaba antica e tremenda
che, per
lui, ora aveva quasi i tratti di una promessa consolante.
No, Loki
Laufeyson non
voleva morire: la voglia di vivere era ancora una bestia rabbiosa che
gli
mordeva il cuore impaziente, nonostante Thanos e la sua vendetta
crudele fatta
senza alzare nemmeno un sopracciglio in nome di quello scettro
smarrito,
dell’armata dei Chitauri rovinosamente perduta, del suo
voltafaccia improvviso,
ma certo non sorprendente. Mentre Thor lo trascinava via quasi esanime
dal
campo di battaglia, aveva raccattato le forze necessarie per schiudere
le
labbra riarse e spaccate e cercare gli occhi blu dell’altro.
“Il dio delle
forche non avrà pietà di me, fratello,”
aveva boccheggiato. “Fammi morire come
un Ase.”
Sussurro
mormorato appena
che il tonante era riuscito a udire nonostante il clangore, il fumo, le
fiamme.
Eppure Thor non gli aveva risposto. Si era limitato a stringere con
più forza
la spalla del fratello senza riuscire a smentire quella frase di una
lucidità
disarmante, perché non è vero ciò che
si dice del dio degli inganni: la
menzogna è solo una delle tante abilità messe a
punto dal principe perduto di
Asgard, dal figlio ribelle e reietto che nasconde il suo aspetto sotto
una
maschera diversa. Perché l’inganno sia totale,
completo, assoluto, la vittima
deve convincersi, abbandonarsi a essa. L’abile bugiardo deve
proporre qualcosa
non di assurdo e totalmente falso, no, questo sarebbe da sciocchi
dilettanti,
ma una fiaba verosimile, plausibile, possibile. In ogni inganno
c’è un fondo di
verità che luccica come una moneta perduta dentro a un
pozzo. Così, Loki non
era un Ase d’aspetto – la sua immagine non era che
il trucco di un muta forma –
ma lo era il suo spirito fierissimo e indomito e per questo, alla fine,
l’inganno di Odino si era rivelato perfetto:
perché aveva creato un figlio di
Asgard che era tale in tutto e per tutto.
Loki non aveva
smarrito il
suo istinto di conservazione, affatto, ma non ci teneva a crepare
dentro una
grotta o una cella, come una bestia lasciata a morire in gabbia. I
principi
guerrieri, i re mancati senza corona e senza scorta, dovrebbero
lasciare questo
mondo con onore, trafitti da una lancia, in maniera degna, non
raggomitolati al
buio, bloccati dai ceppi. Questo terrorizzava Lingua
d’Argento: non la tortura
né la solitudine, ma il pensiero raggelante di una morte indegna, quella che, fin da quando erano
bambini, lui e Thor
avevano imparato, allo stesso tempo, a temere e a guardare con il
disgusto
tipico dell’infanzia. Suo fratello non aveva potuto fare a
meno di stringergli
la spalla, di serrare tra la sua mano callosa e forte la manica della
casacca
verde e stropicciata che aveva ancora addosso, ma non era riuscito a
rispondergli perché era incapace, allo stesso tempo, di
mentirgli e di
lasciarlo morire. Una debolezza, quest’ultima, che
condividevano entrambi.
Il veleno
colò ancora sul
suo petto già segnato da grossi solchi rossi, sulla tunica
scura lacerata
dall’acido corrosivo della bestia. Stavolta urlò
– pianse – contorcendosi dal
dolore, perché la saliva del serpente scorreva sulla pelle
già martoriata. Il
dolore era annichilente. Rimase senza fiato mentre la benda attorno
agli occhi
offesi si allentava e già una nuova, terribile, goccia si
apprestava a cadere.
L’accolse con un brivido, mordendosi le labbra. Odino e gli
Asi non avevano
avuto pietà di Loki Lingua d’Argento. Padre Tutto
aveva guardato il figlio
adottivo ribellatosi alla sua volontà con l’occhio
critico di un sovrano
infuriato. Il dio dell’inganno aveva minacciato uno dei mondi
posti sotto la
sua protezione disobbedendo al suo volere, tradendo i principii sotto
cui si
reggevano Asgard e il complesso sistema di alleanze dei Nove Regni.
