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Autore: ONLYKORINE    25/10/2018    0 recensioni
Jakob e Wolfrun vivono sull'isola di Lemnos da quando hanno lasciato Berlino a bordo del Pegaso. Con loro Ci sono Sebastian, Eleni e Anneke. Il virus è stato sconfitto e la vita ha ricominciato a scorrere. Jakob torna a Berlino quando Alexis ci va con Pegaso, e questa volta vorrebbe che anche Wolfrun partisse con lui. Ma lei non è proprio dell'idea...
(Jakob x Wolfrun)
Fanfiction dopo il sesto libro. Non tiene conto del capitolo extra sul sito degli autori.
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Christa Hartmann, Jakob Geyer, Nora, Wolfrun Ziegler
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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00-prologo-9agosto 1981

 

TORNARE A BERLINO

 

I personaggi della saga di BERLIN sono di proprietà di Fabio Geda e Marco Magnone e l’opera, di mia invenzione, è stata scritta senza scopo di lucro.

 

PROLOGO 9 agosto 1981

 

Wolfrun danzava sulla spiaggia e Jakob la osservava da lontano. Lo faceva tutte le sere d’estate. Poi lei si sarebbe spogliata dal vestito leggero e si sarebbe tuffata nell’acqua. Lui sospirò. La caletta era praticamente nascosta e la si poteva vedere solo dalla collina dove si trovava il ragazzo.
Gli piaceva andare lassù, dove non si avventurava mai nessuno, quando aveva voglia di pensare. E l’anno prima aveva scoperto Wolfrun su quella spiaggia, a ballare. Ormai erano quasi tre anni che abitavano lì, sull’isola greca. Con suo padre ed Eleni. Con Anneke e Clara, la loro bambina, sua sorella.
Anche se, ogni tanto, a Jakob mancava Berlino. Ci tornava quando Alexis partiva col Pegaso e lo lasciava nella sua vecchia città per qualche giorno, riportandolo a casa quando tornava indietro.

 

Il giorno dopo Jakob avrebbe compiuto diciotto anni. Quando era arrivato sull’isola con suo padre, Wolfrun e Anneke, i ricercatori erano riusciti a sintetizzare l’antidoto per il virus creato da Andreas e avevano iniziato a distribuirlo. Erano tornati a Berlino e avevano iniziato anche lì la vaccinazione. Nessuno si era più ammalato.
Poi lo avevano distribuito anche in altri luoghi. Presto il virus non fu più un problema, ma la ripresa di tutto il resto era stata lenta.
Sull’isola loro erano fortunati, non mancava niente. Ma a Berlino avevano dovuto ricostruire tutto. Qualche adulto era tornato: qualcuno di Atlantis, qualcuno che si era nascosto; ma era stato l’impegno dei ragazzi a salvare la città.
Poi erano arrivati gli altri: i militari. Gli inglesi, gli americani, i russi.

 

Quando il vestito di Wolfrun volò sulla spiaggia e lei si tuffò nel mare, Jakob riprese il sentiero e tornò indietro. Era troppo lontano per vedere qualsiasi cosa, ma la sua mente riusciva benissimo a riempire quei vuoti. La pelle della ragazza era appena dorata in quanto, essendo di carnagione chiara, il sole non la faceva diventare scura come succedeva alle altre ragazze dell’isola e lui lo sapeva bene.
Sospirò ancora. Il suo corpo non era più spigoloso come quando erano scesi dal Pegaso, ma si era riempito nei punti giusti. Le sue gambe si erano allungate e lei era cresciuta anche se era comunque più bassa di lui. E sorrideva. Wolfrun sorrideva.
A Jakob piaceva quando lo faceva. La guardava di nascosto e fingeva che sorridesse per lui. Il suo primo sorriso, Jakob lo ricordava ancora, era comparso sul suo viso quando suo padre le aveva chiesto se volesse vivere con loro.
Avevano costruito una casa vicino alla spiaggia e una stanza era stata dedicata a lei e Anneke.
Sembrava che Wolfrun avesse fatto pace con il mondo, e iniziato a vivere davvero.

