Storie originali > Romantico
Segui la storia  |       
Autore: walls    26/10/2018    0 recensioni
«So I wrote her a poem, but she didn’t like it.»
«Why? Was it that bad?»
«Well, it was like:
“Dear Katy,
I’m so tall,
I’ll fuck you hard
against the wall”».
«Wow, I wonder why she didn’t like it.»

-----------------------------------------------------------------
Cosa resta della nostra età se togli la rivolta, la rabbia, la musica, la fame, la voglia di scrivere da capo una storia irrisolta?
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

 








 

Prologo – Electric Souls

 







Nuovo messaggio
ore: 00.37 - Da: +44 071925238

“Ho bisogno di te, ti prego”

 

Solo, nella tarda serata di un umido febbraio, uno strano ragazzo di appena diciotto anni continuò a mettere velocemente un piede dopo l’altro, con lo sguardo basso sull’asfalto umido e un gran mal di testa a stringergli le tempie.
Un passo, due, dieci, cento.
Lo smartphone, imprigionato dentro le tasche dei suoi jeans stretti, non smetteva di vibrare, e così il suo giovane cuore, sfinito, gonfio di un'ansia che non gli apparteneva: era fastidiosamente strano provare emozioni del genere. Sentiva puntata addosso come un’infinità di riflettori: nonostante nessuno dei radi passanti accennasse a lanciargli più che un misero sguardo, aveva l'insopportabile sensazione che in quel momento chiunque incrociasse il suo cammino avesse voglia di sapere di più, di provare ad ascoltarlo o, peggio ancora, di capirlo, come se all’improvviso – nelle prime ore di un nuovo giorno, proprio mentre voleva che nessuno gli stesse vicino – ogni abitante della città si fosse reso conto di quanto lui fosse, in realtà, fragile.
Ma se c’era una cosa che nessuno della famiglia Miller sopportava, beh, era proprio quella, e lui, Daz, da bravo figlio di suo padre, non faceva eccezione; dimostrarsi debole agli occhi degli altri o, nel suo particolare caso, passare per un ragazzino ancora troppo attaccato alla convinzione che, se ce ne fosse stato bisogno, qualcuno gli sarebbe andato incontro, pronto a tendergli una mano, era vergognoso.
Se i suoi genitori lo avessero visto in quel momento, pensò, era sicuro che non ci avrebbero messo molto a sgridarlo per il suo comportamento: a loro dire, Daz era ormai “Un adulto!” e dunque aveva il sacrosanto dovere di cavarsela col solo aiuto delle proprie forze; delle consolazioni di Aaron Knight, che sapevano essere il suo migliore amico, della sua banda di amici scapestrati, e persino della sua stessa famiglia, insomma, avrebbe dovuto necessariamente fare a meno. Era la cosa più giusta e soprattutto più utile per lui, se l’era ripetuto. Tante e tante volte, come un mantra. Avrebbe dovuto concentrarsi su se stesso, stringere i denti e affrontare tutto di petto, come ribadiva spesso il suo vecchio, senza pretendere di avere qualcuno disposto a stargli dietro in ogni momento.
Era un concetto abbastanza semplice, in fondo, cosa ci voleva? Bastava restare al proprio posto, senza fidarsi mai troppo di nessuno, combattendo le proprie battaglie armato di autostima, un po’ d’arroganza e nient’altro: sua madre glielo diceva da quando era piccolo. Era quella la ‘ricetta del successo e dell’autoaffermazione’. Non era stato proprio quello, dopotutto, l’atteggiamento che aveva permesso a lei e a suo marito di realizzarsi nella vita come nella carriera? Avevano rinunciato a tutto, a tutti, e adesso avevano una casa enorme, due figli splendidi ed un’importante azienda da gestire: glielo aveva ricordato ogni volta che ne aveva avuto occasione e lui, che ai tempi era solo un ragazzino, a lungo andare aveva finito per crederci e convincersene sul serio.