Loki era
giunto al suo cospetto boccheggiante, trascinando un ginocchio rimesso
solo
parzialmente in sesto dai guaritori del palazzo. Avrebbe dovuto
invocare la
pietà e il perdono, buttarsi a terra sfiorando con la fronte
il pavimento di
legno della sala del trono. Invece era stato, per l’ultima
volta, protervo e
arrogante, beffardo e insolente, fantastico e folle. Ma se si fosse
prostrato
davvero, se avesse chiesto pietà, anziché
mostrarsi sprezzante e irriconoscente,
davvero Odino, il dio delle forche e degli eserciti, lo avrebbe
salvato? Nonostante
fosse rimasto assai turbato dalla pietosa scena, il sovrano aveva
deciso, di
nuovo, che non poteva essere la morte la pena che spettava al figlio
adottivo.
Quella sarebbe stata un privilegio, dopotutto. Con gli occhi lucidi, lo
aveva
condannato a qualcosa di peggiore. L’ennesima goccia gli
cadde addosso
scivolando sulla fronte, raggiungendo la punta del naso, scendendo
sulle
labbra. Di nuovo, i ceppi gemettero assieme a lui e tutto il suo corpo
si tese
sotto quel dolore insopportabile. Da quanto tempo Odino aveva stabilito
la sua
pena, da quanto Thor non aveva il coraggio di scendere in quella grotta
umida?
Ancora scosso com’era, si rese conto di averlo dimenticato,
di aver perso il
senso del tempo. Fu allora che iniziò a ridere. Forse rideva
ancora, quando il
veleno smise di colare.
La riconobbe dal
profumo.
Dal sentore di vaniglia e miele che emanava. Non si era accorto che era
entrata,
e questa consapevolezza lo inchiodò su quella roccia che gli
faceva, allo
stesso tempo, da giaciglio e da prigione. La risata secca che lo
sconquassava
da troppo tempo gli morì in gola mentre, nella sua testa, si
faceva strada la contezza
raggelante di quello che stava accadendo – che era appena
accaduto. Lei no. Qualsiasi cosa, ma lei no,
per le
Norne. Strinse le labbra, quando indovinò che si
stava chinando verso di
lui, strattonò le catene, mentre gli posava con delicatezza
una mano sulla
fronte madida di sudore.
“Cosa
ti hanno fatto, amore mio,”
sussurrò Sigyn, e la sua
voce era dolce e malinconica assieme.
Loki Laufeyson
non
rispose. Avvertì il tocco gentile dei polpastrelli della
donna e tentò di
ritrarsi, di fuggire quel contatto peggiore persino del veleno del
serpente. La
sentì sospirare e armeggiare con quella cosa che impediva al
siero venefico di
gocciargli addosso – un bacile, forse – e
chissà che altri oggetti. Decise di
non parlarle perché non si discorre con uno spettro, con un
miraggio, anche se
il fatto che la bava avesse smesso di colare avrebbe dovuto suggerirgli
come Sigyn
fosse davvero lì, a fissare con uno sguardo pietoso il suo
corpo incatenato e
teso sulla roccia, la pelle consumata dal veleno. Doveva apparirle come
uno
sconfitto. Un prigioniero umiliato e vilipeso, un guerriero che sul
corpo
portava i segni di una tortura orrenda, un re detronizzato senza trono
né
popolo, ma pur sempre un re. S’inorgoglì a quel
pensiero, mentre lei continuava
a carezzargli con dolcezza i capelli neri e scarmigliati leggermente
arricciati, sfilava lentamente la benda senz’altro lercia che
gli copriva gli
occhi.
Sei
un’illusione, Sigyn, sei un’allucinazione provocata
dal
seiðr che non riesco a usare in un modo più
opportuno, sei il segno innegabile
che sono diventato pazzo e confondo la realtà con il delirio. Lo disse a se
stesso, lo pronunciò
a voce così bassa che lei – ma questo Loki non
poteva saperlo – aggrottò le
sopracciglia preoccupata.
“Sono
qui. Sono davvero
qui, Loki.”
“È
la pietà che ti ha spinta
a tornare? Ti ha chiesto Thor di venire?” Lo disse con un
livore gelido che
dovette ferirla; se ne accorse dal sospiro strozzato, dalle dita che
cessarono
la loro lenta carezza. “Sei venuta per quale motivo, dolce
Sigyn?”
Lei
esitò a lungo sulla
risposta da dargli. “Cosa ci siamo fatti,”
soffiò infine.
