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Autore: MaryMatrix    23/10/2018    4 recensioni
La contessa Ottavia deve convolare a nozze con lo sconosciuto duca che vive nella tenuta vicino alla sua. Orgogliosa, testarda e del tutto contraria a questa imposizione, inizia uno sciopero della fame.
Proprio nelle cucine, durante una delle sue incursioni notturne, incontra uno stalliere tanto attraente quanto irriverente che soffre di insonnia.
Tra confidenze, tenerezze, marmellate, fughe e improperi contro il povero duca Maurizio Fabrizio, Ottavia dovrà fare i conti col giorno delle nozze...
I classificata al contest “Fammi battere il cuore" indetto da Iamamorgenstern sul forum di EFP
Genere: Commedia, Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
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MAURIZIO FABRIZIO

La giornata era cominciata con la melodia gioiosa delle campane che suonavano a festa.   
Tra i dindondii e le risate delle persone quello era un grande giorno per tutta la tenuta: la figlia del conte finalmente si sarebbe maritata con il duca della tenuta vicina e il matrimonio avrebbe portato giorni di gaudio, giorni di riposo e, soprattutto, molto denaro e terre in più che avrebbero fatto aumentare gli stipendi, riempito le pance e migliorato lo stile di vita.

La Cappella delle tenuta era stata addobbata con i fiori più belli, le stoffe più pregiate e le candele più profumate, il tutto nelle diverse sfumature del bianco. Persino gli angeli e i Santi degli affreschi, quel giorno, sembravano rivolgere sguardi più benigni verso la platea.

In mezzo alla navata era steso un lungo tappeto color crema tempestato di petali di rosa rossa.        
Lo sposo, che pareva ansioso, stava impettito davanti all’altare: era davvero un bell’uomo, con le spalle larghe, i lineamenti del volto decisi e squadrati e degli incredibili occhi azzurri, con lo strano scintillio infantile di chi sta per commettere una marachella.         
Il prete, davanti a lui, era stempiato e indossava la sua tunica più elegante: anche lui guardava con ansia il portone aperto, in una tesa attesa della futura sposa.

Il punto era proprio quello: ella non aveva manifestato alcuna volontà di essere la sposa e nessuno dei presenti si sarebbe stupito di non vederla apparire.

La Contessa Ottavia era infatti una giovane donna educata e colta, ma con tanti grilli per la testa che la spingevano a voler abbandonare la tenuta per approdare, letteralmente, su altri lidi sconosciuti.

Il primo giorno, quando aveva scoperto di essere promessa al vicino mai conosciuto, non l’aveva presa molto bene: era orgogliosa, Ottavia, e pur sapendo che quel momento sarebbe arrivato faticava non poco ad accettare una simile imposizione sulla sua vita privata. Litigò con i genitori e uscì dallo studiolo della madre in modo ben poco aristocratico: sbatacchiando la porta.

Il secondo giorno rimase serrata in camera, senza nemmeno degnarsi di rispondere a chi era tanto impavido da provare a bussare. Al calare del sole sferrò con energia un ben poco signorile pugno al suo cuscino, in preda alla frustrazione: una giornata sprecata! Ancora non conosceva il suo futuro marito e già le faceva perdere tempo.

Il terzo giorno si decise a uscire ma, per protesta, iniziò uno sciopero della fame.   
Il quarto giorno il suo stomaco protestò.  
Il quinto giorno sua madre prese provvedimenti e Ottavia, ignara delle machiavelliche macchinazioni materne, si intrufolò in cucina all’alba per sgraffignare qualcosa. Si stava giusto intascando dei salumi saporiti quando fu sorpresa da lui, che si presentò come un innocuo stalliere.

“Ma voi non puzzate”, osservò lei, squadrandolo da capo a piedi.             
“E voi non siete molto gentile”, replicò l’uomo, fingendosi offeso. “E agite come una ladra”.

Ottavia rispose piccata a quell’accusa.

“Io sono la contessa! Queste sono cose mie!”            
“Dunque perché faticare per scendere fino a qui e prenderle all’alba in modo furtivo e non chiamare una domestica per farsele portare?”         
“Perché ho fame”.       
“A quest’ora?”             
“Sto facendo uno sciopero”.  
“Ah!” lo stalliere la guardò poco convinto. “Non vi sta riuscendo molto bene”.

Ottavia lo fulminò con lo sguardo. Ma come si permetteva, uno stalliere, di metterla in difficoltà?

“È l’apparenza che conta, per ottenere il risultato”, sentenziò saccente, continuando a prendere cibo. “Ma che cosa ne vuole sapere uno stalliere di certe tattiche sottili?”             
“Meno sottili del vostro giro vita, se mangerete davvero tutta quella roba”, la provocò lui.

Ottavia spalancò gli occhi, incredula.          
Le sue orecchie avevano udito bene? Non era un fuscello, lo sapeva, ma quello zotico stava forse insinuando che la sua padrona fosse grassa e brutta? Alzò lentamente lo sguardo su di lui, incerta se infierirgli una punizione adeguata alla sua sfacciataggine oppure se cercare di metterlo in imbarazzo a sua volta.     
Sarà stato il bisogno di parlare con qualcuno, sarà stata la bellezza dello stalliere, sarà stato che Ottavia sentiva di avere una reputazione da mantenere ma finì col decidere di proseguire quella strana conversazione.

“Voi piuttosto! Non vi facciamo lavorare a sufficienza, se a quest’ora avete ancora le forze per bighellonare in giro.”    
“Mi sveglio piuttosto presto.”            
“Nessuno si sveglia a quest’ora.”      
“Non riesco a dormire”, ammise infine.       
“Umpf!”

Ottavia aveva emesso quel verso non per un motivo particolare, solo per darsi un tono e per fargli intendere che a lei, del motivo per cui un servo non riuscisse a prendere sonno, non gliene importava un granché.

“Bene stalliere!” terminò di raccogliere le proprie cose. “Addio!”

Ancora offesa per essere stata sorpresa a trafugare cibo dalle cucine, Ottavia uscì infine facendo oscillare la lunga vestaglia da notte in una maniera che voleva essere altezzosa ma che risultò piuttosto buffa e goffa e all’alba di quel sesto giorno lo stalliere rise di cuore.

 

Da quel momento Ottavia cessò di contare i giorni e iniziò a contare le notti.

Non tutte.

Solo quelle che si erano scavate un posto dentro di lei…

 

Quando Ottavia ritrovò lo stalliere nelle cucine, la notte successiva, rimase incantata a guardarlo: sarà stato un grande maleducato, ma era proprio bello.

