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Autore: Maika Kamiya    27/10/2018    7 recensioni
Per ogni lacrima che versi una stella cade, precipita nel cielo e si deposita sul niente.
Per ogni respiro che prendi degli occhi ti osservano, indulgenti ti mangiano per sputarne solo gli avanti.
Spogliati dei segreti, del trucco in eccesso, spogliati della pelle e dei muscoli.
Spogliati e fatti osservare per quello che sei.
Spogliati degli esageranti sfarzi e dei bassi dubbi.
Per ogni ogni parola che proferisci un cuore freme ed un altro muore.
Questa storia partecipa a “Una festa in zucca” - Challenge Halloween” indetta dal gruppo facebook Il Giardino di Efp.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Haruka Nanase, Rin Matsuoka
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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"Questa storia partecipa a "Una festa in zucca" - Challange di Halloween" intedda dal gruppo faceboonk Il Giardino di Efp
Prompt. 19 - X riveceve il suo primo bacio a una festa in maschera... ma non sa da chi


Ottobre è mese di cadute e di troppi mal di pancia.
Ottobre si tinge d’oro, annega nel cremisi e lascia seccare la ruggine sulle sue curve sempre più raschiate.
Ottobre è vuoto, decadenti sono le serate che vanno a scemare nell’oblio di una notte sempre più cupa. Si alza il vento, il gelo si risveglia, sbadiglia intorpidito e a tentoni il suo farsi largo nel mondo ha inizio.
Ottobre addolcisce la paura delle foreste spettrali che circondano gli animi, zucchero e miele baciano labbra intorpidite dal sole dell’estate e seccate dall’acqua salata del male.
Ottobre è il preludio al freddo, con un leggero inchino si prepara all’ultimo raccolto: semi e frutti faranno da decorazione ai piatti mentre il fuoco scava il legno e benedice l’avvenire di Novembre e dei suoi nascosti.
Novembre sono le stelle, troppe da numerare, di coloro che hanno lasciato il corpo sottoterra per volare leggeri nell’alto del firmamento.
Novembre è sacralità, la vita salva ciò che gli dei non vogliono che marcisca, dona loro verde eternità e d’invidia da parte di chi è costretto a perire.
Novembre sono le scorte di cibo, la paura che instilla la sopravvivenza perché l’inverno ha banchettato con i resti del bel tempo, ha torto il suo collo, ne ha spodestato il regno e si è appropriato delle gemme e delle bacche che ornavano il suo capo di raggi.
Novembre è l’inizio della morte e del suo innalzamento.
Le feste di Halloween non hanno gloria però, il loro successo è basato su qualche birra consumata tra le lapidi, tanti dolci e altrettanti sguardi sfuggenti.
Notte di scherzi, di terrore e di divertimento vano: violenza è lo stendardo e crudeltà il corno che avverte i nemici del suo arrivare.
Halloween è una festa disinteressata, rumore sordo, corpi ammassati e troppo appariscenti; il divertimento è truccato quanto i visi e gli abiti, fasullo e insincero.
Sventoli l’invito della serata ricavando un poco di sollievo, non respiri tanta è la paura che porta gli uomini a falsificare il loro essere per sentirsi veri solo quando di reale nulla è rimasto.
La palestra, così come tutta la scuola è illuminata da focolari sparsi per l’intero perimetro, poggiati sapientemente su altarini e tavoli.
Tetre sono le ombre che svettano sulle pareti; creano mosaici di orrore, silhouette sovrapposte che interagiscono e si rincorrono a vicenda. Ballano in uno spazio senza sostanza se non in quello dell’inesistenza.
Il volantino si disintegra tra le tue mani sudate per l’agitazione, la timidezza ti percuote lo stomaco e ti attorciglia la lingua, un nodo per ogni parola svanita.
Siedi in disparte ammutolito, troppi sono i ragazzi chiassosi che si spintonano e ridono, troppe le ragazze che si rincorrono sorridendo alla ricerca di qualche acconsentimento.