Sigyn sapeva che
l’animo
del dio degli inganni non era fatto per gli spazi claustrofobici di una
cella o
di una grotta. Ferito orrendamente nelle ambizioni, la sua mente stava
iniziando a vacillare verso un baratro di follia che la giovane donna,
suo
malgrado, riconobbe. Si sarebbe arrovellato fino alla fine dei tempi
sugli
errori commessi, incapace di accettare la sconfitta e andare avanti,
stretto
nell’orgoglio disperato e arrogante che gli aveva impedito di
chiedere perdono
a Odino. Cosa che aveva fatto lei al posto suo. Era tornata ad Asgard
col viso
bagnato dalle lacrime e, per un giorno e una notte, era rimasta
inginocchiata
di fronte al trono di Odino implorando clemenza. E
se le Norne non scioglieranno il vostro cuore e non è ancora
vostra
intenzione concedergli la grazia, mio signore, che almeno possa lenire
i suoi
tormenti. Così aveva detto. Il re degli Asi aveva
assottigliato il suo
occhio azzurrissimo, come per osservarla meglio. Poi, lentamente, si
era deciso
a parlare lisciandosi la barba canuta.
“Mio
figlio è stato molto
crudele con te.”
“È
vero,” aveva ammesso
lei.
“E,
nonostante questo, lo
hai amato?”
Sigyn aveva
sfiorato con
i polpastrelli la bella collana di perle che portava sempre al collo
distogliendo
lo sguardo.
“Cosa
ti hanno fatto,
amore mio?” ripeté.
“Critichi
i modi di
Odino? Il Padre di Tutto mi vuole solo salvare da me stesso,”
disse Loki, e
l’aria parve vibrare di sarcasmo, alle sue parole.
No, Lingua
d’Argento non
era più il principe sveglio e brillante di Asgard, la cui
intelligenza vivace
aveva reso grande il regno degli Asi. Era il dio degli inganni che si
era
perduto e corrotto, ormai, e il suo cuore era così gonfio di
rancore che Sigyn
temette non vi potesse essere più spazio per
nient’altro.
La donna
provò di nuovo a
scostargli dal viso le ciocche scure e Loki, ancora una volta,
allontanò il
volto, quasi il contatto con lei fosse qualcosa di insopportabile e
tremendo,
ma le dita di Sigyn riuscirono comunque a sfiorarlo e il suo tocco
gentile lo
colpì più di tutte le torture passate sotto
Thanos prima, gli Asi poi.
“Solo
cadendo ti passerà
la paura,” mormorò lei. “Così
mi dicevi quando mi portavi a pattinare nel lago
ghiacciato fuori dalle nostre
finestre. Te lo ricordi? E dopo non devi far altro che
rialzarti,” tentò di aggiungere,
ma scoprì che la sua voce era rotta e incrinata dal pianto. Quando sei scomparso nell’abisso sotto al
ponte color dell’arcobaleno, nel momento in cui sei stato tu
cadere, ti sei
scontrato con i tuoi incubi, amore mio?
Una mezza risata
rantolò
dal petto sofferente dell’altro. “La paura
è passata. È il dolore che è
rimasto,” ammise accarezzando le parole tra le labbra
screpolate, ma mentiva,
perché timori e tormenti lo avrebbero perseguitato per
sempre – fino a quando
avesse avuto un alito di vita, fino all’ultimo dei suoi
disperati giorni, fino
al Ragnarok.
Le dita di Sigyn
ripresero
a pulire le ferite ancora aperte, lenirono le parti offese con infinita
premura.
“Sono
ancora belli, i
tuoi occhi,” mormorò con dolcezza, “e
torneranno a vedere.”
Ma Loki lo
sapeva già. Le
sue pupille erano riuscite a registrare un lieve cambiamento, la
tenebra aveva
lasciato il posto a una luce indefinita. Sigyn.
Profumava di miele e di vaniglia, e la sua pelle era morbida seta. Sigyn, che non viveva più ad
Asgard da
tempo, a cui non avrebbe potuto né voluto chiedere perdono.
Lei era reale, dopotutto
– purtroppo.
Quando la sua
voce aveva
riempito la grotta, il dio degli inganni aveva pensato che lei fosse
nient’altro che un’illusione. L’ennesimo
trucco, si era messo a ragionare
mentalmente con la voce grave di Odino che aveva imitato per una vita
intera.