“Oh insomma!” si lamentò uscendo allo scoperto. “Prendetevi degli infusi, una buona volta!”      
“E voi potreste ricominciare a mangiare a orari normali”, suggerì lo stalliere, con calma.  
“E voi potreste vagabondare altrove!”         
“Mi piace vederti abbuffare”, commentò ironico.   
“Vi prendete troppe libertà per uno stalliere, vi avverto!” lo minacciò la contessa, stizzita.      
“Voi invece me ne lasciate prendere troppe per pensare davvero che la mia compagnia vi sia sgradita.”
Ottavia afferrò solo qualche pezzo di pane in fretta e furia, per poi uscire.             
“Andate al diavolo!” fu il suo saluto.

 

…e quelle in cui, da sola in cucina, pensava che in fondo la compagnia di qualcuno non fosse poi così male.  
Contava anche quelle in cui lo stalliere ritornava.

 

“Ammettilo, ti sono mancato”, sorrise sornione.    
Si davano ormai del tu.         
“Per nulla! Ho goduto di una pace sacrosanta.”     
“Allora forse dovrei uscire a fare una passeggiata, concilia il sonno.”     
“Aspetta!” lo fermò lei appena lui le voltò le spalle.
“Sì?” lo stalliere si girò di nuovo verso di lei.           
Ottavia si guardò intorno, spaesata, finché la credenza non le diede l’illuminazione, il pretesto che cercava.        
“Mi serve l’olio!” esclamò. “È troppo in alto. Non ci arrivo!” indicò lo scaffale galeotto.        
Lo stalliere sorrise, scotendo la testa e obbedendo a quella richiesta.       
“A cosa ti serve l’olio, di grazia?”     
“A metterlo sul pane”, rispose lei col tono di chi spiega l’ovvio.     
“Non è un pasto un po’ troppo umile per te?”
“Non è per me. È per te. Scommetto che non dormi perché non mangi abbastanza. Sei asciutto come un lenzuolo al sole.”             
“Io non sono asciutto! Io sono muscoloso!” quella volta fu lui a essere ferito nella vanità.  
“Non hai il diritto di offenderti, mi hai detto che sono brutta al nostro primo incontro.”        
“Non è affatto vero”, ribatté lui, sedendosi accanto a lei. “Ho detto che non sei magra, è ben diverso. A me piacciono le donne un po’ in carne”.          
“Oh, ora che so di compiacere lo stalliere sono soddisfatta.”          
Lui fece spallucce poi le regalò una smorfia furba.
“Un giorno forse sarai felice di piacermi, chissà.” 
“Sogna pure, stalliere”, lo incoraggiò lei, mentre gli preparava la fetta di pane. “Ma fallo a stomaco pieno”.

 

Ci furono anche notti in cui imparavano qualcosa l’uno dell’altra…

 

“Non ti ho mai visto alle stalle”, osservò lei.

Come poteva non aver mai notato una folta chioma castana così bella? Aveva dei capelli straordinariamente curati per essere solo un servo.

“Non sapevo frequentassi le stalle.”
“Non le frequento, infatti.”    
“Ed ecco il perché non mi hai mai visto.”     
“Piantala di rigirare tutto ciò che dico!”      
Lo stalliere rise.          
“Ma è così semplice, con te.” 
Ottavia si portò una mano alle tempie.        
“Non so se ritenermi maggiormente indignata per il tuo continuo canzonarmi o per la velata accusa di ignorare la servitù.”            
“Va bene, ammettiamo che tu conosca la servitù. Come si chiama la ragazza che ti rifà il letto ogni mattina?”

Ottavia aprì la bocca per rispondere, ma non ne uscì alcun suono.

“Aspetti che entri dentro una mosca?”         
“Isotta!” rispose lei con convinzione, sentendo già la vittoria in pugno. “Si chiama Isotta!”           
“Si chiama Agata”, fu la sconcertante rivelazione dello stalliere. 
“Beh…” Ottavia doveva a tutti i costi trovare una via d’uscita. “Isotta è il secondo nome! Si chiama Agata Isotta!”     
Lo stalliere sospirò, paziente.            
“Tu non vuoi mai ammettere di avere torto, vero?”             
“Io non ho mai torto. Io sono la contessa di queste terre e ciò che dico è un ordine. Se dico che lei si chiama Agata Isotta, allora si chiama così!” esclamò perentoria.  
Lui la guardò intensamente, prendendosi qualche istante per studiarla.
“Non parli sul serio” decretò alla fine di quell’analisi.        
“Come scusa?”             
“Sarai anche indisponente, ma non sei cattiva. Non ti piacerebbe decidere fino a questo punto della vita degli altri. Contessa Ottavia, sarai scorbutica, ma di certo non sei egoista.”     
Quella fu la prima volta che Ottavia arrossì per le parole di un uomo. E, per giustificare il rossore, giudicò una buona idea versarsi una coppa di vino rosso e tracannarla tutta d’un fiato. Approfittando della lingua un po’ più sciolta della contessa, lo stalliere le rivolse qualche domanda.

“Perché non mangi?”
“Non voglio sposarmi con quel duca… come si chiama?... quel Maurizio.”             
“Fabrizio”, la corresse l’altro.            
“Fa lo stesso.”
“Non direi. E non è il secondo nome!” la anticipò. “Maurizio Fabrizio è addirittura peggio di Agata Isotta”.

Ottavia lo incenerì, ma il singhiozzo che la scosse le impedì di ribattere a tono. Sempre guardando male lo stalliere, cercò di placarlo bevendo l’ennesima coppa di vino.

“Dovresti smettere di fare questa faccia corrucciata”, le suggerì lui. “Mi rovina anche quel poco sonno che riesco a fare”.    
“Povero stalliere”, lo canzonò Ottavia.         
“Per l’appunto. Non c’è più rispetto per coloro che non trascorrono le proprie giornate a poltrire.”
“Io non poltrisco!”     
“Infatti non ti ho menzionata. Hai la coda di paglia, contessa?” 
“Per… hic… niente… hic!”       
Lo stalliere lanciò una rapida occhiata al fiasco mezzo vuoto per rendersi conto di quanto più o meno la contessa avesse già bevuto. Decisamente troppo: era rossa come un tramonto e ciondolava la testa dando l’idea che sarebbe crollata con la grazia di un sacco di patate da un momento all’altro.           
“Va bene, contessa, ti credo”, la assecondò per poi alzarsi e porle una mano. “Ora basta bere, torna nella tua stanza”.    
Ottavia accettò la mano e provò ad alzarsi, traballando appena.                           
“Io… hic… non voglio… hic… tornare su.”   
“E allora che cosa vuoi fare?” le diede corda lui.     
Ottavia si beò del contatto caldo della mano di lui e, abbastanza ubriaca da poter contemplare l’idea di civettare ma ancora sufficientemente sobria da poter studiare qualche trucchetto, finse di cadere, calcolando la traiettoria in modo da finire proprio tra le braccia del non troppo sorpreso stalliere.             
“Dormiamo qui”, propose.    
“Qui?”
“Qui!” insistette lei. “Stanotte stiamo qui”.