Quella sera, comunque, con le mani affondate nelle tasche del parka scuro e le guance appena arrossate dal vento, Daz ci aveva riflettuto parecchio – come accadeva spesso negli ultimi tempi - e, considerati i recenti avvenimenti che avevano sconvolto la sua vita, era arrivato alla conclusione che tutto quel respingere, quel costringersi alla solitudine, a conti fatti, non era servito proprio a niente. Era riuscito a farlo sentire uno schifo, semmai, ma di certo non lo aveva aiutato: ogni volta che aveva rifiutato l’appoggio di qualcuno, ogni volta che aveva lasciato fuori chiunque dalla sua sfera personale, invece di farsi forte della propria indipendenza, aveva sentito soltanto il disperato bisogno di piangere, e di conseguenza punirsi proprio per quella stessa reazione immatura.
Si sentiva intrappolato fra gli estremi di sé stesso che più detestava, il Daz estremamente sensibile e il Daz ostinatamente orgoglioso, e quel principio di autosufficienza che aveva tentato di imporsi negli anni, in definitiva, non aveva fatto altro che complicare le cose.
Ora però, per via di nuove consapevolezze acquisite col tempo, o forse per un senso di responsabilità che mai gli era appartenuto prima di quel momento, sperava di essere finalmente pronto a diventare una persona diversa da quella che i suoi genitori avevano plasmato, ma soprattutto di aver capito la sua vera natura; improvvisamente, era un ragazzo nuovo, uno che voleva - doveva - rimediare prima che fosse troppo tardi, uno deciso a spogliarsi delle proprie insicurezze e smascherarsi di fronte al mondo...
Ma come poteva lui, uno che fino al minuto precedente aveva girato per la città come un fuggitivo e che ancora non sapeva come cazzo funzionasse la vita, pretendere che quel nuovo modo di fare risultasse credibile e venisse accettato dall’oggi al domani?
La prospettiva di passare le settimane a venire cercando di ricomporre il puzzle delle proprie relazioni interpersonali lo spaventava a morte: se evitare i suoi amici ad ogni costo aveva comportato una fatica immensa, Daz sapeva che cercare di riconquistarne la fiducia avrebbe richiesto un sacrificio ancora maggiore e, proprio per questo, imprecò sonoramente squarciando il silenzio di quella placida notte.
Poco dopo, controllò che l’incrocio davanti a sé fosse sgombro, poi l’attraversò, immettendosi in una delle poche strade principali in grado di portarlo verso la periferia senza troppi percorsi complicati.
Tutta quella storia lo stava facendo impazzire. I suoi, la maturità alle porte, la comitiva… Lei.
La sola cosa che gli premeva, in quel preciso momento, era sfogarsi: decise che ne aveva abbastanza della sua stupida vita perfetta solo in apparenza. Anche se qualche giorno prima, con Logan Reese - un compagno della scuola privata - , aveva sostenuto l’esatto contrario, adesso che non era in compagnia poteva ammetterlo liberamente: avrebbe di gran lunga preferito abbandonarsi fra i cuscini del suo divano guardando un film d’azione o discutendo di calcio con Aaron e Leo, piuttosto che costringersi a sopportare ore ed ore di musica assordante e chiacchiere inutili in compagnia della sua famiglia. Perché alla fine, anche dopo aver cenato in un ristorante rinomato, dopo aver discusso con qualche ragazzina altolocata, il discorso ricadeva sempre sui soliti, banali argomenti e allora tutti gli sforzi messi in atto per mantenere intatta quella facciata di sicurezza e benessere si disperdevano nel fumo scenico impiantato sotto le casse dei locali lussuosi che i suoi genitori si ostinavano a proporre. Non ce la faceva più. Non era quella la sua vita, e non lo era mai stata.