Il tono amaro e sarcastico di Padre Tutto si era tramutato nel
contraltare
beffardo della sua coscienza che gli suggeriva – ricordava
– ogni volta con
amaro disincanto la sua posizione di principe ingannato, di reliquia
rubata e
strappata alla morte solo per diventare la marionetta di un popolo di
conquistatori spietati. Odino lo aveva trovato su un picco di ghiaccio
dove sarebbe
dovuto crepare perché troppo debole per essere il vero
figlio di Laufey; la
morte avrebbe dovuto ghermirlo per fame o assideramento, oppure
perché sbranato
da un lupo in cerca di carni tenere. Eccola, la fine orrenda e
solitaria di un
erede indegno, che solo la pietà condita da interessi dello
spietato Odino
aveva evitato: il prezzo di quella scelta erano state le fiamme che
avevano
corroso Asgard fino alle fondamenta, Midgard assediata dai Chitauri, il
Bifrost
infranto. E tutto questo per cosa? Per morire lentamente come un
prigioniero
sconfitto, non come meritava un re o un guerriero. E ora la voce di
Odino – la
sua, di Loki stesso, solo più amara – gli
suggeriva che era la follia a fargli
immaginare che Sigyn fosse venuta ad alleviare i suoi tormenti. Ma
l’odore di
vaniglia ormai era tutto attorno a lui, le sue mani delicate e lisce
applicavano fasce e unguenti con infinita dolcezza e la sua voce
vellutata,
come una nenia, continuava a mormorare quella frase colma di rammarico
che
bruciava più del veleno del serpente. Cosa
ti hanno fatto, amore mio.
Deglutendo, il
dio degli
inganni si era morso le labbra per non risponderle né
parlarle perché se lei
fosse stata un miraggio, di nuovo,
la
sua mente avrebbe definitivamente perso ogni appiglio con la
realtà già sfumata
e con il tempo che non riusciva più a misurare. Ma Sigyn,
stavolta, forse
davvero era reale perché nemmeno lui, il dio degli inganni
in persona, avrebbe
avuto il coraggio di creare col seiðr una copia e metterle in
bocca quelle due
parole assurde e fuori contesto, amore
mio. No, se Sigyn fosse stata un’allucinazione
crudele gli avrebbe detto
ben altre parole. E così quella frase strana era stata la
spia, l’indizio, che
forse l’incubo si era trasformato in realtà, alla
fine. E poi, c’era il resto:
il tono spezzato con cui lei aveva pronunciato quelle poche sillabe.
Loki aveva
letto pietà nella sua voce, commiserazione.
Si sbagliava.
Sigyn lo
amava da sempre, e la nota incrinata che le era sfuggita dalla gola si
chiamava
dolore.
“Non
dovevi tornare,” mormorò
con voce arrochita.
Lei si
fermò. “Sono tua
moglie.”
“Un
vincolo da cui ti ho
sciolto.”
“Lascia
che sia io a
decidere a quale causa votarmi, a chi donare la mia
fedeltà,” lo redarguì
severa e orgogliosa.
“Fedeltà.”
L’Ase rise,
beffardo. “Non avresti dovuto pronunciarla, quella parola. Il
dio del tuono ti
ha chiesto di venire qui. Ora lo so.”
“Non
hai avuto pietà di
me, dio degli inganni, nemmeno per un giorno,” gli
ricordò lei. “Sei ingiusto e
crudele persino ora, qui, incatenato a una roccia con un serpente
orrendo che
ti sputa addosso il suo veleno.” Seguì il silenzio
rotto solo dal gocciare del
veleno nel bacile mezzo pieno. “Avremmo potuto essere
felici.”
Di fronte a
quelle
parole, l’Ase increspò le labbra in una smorfia.
“Ti avrei spezzato il cuore.”
“Lo
hai fatto comunque.
Possibile che tu non te ne renda conto?”
“Perché
sei tornata,
Sigyn? Non ho bisogno, non voglio la tua pietà né
quella di Thor o di Odino.”
“Tuo
padre ti ha
condannato, Loki, è vero: la giustizia di Asgard non poteva
lasciarti impunito,
lo sai.” La voce della dea della fedeltà era
mesta, mentre raccontava. “Ma ogni
sera,” proseguì, “al banchetto,
c’è un posto, alla sua sinistra, che viene
apparecchiato e nessuno osa occupare. Non fu senza dolore che prese
quella
scelta.”