Non ci fu modo di farla desistere.    
Lo stalliere si sdraiò sul gelido pavimento mentre Ottavia reputò un’opzione più calorosa stendersi direttamente sopra di lui.

“Non vedi com’è confortevole?”         
“Per forza, sei sdraiata su di me. Sono io quello sul pavimento.”  
“Yawn…” sbadigliò lei. “E non ti compiaci di avere la tua signora distesa sul tuo corpo? Come sei muscoloso, stalliere… avevi ragione…”   
“Sta parlando il vino.”           
“Forse… forse…” la contessa non poté proferire una sola altra parola perché chiuse gli occhi e scivolò dolcemente nel sonno.       
Lo stalliere la riportò in camera.

 

… e notti in cui si facevano confessioni strane.

 

Arrivò il giorno in cui Ottavia cessò quel suo vano sciopero della fame e, tuttavia, continuò a recarsi nelle cucine. Lo stalliere non la deluse e si fece trovare.

“Ho saputo che hai terminato lo sciopero”, le disse appena la vide. “Non mi aspettavo che tu scendessi… ma sono felice che tu l’abbia fatto”.  
“Bah, cosa vuoi sentirti dire? C’è sempre spazio per un po’ di dolce.”

 

Giunsero poi quelle notti in cui Ottavia provava il bisogno di sentirsi più vicina a lui…

 

“Io non conosco il tuo nome”, esordì la contessa, prendendo della frutta.      
“Te lo ricorderesti se anche lo sapessi?” la motteggiò lui.

Lei gli tirò un picciolo.

“Prova a darmene uno. Sei la contessa, in fondo, no?”       
“Ci siamo svegliati col piede sbagliato ieri mattina?”        
Lui scosse la testa.     
“Scusami. Giornata dura a lavoro.”
“Qualcuno ti crea dei fastidi?”          
Lui cancellò quella domanda con un gesto della mano.      
“Non ti preoccupare, non puoi fare nulla.” 
“Certo che posso, non essere sciocco! Lavori nella mia tenuta, se qualcuno ti importuna posso e devo intervenire.”           
Scosse di nuovo la testa. 
“Sono solo stanco”, minimizzò.         
“È perché non dormi mai”, concluse lei. “Domani prenditi il giorno di riposo”.            
Sorrise, triste.      
“Quanto sei magnanima.”    
“Lo sostengo anche io. Tornando al tuo nome, come ti chiami?”   
“Non ti arrendi mai, eh?”      
Ottavia inarcò le sopracciglia, stupita.       
“Ti ho solo chiesto il nome, non mi pare questo grande segreto di Stato. Domani lo chiederò ad Agata Isotta.”          
“Puoi chiamarmi Maurizio Fabrizio.”          
“Oh, per carità! Così mi dovrei ricordare di lui anche qui”, fece una boccaccia inorridita.  “Scommetto che è orribile, vecchio, con la gobba e purulento!”     
Lo stalliere scoppiò a ridere.
“Tu credi?”     
Lei annuì.       
“Sì!” rispose decisa, addentando una mela. “E io non voglio sposarlo!”  
Lo affermò con più convinzione del solito.

 

… anche in senso fisico.

 

Quella sera Ottavia fece il suo trionfale ingresso col passo delicato di un’orda di Unni e con un’espressione estremamente risoluta.

“Proviamo a farti dormire!” trillò, allegra.

Ma tutto ciò che ricevette in cambio fu solo un’occhiata interrogativa.

“Tu e chi altro?”          
“Pignolo”, lo apostrofò. “Si chiama plurale maiestatis e si utilizza per le persone importanti”.
“C’è davvero un altro, dunque.”

Ottavia lo fissò oltraggiata e, come sempre accadeva in quei casi, le sue guance si gonfiarono e si colorarono di rosso, mentre le labbra si assottigliarono.

“E io stupida che nella mia bontà ti ho addirittura portato una coperta…” la stese per terra. “Scommetto che dove vivi tu non hai nemmeno un letto, è per questo che non dormi”.
“Ma ne hai portata solo una”, osservò lo stalliere. 
“Quanta forza credi che abbia? Sono una fanciulla delicata”, si pavoneggiò.

Lui ammiccò facendo un sorrisetto che non prometteva niente di buono e si alzò dalla sedia, avvicinandosi a lei con un passo da predatore.

“Oppure sei una fanciulla troppo sola che non vuole solo dormire questa notte…”, azzardò suadente.

Ottavia nemmeno si degnò di rivolgergli un’altra occhiataccia e si stese, incitandolo a fare altrettanto.

“Vieni a letto, plebeo, e taci!”
“Agli ordini, contessa!”

Fu solo per miracolo che non li sorpresero la mattina successiva avvinghiati come viticci che si sostengono a vicenda.

 

Quella diventò una routine, la loro routine, e da quella notte in poi quella coperta fu testimone di molteplici confidenze.

 

“Perché non vuoi sposarti?”

Le aveva posto quella domanda mentre, girato su un fianco, con un dito giocava con la frangia della contessa.

Ottavia aveva esitato prima di rispondere e inconsapevolmente aveva spinto la testa ancor più verso di lui, forse nella speranza che i suoi capelli lo distraessero da questioni che non desiderava affrontare. Ma lui non aveva desistito e lei alla fine aveva ceduto con uno sbuffo. Quando parlò, però, non sembrava arrabbiata, quanto piuttosto abbattuta.

“Non è che non voglia sposarmi. Solo… non così.” 
“E come?”        
“Con qualcuno che amo, tanto per cominciare.”

Pronunciò quelle parole a bassa voce, come se fossero un segreto, e, soprattutto, le pronunciò guardandolo negli occhi.

“Con qualcuno che mi faccia ridere, che mi faccia sentire apprezzata e che mi faccia stare bene…” ma non era tutto e infatti iniziò nervosamente ad arrotolarsi intorno a un dito il laccetto della casacca di lui. “E poi io voglio viaggiare. Voglio vedere posti nuovi che non siano la tenuta, voglio conoscere, esplorare e… un matrimonio me lo impedirebbe”.

Lo stalliere smise di carezzarle la frangia e portò la propria mano su quella di lei, che non cessava di torturare il laccetto.

“Non è necessariamente vero”, la contraddisse.     
“Ma cosa ne vuoi sapere tu?” poi un dubbio la colse e saltò seduta. “Non sarai mica sposato!?”