Accanto a te è stato sistemato un banchetto pieno di dolci e leccornie: torte sanguinolente, biscotti fasciati e bevande dal dubbio colorito.
Chi vorrebbe mai mangiare qualcosa dalla forma così sgradevole?
Eppure i vassoi si svuotano, i tavoli e strani appoggi adibiti a sostegno si riempiono di bicchieri e piattini, qualche bevanda macchia il pavimento e sotto le luci un lago malevole si forma variopinto di riflessi caleidoscopici.
La sala da ballo, montata maldestramente, è ormai piena, satura di mosse senza grazia e costumi policromatici: molte streghe, qualche lupo, mummie e mostri.
I faretti colorati zucca e muschio dipingono i volti e i tessuti, distorcono le fanciulle fattezze e lasciano calare un alone di fitto mistero.
Ti decidi ad assaggiare le non invitanti dita di wurstel e ketchup, ne metti in bocca un boccone e con riluttanza lo ingoi; è normale, nulla di speciale, buono eppure l’immagine fatiscente di quello che hai appena mangiato, benché conosciuto, non ti aggrada minimamente e po’ rimane nell’esofago riluttante a scendere e a depositarsi nello stomaco.
Sei solo, tornato da un soggiorno intercontinentale già da qualche mese, l’Australia è una patria calorosa, arida a tratti, piena di meraviglie questo è sicuro. Ti stritola nelle sue spire, ti rapisce gli occhi per primi e successivamente il cuore, forse un poco meno le papille gustative.
Hai ritrovato amici una volta perduti quando sei approdato nuovamente nella tua madrepatria. Qualche difficoltà, un orgoglio spropositato sorretto da un suolo crepato, impaurito per colpa degli anni passati in una nazione lontana, estraneo, ora, in quella che ti ha visto nascere.
Pian piano, con fatica e diverse lacrime, stai ricucendo le zolle separate.
Sei solo perché l’unico interessato a venire era Nagisa, ma gli altri hanno preferito rimanere a casa sicuramente sotto una coltre di coperte pesanti magari sorseggiando una tazza di matcha.
Sgranocchi qualche altro spuntino e sei costretto a rivalutarne alcuni, ma né la fame né la cacofonia dei tuo compagnia d’aula riescono a distoglierti dai tuoi pensieri: sei solo.
Sei solo in una folla di estranei.
Qualcuno che ti riconosce alza una mano per salutarti, qualche parola di cortesia e subito è il vuoto, una distanza, che torna greve, appesantisce i polmoni, il loro riempirsi d’ossigeno.
La solitudine è un macigno, ti sei perso in un bosco oscuro, non hai ancora trovato la fattucchiera dal naso adunco che si ciba di carne non ancora svezzata e di questo ne sei grato… cerchi le briciole di pane che hai lasciato durante il tragitto, ma il ritorno è difficile, arduo a tratti. La mollica è stata mangiata in alcuni punti e per continuare devi affrontare il nulla di un salto che non ha appigli.
Perché sei solo?
No.
Perché ti senti così solo?
Lui non c’è… e l’assenza, questa sensazione così molesta e aguzza, si conficca nella carne scorrendoti nelle vene: avvelenandoti il corpo e la mente.
Dov’è la persona che tanto desideri?
Mai l’hai dimenticata, ha gareggiato nei tuoi sogni e ha vinto nei tuoi incubi. Ti ha dato conforto nelle ore nere dove le filanti argentee erano le uniche luci ad illuminarti la via.
Dove sei?
Dove sei, dove si rifugiano i tuo pensieri in questa notte che fa da ponte tra la valle dei fantasmi e le colli erbose dei santi che hanno donato il loro essere a un credo superiore?
Solo.
Stropicci il tuo mascheramento; i pantaloni neri e aderenti, strappati e ricoperti di tintura.
La maglia e la giacca, la prima di un color fucile e la seconda dalla sfumatura topo, hanno passato tempi migliori, ora sono a brandelli, sfilacciate per sembrare usurate dalle decadi.
