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Autore: ChiiCat92    28/10/2018    0 recensioni
"Non era solo una sciarpa, o meglio, sì, era solo una sciarpa. Non era solo una sciarpa per me.
C’era qualcosa dentro, nel tessuto, imprigionato tra i fili del tessuto giallo senape, che la rendeva speciale.
Non era un potere che le avevano dato quando era stata cucita, perché probabilmente proveniva da un posto lontano, buio, sporco e mal tenuto di un paese del terzo mondo (come tutti i capi d’abbigliamento venduti in America), né le era stato donato dal venditore, perché l’avevo trovata in un negozietto durante gli sconti di Natale.
No, il potere di quella sciarpa glielo avevo dato io."
Genere: Fluff, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Axel, Saix
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun gioco
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28/10/2018

 

Scarf


Non era solo una sciarpa, o meglio, sì, era solo una sciarpa. Non era solo una sciarpa per me.

C’era qualcosa dentro, nel tessuto, imprigionato tra i fili del tessuto giallo senape, che la rendeva speciale.

Non era un potere che le avevano dato quando era stata cucita, perché probabilmente proveniva da un posto lontano, buio, sporco e mal tenuto di un paese del terzo mondo (come tutti i capi d’abbigliamento venduti in America), né le era stato donato dal venditore, perché l’avevo trovata in un negozietto durante gli sconti di Natale.

No, il potere di quella sciarpa glielo avevo dato io. Quando la indossavo, sentivo di poter andare ovunque, mi sentivo protetto, caldo, coccolato, e soprattutto mi sentivo normale.

La cicatrice che, dal pomo di Adamo fin al centro del petto, mi tagliava in due come fossi un giocattolo uscito difettoso dallo stampo, quando indossavo la sciarpa spariva.

Nessuno, a meno che non vedesse la cicatrice, poteva immaginare che a dieci anni avevo subito un trapianto di cuore.

Era una sciarpa magica, per quanto mia madre mi diceva che a sedici anni ero troppo grande per parlare di sciarpe e poteri magici.

Fatto sta che, da quando me l’avevano rubata, non riuscivo più ad andare a scuola senza sentirmi come sotto il vetrino di un microscopio. Voci bisbiglianti mi seguivano lungo i corridoi, risatine mi rincorrevano nei bagni, e sguardi indiscreti mi facevano sentire nudo.

Non avevo il coraggio, però, di recuperarla. Perché sapevo benissimo chi me l’aveva preso.

Il mio corpo, esile e malandato per via dei farmaci, non avrebbe retto lo scontro con il gruppetto di bulli del terzo anno che me l’avevano portata via. Non ci pensavo neanche.

Di tanto in tanto capitava che li vedessi litigarsela o peggio sfoggiarla in mensa come un trofeo prezioso.

La Sciarpa dello Sfregiato.

Per quanto indossassi maglioni a collo alto, felpe chiuse fino al mento e maglie accollate, la cicatrice era sempre lì, risaltava come un fulmine nel cielo notturno, impressa per sempre sulla mia pelle candida.

Non potevo nasconderla, non davvero, e di prendere un’altra sciarpa non ne avevo l’intenzione. A cosa sarebbe servito se non a farmela rubare di nuovo?

I bulli avevano già il loro trofeo, e io non avevo bisogno di sentirmi privato ancora delle mie sicurezze.

« Guardate, c’è lo Sfregiato! »

Quando alzai gli occhi e mi trovai davanti il mio gruppetto di tormentatori preferito mi si strinse lo stomaco, probabilmente per non far risalire la bile alla bocca.

A testa bassa, fingendo di non aver visto che il loro capo avesse al collo la mia sciarpa, cercai di superarli, ma uno di loro mi bloccò la strada.

« Quando parliamo con te dovresti essere un minimo partecipe. » si lamentò il capo, accarezzando la mia sciarpa. Avrei voluto stringergliela al collo fino a strozzarlo. Anche se, tecnicamente, sarebbe stato omicidio, e non volevo davvero uccidere una persona.

« Faccio tardi. » mi uscì dalle labbra, in un soffio. « Devo andare a lezione. »

« Vai pure, Sfregiato. » rise il capo, scuotendo la testa. Forse sperava che rispondessi, che gli dessi modo di colpirmi, di deridermi, o forse gli bastava quella dimostrazione di sottomissione.

Mi facevo schifo. Ma meglio farmi schifo che finire ammazzato: un pugno di quei ragazzi era grosso quanto la mia testa.

Non mi voltai, anzi, aumentai il passo finché il mio nuovo cuore non prese a battere più forte. Non ero ancora abituato all’idea che venisse da una persona morta a cui dovevo la vita: non avrei mai potuto ringraziarla, stringergli la mano, o fargli un regalo come aveva fatto con me.

