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Autore: Leemoon MewSisters    31/10/2018    10 recensioni
Per fortuna la tanto attesa sera del 31 Ottobre era giunta e Momomiya Ichigo non avrebbe più dovuto saperne nulla di quella maledetta festa per almeno un anno.
***
“Tu non sai cosa è successo qui l’anno scorso ad Halloween, vero?” le fece la mora, fissandola con l’aria di chi la sapeva più lunga di lei.
***
“Oh, oh, calma...” fece la figura, con voce maschile, alzando le mani in sua discolpa. “Non sono un fantasma e neanche uno zombie. Non cercherò di mangiarti il cervello o robe così...” ridacchiò.
“Umh... Ikisatashi, giusto?” bofonchiò la rossa a questo punto.
“Kisshu, per le colleghe carine.” ammiccò invece lui.
***
“C... c’era... una persona... là fuori....” farneticò la ragazza, mentre il cellulare le tremava nella mano e lei si rifiutava di illuminare la vetrata incriminata.
“Ma ti prego...” smozzicò lui, afferrandole senza alcun garbo il polso malfermo e sollevandoglielo verso l’alto.
Genere: Demenziale, Horror, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ichigo Momomiya/Strawberry, Keiichiro Akasaka/Kyle, Kisshu Ikisatashi/Ghish, Mint Aizawa/Mina
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Paranormal Encounters at the Shopping Mall

AU, OTP, cliché come se piovessero, riferimenti non casuali e di pessimo gusto alla serie originale, qualche badilata di fanservice, humor, trash, limoni, zucchette malvagie, il lato horror di TMM, flora del Kenya, inseguimenti al cardiopalma e tutte le altre solite robe che potete trovare nelle mie fikky. Composta e postata letteralmente in cinque giorni di influenza, un lasso di tempo per me inconcepibile. Quasi 12.000 parole. Senza pretese, davvero.

 

 *** Paranormal Encounters at the Shopping Mall ***

Halloween non era una festa particolarmente sentita in Giappone. A differenza di altre ricorrenze occidentali che avevano preso più agevolmente piede, come il Natale o San Valentino, essa restava troppo legata alla tradizione folkloristica del mondo anglosassone per diffondersi in modo capillare. Sicuramente, al di fuori di grandi città come Tokyo od Osaka, la maggior parte delle persone a malapena sapeva di cosa si trattasse, pertanto, se dei festeggiamenti vi erano, essi si limitavano alle grandi megalopoli più multietniche e non avevano alcun valore religioso ma solo prettamente commerciale. Questo atteggiamento faceva storcere il naso persino ai meno conservatori, considerando che la maggior parte la riteneva nient’altro che una sorta di enorme fiera cosplay dell’orrore, in cui migliaia di giovani, in costumi più o meno macabri, invadevano i quartieri più modaioli della capitale, come Shibuya, Harajuku, Kawasaki od Omotesando, e si davano a dubbi festeggiamenti a base di alcool e feste a tema horror.

Poi vi era lo Shirogane’s Shopping Mall, che era un caso a parte.

Sebbene si trovasse nel tranquillo quartiere di Nerima, il proprietario, tale Ryou Shirogane, era un facoltoso miliardario di origini americane e pertanto celebrare suddetta festa, nel suo sfavillante centro commerciale a cinque piani, era d’obbligo. Sembrava premergli non solo sfruttare fino all’osso la ricorrenza per trarne il maggior profitto economico possibile, come tutti gli altri imprenditori e negozianti della città, ma era evidente che, per il misterioso magnate, essa aveva una vera e propria valenza affettiva. Pertanto ogni vetrina dei numerosi negozi presenti nell’ampia struttura doveva essere addobbata a tema, pullulare di zucche dalle facce raccapriccianti, ragnatele finte, maschere di agghiaccianti personaggi usciti dai più disparati film e manga horror, ectoplasmi evanescenti che fluttuavano per i corridoi grazie a proiettori luminosi e figuranti in maschera che giravano offrendo sconti e promozioni, mentre spaventavano per gioco i clienti ed offrivano dolciumi ai bambini. In tutto questo, anche il menù di tutte le attività presenti nelle due aree di ristorazione del centro doveva essere adeguato.

E dopo l’intero mese di Ottobre che, al modesto e grazioso Caffè Mew Mew sito al quinto piano, Momomiya Ichigo continuava a servire ogni giorno decine e decine di milk shake alla zucca, mini-pancake arancioni a forma di zucca, melonpan al gusto di zucca, muffin al cioccolato con frosting di zucca e cheesecake alla zucca, la ragazza iniziava ad essere lievemente esaurita.

Innanzitutto perché lei odiava la zucca.

Soprattutto si domandava che razza di problemi avessero quelli che ordinavano milk shake alla zucca.

Ma più di ogni altra cosa perché odiava tutta quella panzanata di Halloween.

Perché sotto sotto, anzi... neanche troppo sotto... lei era una grandissima fifona.

Riusciva a spaventarsi a morte anche guardando per sbaglio le pubblicità a tema horror in tv, i soli trailer dei film o gli episodi di anime shoujo per bambine dove comparivano dei fantasmi. Ed andare al lavoro ogni giorno e vedersi circondata da vetrine di negozi addobbate come dei cimiteri e manichini conciati da zombie era, per il suo giovane e debole cuore, troppo pesante da sopportare.

Per fortuna, la tanto attesa sera del 31 Ottobre era finalmente giunta e, nonostante per l’occasione il centro commerciale avesse protratto l’orario di chiusura di ben due ore rispetto alla norma, arrivando alle 23.00, finita quell’ultima, snervante giornata non avrebbe più dovuto saperne nulla di quella maledetta festa per almeno un anno.

La giovane venticinquenne lanciò un’ultima breve occhiata all’interno del piccolo caffè, che aveva preso in gestione da pochi mesi assieme a due amiche, assicurandosi di aver finito di pulire e sistemare tutto, quindi sospirò stanca ma soddisfatta. Sciolse i capelli, che al lavoro teneva sempre legati nella cuffietta per motivi d’igiene, e le morbide ciocche ondulate rosso lampone scesero a sfiorarle le spalle. Recuperò la borsa ed il cappotto di lana, anch’esso color lampone, quindi si vestì rapidamente mentre andava ad abbassare la saracinesca del caffè. Diede un giro di chiave alla serratura automatica, infine si avviò svelta verso gli ascensori.

Erano già le 23.15 e quasi tutti i negozi avevano chiuso ormai da una decina buona di minuti – Solo le attività di ristorazione, come sempre, finivano per attardarsi - pertanto nel lungo corridoio che stava percorrendo non si vedeva praticamente nessuno in giro, né si udiva nulla se non il rumore di altre saracinesche che venivano calate in lontananza, assieme a qualche mormorio. Fu pertanto abbastanza stupita quando, raggiungendo il disimpegno dove si trovavano gli ascensori, sentì il ticchettio cadenzato di un paio di tacchi venirle incontro dalla direzione opposta. Attese un momento, incuriosita, allungando il collo in direzione del rumore, finché non scorse una figura bassina, dai lucidi capelli corvini raccolti in uno chignon, avanzare a passo di marcia verso di lei, stretta in un elegantissimo cappotto color tortora.

Aizawa Minto.

La proprietaria di una boutique di alta moda sul lato opposto del piano. Ichigo storse le labbra, indecisa se chiamare l’ascensore fingendo di non averla vista oppure essere cortese ed aspettarla. Non le stava esattamente antipatica, ma era una ragazza alquanto... singolare. La conosceva abbastanza bene perché aveva la bizzarra abitudine di sprangare il suo negozio ogni giorno dalle 17 alle 17.30, in maniera del tutto anarchica, solo per recarsi al suo Caffè e sorseggiarsi una tazza di tè in solitudine ad un tavolo.

Prima che potesse decidere, la mora la adocchiò da lontano. “Oh, Momomiya...” la salutò, arricciando il naso senza alcun entusiasmo.

“Aizawa-san...” La rossa ricambiò il saluto, se così si poteva chiamare, con quanta più gentilezza le fosse possibile, ignorando l’atteggiamento perennemente snob ed altezzoso della ragazza. “Hai tenuta aperta la boutique fino a quest’ora?” le domandò poi, sinceramente incuriosita, mentre pigiava il pulsante per chiamare l’ascensore. Era davvero strano vedere un soggetto come lei lavorare così tanto...

“Oh, non mi ci far pensare!” replicò teatralmente l’altra, facendola pentire un secondo dopo di averglielo chiesto. “Circa un’ora fa sono arrivate due signore che insistevano nel volere un capo color zucca. Per Halloween, capisci? Ed io gli ho detto che nessuna collezione quest’anno ha un colore tanto orrendo. Allora una di loro voleva acquistare un cappotto di Fendi color terracotta, sostenendo che fosse uguale... e ci voleva abbinare una stola di Dior rosa ciclamino con inserti in visone e insomma... ma ti pare che io faccio uscire dalla mia boutique delle clienti conciate a quel modo!?” proruppe l’altra, con un tono talmente melodrammatico che sembrava sul punto di svenire.

