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Autore: Black Swallowtail    24/10/2018    1 recensioni
“La materia oscura è un'ipotetica componente della materia. Non è direttamente osservabile, in quanto a differenza della materia conosciuta non emette radiazioni elettromagnetiche, perciò si manifesterebbe unicamente attraverso fenomeni gravitazionali. Si ipotizza che la materia oscura componga quasi il novanta per cento della massa dell'Universo.”
La diapositiva rimane su di me, nella sua disarmante semplicità, per qualche altro secondo per poi scorrere, senza provocare un rumore, un commento. Tutti scrivono.
Di fronte a questa assoluta verità, alla risposta alla mia domanda, nessuno reagisce.
Nessuno ha capito.
Solo io ho realizzato che siamo composti al novanta per cento da disgusto, catrame inclassificabile.
Siamo novanta per cento materia oscura.
Genere: Dark, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Materia Oscura

 

Svegliarmi la mattina al suono di una sveglia è sempre stata la cosa che odiavo. Significava che avrei dovuto aprire gli occhi violentemente, mordermi le labbra, incespicare alla ricerca, nel buio, del cellulare abbandonato sul pavimento da qualche parte, un rettangolo di luce pallida nell'oscurità assoluta, una cappa buia e umida che mi si avvolgeva addosso e mi invitava a rimanere al mio posto.

Ogni giorno, per tanto, troppo tempo, ho tastato le mattonelle con gli occhi annebbiati, fino a che i miei polpastrelli tremanti non hanno raggiunto il telefono sperduto, tastandone la superficie per cercare disperatamente di farlo tacere, di zittirne l'urlo assordante, la musica fastidiosa preimpostata che non ho mai voluto cambiare, che ho imparato ad odiare. Ogni giorno, per tanto, troppo tempo, mi sono trascinato fuori dal letto come se dovessi soffocare non appena avessi poggiato una testa fuori dalla porta della mia stanza, come se l'aria al di fuori mi pungesse la pelle e corrodesse i polmoni, come se la luce del bagno, nel suo biancore spettrale, lattiginoso, mettesse in risalto ogni mio abominevole dettaglio.

Di fronte allo specchio, il mio riflesso fatto di occhi vitrei ed appannati, circondato da occhiaie annerite, tanto profonde e scure da sembrare fosse indelebili, mi restituiva uno sguardo vuoto, nel quale riuscivo a perdermi per interi minuti. Per interi, lunghi istanti la mia mente si inceppava su se stessa, iniziando a snocciolare, uno dopo l'altro, pensieri scomposti ed appiccicosi, colmi di risentimento e disgusto, gelidi e taglienti abbastanza da costringermi ad abbassare gli occhi verso il lavandino ed aprire come un automa l'acqua.

Lo scorrere del getto gelido e cristallino calma alcune persone. Con me, non ha mai funzionato; ma era un gesto automatico, che un frammento della mia coscienza mi imponeva per sfuggire alla mia stessa indagine, ai miei stessi pensieri accusatori. È difficile trascinarti fuori dalla porta quando perfino te stesso si schifa della tua sagoma. Quando ti sembra di marcire dal profondo del petto e una parte di te si corrode e si rincorre, cercando disperatamente di evitare quei pensieri tossici che ti fanno risalire la bile fino alla bocca.

Dopo qualche tempo, ho iniziato ad allontanarmi da me stesso, a muovermi meccanicamente, ad ignorare le mie stesse, automatiche riflessioni che, per quanto mi sforzavo di ignorare, erano sempre lì, sempre al loro posto. Era l'unico modo per continuare a tirare avanti, dopotutto, era l'unica cosa che potessi fare per non essere ingoiato dalla fanghiglia che rigettavo dall'interno del mio corpo catramoso e ributtante, un degrado invisibile all'occhio ma che sentivo gocciolare e scorrermi dentro, dai polmoni fino al cuore, risalendo i vasi sanguigni per invadere i neuroni.

Smettere di pensare è facile, quando riesci a trascinarti come se nulla attorno a te importi, quando riesci a trovare il modo di distrarre la tua mente, il tuo corpo, con qualcosa che prenda il posto del senso di colpa o del disgusto crescente. È un narcotico, come sfilacciare i propri pensieri in modo che non riescano a collegarsi, così che non fuoriescono dall'incoscienza in cui nascono e sbocciano, crescono ed avvizziscono, senza mai andarsene; e così ho fatto fino a che sono riuscito a tergiversare, a trovare scuse per me stesso.