Loki esplose,
furibondo.
Ricordò l’occhio grave di Odino che mal si
accordava con il suo giudizio
implacabile. “Non è mio padre! Guardami! Chi mi ha
incatenato, chi mi ha
condannato? Considera se debba davvero provare
pietà per il dio delle forche che ha scelto per me un
destino così crudele! E
dov’è Thor, dimmi, dolce Sigyn:
dov’è il campione di Asgard, il figlio degno,
il grande erede al trono? Quello che mi chiama fratello e poi gira la
testa
d’altra parte?”
“Ti ha
salvato la vita,
su Midgard e in mille altre battaglie,” soffiò
Sigyn.
Loki aveva il
fiato
corto. “E io l’ho salvata a lui, su Midgard e in
mille altre battaglie.”
“Sta
raccogliendo prove
affinché Odino possa mutare la sua decisione nei tuoi
confronti. Chiederà un
appello,” aggiunse la donna, a disagio.
“Sta?”
Una pausa.
“Stiamo.”
“Il
nobile Thor e la
devota Sigyn.” Dal petto del dio degli inganni
uscì una risata secca e crudele.
“Una notizia del genere andava annunciata come prima cosa,
non estorta. Potrai
finalmente ammirarlo da vicino. Il paragone mi sarà
sfavorevole anche questa
volta, temo,” aggiunse, e poi si morse le labbra
perché era stato ingiusto e
crudele.
La risposta di
Sigyn
giunse dopo un tempo che gli parve infinito. “Una notizia
incerta, una flebile
speranza che stiamo cercando con tutte le nostre forze di rendere
reale.” Sospirò.
“Sei sempre stato così cieco e crudele, Loki di
Asgard.”
Si
alzò per vuotare il
bacile ormai colmo. Il dio degli inganni colse il timore della giovane
donna
nel togliere il salvifico recipiente da sopra la sua testa e strinse i
denti,
cercando si sfoderare quel coraggio tronfio che gli aveva consentito di
ingannare re e principi, dèi e titani. Persino il grande e
possente Thanos si
era lasciato incantare dal suo sorriso sbieco tanto da cedergli
un’armata gigantesca
e, assieme a lei, lo scettro d’incredibile potenza su cui,
forse, splendeva
addirittura una delle Gemme dell’Infinito. Eppure, nonostante
fosse un
guerriero nato per essere re e un mago d’indicibile
abilità, il dio degli
inganni non riuscì a trattenere un singulto spezzato, quando
il veleno tornò a
colargli sul corpo, sul viso. Il dolce profumo di Sigyn si era
allontanato per
lasciare di nuovo il posto al dolore lacerante, tremendo, assoluto,
annichilente. Pulsante. Capace di annientare i pensieri e sconvolgere
la
ragione, spazzare via il tempo e cancellare il confine sottile tra
ciò che era
reale e ciò che, invece, non lo era. Il liquido venefico
corrose una volta di
più la sua carne aggiungendo dolore a dolore,
perché ogni goccia era come fuoco
che gli scavava sentieri di sangue fino a raggiungere i muscoli, le
vene, i
nervi già provati. Gridò e si
divincolò, sopraffatto da quello strazio
indicibile, tentando, per l’ennesima, disperata e ultima
volta, di fuggire dal
supplizio spietato degli Asi e spezzare i ceppi infrangibili che gli
scorticavano
i polsi. Era uno spettacolo miserabile, quello che stava offrendo a
Sigyn?
L’immagine pietosa di un dio sconfitto, piegato, incatenato?
Cosa vedeva, lei? Se
solo il veleno del serpente non gli avesse ferito orrendamente gli
occhi,
avrebbe potuto leggere, sul viso della donna che aveva sposato, il
disagio e il
rancore, la pietà e l’amore. Invece la
udì corrergli incontro e sistemare
rapida e nervosa il bacile sopra la sua testa, sentì la
propria irriconoscibile
voce bisbigliarle di non andare via, non lasciare mai più
che quella bava
urticante gli bruciasse di nuovo il corpo e la faccia. Di nuovo, le
dita di
Sigyn gli carezzarono con dolcezza infinita la pelle lenendo ogni
ferita con
unguenti e bende – anche se non era giusto, non doveva essere
lì, non c’era più
niente tra loro né ci doveva essere. Il cuore
iniziò lentamente a riprendere il
consueto ritmo e la sofferenza abbandonò il suo corpo ancora
teso sulla roccia.