“Ah-ah...” annuì annoiata Ichigo, che alla parola zucca aveva già staccato il cervello. Per sua fortuna la porta dell’ascensore si aprì davanti a loro con uno scampanellio ed entrambe le ragazze si affrettarono all’interno. Mezzo minuto dopo erano arrivate al piano terra e si stavano incamminando lungo l’ampio atrio principale, dirette verso l’uscita e, da lì, avrebbero raggiunto il parcheggio riservato ai dipendenti. Un gruppetto dei pochi ultimi negozianti ritardatari le sorpassò a passo svelto, mentre Ichigo rallentava distratta l’andatura, intenta a frugare a capo chino nella borsa, alla ricerca delle chiavi dell’auto. Era talmente assorta che neanche si accorse di essere ormai arrivati di fronte alla porta automatizzata, se non che, quando questa si aprì, un vento fortissimo carico di gocce di pioggia la investì in pieno. La ragazza trasalì, colta alla sprovvista, ricevendo le proteste della Aizawa dietro di lei, mentre indietreggiava alla svelta lasciando richiudere la porta. “Momomiya! Lasciami almeno prendere l’ombrello prima!” la sentì lagnarsi.

“Ma che razza di tempo...” borbottò basita Ichigo, sistemandosi i capelli scompigliati dal vento e stringendosi meglio la morbida sciarpa bianca attorno al collo.

“C’è una violenta perturbazione nel sud del paese, probabilmente in tarda notte passerà su Tokyo... non li ascolti i notiziari Momomiya?” le fece l’altra, caustica.

Ichigo le avrebbe volentieri voluto dire che non si era fermata un attimo al lavoro per tutto il pomeriggio e che no, non aveva pensato a sentire il notiziario, ma preferì stare zitta. “Sarà meglio che chiami Masaya...” si ritrovò invece a pensare ad alta voce. “...sicuramente sarà in pensiero per me con questo tempo...” mormorò la rossa, infilando la mano nella borsa alla ricerca del cellulare, mentre Aizawa finiva di sistemarsi a sua volta e recuperava un ombrellino dal suo bauletto.

Cercò il cellulare a lungo, senza risultato. “Ma che diavolo...” borbottò la ragazza.

“Hai perso il cellulare, Momomiya?” le fece l’altra, affatto preoccupata.

“Ma non è possibile...” protestò ancora, frugando con più nervosismo. Intanto le luci attorno a loro si abbassarono, segno che stavano ormai per chiudere il centro commerciale. “Aizawa, fammi un piacere... prova a chiamarmi...” pigolò a questo punto Ichigo, che stava iniziando ad agitarsi. Si stava facendo davvero tardi e non avere il telefono sotto mano le stava facendo salire l’inquietudine, considerando che più ritardo accumulava più il suo fidanzato, a casa, si sarebbe impensierito. Soprattutto se vi era una specie di tifone in arrivo nella notte. L’altra parve pensarci su a lungo, increspando le labbra, quasi lo stesso comporre il numero di cellulare di una persona di basso ceto sociale come Momomiya rischiasse in qualche modo di insozzarla. “Va bene...” decretò infine, sfilando teatralmente fuori dalla borsa un IPhone color oro metallizzato – di sicuro l’ultimo modello - ed agitandolo vistosamente davanti alla rossa. “Dammi il numero...”

Ichigo non se lo fece ripetere due volte. “080 – 2517 - 2531...” prese a dettare, mentre l’altra componeva il numero.

Attesero mezzo minuto buono.

“Sta suonando...” commentò assorta Aizawa, con l’orecchio sul cellulare.

“Sì, ma non è nella mia borsa!” si agitò Ichigo, infilando quasi tutta la faccia nella sporta e pregando di vedere almeno il led o il display dell’oggetto illuminarsi, sperando che magari potesse aver solo disattivato la suoneria per sbaglio. Nulla, non c’era nulla.

“Lo avrai dimenticato al caffè...” Commentò piatta l’altra, chiudendo la chiamata. “Sei una persona molto distratta di solito.”

“Cos...” scattò su la rossa, rialzando indispettita la testa dalla borsa. Inghiottì l’ennesimo rospo della serata senza aggiungere altro, dicendosi mentalmente che aveva problemi ben più grossi di quella presuntuosa e spocchiosa della Aizawa. “Come faccio adesso?” mugolò poi, allentandosi inquieta la sciarpa che aveva d’improvviso preso a soffocarla.

“Torni su e lo cerchi?” fece la mora, alzando basita un sopracciglio.

“Ma stanno chiudendo!”

“Akasaka controlla sempre che non ci sia nessuno prima di staccare il quadro elettrico e chiudere le porte. Basta che gli dici di aspettare...” le consigliò la mora, stringendosi nelle spalle.

Akasaka... il responsabile capo delle guardie giurate che sorvegliavano il centro commerciale...

Era una persona sempre così disponibile e rassicurante lui...

Il pensiero le risollevò per un attimo il morale. “Sì, sì... ottima idea! Grazie!” si affrettò a farfugliare la rossa, illuminandosi in viso, prima di voltarsi alla svelta per correre alla ricerca dell’uomo.

“Ehi... Momomiya....” la chiamò Aizawa, prima ancora che avesse fatto mezzo passo.

“Sì?” fece incerta lei, fermandosi.

“Fai attenzione...”

Ichigo rimase a ciondolare il peso su una gamba, confusa. “A... a cosa?” chiese poi.

“È la notte di Halloween...” ridacchiò l’altra.

La rossa la guardò smarrita per alcuni istanti, prima che nel suo cervello scattasse qualcosa, rendendosi conto che la Aizawa stava cercando di prenderla bellamente in giro. “Oh ti prego!” sbuffò, seriamente urtata. “Non vorrai spaventarmi con queste storielle stupide!”

“Tu non sai cosa è successo qui l’anno scorso ad Halloween, vero?” le fece invece la mora, incrociando le braccia e fissandola con aria sostenuta.

A questo punto Ichigo si sentì cogliere dall’imbarazzo. “Emh... no... lavoro qui da solo sei mesi...” si giustificò, torcendosi agitata ed impacciata le dita.

Alla sua reazione la Aizawa ridacchiò ancora, coprendosi la bocca con il dorso della mano, quindi la guardò con l’espressione di chi la sapeva molto più lunga di lei. “Ho perso anche troppo tempo stasera a causa tua Momomiya. Per ora ti saluto, buona serata!” la liquidò poi, aprendo l’ombrello ed imboccando la porta scorrevole a passo spedito.

Ichigo sgranò gli occhi, colta da un improvviso panico. “No no no! Ora voglio sapere!” le sbottò, correndole dietro ed allungando persino, d’istinto, una mano per bloccarla. Come le sfiorò la spalla la Aizawa si raggelò, scansandola via con un gesto irritato e fissandola con aria talmente truce che Ichigo fu sicura che avrebbe potuto incenerirla con lo sguardo, se solo avesse davvero voluto. La scrutò glaciale in silenzio per alcuni secondi, infine parve disposta a trattenersi qualche istante in più, richiudendo l’ombrello ed aggiustandosi un ciuffo di capelli corvini della lucida frangia, con aria di superiorità. “Vedi Momomiya...” iniziò poi, soppesando assorta le parole. “Questo centro commerciale è stato costruito dai genitori di Ryou Shirogane venticinque anni fa. A quei tempi non aveva ancora questo tocco così occidentale, sai... Tokyo non era pronta... ma dopo poco provarono ad introdurre alcuni negozi di stampo americano anche qui, McDonald’s, Starbucks, ecc... e la festa di Halloween. Purtroppo la prima volta che il centro venne addobbato per i festeggiamenti scoppiò un incendio per via di alcune vere candele in un negozio. Evacuarono il centro, ma il padre di Shirogane rimase ferito durante l’evacuazione e morì poco dopo. Shirogane Jr. ha rilevato l’attività da allora e non l’ha mai voluta chiudere.”

La rossa dondolò sul posto, fissandosi improvvisamente nervosa i piedi. “Emh... sì ok... è una storia molto brutta... ma cosa c’entra se è successo tipo... venti anni fa?”

L’altra la fissò intensamente negli occhi, avvicinandosi persino a lei ed abbassando il tono di voce. “C’entra perché da allora la notte di Halloween accadono cose strane e la mattina seguente si trovano sempre segni inspiegabili da qualche parte nel centro commerciale. L’anno scorso io c’ero, a differenza tua, e posso testimoniarti coi miei occhi cosa è successo....”

“E... c... cosa è successo?” sillabò Ichigo. D’un tratto si sentiva mortalmente inquieta, tanto che prese a far saettare nervosa lo sguardo a destra e a sinistra attorno a loro, quasi si sentisse d’un tratto osservata.

“La guardia che ha chiuso il centro quella sera ha giurato di aver visto un uomo aggirarsi per le gallerie. Pensando fosse un ladro ha provato a seguirlo, ma questo è sparito nel nulla davanti ai suoi occhi. La mattina dopo moltissimi dei libri delle tre librerie del centro erano scomparsi...”

“I libri!?” farfugliò la rossa. “Ma cosa se ne fa un fantasma dei libri!?” sbottò contrariata. Stava nuovamente convincendosi che la Aizawa le stesse raccontando un mare di fandonie.

L’altra, dal canto suo, alzò le spalle con indifferenza. “Probabilmente Shirogane Sr. era un uomo di grande cultura. Non so che altro dirti... io ti metto solo in guardia!” decretò infine.

“Mi sembra tutta una brutta storiella di pessimo gusto...” mugugnò irrequieta Ichigo, fissandola storto.

“Pensa quello che ti pare...” si limitò a concludere la mora, con aria di sufficienza. “Domattina mi saprai dire...” le sorrise poi. “Se ci vediamo...” aggiunse ridacchiando allusiva, prima di tuffarsi armata del suo ombrellino sotto le sferzata di pioggia e vento all’esterno.

La rossa la osservò incredula sparire sotto un’ipnotica danza di gocce d’acqua che turbinavano nel cielo, illuminate dai lampioni e dalle insegne al neon del parcheggio.