Lui scoppiò a ridere.

“No”, le assicurò. “Ma lo sarò presto”.

La curiosità si impossessò della contessa.

“Ah sì? E tu la ami?” 
“Io sì. È molto orgogliosa. Ma è più dolce di quanto vorrebbe ammettere. Ma lei non mi ama. Forse mi odia.” 
“Perché dovrebbe?”    
“Perché non mi conosce abbastanza, spero”, ammise lui, girandosi a pancia in su. “Perché mi vede come un ostacolo per la sua vita”.  
“Una serva? Che razza di vita potrà mai avere?” domandò Ottavia pentendosene subito dopo. “Scusami. Non volevo dire che non avete ambizioni o che…”     
“Non importa. Ho capito quello che volevi dire”, la tranquillizzò, per poi perdersi di nuovo nelle sue elucubrazioni. “Quello che non capisce, forse perché nessuno gli ha mai mostrato le cose sotto questo punto di vista, è che l’amore è condivisione. Non ti piacerebbe avere qualcuno con cui condividere i viaggi che sogni?”       
“No.” rispose Ottavia sinceramente, distendendosi nuovamente accanto a lui. “Mia la vita, mie le avventure!” 
“Quindi, questa avventura che vivi con me?”           
“Questa? Dormire di nascosto in cucina la chiami avventura?”   
“Beh, se ci scoprissero…”       
“Non ci voglio nemmeno pensare”, lo zittì. “Posso già sentire le grida allo scandalo e i rimproveri dei miei genitori su quanto sia… inappropriato”.             
“Io invece posso già sentire il ferro delle catene sui miei polsi” commentò l’altro ironico.

Lei si avvicinò ancora di più a lui, senza ribattere. A volte scordava chi avesse a fianco.

“Se per te è così rischioso, allora non venire più”, suggerì infine, a malincuore. “Puoi tenerti la coperta”.

Lui scosse la testa.

“Credo che ne valga la pena”, ammise. “Credo che tu la valga”.

Ottavia deglutì a vuoto e, forse spinta da impulso più che da ragionamento, lo abbracciò, e attese che lui la stringesse a sua volta. Avevano dormito molte volte con quell’intimità, ma mai avevano scelto di farlo consapevolmente.          



Quella notte scoprirono quanto fosse bello abbandonarsi a Morfeo al sicuro tra le braccia dell’altro, e così finirono per farlo molte altre notti, sempre sotto la coperta, nel buio e nel silenzio delle cucine.

 

Ottavia era inquieta. Lo stalliere al suo fianco sembrava stesse recuperando ampiamente il sonno perduto e il suo petto si alzava e si abbassava ritmicamente a tempo e lei si sentiva come stregata. 
Stava stramente bene quando era con lui ma, allo stesso tempo, anche male. Sapeva che non avrebbe potuto indulgere in quel diletto per sempre; che lui amava un’altra e che quelle attenzioni sarebbero state riservate alla sua futura moglie, che loro, prima ancora che contessa e stalliere, erano due persone sole che avevano cercato una consolazione reciproca e l’avevano trovata in qualche modo l’uno nell’altra, ma la situazione sarebbe mutata ben presto.    
Ma, soprattutto, rimuginava sul fatto che lui riusciva a sconvolgerla pur non amandola. Si domandò, quasi sperando, se con Maurizio Fabrizio sarebbe stato lo stesso.          
Forse avrebbe dovuto smetterla di opporsi con tutte le sue forze al matrimonio.  
Forse avrebbe dovuto solo accettare il suo destino: sposarsi, lasciare che suo marito si occupasse di tutte le noie e godersi la vita tranquilla della tenuta, priva di preoccupazioni.        
Rinunciando a scoprire che cosa ci fosse fuori.       
D’altronde, come poteva desiderare inoltrarsi fuori, quando dentro avrebbe avuto una vita agiata che tutti le avrebbero invidiato? Che diritto aveva, in fondo, di gettar via una tale fortuna?     
Ma, in quanto contessa, non sarebbe stato giusto poter fare tutto ciò che voleva?            
Quesiti di una portata troppo grande, quesiti che si scontravano con i precetti con cui era cresciuta, con quello per cui era stata preparata.

“Non riesci a dormire?” fu raggiunta dalla voce impastata dello stalliere.             
“Non è niente”, rispose in automatico. “Non volevo destarti, mi spiace”.

Lo stalliere non rispose, ma le cinse i fianchi e l’attirò a sé, avvolgendola tra le sue braccia e nel suo calore.

“Va un po’ meglio?”

Lei annuì.

“Non vuoi parlarne?”

Complicità. Forse era questo quello che stava plasmando con lo stalliere. Si sarebbe creata anche con Maurizio Fabrizio? Ne dubitava.           
Maurizio Fabrizio non l’avrebbe mai tenuta a sé così, senza chiedere niente in cambio. Non si sarebbe mai davvero interessato a lei e non si sarebbe nemmeno accorto della sua insonnia, perché avrebbero avuto alloggi separati. Non le avrebbe mai chiesto cosa la agitava.        
Non avrebbe mai dato peso ai suoi sfoghi, alle sue ramanzine e non l’avrebbe mai vista mangiare di notte. E, se anche lo avesse fatto, forse ne sarebbe rimasto disgustato invece che prenderla bonariamente in giro.
Lo stalliere, al contrario, la conosceva in tutti i suoi difettucci e nonostante questo giaceva accanto a lei.

Comunque, qualunque cosa fosse quel tepore e quella pace che provava in quelle notti, dubitava che fosse qualcosa di accettabile per le convenzioni sociali e, probabilmente, sarebbe stato meglio non incoraggiarla.

“No”, rispose.

Poi si sentì in dovere di alleggerire un po’ l’atmosfera che si era creata.

“Ora dormi, altrimenti rischiamo di tornare al punto di partenza. E domani dovrai essere in forze, chissà quanta cacca dovrai spalare”.       
“Guarda che le mani che spalano la cacca sono le stesse che ti fanno dormire tranquilla.”

Ottavia spalancò gli occhi, inorridita.

“Le mani?!”    
“Certo. Con cosa credi che puliamo?”

Lo asserì con talmente tanta convinzione e sincerità che ci volle qualche secondo, a Ottavia, per rendersi conto della burla. In effetti, ci avrebbe creduto se non lo avesse visto sghignazzare sotto i baffi: era veramente ammaliante quando lo faceva, perché rideva non solo con la bocca ma con tutto il volto.

“Sei un cretino!” lo offese lei, girandosi per dargli le spalle.

Lui scoppiò in una risata cristallina e tornò di nuovo ad abbracciarla.  
Lei maledisse Maurizio Fabrizio una volta di più.