È stato quello il momento in cui mi sono reso conto che ci sono momenti in cui non potevo mettere a tacere una parte di me che mi accompagna perennemente con il suo peso schiacciante, anche quando mi ritrovo solo nel mio letto, steso nel buio assoluto, con gli occhi chiusi pregando che il sonno arrivi, che mi salvi anche questa volta. Che mi impedisca di riflettere e mi dia una giustificazione, una clausola per sfuggire, un narcotico per sopprimere me stesso e la sequela di ricordi, pensieri, immagini sbiadite che si ripetono una dopo l'altra, di voci che vengono sputate fuori e ronzano nelle orecchie come se fossero vecchie cassette nel ventre di un mangianastri.

Svegliarmi la mattina al suono di una sveglia è sempre stata la cosa che odiavo. Poi, lentamente, è iniziata a mancarmi, quando il sonno non è più davvero arrivato.

Sdraiato nel letto con gli occhi chiusi, con le coperte scomposte dall'agitarsi inconscio, intravedo il familiare rettangolo di luce biancastra che segna le sei di mattina. Questa volta, senza sonno, senza sguardo annebbiato, ma con una sensazione di soffocare che non vuole andarsene, che mi spinge a prendere ampie boccate nel vano tentativo di calmarmi.

Non ci sono tecniche di rilassamento che possano funzionare, su di me. La verità è che non sono agitato. La verità è che mi sento schiacciato e disgustato. La verità è che, di fronte allo specchio, vedo solo occhiaie più profonde ed uno sguardo che tremola leggermente, sotto la patina invisibile del vuoto, senza più il filtro del sonno, senza più nulla a nascondere l'orribile, corrosiva cosa che cresce e si contorce, a cui non riesco a dare un nome.

Le mattine invernali sono sempre di uno strano colore indefinito, tra il grigio ed il grigio più scuro, non abbastanza da essere nero, ma torbido quanto basta da sfocare i contorni degli edifici, i visi delle persone, le luci giallognole dei lampioni ancora accesi. La pensilina è sempre scrostata e desolatamente vuota, all'infuori di me, della mia solitaria figura nel nulla di una strada di periferia su cui rombano le macchine che scappano verso la tangenziale. Fuggono dai palazzi, probabilmente, dalla casa, alla ricerca di qualcosa che tenga occupati anche loro. Sono sicuro che molti abbiano qualcosa di questo genere, al loro interno, una certa quantità di questo liquame invisibile che scorre nel sangue e divora, consuma, avvizzisce.

Le chiazze rosse dei fanali di coda vano e vengono in una successione sporadica, in un rombo di motori stranamente attutito, nel silenzio di quest'ora. Nelle mattinate buie d'inverno, al freddo, non mi resta che rimanere in piedi da solo sotto una pensilina graffiata e scrostata, dagli orari vandalizzati, senza una panchina, divelta da molto prima che io iniziassi a scendere e salire, salire e scendere, su questa gabbia blu su ruote. Il freddo mi intirizzisce le orecchie, le mani, il naso, mi manda un vago brivido lungo la schiena, quando il vento si insinua tra la felpa ed il giaccone pesante.

La musica continua a fuoriuscire dalle cuffie in un ritmo costante, ma è poco più che un rumore di sottofondo, qualcosa per non rimanere solo con i miei pensieri, qualcosa per evitare di guardarmi attorno sotto a questa dannata fermata dell'autobus dimenticata da tutti, se non dal conducente svogliato che si trascina avanti ed indietro sullo stesso tratto, ancora ed ancora.

Con la coda dell'occhio, riesco a vederlo che spunta dal fondo della strada. Mi mordo il labbro, perché guardare verso quella direzione è sempre fastidioso, ma le abitudini sono dure a morire e rimangono con noi a lungo. O per sempre, quando si è inerti. Immobili.

Il bus si ferma con uno scricchiolio sinistro di fronte a me, alzando una ventata di foglie secche e polvere che mi fanno socchiudere gli occhi, mentre le doppie porte si aprono con il solito sibilo prolungato, come uno sbuffo, come se fosse annoiato quanto me.

No.

La musica si blocca di colpo.

Come se fosse disgustato.

Le porte si chiudono dietro di me, lasciandomi immobile ad osservare il vuoto per qualche istante, mentre osservo lo schermo del cellulare bloccato ed il riproduttore che lampeggia vagamente, avvertendomi che c'è stato un problema, un crash, che l'applicazione deve essere riavviata.

