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Autore: AminaMartinelli    21/10/2018    2 recensioni
Il piccolo Sherlock Holmes detesta i compleanni. Ma quest'anno zio Rudy gli porterà un regalo unico al mondo, creato appositamente per lui, il suo nome è W.A.T.S.0.N...
Genere: Introspettivo, Science-fiction | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: John Watson, Mr Holmes, Mrs. Holmes, Mycroft Holmes, Sherlock Holmes
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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FF scritta per l'evento creato dal gruppo "Johnlock is the way...and Freebatch of course!", in occasione del compleanno di Martin Freeman.
Primo Capitolo: Happy birthday

Note a fine pagina.


La casa all’alba era immersa in un silenzio perfetto, una quiete quasi innaturale. Sherlock inspirò profondamente, scendendo il primo gradino della lunga scalinata che portava nell’atrio, beandosi di quella apparente solitudine.
Nonostante avesse solo dieci anni, essere da solo non lo spaventava, giorno o notte che fosse.
Da solo… – pensava – è tutto ciò che ho, mi protegge…”
 
In effetti la condivisione non era il suo forte, o almeno di questo si era convinto durante i penosi tentativi di frequentare una scuola. La sua mente, troppo grande per il suo giovane corpo, prendeva spesso il sopravvento gettando nella confusione più devastante i suoi coetanei che reagivano insultandolo ed emarginandolo.
Alla fine aveva imparato: bastava non lasciarsi “raggiungere”, isolarsi, fingere che gli altri non esistessero e rinchiudersi in un luogo tutto suo, dentro la sua testa, un labirintico palazzo pieno delle scintillanti tracce di tutto ciò che riteneva interessante o importante. Lì dentro, da solo, bastava a se stesso, seguiva la scia di questo o quel ricordo e costruiva mappe mentali, elaborando infiniti percorsi fatti di nomi, immagini, suoni. 

Suoni. Come quello del violino…aveva iniziato quasi per gioco, senza convinzione, del resto aveva solo cinque anni, all’epoca. Ma aveva immediatamente capito che quel piccolo scrigno, realizzato unendo sapientemente acero, abete, ciliegio, ebano, era molto di più di uno strumento musicale. Sentì fin da subito di aver stabilito una connessione che andava oltre ogni previsione, molto oltre il produrre suoni.

Ne ebbe la conferma quando gli spiegarono che le due parti principali sono collegate tra loro da una sezione detta anima (**) e che “il posizionamento corretto dell'anima è fondamentale per ottenere la migliore qualità sonora ed il giusto equilibro fra le quattro corde”. Erano nozioni tecniche, ma nella sua mente di bambino risuonarono come un segno di ciò che quel violino, e la musica che ne sarebbe nata, avrebbero significato per lui.
Fra la musica, i viaggi nel suo palazzo mentale e la recente passione per gli esperimenti di chimica, Sherlock non sentiva affatto la mancanza della compagnia di altri bambini, anzi.  Il giorno più felice della sua vita fu quando i suoi genitori, con loro grande costernazione, si videro costretti ad accettare il consiglio dello zio Rudy di ritirarlo dalla scuola ed affidare la sua istruzione ad un istitutore.
 
Lo zio Rudy è l’unico che mi capisce – pensava quella mattina mentre scendeva le scale in punta di piedi – speriamo arrivi presto!
Raggiunto il salotto si avvolse meglio nella vestaglia blu e si accoccolò nella sua poltrona preferita, accanto al camino, quella che, nelle serate in cui mamma, papà e Mycroft erano a teatro, lo zio sceglieva per sedersi a raccontargli affascinanti storie di pirati.
 
“Pensi che riuscirò a diventare un grande pirata?”, chiedeva tutte le volte, subito prima di addormentarsi, la testa piena di riccioli poggiata sulla spalla dello zio.
“Diventerai qualunque cosa vorrai diventare, piccolo mio, e qualunque cosa sarà, di certo lo farai al meglio”, gli sussurrava in risposta benché lo sapesse già nel mondo dei sogni.
 