 

Ottavia ricominciò infine a contare i giorni.        
Un conto alla rovescia partito con i preparativi per le nozze, un paio di mesi prima del grande evento.      
Lei non ne sapeva nulla: semplicemente, una mattina delle sarte erano piombate in camera sua portando moltissime stoffe con loro e informandola che avrebbero dovuto iniziare a confezionarle il vestito.
D’un tratto il matrimonio le parve spaventosamente reale, in agguato dietro l’angolo.       
Fu assalita da un’angoscia prepotente che quasi le toglieva il fiato.

Fuggì.

Si rifugiò in una radura poco lontano dal palazzo in cui viveva, dove un ridente ruscello sfociava in un laghetto dalle acque trasparenti.

 

“Ti cercano tutti”.      
“E tu mi hai trovata”.             
“Io cercavo il cavallo”, lo stalliere si avvicinò al bell’animale nero e lo accarezzò. “Ma dove pensavi di andare, piccolino?”

Ottavia sospirò.

“Qualsiasi posto sarebbe andato bene.”       
“Io veramente domandavo al…”       
“Al cavallo, sì, lo so”, Ottavia fece una pausa. “Credo di odiarlo”.             
“Povero cavallo”, commentò lui. “Non ti avrà condotta nel posto più introvabile del mondo, però…”          
“Non sto parlando del cavallo!” esclamò lei con rabbia, per poi scagliare un sasso in mezzo al lago.

Lo stalliere la guardò con un po’ di amarezza e alla fine si risolse a sedersi vicino a lei.

“Magari non è così male”, tentò di consolarla.

Lei non replicò: non riusciva a parlare, i suoi sentimenti erano in tumulto nel suo petto e la opprimevano.

Lo stalliere modificò allora la tattica e cambiò bruscamente argomento.

“Contessa… tu sei mai stata al mare?”         
“No…” rispose lei, perplessa. “Tu sì?”

Lui annuì e gli occhi di lei, finalmente, ritrovarono un po’ della luce che di solito li caratterizzavano.

“Davvero?” domandò curiosa. “Com’è? È veramente così vasto come dicono? È vero che non si vede l’altra sponda?”      
“Sì, è tutto vero.”

Ottavia sospirò e si lasciò cadere con la schiena sull’erba.

“Mi sarebbe piaciuto vederlo”, ammise. “Provare a navigare”.     
“Un giorno lo farai.” 
“È troppo tardi per me.”        
“Sei molto giovane, contessa.”           
“Sei sempre fiducioso, tu”.    
“E tu non lo sei abbastanza”.

Cadde il silenzio. Si levò il vento e i fili d’erba solleticarono le mani della contessa. Questa, malinconicamente, ponderava l’idea di gettare le armi e rassegnarsi. Consegnarsi al suo futuro sposo, donarsi a lui. Che altro poteva fare?   
Egoisticamente sperò di non essere la sola in preda alle pene amorose.

“Stalliere?”
“Sì?”
“Come procede con la tua promessa sposa?”           
“Un po’ meglio, credo. Lei non vuole ancora sposarmi, ma ultimamente si fa avvicinare più spesso.”

Quella risposta in un certo senso incupì Ottavia, rendendo lapalissiano che le braccia e il petto dello stalliere non erano sua esclusiva. Era talmente scontato che non provò neppure gelosia. Solo un grande vuoto che si andò a sommare all’infelicità per il misero futuro che le si prospettava.

“Questo è un buon segno”, mascherò la propria delusione. “Forse non dovresti più vedermi”.            
“Io credo invece che continuerò a farlo”.

 

Il ventinovesimo giorno prima del matrimonio Ottavia ne aveva già avuto a sufficienza dei preparativi: scelse le stoffe, posò tutto il giorno per le sarte e quella notte dormì come un sasso, perdendo il suo immancabile appuntamento in cucina.

Il ventottesimo giorno fu il turno delle decorazioni floreali e tra mercati, petali, fiori, tulle, e candele, Ottavia la sera crollò sul suo letto, inveendo contro il suo promesso sposo che non si prendeva la briga di collaborare a quelle indicibili fatiche.

Il ventisettesimo giorno fu il turno della lista degli invitati: occorreva controllare chi aveva già accettato di partecipare al matrimonio e inviare un sollecito a coloro che ancora non avevano fornito una risposta.     
Scrivendo con calligrafia elegante sulle pergamene, Ottavia pensava che a lei non importava né del matrimonio né tantomeno di quei balordi infiocchettati che erano stati invitati.       Semplicemente, lei non voleva stare lì. Lei voleva stare con lo stalliere! 
Sussultò a quel pensiero, che aveva fatto capolino nella sua testa così, senza preavviso, spaventandola, nonostante molte volte lo avesse sospettato.   
Si sforzò di scacciarlo, di focalizzare la propria concentrazione sulla lista e sugli inviti, ma il subdolo si era ben radicato, come uno stelo infestante che cresceva con insistenza, facendo germogliare anche le foglie; nel caso specifico, queste erano costituite dalla consapevolezza che quell’affetto che aveva sviluppato per lo stalliere era nato adagio, frutto della confidenza, frutto del contatto fisico giornaliero, frutto della… condivisione. 
Quel pensiero la gettò ancora più nello sconforto: non era forse stato proprio lui a dirle che l’amore era condivisione? Valeva anche il contrario, come un’identità?    
Sbuffò, scossa da sentimenti che non riusciva a capire e tartassata da dubbi che non riusciva a chiarire.  

Quel giorno odiò lo stalliere, perché forse, e solo forse, era innamorata, e ancora di più odiò Maurizio Fabrizio, che ancora non aveva incontrato e che già le impediva di fare ciò che avrebbe voluto.

Il ventiseiesimo giorno giunse la delegazione del duca per visionare i luoghi dove si sarebbe tenuta la cerimonia e mantenere un contegno diplomatico la rese più esausta di quanto avrebbe voluto.

Il venticinquesimo giorno, finalmente, riuscì a ritagliarsi un po’ di tempo per correre alle stalle, ma lo stalliere non c’era. Pose delle domande, indagò, e le fu riferito che si trovava da un veterinario in città e che sarebbe tornato solo a tarda sera.

Ottavia tornò al castello con un senso di insoddisfazione che le arrovellò la testa per tutto il dì, finché, stufa, nella notte del ventiquattresimo giorno sgattaiolò nelle cucine.

 

Lo stalliere era seduto a cavalcioni su una sedia, le braccia conserte su cui aveva appoggiato il capo. Il suo sguardo rimirava il cielo, scrutando le stelle.

“Ciao”, lo salutò lei.   
“Ciao.”