 

Rientrò in casa con il buio. “Sei da solo?” Eleni, con sguardo stanco, stava sistemando la cucina. Annuì. La donna guardò verso la porta d’ingresso, come se aspettasse qualcuno.
Suo padre entrò nel salottino mettendosi un dito sulle labbra.
“Le bambine dormono” sussurrò, come se fosse un segreto.
“Anche Anneke?” chiese Eleni. Sebastian annuì, si avvicinò a lei e le accarezzò la pancia, appena accentuata.
“Ti serve una mano?” Eleni scosse la testa e gli fece cenno di sedersi.
“Dov’è Wolfrun?” chiese suo padre. Jakob scosse le spalle, nessuno sapeva che lei fosse alla caletta. Né che lui lo sapesse. Sebastian lanciò uno sguardo alla moglie e lei fece un’espressione strana. Il ragazzo seguì tutto.
“Cosa c’è? È successo qualcosa?” Jakob era più curioso che preoccupato: in fin dei conti l’aveva appena vista.
Eleni alzò le spalle e suo padre sospirò. “Hai presente Georgos? Del nord di Lemnos?” Jakob annuì distrattamente alle parole del padre, con un brutto presentimento. Sebastian sospirò.
“Sembra abbia intenzioni serie.”
Qualcosa si incrinò dentro di lui.

 

***

 

Wolfrun si sentiva benissimo. Era buio e si stava incamminando verso casa. Casa. Non sapeva l’ultima volta che aveva definito casa un luogo. Di sicuro non Tegel e probabilmente neanche Charlottenburg.
Casa era quella costruzione poco più in là della spiaggia dove viveva con Anneke e gli altri, dove si addormentava felice, dove dava da mangiare alle galline, dove spazzava il pavimento e lavava i piatti. Oh, se lo avessero saputo i ragazzi di Tegel! O i suoi genitori…
Senza accorgersene alzò gli occhi al cielo. Mamma e papà... Dorothea… Sospirò.
Non lo avrebbe mai detto, ma non avrebbe lasciato quel posto per nessuna promessa di felicità. E, forse, per nessuna certezza.
E poi lì c’era Jakob, Jakob che l’aveva salvata. Tutte le volte.
La prima volta fisicamente, dal lago ghiacciato, insieme a Ziggy. Poi quando l’aveva convinta ad andare con Anneke dai ricercatori per studiare l’antidoto. Aveva salvato tutti, non solo lei. E quando le aveva detto che non poteva stare da sola. Che sarebbe diventata secca e vuota. Lui non poteva saperlo ma era stata la volta che l’aveva salvata davvero. Perché lei si sentiva proprio così: secca e vuota e da tanto tempo. Da quando era morta Dorothea, forse.
Aveva giocato contro la morte in quella assurda battaglia contro se stessa, mettendo in pericolo anche gli altri.
Finché non aveva rischiato davvero di morire, morire senza che potesse fare niente. E perdere un’altra cosa preziosa. Pensò ad Anneke. Se lei fosse morta, quel Natale, chi si sarebbe occupato di lei?

 

In soggiorno le luci erano accese. Entrò in casa silenziosamente. Jakob e suo padre stavano giocando a carte ed Eleni, che le sorrise quando aprì la porta, era seduta sul divano a lavorare a maglia.
“Wolfrun, hai i capelli bagnati?” Sebastian, il padre di Jakob, era protettivo nei suoi confronti come avrebbe dovuto esserlo suo padre. Lei sorrise e si passò una mano sui capelli.
“Appena un po’. Non preoccuparti”. Salutò Eleni toccandole una spalla affettuosamente e augurò la buonanotte a tutti.
Passò silenziosamente in camera dalle bambine e baciò Anneke sulla testa. Si avvicinò anche a Clara. Piccola, tenera e paffutella Clara. Si chinò anche su di lei e le baciò una guancia. Che bella sensazione i baci.
Quando si chiuse la porta della sua stanza alle spalle, sospirò e si sedette sul letto. Anneke le mancava fisicamente, da due notti dormiva in camera con la piccola Clara e a lei sembrava di essere priva di un arto. Prima o poi doveva succedere, lo sapeva. Ma dopo tutto quel tempo che dormivano insieme… Sospirò ancora e andò alla finestra. Il cielo era limpido, scuro e bellissimo.
Qualcuno bussò alla porta. Magari Eleni aveva bisogno di qualcosa. Ma quando l'aprì si trovò di fronte Jakob.