Un raggio di sole si fece spazio tra le pesanti tende e Sherlock si incantò ad ammirare la tindalica danza di milioni di infinitesimali particelle di polvere nella lama di luce che fendeva l’aria. Sarebbe potuto restare lì l’intera giornata, perso nell’osservazione di come la luce cambiava, si spostava, assumendo colori ed intensità sempre diversi. Ma purtroppo oggi proprio non gli sarebbe stato possibile. Proprio oggi no. Perché oggi era uno dei giorni dell’anno che detestava di più: il suo compleanno.

Anche questo era stato motivo di scherno da parte dei suoi compagni di scuola. In nessuno di quei piccoli cervelli vuoti balenava la possibilità che qualcuno odiasse il giorno del proprio compleanno. ‘Chiunque ama essere festeggiato’ gli ripetevano. Già. Solo che lui non era “chiunque”. Per lui compleanno significava genitori immotivatamente euforici, parenti vocianti sparsi per la casa, pachidermiche zie che tentavano di strappargli le guance o le orecchie, una torta di cui Mycroft avrebbe mangiato anche la sua parte, perché a Sherlock quella montagna di panna proprio non piaceva.

Ma la vera nota dolente erano i regali. Mai una volta che gli chiedessero cosa avrebbe desiderato ricevere. Mai. Così si ritrovava a scartare pacchetti di cui aveva già intuito il contenuto, sapendo quindi in anticipo che vi avrebbe trovato i soliti giocattoli con cui non avrebbe mai giocato o, peggio ancora, i più svariati capi di abbigliamento da “bambino elegante” che si sarebbe sempre rifiutato caparbiamente di indossare. Inoltre, come se non bastasse, era anche costretto a ringraziare sotto lo sguardo severo della mamma che gli intimava silenziosamente di “metterci un po’ di entusiasmo”.

Stava cominciando a deprimersi, pensando a ciò che lo aspettava, così per distrarsi cominciò a ripassare la tavola periodica degli elementi ma fu interrotto dal rumore della chiave nella serratura. Chi poteva essere a quell’ora? Era convinto che tutti dormissero…
Si rannicchiò il più possibile sperando di non essere notato, ma quando riconobbe la figura che comparve sulla soglia ogni suo desiderio di invisibilità si dissipò.
“Zio Rudy!”
Saltò su dalla poltrona e in un solo balzo lo raggiunse, saltandogli in braccio. Mycroft, che seguiva lo zio, dovette spostarsi di lato per evitare che Rudy lo calpestasse nel tentativo di mantenere l’equilibrio sotto la spinta dell’entusiastico benvenuto.
“Hey, bucaniere! Che fai già sveglio a quest’ora?”
“Training autogeno per dimenticare che giorno è oggi” rispose mestamente Mycroft al suo posto togliendosi il cappotto “Del resto, lo capisco benissimo”
A Sherlock dava terribilmente fastidio dover dare ragione a suo fratello, ma non poté negare che quella era effettivamente una giornata che avrebbe tanto voluto cancellare, così si limitò ad annuire per rispondere all’occhiata interrogativa dello zio.
Rudy lo fece volteggiare in aria, poi proclamò:
“Scommetto che questo compleanno ti piacerà! Parola di corsaro!”
“Giurate sul vostro onore?” chiese solennemente il piccolo pirata.
“Sul mio onore!” esclamò serio lo zio “Dovessi dar fondo alla mia ricchezza!” (***)
In disparte, Mycroft li guardava con tenerezza e malinconia…pur avendo solo diciassette anni era ormai abituato a comportarsi come un adulto e, soprattutto, non ricordava di essere mai stato bambino.
 
Quando Siger e Violet si alzarono trovarono zio e nipoti che facevano colazione in cucina.
“Rudolph! Sei già qui!”
Sherlock alzò gli occhi al cielo per l’ovvietà di quella affermazione, ma un’occhiata di suo fratello lo bloccò proprio mentre stava per farla notare a Violet. Il bambino sbuffò sonoramente ed incrociò le braccia, imbronciato, perché per la seconda volta in meno di un’ora quell’antipatico di Mycroft era nel giusto: far innervosire la mamma non era mai una buona idea, figuriamoci in una giornata che già si prospettava pesante per i due fratelli.
 