Ottavia prese una sedia a sua volta e si sedette accanto a lui, sbirciando fuori dalla finestra.

“Che cosa fai?”            
“Guardo le stelle”, le rispose lui. “Osserva: sono disposte in ordine, a formare delle figure” gliele indicò. “Chissà se sono nate così o se sono nate sparse e poi si sono trovate insieme, a formare qualcosa di più grande”.

Ottavia frugò nei propri pensieri alla ricerca di qualcosa di intelligente da dire, ma non trovò molto.

“Non credo che avrai mai una risposta”, lo informò.          
“Non voglio una risposta.”   
“Quindi perché porsi la domanda? Certo che sei strano, a volte.”
“Nessuna stranezza”, replicò lui, voltandosi finalmente a guardarla e sporgendosi verso di lei per spostarle un ciuffo della frangia un po’ ribelle. Scese poi con la mano sulla sua guancia e la lasciò lì. “Solo sogni a occhi aperti. Magari, chissà…”

Ottavia si sentì persa. Non riusciva a distogliere gli occhi da quelli magnetici di lui. Calore. La guancia bruciava, la sua mano bruciava, e lei temette di star andando a fuoco. Le dita erano morbide, erano vellutate e per la prima volta Ottavia desiderò di sentire quel tocco altrove.

“… da qualche parte c’è qualche stella speciale che invece che in gruppo è in coppia che forma qualcosa di più grande.”

La contessa, confusa, cercò di mascherare il proprio imbarazzo, ma la voce le uscì come un sussurro.

“Hai la testa piuttosto tra le nuvole per essere uno che passa le giornate con i piedi per terra.”       
“Tu credi che si possa essere più grandi da soli.”   
“Io credo solo che il cielo sia troppo grande per restare immobili.”

Lo stalliere iniziò a muovere con lentezza esasperante il pollice sulla sua pelle, scendendo in una scia incandescente fino alle labbra, disegnandone i contorni, e Ottavia fu attraversata da un brivido di freddo che manifestò in un languido sospiro, chiudendo gli occhi. Aveva caldo come non mai. Che avesse la febbre?        
Quel matrimonio la stava anche facendo ammalare. Tutta colpa di Maurizio Fabrizio!

“Ottavia…”, la voce dello stalliere era bassa, arrochita, e, intuì, troppo vicina.

Di malavoglia, quasi compiendo una violenza contro se stessa, si sottrasse al suo tocco e si alzò in piedi.

“Torno a dormire”, annunciò, fingendo di non essere stata minimamente scalfita dall’accaduto. “Ti suggerisco di fare altrettanto e di riflettere meno sui massimi sistemi”.

 

Il ventiquattresimo giorno Ottavia lo trascorse con la spiacevole sensazione che le mancasse qualcosa sulle labbra.

I giorni successivi furono all’insegna di prove, lezioni di ballo, scelta dei menù e assaggi. Ogni chicco della clessidra che cadeva equivaleva a un pezzetto d’ansia che si depositava nello stomaco della contessa. Non voleva sposarsi. Non voleva essere una stella ferma nel cielo.  
Ma questo sarebbe stata: la stella più brillante cristallizzata nella costellazione di Maurizio Fabrizio. Era sbagliato. Le stelle bruciavano, non erano fatte per essere cristallizzate, e anche lei era infiammata, ma per un uomo inadatto.

Il quindicesimo giorno si abbassò persino a supplicare il padre, affinché fermasse quella messinscena. Ma lui la liquidò con poche frasi, sentenziando che il duca fosse il meglio per lei e che sarebbe stata folle nel lasciarselo sfuggire.

Il quattordicesimo giorno Ottavia rinnegò tutto ciò che aveva e scappò.

Il tredicesimo giorno le guardie la ritrovarono poco lontana, perché si era persa.

Il dodicesimo giorno, di notte, lo stalliere la stava aspettando in cucina, divertito.

 

“Gran bella fuga”.      
“Oh, sta’ zitto!” borbottò Ottavia. “Non è colpa mia! Sono cresciuti gli alberi dall’ultima volta che sono passata da lì e il sentiero non c’è più”. 
“Ma tu guarda. Io davo il merito alle tue lodevoli capacità di orientamento e invece sono gli alberi che hanno imparato a crescere rapidi come funghi. O forse sei più vecchia di quanto tu voglia far credere”, la canzonò in modo affabile.

Ottavia gli riservò un’altro dei suoi sguardi micidiali.

“Sei insopportabile!” esclamò, sbattendo lo sportello alla ricerca della marmellata.   
“La marmellata è sulla mensola”, la diresse lo stalliere, intuendo le sue intenzioni. “Ma non ti porterà a niente affogare le tue angosce nella marmellata”.

Ottavia ignorò l’ultima parte: quando si sarebbe sposata niente più gite notturne in cucina. Maurizio Fabrizio le avrebbe tolto anche quello.

 

L’undicesimo giorno Ottavia fu presa dal panico perché Maurizio Fabrizio le avrebbe impedito, oltre alla marmellata, gli incontri con lo stalliere.         
Il decimo giorno, rimirandosi allo specchio nel suo vestito da sposa, cercò di persuadersi ad assumersi le proprie responsabilità, mettere la testa a posto e abbandonare i sogni di gioventù.
Il nono giorno le mancò il fiato, perché non si sentiva pronta affatto ad abbandonare i suoi sogni di gioventù.       
L’ottavo giorno ammise a se stessa che durante la sua fuga si era persa perché lei era effettivamente ancora nella sua gioventù e nella sua gioventù voleva lo stalliere, il suo dissacrante compagno che non aveva mai capito quali fossero i loro ruoli. Era colui che avrebbe aggiunto un po’ di pepe al suo vagabondare, colui che avrebbe reso la sua grande avventura ancora più grande. Era anche colui che, però, amava un’altra.         
Una settimana esatta prima del matrimonio vide in quel sontuoso abito le catene con cui Maurizio Fabrizio l’avrebbe imprigionata e il sesto giorno prima del matrimonio, con l’arrivo di alcuni invitati, sentì che quella spada di Damocle sarebbe calata senza alcuna pietà sulla sua testa.

 

“Mancano cinque giorni!” piagnucolò, portandosi una mano tra i capelli.             
“Ottavia, calmati”, lo stalliere la guardava con una tranquillità. “Stai facendo un solco su quel povero pavimento”.           
“Aiutami a fuggire!” lo pregò lei, anche se forse, più che una preghiera, suonò come un ordine.

In realtà ciò che avrebbe voluto dire era “Fuggiamo!”, ma lui aveva già un’altra stella.             
Lo stalliere, dal canto suo, espresse scetticismo.