Daz accelerò ulteriormente il passo, alternando sguardi diffidenti a lunghi sospiri mentre calava il cappuccio della giacca sui capelli neri: se le gocce d’acqua che avevano colpito la punta del suo naso dritto non mentivano, di lì a pochi secondi sarebbe scoppiato un temporale.
Senza pensarci ancora, si accucciò contro il cancello d’ingresso di un condominio lungo la strada, sfruttando la tettoia sporgente per ripararsi dalla pioggia che imperversava sempre più violentemente, e infine sfilò dalla tasca il cellulare, risoluto nel controllare di aver scritto bene ogni parola nel messaggio di risposta a quello che aveva ricevuto una decina di minuti prima. Quasi non riusciva a credere di essersi finalmente sentito in grado di mettere un punto a tutta quella tragedia. Ci aveva pensato così a lungo; si era impegnato talmente tanto nell’obbligarsi a lasciare andare anche l’ultima persona che lo teneva legato ad una vita diversa, dalla monotonia, che il non esserci riuscito, in qualche modo lo sollevava. Era come se un macigno enorme avesse smesso di pesargli sullo stomaco nell’esatto momento in cui aveva premuto INVIO e lo avesse lasciato libero di respirare di nuovo.
Daz sospirò ancora, scaricando così tutta la tensione residua, ed estrasse dal pacchetto di Camel che portava con sé una sigaretta, socchiudendo gli occhi. Il cellulare cominciò a squillargli nella mano libera dopo pochi istanti. Lesse distrattamente il nome del mittente e, solo dopo aver sistemato la sigaretta fra le labbra, portò il telefono all’orecchio.
«Dimmi», proruppe, senza nemmeno dare al suo interlocutore il tempo di presentarsi.
Il ragazzo dall’altro capo della cornetta sbuffò, come se stesse andando di fretta ma proprio non riuscisse a concepire una risposta del genere.
«Molto amichevole, Milly, davvero», commentò. «Anche per me sentirti è sempre un piacere».
Daz incurvò le labbra, osservando distrattamente alcune gocce di pioggia cadere dal bordo della tettoia: «Mi hai chiamato solo per ricordarmi quanto sono insensibile?» domandò, senza alcuna intonazione particolare.
Aaron Knight, dall’altra parte, sospirò nel modo più teatrale possibile, rispondendogli stancamente di no e dichiarando a gran voce il suo disappunto:
«Mi piacerebbe sapere dove cazzo sei finito, in realtà.»
«Ti interessa?», ribatté l’altro, determinato a non voler dare informazioni.
«Ascolta, hai seriamente rotto le palle. Ti prego, esci da questo stato di apatia e torna fra noi: certo che mi interessa.» Aaron sembrava insofferente. «Stiamo andando giù al faro, comunque; ovunque tu sia, ci piacerebbe davvero molto se ci raggiungessi», confessò, evidentemente stanco di dover formulare ogni giorno inviti più o meno impliciti come quello.
Daz, in risposta, respirò forte contro il microfono: nonostante le chiamate incessanti, l’ultima volta che era uscito con i suoi compagni senza sentirsi costretto risaliva a molti mesi prima; dentro di sé sapeva che non sarebbe stato accolto come un tempo, e la cosa lo sconfortava al punto da voler rinunciare nuovamente a quel confronto sofferto, sebbene sperato… Eppure, si disse, se voleva sistemare la questione, da qualche parte doveva pur cominciare.
«D’accordo..» acconsentì qualche secondo più tardi, stringendo le labbra attorno al filtro della sigaretta con forza. Era ancora molto combattuto. «Ma non voglio domande, ok?» si sentì di chiarire.
Aaron non rispose subito, ma dal tono sostenuto della sua voce Daz capì che quella piccola, inaspettata concessione aveva sortito un effetto altrettanto insperato.
«Come ti pare».