Si ritrovò fiaccato e ansante e, sforzandosi di recuperare
almeno un barlume di
lucidità, si mise a parlare nonostante avesse la bocca
secca. La sua voce
arrochita gli suonò estranea come mai prima.
“Sigyn,
ho sciolto ogni
legame. Con te, con Odino, con Thor. Torna ad Asgard. Non ho bisogno
della tua
pietà.” Ecco cos’era rimasto della
Lingua d’Argento di Asgard: parole
impastate, dette dopo aver deglutito a lungo.
“Non
è pietà,” lo
corresse la donna con forza. “Non lo è mai stata.
Come puoi non capire neanche
adesso? Come hai potuto non capire allora?
Oggi sei ferito e non puoi vedermi: ma prima, Loki? Il dio
dell’inganno,
l’astuto stratega di Asgard…”
“Sigyn…”
“Ti ho
sempre amato. Nel
mio cuore, ti ho sempre amato. E tu lo sapevi e, nonostante questo, hai
fatto
ogni cosa in tuo potere per distruggere tutto. Avremmo potuti essere
felici,”
ripeté lei convinta.
C’era
una punta di
rabbioso rimpianto, nella voce di Sigyn. L’accusa che gli
muoveva era giusta
come tutte quelle che gli erano state rivolte dacché era
ritornato ad Asgard,
solo che l’ipotesi appena sfiorata dalla sua bionda e perduta
moglie aveva in
sé una nota triste impossibile da ignorare persino per il
fiero ingannatore.
Loki
s’inumidì le labbra
in cerca delle parole giuste da dire. “Non mi pento di quello
che ho fatto. Di
niente. Ci saremmo comunque ritrovati così, alla
fine,” ammise freddamente.
“Nemmeno
della lettera ti
sei pentito, amore mio?”
Loki
s’irrigidì di fronte
a quella battuta uscita dalla bocca di lei che bruciava come il sale su
una
ferita ancora aperta. “Cosa vuoi che ti risponda,
Sigyn?”
Lo disse con
lentezza,
volgendo il capo dalla parte opposta a quella dove intuiva ci fosse la
donna.
Il velo grigio ancora non si era diradato dai suoi occhi.
“Desideri di nuovo essere
ingannata?” La frase venne
pronunciata dalle sue labbra beffarde in maniera più cruda
di quanto forse non
volesse, ma ormai era troppo tardi per ricacciarla indietro.
Sigyn
incassò il colpo,
meditò sulla risposta giusta da dare forse mordendosi le
labbra com’era suo
solito – l’ingannatore si accorse di ricordare
ancora ogni dettaglio e
abitudine della ragazzina che aveva sposato solo grazie a un inganno e
questo
lo infastidì. Se solo avesse potuto vederla.
Infine, lei
rispose. Lo fece
continuando a medicarlo con tocchi sicuri, ma la sua voce altera gli
giunse
alle orecchie appena incrinata. “Sei sicuro che si
è trattato di un inganno? O
non è stato, piuttosto, il tentativo, l’ennesimo,
di distruggere ciò che avevi
di più caro, come hai finito per fare con tuo padre, tuo
fratello, la bella
Asgard?”
Loki
deglutì. “Odino non
è mio padre e Thor non è mio fratello,”
puntualizzò.
“Bugia.
Lo sono, lo sono
sempre stati. Ha ragione Frigga; non sei affatto perspicace quando si
tratta di
te. L’ho scoperto a mie spese.”
Non le rispose.
Non poté,
non volle, non riuscì, ma ripensò a tutto, a ogni
cosa. A quella notte, innanzi
tutto, lontana nel tempo e nello spazio eppure scolpita nella sua mente
in
maniera indelebile, l’ultima che avevano trascorso insieme.
Com’era bella,
quella sera. Adesso Sigyn gli era tanto vicina che Loki riusciva ad
avvertire il
suo lieve profumo di miele, ma il suo viso, per le Norne, gli era
ancora
negato: poteva solo ricostruirlo scavando nei ricordi sbiaditi che
aveva
provato ad affogare nel sangue e nel fango dei campi di battaglia
mentre
guidava le armate di Odino prima, quelle meno gloriose di Thanos, poi.