La signora Holmes-Adams adorava suo fratello maggiore: quell’omone sempre sorridente poteva sembrare una persona comune ma non lo era affatto.
Di un’intelligenza di molto superiore alla media (erano tutti molto intelligenti, in famiglia, lei stessa lo era, per non parlare dei suoi figli), si era sempre occupato degli affari di famiglia e lei gli aveva volentieri affidato la gestione di ogni problema delicato e complesso che si erano trovati ad affrontare, come i problemi relazionali del suo secondogenito. Il buon carattere, una innata cortesia e uno spiccato senso della diplomazia gli avevano permesso una brillante carriera nel governo inglese, anche in virtù delle sue numerose lauree. Col tempo aveva preso sotto la sua ala protettiva sia Mycroft che Sherlock e i due ragazzi ne stavano sicuramente beneficiando, anche i rapporti fra loro erano meno tesi da quando Rudy era diventato il loro intermediario, una sorta di interprete che permetteva loro di capirsi nonostante parlassero chiaramente due lingue diverse.
 
Per fortuna, a vendicare l’amore di Sherlock per la precisione pensò lo stesso Rudy:
“Come puoi vedere tu stessa, Vy. Ero impaziente di essere qui con voi ed ho anticipato la partenza”
La donna rabbrividì a quel diminutivo:
“Per favore, caro, potresti evitare di chiamarmi Vy?”
“Volentieri, sorellina: quando tu smetterai di chiamarmi Rudolph”, replicò sorridendo sotto i baffi e rivolgendo uno sguardo ammiccante ai suoi nipoti, che soffocarono una risata nei tovaglioli.
Sentendo un suono divertito provenire da Siger, che era rimasto alle sue spalle, Violet decise di troncare subito quelle scaramucce che stavano divertendo l’intera famiglia, c’erano cose ben più importanti, da fare: la festa per Sherlock non si sarebbe certo preparata da sola e il resto dei parenti sarebbe arrivato fra meno di sette ore, un tempo appena sufficiente per far sì che tutto fosse impeccabile.
Si sedettero anche loro per fare colazione e cominciarono a parlare degli ultimi viaggi di Rudy, “le mirabolanti avventure di Rudolph George Scott Adams”, come le definiva Violet, guadagnandosi ogni volta un’occhiata truce del piccolo Sherlock che non tollerava si scherzasse sul suo adorato zio.
 
La mattinata passò velocemente. Mentre la signora Adams-Holmes si occupava di distribuire ordini alla servitù e Rudy discuteva di politica con Mycroft tentando inutilmente di coinvolgere Siger, la cui unica preoccupazione era l’escalation di violenza che stava caratterizzando The Troubles (****) e che non gli faceva presagire nulla di buono, Sherlock ne approfittò per eclissarsi nel capanno degli attrezzi dove aveva installato il suo piccolo laboratorio chimico, per dedicarsi agli ultimi esperimenti prima di essere richiamato all’ordine dalla mamma per sedersi a tavola per il pranzo. 

Quando il piccolo pirata-scienziato entrò in casa i grandi stavano ancora affannandosi intorno a quegli stupidi argomenti che non lo interessavano affatto, voleva ignorarli ma sentì la nota di preoccupazione nella voce del suo papà e cercò di capire cosa lo turbasse tanto.

In effetti Siger era davvero in ansia per il conflitto nordirlandese e gli sviluppi che intuiva prossimi. La sua famiglia era sparsa un po’ in tutto il territorio nord-orientale dell’Inghilterra, ma una cospicua parte era divisa tra Belfast, la contea di Laois e la contea di Westmeath. Gli scontri in atto e quelli che si sarebbero sicuramente svolti nei mesi a venire coinvolgevano, seppur indirettamente, cugini e nipoti che gli stavano molto a cuore e il fatto che il suo ramo della famiglia fosse ormai inglese da generazioni non mitigava il dolore di vedere loro in balia di tristi vicissitudini e pericolose circostanze, per non parlare della devastante esperienza di essere divisi da confini che erano reali solo nelle menti di chi voleva e sosteneva quel conflitto per motivi tutt’altro che nobili.