 

“Jakob! È successo qualcosa?” Il ragazzo dovette fare uno sforzo per parlare.
“No… Pensavo di aspettare con te il nuovo giorno. Io…” incominciò, ma lei non lo fece andare avanti in quella brutta imitazione di conversazione.
“Vieni dentro”. Lei, per fortuna, aprì di più la porta e si spostò per farlo passare, comprensiva.
Il giorno dopo avrebbe compiuto diciotto anni. Il compleanno del miracolo. Nessuno di loro pensava di raggiungere i diciotto anni e avevano iniziato a chiamare così quel compleanno, a Berlino. Lo avevano fatto per ogni diciottesimo: quello di Nora, di Louis e degli altri.
Sentirono Sebastian ed Eleni andare a letto. Jakob voleva aspettare il nuovo giorno con lei. La stanza non era tanto ampia e il letto occupava quasi tutto lo spazio essendo così grande. Un piccolo armadio e una parte di specchio sulla parete opposta -Eleni aveva detto che una ragazza non poteva stare senza uno specchio, mah...-, per terra un tappeto colorato e vicino al letto un comodino, su cui c’era un libro, la torcia e una spazzola.
Jakob la guardò passarsi una salvietta sui capelli umidi e allungarsi a prendere la spazzola.
“Alexis passa da Berlino, la settimana prossima” dichiarò Jakob, notando distintamente quando lei si irrigidì. La spazzola si fermò nell’aria e lei sospirò silenziosamente. Ma lui la conosceva bene e quando riprese a pettinarsi, notò che lo fece con un po’ troppo vigore.

 

Wolfrun non voleva tornare a Berlino. Non ne aveva bisogno e non ci era più andata. Non aveva lasciato niente per cui valesse la pena tornare. Ma Wolfrun sapeva che Jakob, invece, aveva una questione in sospeso e ogni volta che Alexis passava da Berlino, lui tornava in Germania. Per lei. Per Christa.
Jakob aveva parlato di Christa per tutti e tre i giorni del viaggio verso l’isola, quando erano arrivati. E poi ancora il giorno dopo e la settimana successiva. Era stata una mazzata, ascoltarlo. Noioso e borioso, come tutti i ragazzi di Gropius, aveva raccontato di come Christa avesse ucciso la pantera. O di come avesse camminato sui carboni ardenti -e Wolfrun c’era quando era successo, non aveva bisogno di sentirlo raccontare ancora!-
Christa, che li aveva aiutati a cercare Andreas, che era coraggiosa, altruista e tutto il resto…
All’inizio era stato solo seccante, ma poi, quando Wolfrun aveva iniziato a guardare Jakob con occhi diversi, come lo guardavano le ragazze dell’isola, anche solo sentirla nominare e sapere che lui pensava ancora a lei, era diventato un veleno iniettato in vena.
Ma Wolfrun se n’era fatta una ragione. Davvero. Anche se, ogni volta che lui nominava Berlino sentiva morire un pezzo di sé, sapeva che le cose stavano così e non poteva farci niente. Però non riusciva a capire perché non fossero tutti tornati là, a Berlino, da Christa. Jakob, suo padre ed Eleni. Forse Eleni aveva insistito per tornare a casa sua, ma la ragazza ne dubitava. Eleni era una persona molto comprensiva.
“Quanto starai via?” gli chiese alla fine, ma non riuscì a guardarlo e lo spiò dallo specchio.