Non c'è nessuno, oltre a me, su questo autobus. Questa è la prima vera e propria fermata. Sono assolutamente solo, seduto su un posto desolato accanto ad un finestrino appannato dall'aria condizionata, le dita che stringono ancora il cellulare, che toccano la schermata tremando leggermente. Non c'è nessun rumore, oltre al sobbalzare del bus, al piegarsi del tubo dietro di me, alle ruote che imprecano su una buca dell'asfalto. Le cuffie continuano a rimanere mute, a fischiare vagamente nelle mie orecchie, ad accompagnare il mio respiro un po' più veloce di prima.

Fuori, qualche macchina si mette in coda al semaforo dall'altra parte della strada, due o tre figure si muovono indistintamente nell'aria che si va schiarendo, volti mai visti che spariscono un secondo dopo, inghiottiti dal torcersi di quella cosa invisibile che risale, pungente, ed arriva alla testa.

Mi tremano leggermente le mani nello sbloccare il cellulare, nell'insistere rabbiosamente con il lettore, con un nervosismo divorante, gli occhi sbarrati che seguono ogni piccolo cambiamento dello schermo, ogni saettare dei polpastrelli verso la conferma di riavvio del lettore, una, due, tre volte, con foga, un'ansia che mi fa digrignare i denti, strusciarli l'uno contro l'altro, canini che lacerano le labbra, bocca semiaperta per inghiottire più aria. Ed una preghiera silenziosa.

Non lasciarmi solo con me stesso.

Tengo gli occhi inchiodati fuori dal finestrino, per non dovermi guardare intorno, non dover andare ad osservare il posto in quarta fila, quei due sedili l'uno accanto all'altro, per cercare di riempirmi per qualche istante, divorare immagini tanto veloci da non essere digeribili e che scorrono come pellicola dall'altra parte del vetro. Sento le dita che scattano, tremano, che stritolano il cellulare, tormentano il cavo degli auricolari, ancora ed ancora, nella speranza che le orecchie si possano riempire di nuovo, che non debba concentrarmi sulla torba che sto per rigettare.

L'autobus inizia a rallentare, facendomi scivolare di qualche centimetro in avanti, mentre accosta alla prossima fermata dove le solite due, tre persone salgono senza nemmeno incrociare il mio sguardo. Il sibilo delle porte che si spalancano, quello delle ruote che si fermano strisciando sull'asfalto, le note dell'ultima canzone che tornano a fluire fuori, sparate nel mio padiglione auricolare, il gesto automatico di alzare il volume al massimo, il motore che romba, l'autobus che riparte, la mia mascella che si rilassa per un istante.

Nessuno mi guarda ed io non osservo nessuno. Siamo come tre universi separati, ognuno nella propria bolla, ognuno che evita di entrare in contatto, anche minimo, con quello altrui. È la procedura standard che tutti compiamo inconsciamente per difenderci dagli altri, ma sopratutto da noi stessi, da quello che potremmo vedere riflesso in loro.

L'autobus mi vomita fuori ad una traversa dalla sede universitaria, dalle aule moderne e fredde, file e file di sedie da conferenza, marroni e scure, con annesse quel basso, doloroso banchetto nero sempre rotto, sempre cigolante; tengo lo sguardo basso, mentre attraverso la strada, mentre supero un ragazzo che cammina svogliatamente, con lo zaino che ciondola da una spalla, o una ragazza che parla, muove le labbra ripetendo qualcosa al cellulare vicino alla bocca, parole che rimbalzano contro le mie orecchie, sguardi che si volano vicini, senza sfiorarsi, senza intralciare l'esistenza, l'universo altrui.

L'odore di fumo riempie l'aria, le prime sigarette mattutine, un miasma di tabacco che viene succhiato famelicamente dalle persone che ciondolano fuori dalla porta, che parlano tranquillamente, sguardi stanchi, bocche socchiuse, qualcuno che accenna una mezza risata. Qualcuno mi guarda, questa volta, qualche sguardo mi segue, mi si incolla addosso e me lo trascino dietro, lo sento che segue ogni mio passo. So perché mi guarda, perché forse sa, forse ha sentito, forse ha intravisto la spazzatura che si è accumulata dentro di me fino a traboccare.