Sherlock si sentiva del tutto estraneo a quei ragionamenti, davvero non capiva come si potesse fare guerra ad altre persone per denaro o potere. Erano motivi futili, irrilevanti, niente a che vedere con la scienza o la lealtà ad una causa…quelle poteva capirle, tutto il resto gli sfuggiva completamente. Era però ben consapevole della nota di sofferenza nella voce di suo padre e questo lo destabilizzava. Suo papà era sempre così tranquillo e gentile, sempre accomodante con sua moglie e le sciocchezze a cui teneva, sempre disposto a fare qualunque cosa servisse a mantenere la pace e l’armonia in famiglia. Tanto che persino Sherlock stesso si asteneva dal manifestare la sua animosità nei confronti di Mycroft, quando Siger era presente o se sapeva che ne sarebbe venuto a conoscenza, proprio per non ferirlo e non fargli pensare che i suoi costanti tentativi di mantenere un clima disteso fossero una fatica inutile.

Per tentare di gestire il disagio che provava sgattaiolò velocemente dietro i divani su cui erano seduti i tre e si diresse in camera sua per cambiarsi. Detestava doverlo fare, ma sapeva che Violet glielo avrebbe imposto, quindi aveva saggiamente deciso di prevenirla. Indossò con tutta la calma possibile il completo che sua madre gli aveva già fatto preparare, sistemato accuratamente sul letto. Per fortuna almeno a lui era risparmiata la cravatta, mentre Mycroft avrebbe dovuto indossarla, ma questo privilegio infantile non sarebbe durato ancora per molto: allo scoccare dei dodici anni quel setoso ed apparentemente innocuo strumento di tortura sarebbe toccato anche a lui.

Si guardò allo specchio da diverse angolazioni e dovette suo malgrado ammettere che il completo blu gli donava, anche se lui ne avrebbe preferito uno nero. Dopo un ultimo sguardo alla sua esile figura riflessa nella vitrea freddezza dell’anta del suo armadio si decise a scendere in sala da pranzo dove sicuramente tutti lo stavano già aspettando.

“Finalmente, William!”, non c’era verso che Violet non gli facesse pesare ogni piccola défaillance, ogni stupida mancanza. La guardò con malcelato risentimento poi passò oltre e si sedette al suo posto a tavola. La voce di Rudy giunse come sempre in suo soccorso esclamando “Sei elegantissimo, Sherlock!”, ma questa volta vi si aggiunse quella di Mycroft:
“Mamma, ti prego…”
Gli occhi cerulei di Violet si posarono in quelli grigio-azzurri del figlio maggiore, nel tentativo di far valere la sua autorità, ma li distolse quasi subito accusando il colpo: stavolta quello con più autorità era lui e il rimprovero che aveva nello sguardo non aveva nulla di supplichevole, contrariamente alla voce.

Fortunatamente Siger, che aveva ripreso la sua abituale giovialità, dirottò la conversazione su argomenti più leggeri, salvando così l’atmosfera del convivio familiare e l’umore di Sherlock che si impegnò con lo zio in un fitto scambio di opinioni sull’apicoltura, altra nascente passione del bambino.
Subito dopo il pranzo ognuno si eclissò nella propria camera, tranne Violet che si impegnò con la servitù a dare alla casa gli ultimi tocchi di classe per renderla perfetta per la festa e soprattutto per l’impietoso giudizio delle invitate.

Sherlock si era disteso sul letto a leggere l’ultimo libro sui pirati che Siger gli aveva portato da Londra, attento a non sgualcire il completo che indossava, in attesa dell’inizio della fastidiosa kermesse apparentemente organizzata in suo onore, ma in definitiva ad esclusivo beneficio dell’amor proprio di sua madre.
Aveva quasi dimenticato il trascorrere del tempo e l’odioso impegno che lo attendeva, quando sentì bussare alla porta e, subito dopo, la voce di suo fratello che lo avvertiva che la pausa era terminata: i primi ospiti stavano arrivando e la festa stava per cominciare.