Rimase così alcuni istanti, col cuore che le batteva inquieto nel petto, mentre la porta automatica le si richiudeva davanti. Serrò i pugni e gonfiò le guancia, indignata. “Stai solo cercando di spaventarmi perché pensi che io sia un’idiota e la cosa ti diverte! E poi figurati se io ho paura del tuo stupido fantasma!” sbraitò all’indirizzo dell’Aizawa. Inutilmente tanto, perché la mora era già scomparsa alla sua vista da un pezzo.

Diamine... pensò tra sé e sé la rossa, deglutendo nervosa mentre cercava di calmarsi. Suvvia, non doveva dar retta ai discorsi idioti della Aizawa. E doveva darsi una mossa se non voleva restare chiusa nel centro commerciale o senza cellulare.


***
 

Ichigo ansimò per la corsa, piegandosi con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato. Si era fatta a piedi, il più rapidamente possibile, tutte le rampe delle scale mobili già disattivate, per ben cinque piani, nella speranza di incrociare Akasaka lungo la strada. Era abbastanza sicura che l’uomo avrebbe controllato per ultime le due aree ristorazione, dove era sempre più facile che si attardassero clienti o gestori delle attività stesse. La prima area ristorante era al terzo piano e l’aveva attraversata come un lampo mentre saliva – tanto le scale erano sfalsate in quel piano ed allungare la strada era quasi obbligatorio -, tuttavia non aveva trovato tracce dell’uomo. Ora era arrivata al quinto ed ultimo piano, dove si trovava il suo caffè, e si stava osservando speranzosa attorno. La lunga galleria commerciale che si apriva sia alla sua destra che alla sua sinistra era già parecchio buia, con le luci dei negozi spente e l’illuminazione generale già dimezzata, pertanto ci mise poco a scorgere il bagliore azzurrato di una torcia elettrica dal fondo del corridoio.

“Akasaka-saaaaaan!” chiamò trafelata, scattando in direzione della luce.

Scoprì con somma gioia di non essersi sbagliata non appena intravide la sagoma famigliare dell’uomo. Era in piedi in uno slargo del corridoio, intento a controllare con la torcia l’interno buio dei vari negozi attraverso le vetrine e le grate delle saracinesche. “Oh, Momomiya!” le fece cordialmente Akasaka, vedendosela correre incontro col fiatone. Era un bell’uomo di almeno dieci anni più vecchio di lei, coi capelli raccolti in un lungo codino castano, il viso perfettamente rasato e curato ed un fisico slanciato, risaltato dalla divisa blu, bordata di bianco. Aveva uno di quegli sguardi rassicuranti e gentili che avrebbero fatto sentire tranquillo chiunque, indipendentemente dalla mansione che ricopriva in quel centro. “Stai bene? Posso fare qualcosa per te?” le chiese immediatamente, a riprova della sua natura premurosa.

“Oh, sì ti prego!” esalò tutto d’un fiato la ragazza, rossa in viso per la corsa. “Credo di aver lasciato il cellulare al caffè... sto andando a recuperarlo...”

“Vuoi che ti accompagni? Devo ancora finire di controllare qui, ma se pazienti dieci minuti...”

“No, no ti ringrazio!” scosse animatamente la testa l’altra. “Posso andare da sola, basta che non mi chiudi dentro!” lo pregò lei.

“Ma certo Momomiya, non preoccuparti!” sorrise cordiale lui. “Tanto di là è rimasto anche Ikisatashi che sta chiudendo il ristorante. Finito questo piano faccio un secondo giro giù al terzo, per sicurezza, e se vi va bene vi aspetto lì, dagli ascensori, poi scendiamo tutti assieme. Stai tranquilla.”

Ichigo corrucciò un istante le sopracciglia, cercando di fare mente locale. Ikisatashi... doveva essere il tipo del kaiten sushi, quello proprio dirimpetto al suo caffè. Era uno che conosceva a malapena di vista, poiché era tra i pochi colleghi del piano che non si era mai degnato di venire a prendere alcunché al suo locale. Non che la cosa le dispiacesse. Aveva sempre pensato che avesse un’aria arrogante e poco raccomandabile.
“Umh... ok... ti ringrazio...” mugugnò, un po’ meno convinta di prima, indietreggiando di qualche passo. “Allora a tra poco...” aggiunse poi, più a se stessa che all’uomo, che si limitò ad annuire con un sorriso.

Si voltò lesta e prese a trottare verso l’altra ala del quinto piano, in direzione del suo caffè.

Le ci volevano neanche un paio di minuti a raggiungere la sua meta, tuttavia...

Si stava rendendo conto che percorrere quei corridoi deserti, a quell’ora tarda, non era affatto la stessa cosa che farlo in giornata, quando vi era pieno di clienti e di negozianti.
Si strinse la borsa contro al petto, con un filo di apprensione, realizzando che tutti quei pallidi manichini che la fissavano dall’interno di molte vetrine stavano iniziando a diventare fin troppo inquietanti.
Oltretutto fuori doveva esservi davvero un tempaccio assurdo. Riusciva quasi a sentire quelli che sembravano dei tuoni molto in lontananza, nonché le raffiche di vento che si insinuavano qua e là nell’impianto d’areazione e tra le intercapedini, sibilando in modo affatto rassicurante.

Si disse che doveva far finta di niente.

Quando svoltò l’ultimo angolo del corridoio, affacciandosi sull’ampia area adibita alla ristorazione, un moto di sollievo la attraversò. Adocchiò subito l’insegna rincuorante del suo Caffè Mew Mew a poca distanza, oltre la distesa di tavoli e panchine condivisi da tutti i locali. Lanciò un’occhiata distratta verso il ristorantino di sushi di cui le aveva parlato Akasaka, dirimpetto a lei, ma non vide alcuna luce accesa. La saracinesca era abbassata e l’insegna luminosa sovrastante, che recava a caratteri cubitali il nome del locale, Deep Blue – che nome idiota, aveva sempre pensato-, era spenta anch’essa. Ignorò la cosa, mentre si avviava a passi spediti verso il suo caffè. Una zucchetta con un cappellino da strega, unico vero addobbo di Halloween che aveva accettato di esporre, la salutava sorridente da sopra il bancone, con la sua luce caleidoscopica e multicolore. Recuperò al volo le chiavi dalla borsa e fece per riaprire la saracinesca che aveva abbassato neanche venti minuti prima, solo che il meccanismo elettrico fece un tale fracasso, nel centro commerciale deserto, che si maledisse da sola per la tortura inflitta ai suoi stessi timpani. Infastidita, ne bloccò la corsa quasi subito, alzandola solo quel tanto che le bastava per scivolarci sotto ed entrare.

Una volta dentro mollò la borsa sul ciglio del retrobanco, accanto alla macchina per i caffè ed a quella per i centrifugati, quindi iniziò freneticamente la sua ricerca. Scrutò tra i macchinari, sulle mensole tra bicchieri, tazzine e barattoli di vari tipi di tè, per terra, nei cestelli della pattumiera, persino dentro al frigo e soprattutto nel piccolo disimpegno dove teneva le scorte e gli stracci per pulire. Niente. Nulla di nulla. Spostava barattoli di zucchero, sacchi di farina di riso, casse di bevande e latte in alluminio di caffè e continuava a non trovare alcuna traccia di quel maledettissimo cellulare. Alzò persino lo sguardo ai ripiani più alti, domandandosi se avesse senso cercare uno sgabello per controllare addirittura lassù. C’era anche parecchio buio e la cosa non aiutava affatto. Prese ad inveire tra sé e sé, rifacendo tutto il giro per la seconda volta, quando...

Una figura scura stagliata sul fondo del bancone non le fece schizzare il cuore in gola e fare un salto di mezzo metro. “Etuchicavolosei???” esalò tutto d’un fiato, stridula, buttandosi con la schiena contro la parete in un istintivo gesto di protezione.

“Oh, oh, calma...” fece la figura, con voce maschile, alzando le mani in sua discolpa. “Non sono un fantasma e neanche uno zombie. Non cercherò di mangiarti il cervello o robe così...” ridacchiò.

Che accidenti si rideva...

La rossa strizzò gli occhi, riconoscendolo un attimo dopo. “Ah, sei il tizio del kaiten sushi...” smozzicò caustica tra i denti, mettendo meglio a fuoco la sagoma del ragazzo, bellamente appoggiato con un fianco alla fine del suo bancone, come se fosse a casa sua. Aveva degli inconfondibili lineamenti assai poco giapponesi, tanto che aveva sempre pensato che fosse quantomeno un hāfu (*), con una pelle davvero troppo bianca e soprattutto con quegli strani, penetranti occhi chiari che non riusciva a capire se fossero verdi o nocciola... sembravano più... mah... gialli...?
La fissava con un’espressione vagamente incuriosita, con le mani ficcate nelle tasche di una pesante giacca di pelle nera, (PUAH XD) foderata di morbido vello di montone all’interno, e con un berretto verde militare, anch’esso in lana, calcato sui capelli scuri. “Umh... Ikisatashi, giusto?” bofonchiò la rossa, dandosi un tono.

“Kisshu, per le colleghe carine.” ammiccò invece lui.

La ragazza si sarebbe volentieri spalmata una mano sulla faccia. Ecco, le ci mancava il tizio marpione proprio quella sera. Mentre era lì da sola.

Accidenti...