“Per andare dove?”   
“Ecco… al mare. Tu sai dov’è! Da lì me la caverò da sola!”
“Ottavia…”
“Mi imbarcherò e... sarò una stella, alla ricerca d’ordine.”             
“Ottavia.” il suo tono si fece più incisivo. “Tu non fuggirai come una vigliacca. Guarda le cose da un lato oggettivo. Come pensi di guadagnarti da vivere? Non sai fare nulla”.          
“Non è colpa mia!” si difese lei.         
“Certo che no, ma nel mondo fuori dalla tenuta il cibo te lo devi guadagnare. Non ci sono dispense a disposizione anche la notte.”

Lui le stava dicendo la verità, una che tuttavia non voleva ascoltare perché la faceva sentire senza speranza né indipendenza.
Un sorriso triste increspò il suo piccolo volto.

“Hai ragione”, ammise. “Devo arrendermi. Non… posso avere ciò che voglio, non questa volta”.     
“Ne abbiamo parlato, non conosci il tuo futuro sposo, magari potrebbe lasciarti viaggiare.” 
“Lo ritengo improbabile. Ma non mi riferivo solo a quello.”           
“E a cosa, dunque?”  
“…”
“Ottavia…”     
“Forse mi sono invaghita di un’altra persona”, confessò in un bisbiglio, per poi abbassare la testa, rossa come un papavero sfiorito.

Ma poiché la contessa non era un tipo che si vergognava facilmente racimolò il poco coraggio che aveva, schiacciò la timidezza che le faceva ingarbugliare lo stomaco e tornò a fissare lo stalliere, il quale, con un paio di falcate, l’aveva aggiunta. Le prese il viso tra le mani, sorprendendola.

“E questa persona ha a che fare con me?” le domandò.      
“Ma che… ma cosa vai cianciando?” mormorò lei, arrossendo maggiormente.           
“Non mentire, contessa. II colorito del tuo volto è traditore e credo che se adesso ti baciassi tu non mi respingeresti”.             
“Farnetichi!” lo accusò lei, senza tuttavia provare a sottrarsi alla sua presa. “Tu ami un’altra!”      
“Non cambiare discorso.”     
“Bene, dunque!” assunse un cipiglio battagliero. “Se sei così sicuro di te stesso allora baciami, e poi vedremo se non ti respingerò!”           
“Scommettiamo?”
“Va bene! Il tuo nome”, acconsentì. 
“Accordato. Se vinco io…”

Come mossa da un istinto primordiale Ottavia portò una mano sulla sua spalla e una tra i suoi capelli, premendosi contro di lui.

“Chiacchiera meno e fai lavorare la lingua in un modo migliore.”

Lui le sorrise.

“Agli ordini…”

Si abbassò su di lei senza indugiare oltre e Ottavia trattenne il fiato, non riuscendo a credere che stesse accadendo davvero.             
Abbassò le palpebre, rapita, e quando sentì la bocca dello stalliere sulla propria fu per lei del tutto naturale e normale e ovvio schiuderla.             
Quando percepì che la lingua dello stalliere si stava facendo spazio nella sua bocca Ottavia gemette e si aggrappò a lui, abbandonandosi a quel senso di completezza che la permeava, mentre le sue gambe assumevano la consistenza della gelatina.   
Il palpito del suo cuore aumentò e per un momento la sfiorò l’idea che sarebbe morta in quel modo, in quegli istanti che sembravano infiniti. Ma poi pensò che no, non stava per morire, anzi, era felice e tutta l’ansia accumulata nel suo stomaco svanì come se avesse ingurgitato tre interi vasetti di marmellata.            
Forte di una nuova energia strinse la presa su di lui, si alzò sulle punte dei piedi e iniziò a imitarlo, spronata di nuovo dal suo spirito competitivo: se lui poteva baciare così bene, lei non sarebbe stata da meno. Lui non parve particolarmente meravigliato della presa di iniziativa della contessa e la assecondò.

Quando il bacio terminò l’espressione di Ottavia era un po’ di beatitudine e il suo sorriso un po’ da ebete, ma questo non le impedì di slanciarsi nuovamente sulle labbra di lui, contro di lui. Ottavia era inebriata, aveva finito di struggersi ed era passata all’azione. Ora voleva prendere l’iniziativa, cedere all’istinto carnale che la animava e mentre con una mano gli accarezzava la schiena, saggiandone il vigore, con l’altra iniziò urgentemente a slacciargli la tunica, mentre quel lungo bacio confuso diventava un cercarsi a vicenda, un pressante bisogno da estinguere almeno fino a quando non sarebbe risorto dalle ceneri. E allora lo avrebbero estinto ancora e ancora e ancora. L’unico incendio che non avrebbe mai domato in vita sua.

Di nuovo furono costretti a separarsi. Ansanti. Spettinati. Contenti.

Ottavia avrebbe persino potuto dimenticare il proprio nome. Si sentiva su un’altra dimensione.

Ma l’incanto durò poco.

“Hai perso”, la riportò nel mondo reale lui, dandole un rapido bacio sulla punta del naso.           
“Uh?”
“Non saprai il mio nome.”

Le regalò un ultimo splendido sorriso prima di lasciarla lì, impalata, vinta, sbigottita. Intenta a lanciare maledizioni per una volta non contro Maurizio Fabrizio.

 

I giorni successivi Ottavia non ebbe il tempo di preoccuparsi per le nozze. Era tutta un fuoco al ricordo dei baci e al pensiero dello stalliere, poi lo insultava per come aveva osato sparire, poi lo sconforto faceva da padrone perché non lo aveva più visto da quel giorno.   
A quel punto non le importava neppure sapere se Maurizio Fabrizio avrebbe potuto baciarla altrettanto divinamente, lei desiderava lo stalliere.      
Era anche furiosa, perché le aveva dimostrato che l’amore non era poi così male, e irascibile, perché sembrava evaporato nel nulla.   
In una parola, Ottavia sembrava pazza.

Il fatidico giorno arrivò ineluttabile come la morte e tutti erano in trepida attesa della sposa.  
Infine, per il sollievo dei presenti, Ottavia si era presentata. Era come una visione, dai lineamenti fini e dolci come quelli di una bambola: i suoi lunghi capelli castani erano stati raccolti in un’elaborata acconciatura coronata da un diadema d’oro da cui calava, leggero, un velo; gli occhi verdi sembravano ancora più grandi grazie al sapiente trucco, le sue labbra erano colorate e la sua figura pareva più slanciata; il vestito era stupendo, con una profonda scollatura, un corpetto ricamato con pizzi e merletti, maniche lunghe che terminavano con sbuffi nebulosi e una gonna ampia con lo strascico.