 

Nuovo messaggio
ore: 01.16 - A: +44 071925238

“Dammi ancora un po'”







 

«Dobbiamo andare, dai, muovi il culo».
Gale Malek sorrise, le labbra sul collo caldo di una delle ragazze più belle del Cardinal Newman, un liceo privato prettamente femminile, e gli occhi scuri leggermente dilatati, puntati in direzione di chi gli aveva parlato. Indossava un maglioncino grigio scuro anche quella sera, come sempre quando si trattava di partecipare a feste di relativa importanza, e un paio di pantaloni neri, strettissimi, strappati all’altezza delle ginocchia ossute.
Si voltò appena, i capelli spettinati sulla fronte: «Il tuo tempismo mi sconvolge», mormorò, pacato.
Charlie Davies, tranquillo quanto lui, sollevò un angolo della bocca, alzando un bicchiere di Vodka liscia sotto le luci a intermittenza del locale dove avevano deciso di passare la serata.
«Mi dispiace, principessa, ma la festa è finita» lo informò, raggiante. «E Leo ha già vomitato abbastanza, per oggi, quindi direi che possiamo fare ritorno a casa» concluse, serafico.
Gale rise piano, annuendo. Lasciò scivolare le dita piene di anelli dai fianchi della ragazza che gli stava tenendo compagnia per l’occasione, vagamente dispiaciuto, e riservò un’occhiata molto eloquente al suo amico.
«Vorrei salutare questa donzella come si deve, se la cosa non vi reca troppo disturbo, Sua Maestà, Re dei Rompicoglioni».
Charlie posò il suo drink su un tavolo nei dintorni, ravvivando i capelli mossi. «Vado a raccogliere Leo dal pavimento», sorrise. «Aaron dice che “Hai dieci minuti per raggiungerci in macchina”.». «C’è anche Daz», aggiunse poco dopo, in un evidente tentativo di persuasione.
L’altro ragazzo, benché sorpreso dalle informazioni appena ricevute, alzò le spalle senza mostrare la propria curiosità e si limitò a sorridere, pensando che se nessun altro avesse avuto la faccia tosta di interromperlo ancora una volta, avrebbe sprecato molto meno tempo di quel che gli era stato concesso così ingiustamente. Allungò di nuovo le mani verso i fianchi di quella che sapeva chiamarsi Gin Hawke, le maniche del maglione arrotolate sull’avambraccio, e le riservò un’occhiata piuttosto compiaciuta prima di voltarsi a fronteggiare il proprio amico ancora una volta.
«Dammene venti».
«Quindici».
Gale storse impercettibilmente le labbra piene, suo malgrado divertito: «Andata!» confermò, e solo allora il più piccolo dei due si sentì libero di lasciare l'altro finalmente in dolce compagnia, avanzando nel fumo che circondava i loro corpi solo dopo avergli raccomandato di ‘usare le dovute precauzioni’. Lui, dal canto suo, si limitò ad incassare la pessima battuta, guardando negli occhi la ragazzina che stringeva.
«Non vuoi che me ne vada?», le domandò, sentendo la presa delle sue mani aggraziate stringersi sulle proprie spalle.
Gin scosse la testa, accucciandosi contro di lui, improvvisamente meno maliziosa di quanto fosse stata durante lo svolgimento della festa: «Resta qui, stai con me tutta la notte.», gli disse, accarezzandogli la guancia con fare spaventosamente innocente.
Gale si morse le labbra, imbarazzato da quei gesti intimi. Scostò di poco il suo corpo imponente da quello minuto e morbido della ragazza, cercando di essere il meno sgarbato possibile: nonostante fosse ormai diventato più che bravo a dissimulare, a fingere di essere davvero il diciannovenne spezza cuori che tutte idolatravano, non si sentiva ancora in grado di mentire riguardo a certe cose: non avrebbe mai illuso una ragazza al punto da presentarsi come un possibile, futuro fidanzato, e nemmeno si sarebbe approfittato della situazione; non mentre lei a stento era in grado di intendere e volere, almeno, e lui si definiva troppo buono per spingersi oltre una semplice serie di preliminari senza il suo consenso.
«Non posso» sussurrò quindi, come confidandole un segreto all'orecchio. «Devo tornare a casa».

Gin sembrò spiazzata, ma non si mosse: «Non ti piaccio?», domandò, con le labbra gonfie e il vestito leggermente tirato sulle cosce magre.
Gale scosse la testa, passando una mano fra i capelli color pece per non darle la possibilità di impossessarsene e, in qualche modo, convincerlo a darle retta. Se lei avesse insistito ancora, pensò, con quegli occhi magnetici e quelle tacite promesse siglate con delle carezze piuttosto esplicite, non ci avrebbe messo molto a cedere nonostante i buoni propositi.
«Sei bellissima,» rispose quindi con sincerità, riavvicinandosi piano mentre Gin sembrava perdere lucidità man mano che il volume della musica in sottofondo aumentava. «Ma hai sedici anni, sei ubriaca, e io non sono così stronzo», concluse.







Perdonami.