Era
riuscito a seppellire la sua immagine sotto l’ambizione
oscena che gli aveva
fatto accarezzare con dita avide l’Hlidskjalf, il trono di
Odino, il dio delle
forche bugiardo e ingannatore che lo aveva salvato da una morte orrenda
per il
solo gusto di ammirare l’ennesima delle reliquie che aveva
rubato e che
intendeva usare per rendere Asgard ancora più grande. Sotto
tutto questo, il dio
degli inganni aveva nascosto il ricordo di Sigyn, ma ora lei era
lì, al suo
fianco e non era un fantasma nostalgico e impalpabile che non poteva
nemmeno
sfiorare; era viva, presente, maledettamente reale e gli chiedeva conto
della
notte lontana in cui lui le aveva spezzato il cuore.
Com’era
bella, quella sera.
Se solo fosse stata davvero sua. Se solo Sigyn avesse potuto
sopportare,
intuire il peso di quello che le
aveva
fatto e accettarlo, così come era riuscita a guardare oltre
il sarcasmo spesso
bieco, la crudeltà quasi esibita che sfoggiava con altero
disprezzo. Loki non
desiderava essere perdonato: ognuna
delle sue azioni, anche la più meschina, era scaturita da
una precisa volontà
che ricusare a posteriori sarebbe stato vile, ipocrita e indegno del
principe degli
Asi cui spettava il trono, ma il prezzo da pagare per i suoi inganni e
per le
scelte spietate che aveva fatto a testa alta era stato perderla
inevitabilmente, per sempre. Cosa che, alla fine, era avvenuta comunque
e per
cui non si era stupito – anche se il modo, per le Norne,
quello, era stato straziante.
Il punto era che
Sigyn
non gli era mai appartenuta fino in fondo, così come non era
stato davvero suo il
posto alla sinistra di Odino ai banchetti e sulla scala che conduceva
al trono
d’oro degli Asi: come ogni cosa, anche quella si era rivelata
l’ennesima
illusione. Ma se il fiero dio degli inganni aveva tentato con ogni
fibra del
suo essere di pareggiare i conti con l’astuto genitore
adottivo – prova ne era
quell’inenarrabile supplizio cui era costretto –
con Sigyn non c’era stato mai
alcun chiarimento, e lei era rimasta un discorso sospeso che ora
tornava a
tormentarlo proprio mentre scontava la sua pena. Per un ingiusto
contrappasso,
sua moglie incarnava, allo stesso tempo, la salvezza e la perdizione.
Com’era
bella, quella sera.
Come Asgard ricoperta d’oro che non c’era
più. Cercò in fondo alla sua mente
provata dalla prigionia e dal dolore l’immagine evanescente
di lei e di quell’abito
color tempesta che la avvolgeva come un guanto, rivide splendere la
collana di
perle che le aveva messo al collo con un ghigno mentre era seduta allo
specchio. Nel riflesso, aveva osservato Sigyn arrossire e sfiorare il
gioiello
e si era chinato su di lei per accarezzarle con le labbra
l’orecchio e
sussurrarle che la trovava incantevole. Odino fingeva ancora di non
aver deciso
chi dovesse ereditare Asgard, e Loki Lingua d’Argento viveva
nella menzogna perfetta
che Padre Tutto aveva confezionato per lui e per gli Asi tutti. Si
illudeva che
il dio delle forche avrebbe finito per riconoscere la sua sagacia e il
talento
diplomatico che sempre sfoggiava concedendogli quel trono promesso e
offerto in
cambio di una lealtà assoluta – della vita,
persino.
La notte in cui
perse
Sigyn, Loki si crogiolava ancora in una realtà che, di
lì a poco, si sarebbe
sgretolata con tremenda precisione. Lei fu l’inizio, la
prima, profonda crepa
che avrebbe incrinato ogni sua certezza. Ma davvero era
così? Non aveva sempre
saputo dove lo avrebbero portato i suoi piani scellerati? Era ancora
capace di
mentire a se stesso, Loki di Asgard, o di Jotunheim? Quando aveva osato
rendere
l’inganno reale, non aveva forse ventilato
quell’ipotesi – il disprezzo eterno
dell’irraggiungibile dea della fedeltà?