Finse di ignorarlo, dandogli le spalle e rimettendosi a cercare nervosamente il cellulare, senza tuttavia smettere di tenerlo sotto controllo con la coda dell’occhio. La cosa che le piaceva meno era che, se quel tizio marpione – non aveva termini migliori per definirlo al momento – era dentro al suo caffè, doveva essersi infilato sotto la sua saracinesca abbassata come se nulla fosse. Un brividino di angoscia le salì per la schiena. “Emh... hai... chiuso particolarmente tardi, stasera?” buttò là lei, cercando di spezzare il silenzio con un argomento di circostanza qualsiasi, sebbene dovesse esserle uscito tutto quanto con tono tutt’altro che gentile.

“In realtà no...” considerò il ragazzo, che continuava a guardarla assorto mentre lei metteva brutalmente a soqquadro il caffè, alla ricerca di quel benedetto cellulare. “Queste due ore extra di apertura sono state abbastanza inutili. I clienti se ne sono andati tutti da un pezzo, però sono d’accordo con Akasaka per andare a farci una birra finito il turno. Ci andiamo tutti i venerdì... e visto che tanto devo aspettare lui, ne ho approfittato per dare una bella pulita a fondo...” spiegò, alzando le spalle.

“Oh...” si limitò a rispondere Ichigo, soffermandosi un secondo di più a studiarlo meglio. Per un attimo si ritrovò a pensare che, se usciva abitualmente con una brava persona come Akasaka, forse non doveva essere un tipo così orribile come la prima impressione le suggeriva. Magari lo aveva giudicato affrettatamente...

“E tu invece?” mormorò lui. “Cosa ci fai ancora qui, Gattina?”

“G... gat... ti... na...” Ichigo ripeté basita quell’appellativo, scandendone le sillabe. Quel minimo barlume di possibilità che gli aveva dato era nata e morta in una frazione di secondo. “Ma che diam... ma ti sembra il modo!?” s’infiammò, sconvolta. In mezzo secondo si allungò verso la sua borsa, recuperandola dal bancone, visto che di colpo le sembrava pericolosamente troppo vicina a lui, e se la posò affianco, al sicuro, mentre istintivamente calcolava quanto spazio c’era tra la parete e quel maniaco nel caso di una sua eventuale fuga.

“Beh senti...” rimbeccò il ragazzo. “Non ho idea di come ti chiami. Non ti sei neanche presentata, e...”

“E quindi ti pare un buon motivo per darmi certi nomignoli?” lo interruppe lei, pestando stizzita un piede.

“Gestisci un Caffè che si chiama Mew Mew e vieni sempre a lavorare con... quelle...” ribatté lui in sua difesa, alzando allusivamente un sopracciglio e facendo un cenno col capo in direzione di quanto il cappotto rosso lampone sbottonato rivelava del suo abbigliamento. Sotto la ragazza indossava un maglioncino rosa confetto, a collo alto, con stampato sopra il muso stilizzato di un gattino nero sorridente. Sì, ok... ne aveva effettivamente una dozzina di maglioncini e magliette di quel tipo... e le metteva di continuo... ma...

“Beh, e allora? Mi piacciono i gatti, problemi?” sbraitò lei.

“No. Piacciono anche a me. Ne hai?”

“Non posso tenerli perché mi padre era allergico ed ora anche il mio fidanzato è allergico!” protestò la rossa. Un attimo dopo si morse la lingua, rendendosi conto che non doveva proprio alcuna spiegazione a quel tipo molesto. “Ma che te ne frega, scusa?” s’inalberò.

Questo si strinse nelle spalle. “Faccio conversazione. Gattina.”

“Ancora!?”

“Che ne dici, allora, di dirmi il tuo nome?”

“Ichigo, Momomiya Ichigo!” scandì a chiare lettere la rossa. “Se fossi mai passato a prenderti un caffè o un tè o qualsiasi altra cosa qui al mio locale, come tutti gli altri, magari lo sapresti già!” aggiunse, agitando infervorata l’indice nella sua direzione.

“Mah... anche tu sei praticamente l’unica del piano che non è mai passata a provare il mio pesce...” considerò l’altro, assorto. “E comunque Gattina ti si addice di più.”

A questo punto Ichigo prese un profondo, profondissimo respiro. Si prese persino la radice del naso tra due dita, pregando che non le venisse il mal di testa a causa della pressione che le stava salendo alle stelle e le stava rendendo paonazza la faccia dalla rabbia. La zucchetta che aveva messo come addobbo sul bancone stava rendendo ancora più surreale ed irritante l’intera situazione, lampeggiando in modo psichedelico di rosso, verde e blu sulla faccia di quel tizio odioso. L’afferrò brutalmente, spegnendola e rischiaffandola al suo posto. “Senti...” sillabò poi. “Piacere allora di averti finalmente conosciuto, Ikisatashi Kisshu. Ora ho da fare. Vattene.”

“Secondo me hai perso qualcosa...” incalzò invece lui, con una sfacciataggine che aveva dell’incredibile.

“Cosa del VATTENE non ti è chiaro?”

“Posso aiutarti magari...”

Lei lo fissò con una vena che pulsava nervosamente sulla tempia. Aveva smesso di incuterle timore già da un pezzo, ora le suscitava solo un violento desiderio di picchiarlo tanto, tanto forte, finché non se ne fosse uscito chiedendo pietà da sotto la saracinesca del suo Caffè e non fosse scomparso sanguinante nella notte. Però...

Però, maledizione, sì. Poteva aiutarla.

Si morse combattuta un labbro, fissandolo in preda ad una tumultuosa battaglia interiore, mentre quello se ne stava sempre poggiato lì contro il bancone del suo caffè come se avesse tutto il tempo della galassia. “Beh... forse...” smozzicò poi, osservandosi interessata la punta dello stivale in camoscio. “Ho perso il cellulare. C’è buio e non lo trovo.” ammise in fine, mogia.

“Posso chiamarti, se mi dai il numero...” fece l’altro. Giurò di vederci un puro, trionfale brillio di soddisfazione nel sorrisetto sghembo e poco rassicurante che gli si iniziò a tirare sul viso.

“Solo se dopo lo cancelli...” contrattò cauta la rossa.

“Mmmh... richiesta impegnativa...” ponderò lui. “Magari se domattina mi offri uno dei tuoi caffè... e se la sera passi a provare qualcosa da me...” tentò.

“Affare fatto!” scandì lei, porgendogli addirittura la mano. Il ragazzo ne fu chiaramente preso in contropiede, tanto che la fissò per un secondo come se dubitasse della sua sanità mentale, infine sfilò incerto una mano dalla tasca e strinse quella della ragazza. Aveva delle mani affusolate, ossute e paurosamente gelide...

Ad ogni modo, stretto quel bizzarro accordo, Kisshu recuperò da una tasca della giacca un cellulare che, all’apparenza, pareva risalire al cenozoico, quindi fissò la ragazza, in attesa del numero. “080 – 25...” prese a dettare lei, nervosa, mentre allungava la schiena poggiando i gomiti sul bancone, in un inutile tentativo di rilassarsi, reggendosi il mento con le mani. Si ritrovò a ciondolare il peso sui tacchi e tamburellare inquieta le dita sul piano di lavoro in acciaio, intanto che il ragazzo faceva partire la chiamata. Per un po’ si udì solo il silenzio, finché una musichetta allegra non trillò nell’aria.

Riecheggiando da chissà dove, in lontananza, da uno dei corridoi di quel piano.

La rossa si irrigidì, ritirandosi su diritta e fissando smarrita verso la fonte del suono, avvolta nella penombra. “Ma come...”

“L’avrai perso per strada...” considerò assorto il ragazzo.

“Ma neanche ci sono passata di là...” fece lei confusa.

“Beh, è la tua suoneria o no?” replicò lui, pragmatico.

Ichigo annuì senza sapere cosa pensare, mentre si affrettava a sfilargli affianco per uscire da dietro al bancone. Fu costretta a rallentare un attimo, nel poco spazio disponibile, ritrovandosi a incrociare lo sguardo del ragazzo con un certo fastidio. Suo malgrado, si accorse che aveva addosso davvero un buon profumo. Avrebbe giurato che uno che sfilettava sashimi tutto il giorno dovesse puzzare a morte di pesce, invece...
Lui ricambiò l’occhiata furtiva con uno strano sorrisetto enigmatico. “Andiamo a recuperarlo allora?” le propose, mentre lei sgusciava via a disagio.

La rossa non seppe dire di no. Si accucciò svelta passando sotto la saracinesca abbassata, seguita con agilità da Kisshu, quindi si affrettò a richiudere a chiave il tutto, mentre fissava inquieta in direzione della musichetta allegra del suo telefono. Nonostante quel ragazzo la convincesse poco o nulla, d’improvviso preferiva la sua compagnia piuttosto che aggirarsi da sola in quei corridoi bui e deserti.


***
 

Camminarono per il corridoio per più tempo del previsto, seguendo la suoneria del cellulare, tanto che Kisshu dovette ricomporre il numero per una seconda volta, visto che dopo poco la linea era caduta ed aveva smesso di suonare. Ichigo nel frattempo si stava guardando attorno con sempre più inquietudine, aggrappandosi alla sua stessa borsa come se potesse esserle di un qualche conforto. Purtroppo per lei, erano da poco sfilati accanto ad una grande libreria adornata di ragnatele e lanternine commemorative e, inutile dirlo, il resoconto della Aizawa le era balenato di nuovo in testa. Da quel momento stava facendo sempre più fatica a non notare tutte quelle zucchette arancioni che la fissavano coi loro occhi infuocati ed i loro sorrisi macabri da praticamente ogni vetrina, oppure ad ignorare tutti quei manichini pallidi agghindati da zombie che le rivolgevano occhiate maligne dalle loro orbite vuote. Deglutì a fatica, lanciando un’occhiata a Kisshu che procedeva spedito al suo fianco. “Emh...” la ragazza ruppe imbarazzata il silenzio, schiarendosi la voce. “Senti... tu non è che per caso... sai se è successo qualcosa di strano qui dentro, l’anno scorso, ad Halloween?” buttò là, quasi ridacchiando per ostentare una disinvoltura che proprio non aveva.