Il bambino emise un sospiro sconsolato rispondendo “Arrivo” e scese dal letto con l’entusiasmo di un condannato a morte chiamato per raggiungere la sala dell’impiccagione. Rivolse uno sguardo serio alla sua immagine nello specchio, si aggiustò la giacca tirandone giù i lembi, raddrizzò le spalle e sussurrò “Alla guerra”, poi aprì la porta con un gesto deciso e si avviò al piano di sotto.

A metà scala la determinazione con cui aveva affrontato i primi gradini lo abbandonò di colpo appena le voci di sua madre e degli invitati già arrivati lo raggiunsero. Ebbe l’impulso di risalire a tutta velocità verso la sua camera per poi calarsi dalla finestra e scappare più lontano possibile, ma ovviamente si trattenne lasciando che fosse il buon senso a prevalere e caracollò giù dagli ultimi scalini per poi affacciarsi timidamente nel salone.

“Ecco il festeggiato!”, l’urlo di sua madre gli ferì le orecchie. Un rinnovato impulso di fuggire lo assalì e probabilmente stavolta avrebbe ceduto, ma Rudy gli si affiancò e la sua grande mano protettiva gli strinse affettuosamente una spalla. Sherlock sollevò la testa cercando conforto nel viso dello zio, che gli fece un sorriso d’intesa e l’occhiolino. Il bambino ricordò la promessa che l’uomo gli aveva fatto al suo arrivo e si rasserenò: in fin dei conti poteva permettersi di sperare che la festa non fosse un totale disastro, perché zio Rudy non gli avrebbe mai mentito né si sarebbe mai sognato di deluderlo.

Violet lo raggiunse e lo strappò all’abbraccio dello zio, trascinandolo al centro del salone, dove la tortura cominciò.
Come da copione gli invitati, soprattutto le signore, lo trattarono come un bambolotto, sotto lo sguardo compiaciuto di Violet, e le occhiate compassionevoli di Siger e Rudy…persino Mycroft provava pena per il fratellino in balia di quelle pazze.

La festa proseguì senza problemi. Sherlock si sottopose con più rassegnazione del solito ai rituali predefiniti, grazie al pensiero costante della promessa dello zio. Sopportò con stoica determinazione gli auguri, le domande, le sciocche constatazioni di quanto fosse cresciuto, fino ad arrivare al fatidico momento della torta con il soffio delle candeline, gli auguri stonati, le risate e gli applausi. Superò senza lamentarsi persino l’apertura dei regali, non provò nemmeno a dedurre il contenuto dei pacchetti e non alzò gli occhi al cielo neanche una volta. Sentiva su di sé lo sguardo di Rudy, carico di affettuoso orgoglio, ed era certo che anche suo papà e Mycroft si stavano silenziosamente complimentando con lui.

Quando i festeggiamenti terminarono e anche l’ultimo ospite lasciò la casa, Sherlock si sentiva come un sopravvissuto al naufragio del Titanic. Era esausto e avrebbe volentieri dormito ma non si era sottoposto a tutto quel bailamme per niente: il regalo dello zio Rudy lo aspettava nella rimessa e lui si stava già precipitando fuori prima che sua madre potesse trovare una qualsiasi scusa per bloccarlo.

Vide lo zio sulla porta della rimessa e gli corse incontro. La curiosità lo stava divorando: quale regalo poteva essere così grande da doverlo aprire fuori casa? E perché Rudy aveva aspettato che la festa finisse per consegnarglielo? Il bambino aveva provato per ore a pensarci, a mettere insieme gli indizi e a trarre conclusioni, ma la confusione dei festeggiamenti lo aveva stordito così tanto da impedirglielo ed ora stava letteralmente morendo dal desiderio di scoprire di cosa si trattasse.

