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Autore: ChiiCat92    25/10/2018    0 recensioni
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Aveva già percorso quel corridoio, avanti e indietro, una decina di volte e non si era ancora deciso.
Certo, quando un collega finisce in ospedale è giusto che lo si vada a trovare, e che si sopportino quegli odiosi momenti di imbarazzo in cui non si sa bene dove mettere le mani (magari dopo aver poggiato un mazzo di fiori sul comodino con un bigliettino “get well soon” infilato tra i gambi).
Però non c'era nessun manuale di istruzioni che spiegava come ci si comportava nei casi in cui: Il collega finito in ospedale aveva perso quasi il 90% del corpo, prontamente sostituito con augmentations d'ultima generazione;
Il collega finito in ospedale aveva passato un lunghissimo periodo in coma, tra la vita e la morte;
Si aveva una cotta spropositata per il collega finito in ospedale."
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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23/10/2018

 

Sleep

 

 

Aveva già percorso quel corridoio, avanti e indietro, una decina di volte e non si era ancora deciso.

Certo, quando un collega finisce in ospedale è giusto che lo si vada a trovare, e che si sopportino quegli odiosi momenti di imbarazzo in cui non si sa bene dove mettere le mani (magari dopo aver poggiato un mazzo di fiori sul comodino con un bigliettino “get well soon” infilato tra i gambi).

Però non c'era nessun manuale di istruzioni che spiegava come ci si comportava nei casi in cui:

  1. Il collega finito in ospedale aveva perso quasi il 90% del corpo, prontamente sostituito con augmentations d'ultima generazione;

  2. Il collega finito in ospedale aveva passato un lunghissimo periodo in coma, tra la vita e la morte;

  3. Si aveva una cotta spropositata per il collega finito in ospedale.

La terza, in realtà, era opzionale. O almeno era quello che Pritchard continuava a ripetersi.

L'idea che qualcosa di così insulso come le emozioni umane potesse influenzarlo o in qualche modo deviare il suo giudizio, il suo modus operandi, era qualcosa che non riusciva in alcun modo a concepire.

Adam Jensen era solo un collega; durante l'attacco terroristico al palazzo della Sarif Industries era rimasto gravemente ferito; David Sarif in persona aveva pagato le cure nel miglior ospedale di Detroit affinché gli venisse salvata la vita; Adam era sopravvissuto al lunghissimo intervento, ma era in uno stato di coma da cui i medici non sapevano se si sarebbe risvegliato o meno: questo era il punto della situazione, e se Pritchard continuava a ripeterselo riusciva ad arrivare fin davanti alla porta della stanza 145 in cui l'uomo si trovava.

Poi però la parte irrazionale del suo cervello lo aggrediva, stringendogli lo stomaco e facendogli salire la nausea.

Gli occhi.

Ricordava gli occhi di Adam. Perennemente cosparsi di scintille di presunzione, del colore di un mare lontano, intelligenti, perspicaci, taglienti come lame.

Francis si era innamorato di quegli occhi all'istante, non credeva che fosse possibile diversamente. Ma uno spesso strato di arroganza, odio per se stesso e veleno l'aveva portato ad avere con Adam un rapporto conflittuale. Non sopportava che fosse stato assunto da Sarif solo perché la sua ex aveva fatto gli occhi dolci, non sopportava che un poliziotto radiato se ne andasse in giro a dettare legge come in una caserma, e non soprattutto non sopportava che quegli occhi lo facessero vibrare di desiderio ogni giorno un po’ di più.

Era questa la vera ragione che gli impediva di entrare nella stanza: sapeva che, durante l'intervento, gli occhi di cui si era innamorato erano stati strappati via e gettati nella pattumiera come avanzi di carne rancida.

Poteva esistere un mondo in cui Francis era innamorato di Adam anche se non aveva più quello sguardo argentino limpido?

Aveva paura di scoprirlo, una paura folle, irrazionale.

Adam rimaneva Adam, con o senza potenziamenti, non lo rendeva meno umano, e senza di essi sarebbe…

Morto.

Francis sentì un brivido salirgli lungo la schiena e si strinse le spalle intorno al busto.