“Ancora con questa storiella?” si limitò lui a risponderle, con aria annoiata, mentre arrivavano ad uno slargo dove si incrociavano due corridoi.

Erano vicino a dove aveva incrociato prima Akasaka.

“Quindi?” insistette lei, sorridendo speranzosa nonostante il filo di sudore freddo che avvertiva.

Il cellulare smise si suonare una seconda volta e il ragazzo sbuffò, iniziando a guardarsi attorno prima di ricomporre il numero. “Quindi non ne so niente perché io ho iniziato a lavorare qui giusto i primi di Novembre.” liquidò la questione lui. “Ne ho sentite di tutti i colori ma per come sono fatto credo solo a quello che vedo coi miei occhi. Dovresti farlo anche tu.” aggiunse poi, secco.

La ragazza si morse inquieta un labbro, affatto soddisfatta della risposta, mentre Kisshu ricomponeva il numero per la terza volta. In un angolo del soffitto, la rossa notò che era appeso l’agghiacciante manichino di uno spettro ammantato di nero. L’essere incappucciato era più alto di lei, al posto del volto aveva solo una voragine nera ed allungava le sue dita scheletriche, da sotto il mantello color pece, nella sua direzione. La ragazza soffocò un gemito di paura, coprendosi il lato del viso con la mano aperta, pur di non guardarlo.

Pregò che quel benedetto cellulare non fosse ancora molto lontano...

Riprese a squillare un secondo dopo ed entrambi adocchiarono una lucina lampeggiante sfarfallare dietro una poltroncina. Si avvicinarono speranzosi e sporsero i visi oltre lo schienale di finta pelle marroncina e, finalmente, l’apparecchietto apparve sulla seduta. Kisshu si lasciò scappare un’esclamazione di gioia, chiudendo trionfante la terza chiamata, mentre la ragazza allungava incerta la mano, afferrando l’oggetto.

Era indubbiamente il suo telefono.

“Come diamine ci è finito qui...?” pigolò Ichigo, affatto tranquilla.

“Magari qualcuno l’ha trovato per terra e mollato qua sopra...?” suppose il ragazzo, sbirciando la rossa che sbloccava il display del cellulare. Vi erano le ultime tre chiamate perse di un numero sconosciuto, quello di Kisshu, e poi altre due chiamate ed una mail dal suo amato Masaya. La ragazza aprì velocemente quest’ultima, con apprensione. Il fidanzato, come immaginava, le chiedeva sue notizie visto il pesante maltempo e l’ora tarda. Adocchiò l’orario con un fremito nervoso: mancavano pochissimi minuti alla mezzanotte.

L’apprensione la travolse. “Oh Kami, è tardissimo!” esclamò, portandosi una mano alla bocca ed iniziando ad agitarsi inquieta sul posto, improvvisamente incapace di decidere il da farsi. Innanzitutto lanciò un’occhiata smarrita al ragazzo accanto a lei, realizzando solo allora quanto l’avesse effettivamente aiutata. Si profuse in due rapidissimi e scomposti inchini. “Grazie, grazie mille per l’aiuto...” farfugliò. Lui le sorrise di rimando, di un sorriso sghembo e strano che probabilmente avrebbe fatto rabbrividire chiunque, mentre apriva la bocca per pronunciare un “È stato un piac...”, ma la ragazza neanche lo lasciò finire. “Sì sì...” lo interruppe brusca lei, che era già con la testa totalmente altrove e neanche lo notò. “Ora andiamo via di corsa prima che Akasaka ci chiud...”

Non terminò la frase che le ultime luci del corridoio si spensero con uno scatto sordo. Ichigo sussultò bruscamente, irrigidendosi per la sorpresa.

“Ma che diamine...” sentì imprecare Kisshu.

“Ma... ma... Akasaka aveva detto che ci aspettava...” pigolò con voce malferma la rossa, mentre un bruttissimo senso di nausea iniziava ad attanagliarle lo stomaco.

“Eh appunto...” protestò seccato il ragazzo. “Va bene che è venuto parecchio tardi, ma poteva, che ne so... dare un colpo di telefono?” borbottò.

“Forse... forse... ci sta suggerendo di darci una mossa?” ridacchiò istericamente lei, stringendosi nel cappotto di lana ed iniziando a guardarsi inquieta attorno, per quel poco che poteva vedere al buio. Ben presto nell’oscurità iniziò a mettere a fuoco alcuni dettagli e per primi scorse i tremolii lievi degli addobbi di halloween nelle vetrine, una mezza dozzina di raccapriccianti faccine sorridenti che fluttuavano nel buio, mentre altre... cose... sagome informi... rilucevano per la fosforescenza. Maschere di fantasmi forse? Non ne aveva idea ma sentì il gelo pervaderla e il respiro mozzarsi nella gola. Improvvisamente quel posto le sembrava spaventoso e pericoloso oltre ogni misura. Si ricordò che da qualche parte lì nell’oscurità c’era sempre l’essere incappucciato e senza volto che la fissava. Mosse un paio di passi indietro, finendo per urtare con la schiena il braccio del suo compagno di sventure. “P... possiamo... uscire da qui...?” pigolò la ragazza con un filo di voce.

Sentì Kisshu ridacchiare appena. “Hai davvero così tanta paura, Gattina?” le domandò, stupito.

“N... no... ma è davvero molto tardi...” mentì spudoratamente lei.

“Allora ti spiacerebbe fare luce col cellulare che non si vede un accidenti? Il mio non ha la torcia...”

La ragazza si diede per un secondo dell’idiota, quindi si rigirò in modo scoordinato il telefono tra le mani, che si scoprì tremanti, e sbloccò il display, attivando alla svelta la torcia. Il fascio di luce azzurrata rischiarò il corridoio, rendendo più facile orientarsi, ma ben poco più rassicurante l’ambiente. Lo puntò dritta davanti a sé, quasi a monito e difesa da qualunque forza maligna potesse saltare fuori da quelle vetrine sinistre o da quei negozi oscuri. Prese un profondo respiro e tentò di farsi coraggio, iniziando lentamente ad avviarsi verso gli ascensori. “S... stammi vicino e seguimi...” ordinò al ragazzo, fingendosi improvvisamente spavalda come non era affatto. Più che altro aveva il terrore di perderlo per strada e ritrovarsi sola nel buio...

“Tranquilla, ti starò letteralmente incollato addosso, Gattina...” lo sentì ridacchiare, facendola pentire un secondo dopo di quella frase detta per l’angoscia del momento. Si era dimenticata di averlo bollato come maniaco dopo i primi cinque secondi di conversazione. Lo ignorò come meglio poté, attraversando cauta il corridoio e raggiungendo gli ascensori. Come si poteva immaginare le luci sulla pulsantiera degli stessi erano spente, segno che erano stati a loro volta disattivati, quindi svoltò sulla destra ed imboccò le rampe di scale che scendevano. Superarono i due piani seguenti in pochi attimi, finché arrivati qui Ichigo si fermò, incerta, puntando la torcia del cellulare in alto attorno a lei.

“Perché ti sei fermata?” le fece il ragazzo.

“Akasaka mi aveva promesso che ci avrebbe aspettato qui agli ascensori del terzo piano, ma non lo vedo...” prese fiato, provando a chiamarlo. “Akasaka-saaaaaaaaaan” strillò a gran voce.

Nulla.

L’eco delle sue parole risuonò sinistro nelle gallerie commerciali deserte e buie davanti a lei.

“I quadri elettrici sono al piano terra, Gattina, se li ha staccati sarà sceso. Sicuramente ci aspetterà all’ingresso, tanto da lì dobbiamo passare...”

La rossa si morse un labbro, incerta. Akasaka era di certo una persona precisa e responsabile, non ci credeva che le avesse mentito a quel modo e li avesse addirittura lasciati al buio. Il solo pensiero, davanti ad un comportamento del genere, le dava un tale magone che quasi le pizzicavano gli occhi. Raggelò, quando si sentì sfiorare un braccio da Kisshu con fin troppa premura. “Gattina, ci muoviamo?” la incalzò lui. Lei annuì brevemente, imboccando il corridoio alla sua destra. Purtroppo per loro, al terzo piano le scalinate erano sfalsate, per costringere gli avventori ad un tortuoso giro attraverso i negozi, e dovevano camminare per un bel pezzo per raggiungerle. La rossa optò per passare dal lato nord, dove il piano di apriva a terrazza su quelli sottostanti e sull’ampio atrio di ingresso.

Zampettò cauta e silenziosa per diversi minuti, con Kisshu sempre attaccato alle calcagna, in quel posto che col buio sembrava sempre più enorme e labirintico, finché non arrivano finalmente all’inizio della balconata e, aggirandola, allo slargo dove si aprivano le scalinate per i piani sottostanti. Sul fondo dello spiazzo, la ragazza adocchiò incerta la grande porta scorrevole a vetri, ora sbarrata dalle grate di una saracinesca, che dava su una delle terrazze esterne del centro commerciale. Aguzzò la vista, concedendosi un’occhiata più attenta. Fuori il tempo non sembrava voler migliorare, mentre la pioggia picchiava violenta sui vetri. Era sicura che, in condizioni normali, all’esterno si dovesse vedere il profilo perennemente illuminato di tutti gli alti palazzi commerciali della zona, nonché i lampioni per strada e le luci lontane del resto di Tokyo, invece vi era solo buio pesto.