Al centro del grande spazio, originariamente destinato alle canoe da competizione, c’era una cassa in legno da spedizioni con “fragile” scritto in rosso su ogni lato. Il bambino la fissava, con nella mente un turbine di pensieri e nello stomaco uno sfarfallio simile a quello che provava in attesa dei risultati di un esperimento di chimica, ma molto più forte. Non osò avvicinarsi mentre lo zio cominciava ad armeggiare col levachiodi per togliere la parete anteriore della cassa e rimase ad osservare quelle manovre, ipnotizzato.

La mole di Rudy nascondeva quasi completamente il pur grande involucro, quindi Sherlock capì che l’operazione era terminata solo quando lo zio rimosse la parete e la posò a terra. Lo vide chinarsi verso l’interno del contenitore, come per controllare chissà cosa, poi la voce potente di Rudy lo riscosse da quella sorta di trance.
“Ecco fatto. Avvicinati, dai, così mi dici che ne pensi”
Sherlock percorse lentamente i pochi metri che lo separavano dallo zio, il quale si girò verso di lui quindi fece un passo di lato rivelando il contenuto di quell’insolito pacco regalo.

Gli occhi del bambino si spalancarono, una espressione di incredulità e stupore gli si dipinse sul volto: in piedi, dentro la cassa, c’era un ragazzino! Per un attimo Sherlock pensò di stare sognando. Non poteva essere vero, non aveva alcun senso. Quello non poteva essere un essere umano, eppure lo sembrava in tutto e per tutto. Era alto circa quanto Sherlock, biondo, dall’aspetto sano e robusto, indossava un paio di pantaloni grigi e un maglione bianco di lana intrecciata, apparentemente lavorata a mano, come quelli che la cuoca faceva ogni inverno per i suoi figli. Teneva gli occhi chiusi ed aveva un’espressione distesa e serena, come se dormisse.

Il piccolo Holmes inclinò la testa di lato, cercando di capire cosa stesse succedendo, poi, senza riuscire a proferire parola, alzò gli occhi verso lo zio che lo aveva affiancato. Rudy ricambiò lo sguardo, sorridendo, poi stese un braccio e dichiarò:
“Ti presento W.A.T.S.0.N(*), il primo ed unico automa assemblato e programmato per avere l’aspetto e il comportamento di un ragazzo di circa tredici anni”
La bocca del bambino si spalancò senza che lui riuscisse ad emettere suoni. Si girò di nuovo a guardare il suo regalo battendo ripetutamente le palpebre, mentre il suo straordinario cervello elaborava rapidamente la situazione. Una vocina giunse dal suo palazzo mentale protestando per la scarsità di dati, reclamando più input, ma Sherlock decise di non ascoltarla: sorrise e fece un passo in avanti mentre chiedeva l’unica cosa che in quel momento gli interessava…
“Come – si accende?”

Rudy emise un sospiro di sollievo e si complimentò con se stesso: conosceva bene suo nipote, quindi sapeva quanto poco le sue reazioni fossero prevedibili, ma era certo di suscitare la sua curiosità con qualcosa così fuori dall’ordinario.
“Basta esercitare una lieve pressione alla base della nuca”
Sherlock non se lo fece ripetere: si avvicinò di lato all’automa, poi sollevò la mano sinistra per compiere la manovra di accensione, senza staccare gli occhi da quel volto di ragazzo tanto mirabilmente riprodotto da sembrare vivo. Appena le dita sfiorarono il punto indicato, le palpebre dell’automa si sollevarono rivelando un paio di iridi di un blu profondo, di una tonalità che Sherlock non aveva mai visto. Si sentiva sospeso in un’atmosfera irreale.