 

Jakob non era sicuro che fosse il momento giusto. Ma se avesse aspettato il momento giusto, non l’avrebbe mai fatto.
“Perché… non vieni anche tu?” propose. Lei si irrigidì ancora. Ma questa volta fu molto più brava a nasconderlo e a riprendersi.
”Non voglio tornare a Berlino.”
Lui sospirò e chiese ancora: “Non ti piacerebbe vedere com’è adesso? Come sono sistemati gli altri? Ciò che è stato ricostruito? Sai, al posto di…”
Lei lo interruppe, girandosi a guardarlo. “Non mi interessa sapere com’è. O cosa fanno gli altri. Sono amici tuoi, non miei”. Gli lanciò un’occhiata delle sue e si rigirò verso lo specchio.
Wolfrun non era il tipo che si guardasse indietro. Lei andava avanti per la sua strada, sempre. Non aveva bisogno di confrontarsi continuamente con le cose vecchie. Un po’, Jakob, la invidiò.
Ma questa volta non poteva lasciarla lì da sola. Da sola con Georgos. E se fosse vero quello che aveva detto suo padre? Se lui volesse davvero… Non riusciva a crederci. Se lei avesse scelto di sposare Georgos mentre lui non c’era?
Avrebbe potuto non andare a Berlino, certo, ma si sentiva in colpa verso gli altri. Lui lì con suo padre e la sua famiglia e loro là, a ricostruire tutto. Certo, non che loro ce l’avessero con lui o qualcosa di simile, probabilmente era solo un suo problema. Jakob si sentiva fra due fuochi e non sapeva quale scegliere: Wolfrun, la ragazza che si era buttata nel fiume gelido per salvare Anneke o i suoi amici a Berlino?
Beh, ormai stavano tutti bene. Tutto era tornato quasi alla normalità, sia a Berlino che lì sull’isola. Jakob si sentiva fortunatissimo, l’aver scoperto che suo padre fosse vivo, aver trovato l’antidoto al virus e vivere quella nuova vita sull’isola. Quella sua vita così felice.
Senza scordare lei: Wolfrun. Quella Wolfrun così uguale e diversa da quella conosciuta a Berlino. Quella Wolfrun di cui gli altri ignoravano l’esistenza e che lui invece conosceva così bene. E la vedeva tutti i giorni, viveva con lui, lì nella stanza accanto alla sua.
All’inizio era stato difficile, vivevano nell’albergo di Eleni e la ragazza era sempre con i ricercatori che studiavano Anneke. Era tornata cattiva, come a Berlino durante la battaglia di Natale. Riusciva sempre a criticare qualcosa o a detestare qualcos’altro. Jakob non capiva come facessero gli altri a sopportarla. Erano arrivati alle mani, più volte, nonostante lui cercasse sempre di non infierire su di lei, visto che era pur sempre una ragazza.
Poi, un giorno, uno dei ricercatori spiegò a Jakob che Wolfrun non era cattiva, era solo spaventata; lui aveva iniziato a interpretare i suoi atteggiamenti diversamente e a comportarsi in maniera diversa. E lei era cambiata. Ai suoi occhi aveva iniziato a diventare maledettamente affascinante. Continuava a chiedersi perché non se ne fosse accorto prima.
Poi, piano piano, man mano che i problemi si erano rimpiccioliti, lei si era riempita di vita e aveva iniziato a sorridere e non solo con Anneke. E ora era bellissima. E non era l’unico a essersene accorto, notò Jakob, pensando a Georgos.
Ora aveva paura che nel momento in cui fosse tornato, lei non ci sarebbe stata più, magari si sarebbe trasferita insieme all’idiota del nord e lui non se lo sarebbe mai perdonato. Doveva convincerla ad andare con lui.

 

“Quanto starai via?” richiese Wolfrun, prima di sedersi sul letto. Jakob si avvicinò e le si sedette di fianco.
“Non lo so…” La ragazza annuì, pensierosa e lui continuò: “Ascolta…”
“No. Non parliamo di Berlino” lo liquidò lei. Non era pronta ad affrontare l’argomento con lui. Il ragazzo annuì e non disse niente. Wolfrun gli diede qualche pacca sul ginocchio, dicendo: “Bravo”, e Jakob le prese la mano quando lei la tirò via. Incuriosita, si voltò verso di lui.