 

L’ora di pranzo era il momento della giornata che più odiavo, e non solo perché la quantità di pillole che dovevo prendere mi faceva quasi vomitare, ma anche perché dovevo trovare un posto tranquillo in cui nessuno mi avrebbe disturbato.

Dato che la giornata era calda e che il sole illuminava il cielo, decisi di andare a mangiare sugli spalti del campo di atletica. Almeno lì sarei stato lontano dal bulli, e dal loro pavoneggiarsi con la mia sciarpa.

« Stupidi, schifosi gremlins. » sbottai, calciando un sasso.

Gli spalti erano vuoti, ma sul campo si stava allenando la squadra di staffetta. Forse c’era un campionato in arrivo. Per quanto mi riguardava lo sport era un sogno vago, lontano: mi affannavo solo a salire le scale, ed ero troppo debole per correre più di qualche metro.

Nel sacchetto del pranzo mia madre aveva scritto un adorabile biglietto di incoraggiamento, con un disegnino abbozzato di lei sorridente che faceva il segno di vittoria con le dita. Imbarazzante, ma carino.

L’odore di prosciutto e formaggio mi fece tirare un sospiro di sollievo, che poi mi morì tra le labbra quando sentii il suono delle pillole tintinnare nel contenitore di plastica sul fondo del sacchetto.

Avrei preferito non prenderle, ma sarei morto per il rigetto, e non era la migliore delle prospettive.

Almeno c’era il succo d’arancia a renderle meno disgustose.

« Ehi. »

Mi voltai di scatto, spaventato come un procione sorpresa a frugare nella spazzatura. Per un attimo temetti che qualcuno dei bulli mi avesse trovato per torturarmi indisturbato lì, dove non c’era nessun altro che la squadra di staffetta che correva lungo il campo.

Poi lo misi a fuoco.

Dovevo averlo visto a lezione di matematica o a chimica, ma non avevamo mai parlato, non solo perché io ero il “nuovo arrivato”, quello che secondo la Legge del Liceo non deve avere amici, ma anche perché mi sembrava...al di là della mia portata.

Decisamente più grosso di me di stazza (ma chiunque, andiamo, era più grosso di me), il ragazzo aveva corti capelli blu zaffiro, ordinati e tirati indietro sulla testa con il gel; occhi meravigliosamente verdi e spaventosi, quasi sempre privi di attenzione, come quelli di una bambola o una statua; un viso giovane che, dandogli tempo, sarebbe diventato quello di un uomo affascinante.

« Posso sedermi? » chiese.

Ancora intontito annuì, spostandomi un poco per fargli spazio.

Dio, che idiota, c’era un sacco di spazio, gli spalti erano vuoti. Dovevo sembrare un disperato.

Per un po’ il ragazzo non disse niente, e io dimenticati che dovevo mangiare, prendere le medicine con il succo d’arancia, e respirare, respirare per evitare di morire.

« Ci conosciamo…? »

« Questa è tua? » mi interruppe, praticamente spingendomi in faccia la mia sciarpa, la mia sciarpa magica.

Battei le palpebre così forte che per un attimo temetti che mi schizzassero via.

« Sì...no...come…?! »

« Ne avevo abbastanza di quegli stronzi. » aveva un leggero accento straniero, forse francese, e da come aveva sputato fuori quella parolaccia sembrava un tipo non abituato a imprecare.

Lo trovai assurdamente adorabile e sentii uno strano calore prendermi le guance.

« Grazie. » mormorai, e presi la sciarpa.

Puzzava un po’ di colonia, un profumo da grandi che doveva essersi spruzzato addosso il capo dei bulli. Era disgustoso, ma non mi importava, me la misi addosso e mi sentii subito meglio.

La cicatrice era sparita, e io ero di nuovo normale.

« Mi chiamo Lea. » gli dissi poi, allungano la mano, come se mi fossi ricordata all’ultimo momento che non mi ero neanche presentato con lui. Che stupido.

« Isa. »

Aveva la pelle talmente chiara da sembrare abbronzata al chiaro di Luna.

Guardandolo da vicino notai che aveva il labbro spaccato e sangue rappreso su uno zigomo che andava trasformandosi in un livido.

Sentii un gemito sofferente uscirmi dalle labbra senza il mio controllo, poi gli afferrai il viso con entrambe le mani per controllarlo meglio.

« Hai fatto a pugni con quei bastardi! » non era neanche una domanda.

« Circa. Ahi. » fece lui, storcendo il naso quando sfiorai il livido con un pollice.

Lo lasciai andare scusandomi, ma scossi la testa. « Non avresti dovuto, adesso tormenteranno anche te. »

Lui si strinse nelle spalle, e chiese: « Posso rimanere a pranzare qui? »

Che stupido. Uno stupido piuttosto carino.

« Sì, certo. »

Dovevo proprio raccontarlo a mia madre, adesso ci avrebbe creduto: la mia sciarpa era davvero magica.

   
 
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