Oh, è così che ti senti, vero?
A pezzi, abbattuto.
Vorresti sostare errante pellegrino?
Perché l’unico luogo di riposo è il letto interrato da cui hai ripreso vita.
Stropicci gli occhi, decidi di andartene basta che l’assordante vivacità che ti circonda, asfissia, smetta di assillarti.
Poni il bicchiere al quale non hai ancora poggiato le labbra, traballa sul tavolo storto, si incrina, ma non cade. Si erge forte, per quanto delicato, su un ripiano scosceso e il suo peso, il fardello dell’interiorità che si porta appresso vacilla, assume nuove forme eppure non si perde e rimane unito, in un qualche modo solido.
È ancora integro contro le intemperie.
Dove sei?
Immerso in una vasca ricolma d’acqua?
Sai, l’acqua, il tempio che santifichi, che preghi al fine che ti possa proteggere, non ha la forza per difenderti dagli invasori; non è un muro, non è un guscio impossibile da penetrare.
L’acqua è mera superficie che non ha poteri di difesa.
Lo sai?
Riesci a capire quanto esposto è il tuo io?
Riesci a comprendere che bastano braccia prepotenti per afferrare il tuo cuore?
Strofini gli occhi cercando di non rovinare il trucco che ricopre l’intero tuo viso di un colore malaticcio, dei finti denti enormi e un buco di carbone che ricopre la tua bocca.
Sei invisibile nell’oscurità, appiattito senza sostegno alcuno ti trascini per le scale, vaghi tra le aule e subito corri lontano, ti nascondi dalla felicità e dalle ornamentazioni in tema che ricoprono i soffitti, arpie dagli artigli acuminati che ti aggrediscono i capelli e che ti sminuiscono ai soli tuoi occhi.
Scontri studenti transitori che all’impatto grugnano un malcontento, a volte qualche parola di troppo, ma la festa ha fatto radici nella ragione e così come sono arrivati spariscono, non lasciano presenza, non esistono sulle sponte che aprono le porte al mare di pentimento e lamento.
Trovi riparo in una piccola ala dimenticata quanto te, sei costretto a entrarci testando le pareti, non riesci a vedere bene e lo sguardo trova difficile rintracciare qualcosa che non c’è.
Entri e ti acquieti su un divanetto che dai per scontato data la sua morbidezza.
Qualcosa… qualcuno sussurra dalla sorpresa e a te muore in gola, si incastra, un sospiro di spavento.
Una figura, in ombra, ti osserva ed è il guizzo chiaro che ti ricambia l’unico particolare che riesci ad afferrare.
Silenzi il battito frenetico che prepotente e irrispettoso sbatte convulso nella cassa toracica, lo rimproveri perché le ore che stai vivendo sono fittizie e nulla può accadere di sconcertante.
Nessuno parla, ognuno serrato nel proprio mutismo, qualche movimento che reca musicalità graffiata, primitiva.
Allunga il corpo per offrirti qualcosa da mangiare, indugi e dopo un’attenta valutazione dettata più dall’immaginazione che dal vedere effettivo, ti avvicini a lui, presumi, e ti accomodi al suo fianco.
Inizialmente rigido, arpioni qualche manicaretto e lo degusti con qualche fatica: l’apparenza è pur sempre più importante del contenuto, ringrazi il manto scuro per non esserne consapevole.
Il ragazzo che ti affianca borboglia un dissenso rivolto al piatto come un rammarico, l’idea di non aver cenato prima di buttarti in un mare di carne e di onde inautentiche bussa imperioso al tuo senno: devi prenderti più cura del tuo intestino da nuotatore.
Ringrazi la sua gentilezza, ma nessun suono viene proferito: non da lui… non da te.
È una figura volta nel mistero, ammantata in un tabasco del color della pece, le sue iridi pescate non ti concedono di scappare, hanno agguantato appigli nascosti, sepolti nel tuo inconscio e senza più voce ne hanno decantato melodie inudibili ai profani.