Ci sono altri studenti che si sono già accomodati in qualche posto, un vago brusio raggiunge le mie orecchie, una sorta di segnale perché possa togliere gli auricolari, lasciarli dondolare per qualche istante tra le dita, prima di metterli in tasca con una sorta di convulsione allo stomaco. Tamburello nervosamente le dita sul bracciolo della sedia, una sedia qualunque nel mezzo della settima fila, per non allontanarmi dal centro dell'aula. Perché riesco a vedere meglio, dice me stesso, perché dal fondo dell'aula non si vede molto bene; per questo non gli ho riservato nemmeno uno sguardo. Non si vede bene. Meglio starsene qui a metà.

Quando sono qui dentro, le contorsioni dei miei pensieri si distendono per qualche momento, il tempo necessario a mettere insieme i miei pezzi, inarcare appena le labbra verso l'alto in un mezzo sorriso disfattista, ricambiare il primo saluto.

“Allora sei venuto anche oggi,” esordisce, lasciandosi cadere accanto a me in un gesto abituale, lo zaino che cade con un tonfo ai suoi piedi, “come va, tutto a posto? Sembri un po' a terra.”

Un brivido. La domanda peggiore, l'affermazione che ogni volta mi costringe a non abbassare lo sguardo, a simulare una mezza risata, uno sbadiglio appena accennato, un massaggiarmi gli occhi meccanicamente.

“Sì, sono solo stanco.”

Ed ogni volta, annuisce e piega leggermente la testa, nel rimproverarmi i miei orari impossibili, “Certo che sei stanco, [      ],se continui a rimanere sveglio nottate intere non ti riposerai mai.”

Mi guarda negli occhi, senza disgusto, senza sospetto, mentre lo dice, e non riesce ad intravedere quello che sento, quello che vedo io nel mio riflesso, perché la massa torbida non riesce a tracimare quando i miei pensieri svaniscono e si ritirano lontano.

Quando inizia la lezione, puntualmente, riesco ad essere assorbito dal fluire della penna sul quaderno, dallo scorrere delle diapositive, dalla voce monotona del professore. In questi momenti, non sono solo con me stesso. In questi momenti, posso non pensare e nascondermi in questa bolla temporanea.

Un'ora e mezza scorre senza intoppi, intervallata da un bisbiglio, una parola a destra, una a sinistra, e l'inchiostro che passa sulle pagine, una ad una.

“Ed ora, parleremo della materia oscura.”

Alzo lo sguardo sulla diapositiva, nero su bianco, una definizione poggiata sul centro di una semplice pagina di testo.

“La materia oscura...”

I miei occhi si sbarrano un secondo, le mie mani si fermano, smettono di scrivere, mentre la voce amplificata dal microfono scricchiola e riverbera nei miei timpani.

è un'ipotetica componente della materia.

“Non è direttamente osservabile, in quanto a differenza della materia conosciuta non emette radiazioni elettromagnetiche, perciò”

I miei occhi si sbarrano un secondo, le mie mani tremano, senza continuare a scrivere, come paralizzare, mentre la voce amplificata dal microfono scricchiola e riverbera nei miei timpani insieme alla mia che legge silenziosamente.

si manifesterebbe unicamente attraverso fenomeni gravitazionali.

“Si ipotizza che la materia oscura”

Mi sono chiesto perché debba sentirmi così. La risposta l'ho sempre conosciuta e mi ha sempre provocato ribrezzo, disgusto, ma sopratutto paura nauseante.

Mi sono chiesto se gli altri potessero vedere il catrame ripugnante in me, proprio come io riesco a vederlo quando mi specchio; se fosse questo il motivo per il quale la gente prima si avvicinasse e poi si allontanasse da me.

Mi sono chiesto, perché riesco sempre ad avvertirlo quando sono completamente solo, quando il sonno non arriva, quando inizio a pensare senza controllo e mi ritrovo schiacciato a chiedermi cosa ci sia di sbagliato in me. Mi sono chiesto cosa potesse essere questa cosa dentro di me, soffocante e ributtante, così familiare, gelida e spigolosa nei momenti peggiori, calda e soffocante nei migliori.

componga quasi il novanta per cento della massa dell'Universo.

La diapositiva rimane su di me, nella sua disarmante semplicità, per qualche altro secondo per poi scorrere, senza provocare un rumore, un commento. Tutti scrivono.

Di fronte a questa assoluta verità, alla risposta alla mia domanda, nessuno reagisce.

Nessuno ha capito.

Solo io ho realizzato che siamo composti al novanta per cento da disgusto, catrame inclassificabile.

Siamo novanta per cento materia oscura.