Gli occhi della sposa si erano rivolti dritti verso il suo futuro consorte, spinti da curiosità, e fu allora che si era manifestato uno spettacolo tanto bizzarro a cui né la corte né il popolo avevano mai assistito prima: la contessa si era fermata dopo soli pochi passi, sbalordita, mentre lo sposo sembrava sul punto di non riuscire più a trattenere le risate.   
La sposa si era repentinamente irrigidita, contenendo a stento una certa furia, e sembrava che stesse compiendo uno sforzo notevole per non lanciare il mazzo di fiori addosso al promesso.
Ancora una volta, per il sollievo di tutti, era tuttavia riuscita a mantenere una certa parvenza di contegno e decoro e aveva raggiunto l’altare, con le labbra serrate, un portamento sdegnato e un passo affettato. Non si era girata verso il suo sposo, anzi, non lo aveva proprio degnato di uno sguardo per tutta la durata della cerimonia, che si era celebrata senza intoppi nonostante i sorrisi malcelati del duca e l’umore nero e tempestoso della contessa.

Almeno fino al cruciale scambio dei sì.

Il duca aveva risposto “Lo voglio” senza alcuna titubanza, anzi, se possibile, con un sorriso ancora più grande. Sembrava davvero al settimo cielo per quelle nozze e nessuno ne capiva veramente il motivo, visto che sembrava che la contessa lo avrebbe avvelenato alla prima occasione.

Per Ottavia invece le cose si erano svolte diversamente. Lei si era sentita ingannata, derisa e chissà quanti pianti, incubi e momenti melodrammatici si sarebbe risparmiata se avesse saputo fin dall’inizio che quel farabutto che si spacciava per lo stalliere altri non era che il suo promesso sposo. Non finiva più di darsi dell’ingenua: avrebbe dovuto intuire quando le aveva taciuto il proprio nome che c’era qualcosa di sospetto. Anzi no, lui il suo nome glielo aveva detto e lei non ci aveva creduto.        
Il suo orgoglio ferito aveva infine prevalso sull’osservanza dei suoi doveri di figlia e, senza rispondere alla domanda, si era finalmente rivolta al duca.

“Sei un bugiardo!” aveva sibilato, colpendolo col mazzo di fiori. “Sei una canaglia, un impostore, un… un… un infingardo!”

Il duca era finalmente scoppiato in una risata liberatoria, sorprendendo tutti.

“Addirittura?”
“Oh, sei ben peggio! Tu sei…”       
“Fabrizio”, si era presentato lui, inchinandosi. “Il duca Fabrizio. Senza Maurizio”, aveva puntualizzato.

Ottavia aveva scosso la testa, era rimasta col mazzo di fiori a mezz’aria e aveva boccheggiato un paio di volte, non credendo alle proprie orecchie: aveva pure il coraggio di continuare a farsi beffe di lei!

“Sei un impudente! E non hai neppure la decenza di chiedermi scusa!” aveva infine gettato il mazzo ai propri piedi, aveva girato i tacchi e iniziato a percorrere la navata a passo di marcia.

Il duca, alzando gli occhi al cielo, era andato a riprenderla, afferrandola per una mano e costringendola a voltarsi verso di lui.

“Non hai risposto alla domanda.”  
“Non è ovvio?”        
“Non del tutto”.      
“Allora rispondi tu alla mia: perché non me lo hai detto subito?”        
“Subito? Mi odiavi! Mi avresti tirato in testa una padella invece di due innocui fiorellini.”   
“Questo non è vero!”         
“No?”
“Forse un pochino” aveva ammesso lei.   
“Appunto.”
“Ma perché non dirmelo dopo?”     
“Volevo farti una sorpresa.”         
“E ci sei riuscito!”   
“Vedi che marito speciale che hai sposato?”       
“Io non ti ho ancora sposato!” aveva sottolineato lei puntandogli un dito al petto. “E puoi giurare che dicendo sì passerò il resto della mia vita ad odiarti, se potrò! Altrimenti…”      

Fabrizio l’aveva allora interrotta e baciata, contro ogni protocollo e buon costume, e di nuovo Ottavia era stata preda delle emozioni che l’avevano travolta qualche notte prima. Viste le circostanze, tuttavia, evitò di iniziare a spogliarlo.
Infischiandosene dello scandalo che aveva appena provocato col suo bacio non canonico, il duca le aveva sussurrato a fior di labbra la sia ultima sorpresa.

“Ho organizzato la nostra luna di miele in mare. Allora… vuoi sposarmi?”         

Negli occhi di Ottavia erano passati gioia, entusiasmo e poi di nuovo frustrazione, perché l’aveva messa all’angolo una volta di più e una volta di più l’aveva anche lasciata senza parole. La contessa aveva tratto allora un bel respiro, chinando il capo, non credendo nemmeno lei a ciò che stava per fare.

“E va bene!” aveva annuito infine. “Sì, lo voglio!” aveva urlato perché tutti potessero sentire. “Accetto questo farabutto come mio consorte.”

Secondo chi era seduto vicino a loro, la contessa aveva addirittura incrinato le labbra in una smorfia di sfida.

“Vorrà dire…” aveva concluso un po’ imbronciata. “… che ti amerò mio malgrado”.

Il duca aveva riso di nuovo e di nuovo la cappella si era riempita del bel suono della sua voce e aveva presa in braccio Ottavia, stringendola come se fossero stati solo loro due, nella loro cucina, e si erano baciati nuovamente, scoppiettanti come due stelle che avevano intenzione di iniziare proprio lì a formare qualcosa di più grande.

 

NOTE

Ciao a tutti! Vi ho presentato una piccola storia leggera senza pretese che spero vi abbia strappato un sorriso e riscaldato un po’ il cuore. Io, a scriverla, mi sono divertita tantissimo.     
La storia di Ottavia e Fabrizio partecipa al contest “Fammi battere il cuore” indetto da Iamamorgenstern sul forum di EFP, con la citazione “Ti odierò se potrò, altrimenti ti amerò mio malgrado” di Ovidio, che mi sono presa la libertà di spezzare. È stata l’ispirazione di tutta la novella: appena l’ho letta, tra le citazioni proposte, mi sono immaginata Ottavia con broncio che la rivolgeva indignata a un Fabrizio che gliel’aveva fatta sotto il naso. Cara Iamamorgenstern, spero che tu non sia più in crisi di affetto e di averti dato una buona dose di zucchero, nel mio piccolo.

Questa storia è dedicata a myki: non ci crederai, ma dopo undici anni su efp ho finalmente scritto una romanticheria.

Se vi va, lasciatemi due righe per dirmi che cosa ne pensate!

Buonanotte,

Mel

  
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