Porta una bandana, la cresta lascia intravede solo qualche ciocca chiara. Lunghi filamenti che danzano guidati dal fiato che espiri, un po’ ti diverti: sono così leggeri, immacolati. Si lasciano guidare, si piegano a un volere superiore, ma nel loro essere in trappola mantengono un pizzico di libertà di cui tu non sei più degno.
Come te, le sue gote e il suo mento sono dipinti di vermiglio, gronda coaguli che macchiano la camicia avorio e la parte superiore del suo volto è coperta da una maschera orripilante, volutamente grottesca.
Sorridi e lui ricambia le risa.
Siete qualcuno: due ragazzi che ora hanno perso identità.
Siete nessuno: due entità che una volta erano individui.
Il tempo passa, ascolti le nuvole, rimani in attesa del loro tonare fin quando un toccamento rapisce l’immaginario che hai preferito non costruire.
Posto alla tua destra sfiora le tue dita con le sue, sottili e dal tocco rispettoso, leggero.
Basta poco per indirizzare le proprie attenzioni a un gesto tanto effimero.
Il vento ulula alle finestre, cerca di dissuadere il proseguire di una carezza, rugghia dicerie da cui bisogna diffidare. Amareggiato perché inascoltato piange, si lagna bramoso di attenzioni ed ancora una volta fallisce.
Ricambi quel perlustrare fatto di carne viva e titubanza, stringi la presa attorno ai suoi arti estremi ed è il caldo che ti brucia l’epidermide. Infuoca le terminazioni e incenerisce le articolazioni.
Blocchi il petto e fermi il vagare orbitale del mondo.
Perché tanta fretta?
Audace compatti la tua spalla alla sua, ma gli spiriti hanno aperto gli stipiti, gridano: non ancora.
Il manto corvino si alza ansante, non riesci ad afferrarlo e lui riesce a evadere dalla tua presa non ancora concisa. T’affretti ad inseguirlo, per poco non cadi, per poco non sbatti addosso uno spigolo, poco importa perché il dolore non raggiunge il tormento della perdita.
Uscite dall’edificio, sgattaiolate tra gli alberi del giardino e con non poca fatica riesci a raggiungerlo.
Non comprendi, però, se sia stato lui ad arrendersi o tu ad aver spinto i muscoli a volteggiare più delle loro possibilità.
Il nero del cielo incombe su di voi, i lampioni sono spenti e quelli ancora accesi sono lontani, distano metri in uno spazio-tempo che non può più avvicinarvi, la loro illuminazione non vi sfiora, forse si sentono di troppo, spettatori non voluti accorciano il loro bagliore.
Non sono i respiri affannati a recar disturbo, nemmeno lo sono gli inciti vementi dell’aria. Disturbo è il sassolino che prende il nome di timore e il cognome di trepidazione.
Il brio di un agguato all’animo si erge sulla sua dualità: la veemenza del predatore e l’apprensione della preda.
La sua presenza, prima braccata, ti trascina nell’angolo delle mura esterne; due muri e un’ombra cupa che vi inghiotte.
Grotta infestata da simulacri senza più materia, intercedono per voi interpellando gli dei di nascondervi, di adombrare la nudità che ha strappato le vesti alle vostre identità.
Fantasmi invocate Nyx così che possa impedire ai suoi figli Etere ed Emera di giungere dove non sono apprezzati.
Ed è per la prima volta che qualcuno poggia le sue labbra sulle tue, ricambi gli incerti movimenti, un bacio di rose e di spine velato da innocenza.
Vaga il tuo tatto sulla sua corporatura: ti supera di qualche centimetro, la struttura che abbracci è ingannevole. L’immenso mantello altera le proporzioni, una finta pancia si frappone fra voi.
Da cosa diavolo è vestito?
Ridacchi e lui ti segue nella tua stessa spensieratezza.
Perché tu, da cosa diavolo sei vestito?