Sembrava che l’intero quartiere fosse spento e morto, mentre nel cielo gonfio di nubi plumbee brillavano i bagliori dei fulmini.

Un black out...? si domandò, inquieta.

Poi ad un tratto lo vide.

Illuminato per un attimo da un lampo, una figura umanoide alta e slanciata ritta in piedi fuori sulla terrazza, sotto la pioggia battente.

Ichigo si sentì mancare, strozzando un grido.

“Che c’è?” trasalì allarmato Kisshu accanto a lei.

“C... c’era... una persona... là fuori....” farneticò lei, mentre il cellulare le tremava nella mano e lei si rifiutava di illuminare la vetrata incriminata.

“Ma ti prego...” smozzicò lui. Le afferrò senza alcun garbo il polso malfermo, bloccandoglielo, quindi glielo alzò per puntare la luce verso l’ampia porta sbarrata dalla grata della saracinesca. La torcia si rifletteva sul vetro e a malapena si riusciva a distinguere qualcosa all’esterno, tra la pioggia. Sembrava tuttavia non esservi nulla...

Un secondo lampo illuminò a giorno il cielo.

Ed un’ombra umana, di nuovo, si allungò per il corridoio arrivando fin quasi a sfiorarli. Stavolta Ichigo guardò con più attenzione. La sagoma era ancora ritta in piedi davanti a loro.

Solo che adesso era all’interno della vetrata.

Ichigo gridò. Gridò con quanto fiato aveva in gola, aggrappandosi alla giacca di Kisshu e lasciando persino cadere a terra il cellulare dal terrore. Lui non ebbe granché tempo o modo di reagire, si limitò a prenderla per le spalle in modo più che altro istintivo, fissando teso la sagoma. Un istante dopo era di nuovo sparita.

“È il fantasma! È il fantasma!” strillava lei, nascondendogli la faccia sul petto. “Il fantasma del padre di Shirogane!”

“A... andiamo via...” riuscì a smozzicare Kisshu, con tono affatto tranquillo, mentre si accucciava alla svelta a recuperare il telefono della ragazza. Si spostò cautamente sulla sinistra, a passi misurati ma rapidi, trascinandosi dietro Ichigo che, sconvolta, gli si era praticamente attaccata addosso con le unghie. Provò di nuovo a puntare la luce in direzione della vetrata, senza però riuscire più a vedere nulla o nessuno. Quando si voltarono alla loro sinistra per imboccare le scale, la sagoma era a meno di dieci metri da loro.

Stavolta Ichigo neanche urlò, un grido sordo le uscì dalle labbra spalancate mentre tentava di scomparire infilandosi dentro la giacca del ragazzo.

L’essere davanti a loro era umanoide, sì.

Ma era altissimo, con la pelle di un bianco mostruosamente cadaverico. Indossava strani abiti che sembravano provenire da un’altra epoca e li fissava con due occhi totalmente neri, solcati da profonde occhiaie. Orecchie acuminate gli spuntavano da sotto corti capelli, che nel buio, avevano i riflessi argentei dei lampi all’esterno. Agghiacciata, Ichigo lo vide alzare una mano e puntare un dito verso di lei. “Il tuo tempo...” Lo sentì proferire.

Parlava!

Parlava addirittura per tutti i Kami, non era una visione della sua mente.

Parlava con una voce profonda e cavernosa e le aveva appena detto...

C... cosa???

“Il tuo tempo... è scaduto...” ripeté lentamente l’essere. “Sono venuto per portarti via...”

“Oh porca puttana...” l’esclamazione colorita di Kisshu le arrivò alle orecchie. Un istante dopo il ragazzo l’aveva afferrata strettamente per un braccio ed aveva preso a correre alla velocità della luce nella direzione opposta all’essere. “Cazzo cazzo cazzo...” imprecava mentre correva come un dannato verso le scalinate dall’altro lato della balconata. Ichigo non aveva più detto niente, non ne aveva le facoltà. Sentiva il cuore rimbombarle nelle orecchie e il terrore farle tremare le gambe, tanto che non si stava neanche rendendo conto di dove stessero andando e di come stesse facendo a infilare un passo dietro l’altro.

Il fantasma di Shirogane... Il fantasma di Shirogane vuole portarmi via...

Non riusciva a pensare ad altro.

Stava tentando di non inciampare nei suoi stessi piedi, mentre Kisshu, letteralmente, la trascinava di peso lungo il pavimento liscio, quando osò lanciarsi un’occhiata alle spalle, trattenendo il fiato.

Quell’orrido spettro era ancora laggiù in fondo, alle loro spalle. Prese a gridare di nuovo, di puro terrore, come se si fosse appena svegliata da un incubo per precipitare in uno peggiore. Kisshu inchiodò, buttandosi sulla destra e tirandola giù per le scale mobili fuori servizio. Lei artigliò le dita al corrimano in gomma, cercando di distinguere gli scalini nella luce vorticante del suo cellulare che il ragazzo agitava poco avanti a lei. Mancò un paio di gradini, cadendo pesantemente contro le paratie in vetro, ma riuscì entrambe le volte a rimettersi dritta immediatamente, con l’adrenalina che le schizzava nelle vene. Voleva solo uscire di lì, uscire da quel posto. Voleva raggiungere il parcheggio, prendere la sua auto, andare a casa.

Sì, prendere l’auto e andare a casa.

Il fantasma non l’avrebbe seguita a casa...

Il centro commerciale era stregato, quindi il fantasma non poteva uscire di lì...

Non poteva seguirla altrove...

“Non puoi sfuggire in eterno...” la voce cavernosa dell’essere tuonò in alto sopra le loro teste, da una posizione impossibile da decifrare, quindi un breve bagliore verde fosforescente sfolgorò nell’aria, illuminando per un attimo tutta la balconata e l’ingresso sottostante. Poi calò di nuovo l’oscurità. Entrambi si ghiacciarono sul posto, col fiato cortissimo. Ad Ichigo girava la testa, era convinta che sarebbe svenuta, mentre sentiva il ragazzo accanto a lei ansimare per la corsa ed avvertiva la sua presa forte sul braccio, tanto salda da farle male. Avrebbe voluto pregarlo di non lasciarla perché sarebbe sicuramente morta di terrore accasciandosi al suolo. Lo vide puntare incerto la torcia del telefono attorno a loro, illuminando le due gallerie che si aprivano ai loro lati. L’accesso al piano inferiore si trovava di nuovo nei pressi degli ascensori, per raggiungerlo avrebbero dovuto attraversare tutta la balconata per decine e decine di metri...

Poi ad un tratto li videro. Dei movimenti oscuri nel buio.

Un paio di singhiozzi strozzati uscirono dalla gola della ragazza, osservando quelle cose avvicinarsi a loro. Due gigantesche sagome nere. Erano dei ragni. Due ragni grandi almeno quanto dei cani, che zampettavano veloci con tutti i loro otto arti pelosi sul pavimento, ticchettando come le lancette di un orologio che preannunciava la loro imminente fine. Ora sarebbe morta lì, ne era sicura. Non sarebbe mai più tornata a casa dal suo amato. Persino le sue spoglie sarebbero scomparse, divorate in modo orribile da quei mostri e nessuno avrebbe mai saputo che fine avesse fatto.

“No, ma seriamente?” sentì borbottare Kisshu, con tono...

Gli sembrava più scocciato che spaventato.

Ma tanto lei non capiva più niente.

Tutto le vorticava attorno...

Uno strattone violento al braccio la riportò parzialmente in sé, mentre il ragazzo riprendeva a correre verso le prossime scalinate. “Dai Gattina, non mollarmi adesso!” la incitò lui, senza lasciare la presa. La rossa lo seguiva meccanicamente, il cappotto sbottonato che le svolazzava attorno assieme ai capelli sconvolti e al viso rigato da lacrime di terrore.

Con uno sputo, una ragnatela viscida ed appiccicosa gli volò affianco, spiaccicandosi sulla saracinesca di un negozio. Ichigo sussultò, artigliando con la mano libera il braccio di Kisshu che la stava trascinando. Una seconda ragnatela piovve ai loro piedi, mentre loro la scansavano d’istinto. La terza si avviluppò alla gamba di Ichigo, inchiodandola al suolo. Strillò, perdendo l’equilibrio e sbattendo dolorosamente a terra col petto e coi gomiti, mentre il ragazzo si lasciava sfuggire la presa sul suo braccio. Fece solo in tempo a vedere un’altra ragnatela colpire anche lui in pieno busto, spedendolo ad un paio di metri di distanza e bloccandolo a terra. Uno di quei due enormi ragni stava camminando in verticale sulla parete, si spostò sul soffitto e raggiunse rapidamente Kisshu, piombando su di lui dall’alto.

No, no, no...

L’avrebbe ucciso, ne era certa. Per quanto lui non le piacesse, trovava ugualmente il tutto talmente ingiusto... Avrebbe visto quel povero ragazzo divorato da quell’abominio ad otto zampe ed avrebbe perso il suo unico sostegno in quell’orrore indescrivibile che stava vivendo. Distolse lo sguardo, rifiutandosi di assistere ad una simile, assurda atrocità, solo per voltarsi e vedere, con il terrore negli occhi, l’altro di quei mostruosi ragni arrivare con una velocità agghiacciante verso di lei. Prese ad urlare con quanto fiato aveva, mentre annaspava con le braccia a terra cercando di sgattaiolare via e calciava alla cieca con la gamba libera verso l’abominio. Otto paio di occhi lucenti la fissavano sopra una bocca spalancata da cui colava una viscida bava verde, mentre il ragno gigante alzava le grosse zampe anteriori per parare gli inutili calci che la ragazza gli tirava. E lei piangeva, pregava, calciava...