 

Poteva chiederle di non andare via con Georgos? Poteva chiederle di aspettarlo? Poteva dirle quello che sentiva? Poi il suo sguardo divenne triste, sussurrò: “Non voglio parlarne…”, e guardò verso la finestra. Ok. Non avrebbe parlato di Berlino.
Sorrise al buio e le raccontò di quello che aveva sentito al molo quella mattina.

 
Wolfrun ascoltava il ragazzo rapita dalle sue parole, come al solito. Cercò di non sembrare troppo stupida, ma non riusciva a togliere gli occhi da lui, nonostante il buio. Anzi, per fortuna, che c’era buio! Così non se ne sarebbe accorto. Ma il suo viso nella penombra era affascinante, con quel misto di mistero e assoluto carisma.
Oh, santo cielo. Iniziava a essere come le altre. Quelle stupide oche che ronzavano intorno ai ragazzi. Pensava di essere fuori da quelle questioni, immune agli ormoni, e invece… Guardò verso la finestra per darsi un po’ di contegno e Jakob seguì il suo sguardo.
“Penso che sia passata la mezzanotte. Come si dice? Tanti auguri?” disse e gli diede un pugno affettuoso sul braccio.
“Grazie. Ho una cosa per te” rispose il ragazzo e le allungò qualcosa che lei non riusciva a vedere bene, nel buio della stanza. Le loro mani si toccarono quando lo prese. Poi lui si avvicinò al comodino e afferrò la torcia, l’accese e lei riuscì a vedere cosa le avesse dato: un cavallo. Un pezzo di legno, rettangolare, scolpito a bassorilievo con la testa di un cavallo. Ci passò le dita, accarezzandolo.
“Cos’è?”
Oh che domanda idiota!

 

Jakob sorrise imbarazzato.
“Dovrebbe essere un cavallo…” Non era molto bravo: Spyros gli stava insegnando a intagliare il legno, ma lui era alle prime armi, più che ramoscelli e altre cose per necessità non aveva mai intagliato niente. Mai fatto cose artistiche.
Probabilmente era stata una cattiva idea. Ma lei sorrise. Non si sarebbe mai abituato a vederlo succedere.
“Sì, sì, è un cavallo si vede. Perché mi hai fatto un regalo? È il tuo compleanno non il mio”. Il ragazzo alzò le spalle.
“Volevo farlo” rispose imbarazzato e guardò verso la finestra.

 

Wolfrun corrugò la fronte. Non si erano mai scambiati regali. Lei odiava i regali, le ricordavano il Natale in Germania. E poi non era neanche il suo, di compleanno!
Però non era un regalo come gli altri che aveva ricevuto. Questo era bello. Le ricordava Ziggy. Ziggy, il suo fidato cavallo, che era rimasto a Berlino.
“Grazie. È… bello…” Faceva ancora fatica ad ammettere le cose che le facevano piacere, ma questa volta si sforzò perché sapeva che lui se lo meritava. Jakob si distese sul letto. Mah… cosa stava facendo?
“Vieni qui” disse, battendo la mano sul copriletto al suo fianco. Lei, lentamente, si sdraiò vicino a lui e il suo cuore iniziò a battere fortissimo quando le prese la mano.
Le aveva fatto un regalo perché non si sarebbero visti più? Per questo? Le stava dicendo addio?
“Hai intenzione di rimanere a Berlino… Per sempre…?” sussurrò lei. Lui si girò, ma non si vedevano molto, al buio.

 

“No. Certo che tornerò. Tornerò qui” disse, un po’ confuso dalla domanda. Tornerò da te.
 Wolfrun annuì ma Jakob non poteva vederla e nel buio allungò una mano e le accarezzò una guancia.
“Mannaggia. Stavo già pensando di prendermi la tua stanza” replicò lei scherzosamente. Lui rise.
“Il tuo letto è più grande del mio, ti conviene stare qui.”

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***Eh niente... non so ancora dove mi porterà questo viaggio... Non sono rimasta soddisfatta del finale di Berlin, quindi ho iniziato a pensare a qualcosa di mio... non so se vi piacerà, ma se vi va, leggete e fatemi sapere.
   
 
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