Siamo alla fermata dell'autobus. Lei se ne sta seduta con lo zaino tra le gambe, come al solito, una mano affondata in tasca, l'altra che guarda svogliatamente il telefono stretto tra le mani. Normalmente, questo silenzio mi divorerebbe. Normalmente, vorrei parlare, vorrei dire qualcosa al più presto, il silenzio assordante sarebbe insopportabile. Mi sarebbe servito rumore.

Eppure, ora, per qualche motivo, mi sembra che questa sensazione viscosa e ributtante, che pesa sulle mie spalle, che annacqua i miei pensieri, sia giusta, naturale. Sia la mia punizione.

Mancano quindici minuti prima che passi l'autobus.

“[      ]” La sua voce crepita improvvisamente nell'aria stranamente immobile, nella strada stranamente vuota. Alza lo sguardo. So che ora può vederla, so che se ne è resa conto, che vede la materia oscura colare dalle pupille, dalle labbra, dal mio corpo con ogni movimento. “Non te l'ho mai chiesto, ma...” Dopotutto sapevo che sarebbe arrivato il momento, no? “...perché?”

Perché è una domanda difficile. Perché è una domanda a cui ho pensato molto. Vorrei poterti dire che non lo so, ma non funzionerebbe, perché sarebbe fare finta che non sia successo nulla. Sarebbe dire che ho danneggiato un altro essere umano, ho distrutto una persona senza motivo.

“Non lo so.”

L'autobus mi prende. L'autobus mi scarica a terra.

Sono solo, con me stesso, con i miei pensieri questa volta. Con la domanda che nessuno mi ha mai fatto, che non ho mai osato porre a me stesso.

Perché è una domanda ostica, davvero ostica.

Perché ero disperato. Perché mi sentivo fluttuare nel nulla, perché ero spezzato, perché nella solitudine divorante, vedevo solo me stesso e non le persone attorno a me; non le persone, una persona. Quella persona. L'unica che si sia poggiata a me.

Perché volevo avere un compagno nella mia miseria. Perché non volevo soffocare da solo. Perché non volevo andare in pezzi e morire lentamente circondato solo dal silenzio, nella mia bolla.

Forse per te non vuol dire nulla, forse per te sono cose senza senso. Forse per te la solitudine, come un buco nello stomaco, l'incapacità di vomitare fuori te stesso, di corroderti lentamente, sono concetti vuoti. Alieni. Sei fortunata e forse prima ti avrei detto di andartene, perché credevo di essere contagioso. Credevo che potessi passare il mio marciume a qualcuno che mi si avvicinasse abbastanza da penetrare la mia bolla.

Perché l'ho fatto? Perché ho manipolato una persona, per poi gettarla via, farla a pezzi?

Perché stavo morendo, perché mi stavo consumando, perché non volevo essere solo e una parte di me ha iniziato a dirmi che non potevo sottrarmi a me stesso. Che avrei solo potuto ripetere lo schema. Avrei potuto solo svuotare qualcuno e poi allontanarlo rabbiosamente; ma non per noia, per disgusto.

Volevo svuotarmi. Cercavo un po' di catarsi. Volevo dimenticare me stesso. Cercavo qualcuno disperato come me.

L'ho allontanata da me per il senso di colpa. Ho creduto di farle un favore, di poterla aiutare in qualche modo.

Ed ora, invece, ogni posto in cui stavamo insieme, i luoghi in cui per un momento l'ho sentita vicina, continuano ad essermi insopportabili. Tornano i pensieri, il torcersi delle budella, il terrore di essere da solo con me stesso e pensare a quel che ho fatto; sentirmi di nuovo, come prima, in colpa. Non ho trovato una catarsi, ho trovato solo una pozza profonda ed indefinita che mi è sgorgata dentro.

Forse sono l'unico ad averlo realizzato. Forse è solo un modo per dare un senso a questa corrosione costante. Forse l'ho capito solo io, perché dev'essere questa la punizione che mi sono inflitto, accettare che la maggior parte di me, la maggior parte di tutti noi, sia composta di qualcosa di torbido e ripugnante.

Perché?

Perché forse è solo nella mia natura. Forse perché sono troppo pieno di questa materia oscura. Forse perché è proprio la materia oscura che l'ha attirata a me, che spinge via le altre persone, ed è proprio questo avvicinarsi ed allontanarsi di persone che ti fa capire che deve essere vero.

Ma forse tu non lo capiresti, forse non lo capirebbe nessuno.

Perché siamo tutti composti al novanta per cento di una materia disgustosa ed invisibile.

Perché siamo tutti composti, al novanta per cento, da materia oscura.

 

 

 

 

 

 

   
 
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