Per quella che doveva essere la centesima volta si ritrovò a metà strada nel corridoio. Le infermiere cominciavano a guardarlo storto, e l'orario di visita si avvicinava alla fine.

“Domani.” si disse, dato che mancavano cinque minuti e le gambe gli tremavano troppo per affrontare gli ultimi passi verso la stanza. “Domani entrerò, gli porterò dei fiori. Starò un po’ a guardarlo dormire e poi andrò.”

Però, in fondo, cosa gli costava? Adam non sarebbe stato cosciente della sua presenza, né oggi, né domani, forse mai.

“Sei davvero così codardo, Pritchard?”

Prese un profondo respiro, sterile, con un amaro retrogusto di disinfettante, e mosse un passo, poi un altro, poi un altro ancora.

La stanza 145 era di fronte a lui, la maniglia pesava una tonnellata. La abbassò con entrambe le mani ed entrò, sentendosi come un ladro che si infila nel caveau di una banca.

Le tende era socchiuse e nell'ambiente semibuio quasi non distinse il letto su cui era sdraiato il collega.

La fitta che prese il cuore di Pritchard fu inaspettata e insopportabile.

A petto nudo, con gli elettrodi per la macchina dell'elettrocardiogramma, con le braccia meccaniche abbandonate lungo i fianchi, Adam sembrava una bambola. Una bambola assurdamente sofisticata su cui qualcuno si era accanito per renderla più efficiente che mai.

Ma respirava, lieve, il petto che si alzava e si abbassava, il sottile bip bip della macchina era un annuncio orgoglioso delle sue condizioni: il cuore stava bene. Certo, era firmato David Sarif.

Avanzò con cautela, temendo che se avesse fatto troppo rumore avrebbe disturbato la sua personale versione tecnologica della Bella Addormenta. Sedette di fianco al letto, rigido, le mani sulle ginocchia.

C'era qualche cartolina sul comodino, un vaso che di sicuro era stato appena svuotato per far posto a nuovo fuori, un palloncino mezzo sgonfio su cui si leggeva appena la scritta “cheers up!”. Qualcuno era andato a trovare Adam anche prima, dunque.

Pensò a chi, di propria spontanea volontà, potesse aver fatto visita a quel ex poliziotto serio e silenzioso.

Cosa sapeva di Adam Jensen? Che i suoi genitori non abitavano a Detroit, che non aveva fratelli, che non aveva amici stretti, che la sua vita sociale si era arrestata quando era stato cacciato dagli SWAT, che anche alle Sarif Industries non aveva molti legami.

Pensò a come si sarebbe sentito leggendo quei biglietti. Aveva salvato molte vite la sera dell'incidente, ma molte le aveva anche perse. Era un eroe a metà.

Vagamente, dal corridoio, sentì il suono di una campanella: l'orario di visite era terminato.

Sospirò, dandosi dello stupido. Se avesse saputo che sarebbe stato così facile sarebbe entrato subito.

Fece per alzarsi quando sentì un rantolo leggero.

Battè le palpebre, confuso, non capendone la provenienza, finché non vide le labbra di Adam muoversi debolmente.

Senza pensarci due volte si abbassò, portando l'orecchio all'altezza giusta. Il suo sussurro lo fece rabbrividire.

« Rimani. »

Pritchard si lasciò ricadere sulla sedia, confuso, combattuto. Doveva andare a chiamare subito qualcuno, avvertire che Adam era sveglio, cosciente, ma lui voltò il viso, e aprì gli occhi.

Francis avvertì come uno schiocco, qualcosa dentro che per la seconda volta si spezzava in lui. Il bisogno di fuggire si fece impellente, ma ancor di più lo era quello di restare.

« Rimani. » ribadì, roco ma sottile, Adam.

Pritchard allora fece quello che gli veniva meglio quando non sapeva come gestire le emozioni per fare in modo di non venirne schiacciato: finse.

Accavallò le gambe, sbuffò in modo plateale, spostò altrove lo sguardo.

Ma rimase.

Rimase per sempre.

 
   
 
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