Vi staccate quel poco per prendere fiato, goffi vi ricongiungete, incidete bocca e lingua con la vostra firma.
Intrecci le ossa alle sue e sugelli un veto d’ossidiana materia dei sigilli e delle armi antiche.
Fa coincidere il suo corpo al tuo, non perfettamente, ma quel che basta per avvertirlo, sentirlo sulla pelle.
In un momento che non sai definire qualcosa si infrange, fai per strappagli la maschera per rivelare chi si celi sotto di essa e subito comprendi il tuo errore: si divincola e nel frangente di una disattenzione si dilegua e tu non sai perché, ma decidi di non cacciarlo.
Rimani esterrefatto, pietra furente, solo tra gli arbusti. Ti maledici.
Sbuffi, ti rassetti e non sai come, non sai perché alzi lo sguardo e due sono le certezze che, dopo tanto vagare, affiorano nella tua mente tanto da far tremare il tuo essere dall’impatto di quella che è una comprensione tanto minuscola quanto brutale.
Primo.
Testimone del tempo e del passato è stato l’arco celeste.
Brucia gli occhi tanto risplende di sfavilli… i nugoli minacciosi che lacrimano non sono in grado di affievolire i suoi riverberi.
Stelle che solcate il firmamento, che rincorrete i pianeti e vi beffate della loro bruttezza al confronto della vostra beltà.
Stelle che cavalcate gli astri e banchettate col tempo riuscendo a batterlo per poco anche seppur non più esistenti.
Stelle, oh stelle fate male allo sguardo tanto siete irraggiungibili, lasciate che la pelle si informicoli, la spaesate con il vostro disegno e subito sparite gorgogliose per la continua ammirazione nei vostri confronti.
Stelle a cui non interessa nulla di noi, eterne e fulgenti, avete benedetto un bacio e maledetto la sua investigazione.
Oh Sirio, amica dell’uomo, mai traditrice e sempre fidata compagna, cane e cruciale guida, mi hai indicato la strada e d’un tratto l’hai interrotta, sei felice?
Secondo.
D’un tratto, quando i tuoi tocchi erano intenti a scovare alfabeti a te sconosciuti, aveva iniziato a piovere… l’acqua non t’è mai piaciuta, se non quella della piscina.
È questa seconda piccola concretezza che senza ritegno ti ha colpito a fondo, senza indugiare, facendoti sanguinare.
Dove sei?
Immerso in una vasca ricolma d’acqua?
L’acqua è mera superficie che non ha poteri di difesa, lo sai?
L’acqua non ha scudi eppure possiede una violenza inaudita, non può tutelare i sentimenti, la sua meschinità sta nella capacità d’annegare l’intruso, d’affogarlo una volta che ha varcato il suo confine e che si è addentrato troppo in profondità.
L’acqua è un elemento devastante.
Pulisce le ferite, lava via lo sporco e disinfetta le lacerazioni che l’amore in preda all’ira ha inferto.
Dona nuova vita alle coltivazioni aride e agli assetati.
L’acqua ti culla, marinai ormai passati nella coltre del sonno eterno sono depositati sul suo fondo, circondati dalle carezze costanti del suo continuo oscillare, mai soli.
Dove sei?
Forse immerso in una vasca ricolma d’acqua?

Spazio autore
Oddio... ce l'ho fatta!
Come state?
Per me questa è la prima volta che partecipo a una challange con prompt e posso dire di avercela fatta!
- non so se si sa, se si capisce, ma non amo molto le challange, i prompt e Halloween, in particolare non reggo Halloween quindi questa OS è stata un trauma -
Il titolo riprende la canzone "Farfalla bianca" di Ultimo.
Non è nulla di estremamente pesante, strano, sono stata parecchio leggera e sono approdata anche in questo fandom~ Se qualcuno se lo stesse chiedendo, sì, la vicenda è volutamente surreale.

Rating: Giallo (più per il senso di smarrimento e il tema delicato dello spaesamento)
Parole: 2711
  
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