Ad un tratto si udì un sibilo ed il mostro vacillò. Si contorse su se stesso con un grido stridulo mentre qualcosa di metallico lo trafiggeva dritto in mezzo agli occhi. Con una fiammata luminosa l’essere scomparve, così come era apparso, evaporando in una nube verdastra. Ichigo fissò incredula la scena, con la vista annebbiata dalle lacrime, osservando uno strano pugnale metallico con tre punte cadere, tintinnando, sul pavimento. “Che razza di bastardo...” sentì sputare sprezzante a breve distanza da lei. Alzò titubante lo sguardo, incrociando un Kisshu affatto morto in piedi alla sua sinistra. “C... che...” la rossa faticò ad articolare le parole, intanto che osservava il ragazzo chinarsi e recuperare il coltello. “Che diavolo era quello?” riuscì infine a strillare tutto d’un fiato, mentre ricominciava, freneticamente, a tentare di liberarsi la gamba dalla tela appiccicosa.

“Un... emh... ragno gigante?” sentì ridacchiare lui, inquieto. “Dovrebbero fare una seria disinfestazione qua dent...”

“Non il ragno!” strillò ancora la ragazza, interrompendolo. “Quello!” fece, puntando un dito verso l’arma.

Kisshu fece sparire in fretta l’affare dentro la giacca. “Niente di che... un... coltello speciale... per... sfilettare il sushi...” bofonchiò paurosamente vago, mentre le si inginocchiava affianco e l’aiutava a stracciare i lembi appiccicosi della tela, che le si stavano incollando alle dita rischiando di intrappolare anche quelle.

Lei quasi lo scansò via agitando in modo confuso e scoordinato le braccia. “Tu non sei normale... perché non sei morto mangiato dal ragno...? Questo posto non è normale... e che diavolo vuole il fantasma del padre di Shirogane da noi?” farfugliò tutto d’un fiato la rossa, riprendendo a singhiozzare e piangere a dirotto. “Non ho fatto niente di male, Fantasma... non volevo turbare la tua quiete... non volevo offenderti dicendo che non mi avresti fatto paura... ti prego RISPARMIAMI!” prese a urlare farneticante, liberandosi la gamba e rannicchiandosi in preghiera sul pavimento, pigiando forsennatamente la fronte per terra più e più volte. Kisshu parve ignorare i suoi deliri, sospirando pesantemente. “Senti, Gattina...” iniziò lui, schioccando nervoso la lingua, come se volesse iniziare a spiegare qualcosa...

Non finì la frase che la rossa era scattata di nuovo in ginocchio, dalla posizione prostrata in cui era raccolta, e gli aveva afferrato violentemente i bordi della giacca, strattonandolo verso di sé. “No non spiegarmi niente...” farfugliò, finendogli a due centimetri dalla faccia. “...ma tu, Kisshu, ti prego DEVI portarmi fuori da qui!” implorò istericamente lei. “Ho una macchina fuori. Portamici, ti scongiuro!”

“Emh... sì, ok... Ci sto provando...” replicò lui, alzando un sopracciglio a quella vicinanza inaspettata ed irrigidendo la schiena davanti all’aria sconvolta della ragazza.

“Sei l’unico che può salvarmi!” insistette lei, con gli occhi ormai sbarrati mentre lo scuoteva per la giacca con tanta di quella foga da mozzargli il fiato. “Farò tutto quello che vuoi. MA. TI. PREGO!” incalzò ancora, mentre il ragazzo tentava di scollarsela di dosso e rimettersi in piedi. Non avevano ancora riguadagnato la statura eretta che una sagoma traballante in lontananza catturò la loro attenzione. Il raggio bluastro di una torcia ferì le pupille di entrambi, facendogli strizzare gli occhi nell’oscurità.

Ichigo mollò la presa sulla giacca di Kisshu e si ritrovò a fissare con sguardo vacuo la luce poco distante.

Una torcia elettrica...

Un moto di speranza le fece schizzare il cuore nel petto. “Akasaka!” sussurrò emozionata.

Era sicuramente lui, sì.

Non era morto o altro.

Lui...

Lui era un’abile guardia addestrata.

Era armato, ed era buono e la faceva sentire al sicuro...

Li avrebbe salvati entrambi, ne era certa....

Mosse alcuni passi colmi di gioia nelle sua direzione, mentre la sagoma della guardia avanzava lentamente verso di loro, finché non le fu più facile metterla a fuoco nel buio, oltre il riverbero accecante della torcia. Fu lì che Ichigo raggelò. Tutte le sue speranze le scivolarono giù per la gola come un unico groppo gelido di saliva. L’uomo avanzava in modo scomposto, con la testa ciondolante su un lato, lo sguardo vuoto e rovesciato all’indietro. La pelle aveva una sfumatura violacea e i capelli erano sciolti ed arruffati. Sembrava persino più alto e massiccio di come lo ricordava, ed al posto delle mani...

Oddio...

Il braccio sinistro terminava con il faro di una torcia, mentre il secondo con una versione troppo grande del suo teaser d’ordinanza.

“Akasaka... Akasaka è diventano un mostro zombie!” strillò sconvolta Ichigo, portandosi al viso le mani contorte dallo shock. Questa volta aveva raggiunto il limite del terrore. Aveva visto troppe cose che superavano ogni sua più agghiacciante immaginazione e non riusciva più neanche ad avere davvero paura. Voleva solo fuggire da tutto quell’incubo febbricitante il prima possibile. Girò sui tacchi e prese a correre con tutta la forza che aveva, alla cieca, verso l’ultima rampa di scale, aiutata dalla luce tremolante della torcia di Akasaka alle sue spalle. Sentì Kisshu chiamarla a gran voce mentre, con ogni probabilità, le correva dietro, poi sentì lo sfrigolio elettrico e il lampo del teaser dietro di sé. Passi e tonfi pesanti. Un paio di gemiti informi e rantoli. Altri lampi di luce. Incurante ormai di ogni cosa imboccò le scale e si lanciò giù in corsa, reggendosi con entrambe le mani ai bordi delle balaustre per non ruzzolare come aveva fatto prima. Doveva raggiungere il parcheggio. Doveva raggiungere la sua auto. Era vicina. Mancava solo l’atrio d’ingresso, la porta...

Come arrivò in fondo alle scale, saltando gli ultimi gradini con un solo balzo, sollevò lo sguardo alla porta principale e...

Era chiusa.

Sprangata dall’esterno dalla saracinesca.

Fuori, riverso a terra sotto la pioggia torrenziale, giaceva il corpo esanime di un uomo. Dal lungo codino e dalla divisa avrebbe giurato fosse Akasaka.

Non era possibile.

Nulla di quello che stava accadendo era possibile.

La ragazza strascicò gli ultimi, pesanti passi, arrestandosi al centro dell’enorme atrio buio come la notte e lì rimase, impalata a fissare la sua via di fuga sbarrata senza sapere né che fare né...

Poi...

Un brivido di terrore le paralizzò le membra di tutto il corpo quando, in un angolo in lontananza, lo vide di nuovo.

L’essere

Lo spettro.

Una sagoma evanescente che fluttuava ad almeno due metri da terra, emergendo cerea da quell’oscurità tombale. Per un istante incrociò i suoi occhi neri che luccicavano nel buio, affossati nel viso scavato. A quella vista il suo terrore si tramutò in una rabbia cieca, folle e disperata. “Vattene via!” gli urlò. “Lasciami in pace!” serrò i pugni, conficcandosi le unghie nella carne, sputandogli addosso tutto l’orrore che sentiva, la nausea che le chiudeva lo stomaco e l’adrenalina che le faceva accapponare la pelle sotto i brividi freddi di sudore. Tuttavia, per quanto fervore ci mettesse, l’essere sembrava imperturbabile alle sue parole. Anzi, lo vide iniziare a fluttuare lentamente nella sua direzione, aleggiando nell’atrio. Avrebbe voluto gridare ancora, scappare... ma tutto il suo corpo d’improvviso le sembrava paralizzato, incapace di muoversi. Ormai riusciva solo a tremare, sola ed impotente, davanti all’ignoto che se si stava per abbattere addosso.

Alleggiava ormai a pochi metri da lei...

Cosa poteva farti un fantasma?

Ancora più vicino.

Come poteva ucciderti?

Non ebbe risposta a questa domanda, perché quando il viso spettrale dell’essere fu abbastanza vicino a lei da riconoscerne i lineamenti, qualcosa le piovve addosso di peso. Non fece neanche in tempo a reagire in alcun modo che si ritrovò avvolta in un solido abbraccio e riconobbe la superficie scura della giacca in pelle di Kisshu, mista al tocco caldo della lana ed al suo profumo forte che aveva avuto di continuo nelle narici nell’ultima mezz’ora. Non seppe bene cosa accadde dopo. Probabilmente svenne. Così doveva essere perché sentì il mondo vorticarle attorno mentre lei serrava le palpebre per un lasso di tempo che non seppe definire. Sapeva soltanto che, una volta riaperti gli occhi, sentiva solo la pioggia gelida sferzarle addosso.

Si guardò attorno come una che doveva essere appena uscita dal coma.