La voce dello zio lo riportò alla realtà.
“Buonasera W.A.T.S.0.N, il ragazzo che vedi accanto a te è William Sherlock Scott Holmes e tu sei stato programmato per essere suo amico”
Il piccolo cyborg volse la testa verso destra e sorrise:
“Buonasera William Sherlock Scott Holmes”
Il bambino, come sempre, trovò orribili i suoi nomi, anche pronunciati dalla bella voce assegnata a W.A.T.S.0.N:
“Solo Sherlock per favore”
L’automa inclinò la testa di lato, continuando a sorridere:
“Buonasera, Sherlock Per Favore”
Rudy scoppiò a ridere, Sherlock si coprì il viso con una mano, in un gesto a metà tra il divertito e lo sconfortato, e i complessi circuiti che costituivano la mente di W.A.T.S.0.N processarono la sua prima nuova informazione: gli umani sono strani. 

“Modalità stand-by”, disse Rudy, e l’automa tornò a guardare davanti a sé ma dal suo viso scomparve ogni espressione.
“È la modalità in cui è acceso ma non riceve input e non interagisce – continuò – così posso spiegarti come funziona”
Sherlock annuì, serio e silenzioso, e lo zio cominciò a fornirgli le informazioni necessarie a gestire e far funzionare al meglio la meraviglia tecnologica che gli aveva regalato.

Era quasi ora di cena quando tornarono verso casa, seguiti da W.A.T.S.0.N.
Lo zio aveva spiegato a Sherlock che il piccolo automa sarebbe potuto restare nella rimessa, ma il bambino rifiutava l’idea di trattarlo come un oggetto ed aveva insistito per farlo stare nella sua camera, così Rudy aveva fatto in modo di convincere Violet a riportare nella camera di Sherlock il vecchio letto a castello in cui per circa sei anni avevano dormito i due fratelli Holmes.

Durante la cena il cyborg restò seduto nella poltrona tanto amata da Sherlock, poi venne acceso solo per mostrare al resto della famiglia alcune delle cose che sapeva fare. Dopo pochi minuti Mycroft mostrò il suo totale disinteresse con uno sbadiglio che non si preoccupò di nascondere, nonostante la sua educazione quasi vittoriana. L’automa lo fissò per qualche istante poi lo imitò con una naturalezza che divertì tutti, tranne Mycroft stesso.

Sherlock lo guardò sorridendo e gli disse:
“Ho trovato il tuo nome: ti chiamerò Jawn”
Il piccolo automa ricambiò il sorriso e rispose:
“John”
“No, non John: Jawn”
W.A.T.S.0.N annuì e ripeté:
“John”
Sherlock sbuffò:
“Oh, e va bene: John”
Mycroft ridacchiò, apostrofando il fratello:
“Mhm, sembra che tu abbia trovato chi ti tiene testa!”
Sherlock lo guardò storto e replicò:
“Non essere assurdo, Fatcroft”
Il ragazzo si rabbuiò e andò in camera sua. Siger si avvicinò a Sherlock e gli sussurrò:
“Non dovresti usare quel nomignolo, lo sai quanto ci rimane male…”
Sherlock fece spallucce con apparente indifferenza, ma non volendo contrariare suo padre mormorò:
“Scusa, papà”
Poi prese l’automa per mano e si avviò per uscire dalla stanza.
“Vieni, John, ti mostro la nostra camera. Buonanotte a tutti!” e si precipitò veloce su per le scale trascinandosi dietro il suo nuovo amico.
 

(*)[W.A.T.S. 0.N (War Assessed Training Specimen (vers.) 0.N = esemplare addestrato alla guerra (versione) 0.N)
(**) un listello cilindrico di abete di circa 6 mm di diametro posto all'interno della cassa armonica, incastrato (non incollato) fra tavola e fondo in una precisa posizione; serve a trasmettere le vibrazioni al fondo dello strumento e a distribuire sul fondo la pressione impressa dalle corde.

(***) “Il giuramento del Corsaro Nero” – E. Salgari

(****) Il conflitto nordirlandese, conosciuto in inglese come The Troubles (termine eufemisticamente traducibile come "I disordini"), è il nome con cui si indica la cosiddetta "guerra a bassa intensità" che si è svolta tra la fine degli anni sessanta e la fine degli anni novanta del XX secolo in Irlanda del Nord e i cui effetti si sono allargati anche all'Inghilterra e alla Repubblica d'Irlanda e che ha causato oltre 3000 morti.





 
   
 
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