Noah era seduto in sala d’aspetto, le mani ancorate al tessuto soffice del sedile che lo sorreggeva.
Stordito, come se una campana di vetro lo separasse dal resto del mondo, si sentiva fuori luogo; le ombre di infermieri e agenti della polizia sfrecciavano davanti ai suoi occhi chiarissimi, sbiadite in una scia di voci concitate.
Perché si era lasciato andare in quel modo, lasciando che la rabbia prendesse il sopravvento? Perché non aveva provato a parlarle, invece di costringerla a tornare a casa con lui? Perché la ami, si rispose, quasi inconsciamente; lo aveva fatto per quello, non potevano esserci altre motivazioni, eppure in quel momento gli sembrò che i suoi princìpi non fossero solidi abbastanza per giustificare le azioni che lo avevano portato fino a quel punto: cosa cazzo gli era passato per il cervello?
L’eco delle voci e dei passi nel corridoio dell' Emergency Room del Royal Sussex County Hospital si fece pian piano più ovattato, come se quella domanda appartenesse ad un altro mondo, lontano anni luce, e non ai suoi pensieri. Medici, pazienti, barelle, sangue, sirene. Tutto era privo di consistenza.
A dispetto di ciò che credeva, però, il tremito che scuoteva il suo corpo era maledettamente reale: aveva freddo. Era così ghiacciato da battere i denti in maniera incontrollabile e non riuscire a trovare conforto nemmeno sotto le spesse coperte di lana che gli erano state gettate addosso al suo arrivo in ambulanza.
Noah si guardò le mani, intorpidite e incrostate di sangue: sotto le unghie, resti di legno e fango. Per un fugace momento, prima di accertarsene distendendo e piegando le dita esili, aveva creduto di averne perso la sensibilità.
«Signor Martin?»
Qualcuno doveva avergli appena rivolto la parola, forse un’ infermiera.
«Signor Martin, mi sente?»
Il ragazzo fece segno di sì, muovendo la testa in modo che un ciuffo di capelli lisci e biondissimi ricadesse sulla fronte. La stava ascoltando davvero, adesso? Forse. Non ne era sicuro.
«Il medico arriverà a breve per visitarla, la prego di restare qui».
Non vado da nessuna parte.
Noah annuì di nuovo, e ottenne in risposta un sorriso che non seppe come interpretare, prima che la donna sparisse e lasciasse spazio a due uomini che portarono fuori dall’ ultima stanza del corridoio una barella, carica del corpo dell’unica persona al mondo a cui lui realmente tenesse. La fissò.
Perdonami.
Con la mente, tornò alla prima volta che l’aveva vista, piccola e indifesa: gli occhi scuri semichiusi, la bocca carnosa piegata in un sorriso beato, le mani paffute. Erano passati anni da quel momento, anni in cui aveva fatto di tutto per renderla felice, tenerla fuori dai guai; anni in cui l’aveva vista cambiare, crescere e trasformarsi in una donna: i suoi occhi sempre più chiari, le labbra che avevano smesso di incurvarsi in sorrisi allegri per premersi passionalmente su quelle dei ragazzi che lui meno sopportava, le discussioni, le feste, il dolore, l'amore
E pianse.

Era cominciato tutto da lì.

 

 




Buonasera a tutti! :)
Non so bene da dove partire per spiegare il  perchè di questa pubblicazione, ma... Eccomi qui, pronta a provarci di nuovo.
Inizio col dire che avevo postato questa storia un paio di anni fa su Efp, ma in una categoria differente, senza più aggiornarla - il che potrebbe interessare a pochi ahah -, però mi sento in dovere di precisarlo per questioni di correttezza nei confronti di chi già la seguiva.
Smisi di postare per due semplici motivi:
1) perché sentivo che le cose mi stavano sfuggendo di mano e,
2) perché ritenevo di non avere la maturità necessaria per affrontare determinati argomenti e gestire certi personaggi.
Ora, a distanza di tanti e tanti  mesi, non penso di aver raggiunto chissà quale alto livello di scrittura, ma mi sento più sicura di quello che sto elaborando perchè lo sento più mio: spero che questo basti.
Detto questo, e passando al capitolo, consiglio di vederlo più come un 'pre-epilogo' che un prologo a tutti gli effetti... Mi spiego meglio! ahah
Ho preferito che la storia partisse quasi dalla fine, e non dal principio, in modo da ripercorrere insieme le tappe che l'hanno sviluppata e, ovviamente, incuriosirvi di più.
Non fatevi ingannare dai toni drammatici ;)

Concludo nella speranza che il tutto possa piacervi e che lasciate qualche commento, positivo o negativo che sia, per aiutarmi a crescere.

..Ah, dimenticavo! Ringrazio
Breo Saighead per il banner, e tutte le ragazze che tengono a questa storia da tempi immemori, ormai, per il sostegno immutato <3333


Un bacio,

L.

 


 

 
   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Romantico / Vai alla pagina dell'autore: walls