Kisshu era in piedi davanti a lei e la scuoteva per le spalle. La pioggia batteva feroce addosso ad entrambi e gli infradiciava gli abiti e i capelli. “Gattina? Gattina ci sei?” la stava chiamando lui a gran voce, per sovrastare il fischio assordante del vento. “Dicevi che hai una macchina, vero?”

Lei inclinò il capo.

Ah sì, la macchina.

La macchina.

Doveva tornare a casa.

A casa da Masaya.

“Mi daresti un passaggio, allora?” incalzò lui, mimando persino un mezzo sorriso incoraggiante. “Ne avrei davvero bisogno...”

Lei annuì meccanicamente, infilando una mano nella borsa e recuperando a tastoni le chiavi dell’auto. Si guardò un attimo attorno. Erano fuori dal centro commerciale. Avrebbe probabilmente dovuto domandarsi come ci erano finiti, ma forse non ne aveva le facoltà. Tante cose avevano smesso di avere senso o importanza, ormai. Il parcheggio dei dipendenti era a poche decine di metri. Attorno a lei pioveva a dirotto, il cielo era color piombo e tutti gli edifici circostanti erano senza elettricità, così come i lampioni della strada deserta. Osservò con aria assente dei rami di alberi volare in aria per via del vento fortissimo, misti a stralci di manifesti ed a bidoni dell’immondizia strascicati per l’asfalto. Nessuna anima viva sui marciapiedi o nello spiazzo. Girò sui tacchi e si avviò verso la sua auto, una piccola utilitaria bianca, praticamente l’ultima rimasta nel parcheggio. Pochi metri ed arrivò ad infilare, dopo un paio di tentativi tremanti e malfermi, la chiave nella toppa, facendo scattare la serratura, quindi scivolò all’interno. Kisshu si gettò dentro alla svelta dall’altro lato, sbattendo la portiera. Non avere più il vento che le fischiava assordante nelle orecchie la fece un attimo riprendere. Vide distrattamente il ragazzo tirarsi indietro i capelli fradici dal viso, sfilandosi il berretto di lana torso d’acqua.

Ichigo infilò la chiave nel blocchetto di avviamento, girò e...

Non successe nulla.

Nulla di nulla.

Neanche il ronzio del motorino che tentava di far partire il veicolo. Sembrava di aver davanti un giocattolo rotto. Quasi si mise a ridere istericamente. Le venivano d’un tratto in mente quei film horror con gli alieni che facevano saltare la corrente e smettere di funzionare le auto quando arrivavano coi loro dischi volanti. Lei non li guardava mai gli horror. Odiava gli horror. Come si faceva a non odiarli? Però era abbastanza sicura che i fantasmi non guastassero le auto, erano gli alieni quelli. O no?

Alzò lo sguardo oltre il parabrezza zuppo d’acqua.

Il loro cadaverico spettro era di nuovo lì davanti a loro.

Sotto le sferzate di pioggia e la luce che proveniva dal cielo plumbeo di Tokyo sembrava tutt’altro che immateriale. Ichigo prese a respirare velocemente, portandosi una mano al petto boccheggiando per l’ossigeno. La testa iniziò di nuovo a girarle e le orecchie ripresero a fischiarle. Lo spettro era fuori dal centro commerciale. Poteva uscire. Ora era sicura che avrebbe continuato a seguirli ovunque finché non avesse mantenuto la sua promessa. Non li avrebbe mai più abbandonati. MAI.

Sentì Kisshu imprecare pesantemente alla sua sinistra, sbattendo un pugno contro l’interno della portiera, quindi lo vide passarsi rabbioso entrambi i palmi delle mani sulla faccia, tirandosi via l’acqua che ancora gli gocciolava sul viso dai capelli. “E va bene, mi arrendo!” decretò infine, con voce bassa e rabbiosa.

“C... cosa...?” farfugliò lei, che ancora combatteva per respirare.

“Mi spiace, Micina... ci ho provato, ma ho fallito...” le sorrise dolcemente lui. “Quello non se ne andrà finché non avrà ottenuto quello che vuole...” ribatté il ragazzo, come leggendole nel pensiero. “E quel qualcosa sono io...”

“No...” pigolò Ichigo con voce soffocata. “No, no...” continuò, scuotendo incredula il capo ed allungando le mani per trattenerlo. Gli afferrò i bordi della giacca, tremante. “Non lasciarmi qui da sola... ti prego...” implorò. Era assolutamente certa che il fantasma volesse lei, altroché. Lo aveva visto come le puntava il dito addosso e la seguiva da quando era apparso. Kisshu stava farneticando. Voleva lei, di sicuro, perché lo aveva offeso in qualche modo, probabilmente quando aveva discusso con la Aizawa. Quando aveva detto che era stupido e non le avrebbe mai fatto paura mentre ora le stava letteralmente divorando l’anima dal terrore. Un macigno le piombò nello stomaco, osservando il ragazzo che voleva sacrificarsi al posto suo.

“Avrei solo voluto avere più tempo...” le sussurrò con amara dolcezza. “Addio, Micina...”

Detto ciò, inaspettatamente, lui le afferrò il capo, passandole una mano dietro la nuca, quindi la baciò. Ichigo, che già non respirava da troppo tempo, sgranò gli occhi, incapace di opporsi, mentre quel tizio assurdo la baciava sensualmente, come non era sicura di essere mai stata baciata. Si ritrovò a fargli scorrere tremante le dita sul viso e tra i capelli fradici, incerta se dovesse allontanarlo o meno mentre, suo malgrado, chiudeva gli occhi, lasciandosi andare al bacio. Sfiorò accidentalmente tra i capelli una delle sue orecchie, non più coperte dal berretto di lana di cui si era liberato poco prima. Erano... sembravano... così stranamente appuntite...

Come quelle dello spettro.

Lui si staccò finalmente, sorridendole, quindi spalancò la porta e si gettò fuori sotto la pioggia sferzante.

Lo vide incredula avanzare a grandi passi decisi verso l’essere che li aveva perseguitati finora. Gli arrivò davanti, fronteggiandolo a viso aperto. Questo allungò una mano e, semplicemente, gli sfiorò una spalla.

Sparirono.

Ichigo si tappò la bocca con entrambe le mani, soffocando un urlo di dolore e di sgomento.

Nei minuti successivi non poté fare altro che rannicchiarsi contro il sedile, stringendosi nel cappotto e sforzandosi di trattenere lacrime e singhiozzi di paura, finché non avvertì un bagliore fiammeggiare nel cielo. Sollevò tremante lo sguardo seguendo la fonte luminosa che pareva provenire da sopra il centro commerciale. Un lampo rischiarò per un attimo il cielo a giorno, seguito quasi immediatamente da un fortissimo tuono, eppure...

Ne fu certa.

Lo vide tra la luce dei fulmini.

Sollevarsi da sopra il tetto della struttura.

Un enorme oggetto di forma romboidale, grande almeno quanto un camion, ricoperto di luci azzurre sfarfallanti che piroettavano sulla sua superficie come impazzite. Si staccò lentamente da sopra l’edificio, fluttuandovi sopra per alcuni istanti, a mezz’aria, quindi prese a ruotare su se stesso sempre più vorticosamente, assumendo una forma sferica.

Infine con un boato sordo schizzò verso il cielo nero ad una velocità umanamente inconcepibile.

Ichigo rimase a fissare esterrefatta il vuoto. Vuota era anche la sua mente, che non riusciva a mettere insieme tutti i pezzi di quanto aveva appena vissuto. Dopo un paio di minuti dalla scomparsa del... dell’oggetto... le luci riapparvero sfarfallando tutto attorno a lei, sia nei lampioni delle strade che nelle finestre dei caseggiati vicini e nelle insegne luminose del quartiere. La tempesta infuriava ancora attorno a lei, sebbene pareva essersi un poco calmata. La ragazza allungò tremante la mano sulla chiave dell’auto, ancora infissa nel cruscotto, e la fece girare. La vettura si mise subito in moto come se nulla fosse mai accaduto. Prese un profondissimo respiro, stringendo con malagrazia le mani sul volante, conficcandovi quasi dentro le unghie, quindi attaccò i tergicristalli, inserì la retro e con una calma disumana sfilò fuori dal parcheggio. Ingranò la marcia avanti e, senza scollare gli occhi dalla strada, partì in direzione di casa.


***
 

Era grata di possedere un’auto. Non era così scontato averle per gli abitanti di Tokyo, vista la fitta e ben efficiente rete di mezzi pubblici, nonché il costo proibitivo di un garage in affitto, ma quando aveva trovato quel lavoro sei mesi prima si era accorta che per raggiungere lo Shirogane’s Shopping Mall, da dove abitava lei, era costretta a cambiare ben tre mezzi, tra metro e treni, e farlo al mattino presto o la sera molto tardi non le andava granché a genio. Alcune delle sue tratte erano frequentate da persone dai visi poco raccomandabili a quegli orari ed era stata felicissima che suo padre avesse deciso di regalarle quell’utilitaria di seconda mano. Grazie ad essa era arrivata a casa in poco più di mezzora, miracolosamente senza tamponare nessuno o finire fuori strada per la disumana tensione che ancora le attraversava il corpo. Le intense raffiche di vento e gli innumerevoli detriti che costellavano la strada, assieme agli allagamenti, non avevano aiutato affatto. Parcheggiò l’auto nel vialetto di casa e si caracollò fuori dalla portiera, correndo verso l’uscio mentre si riparava appena il viso con un braccio. Aprì alla svelta la porta ed entrò dentro, chiudendosi il battente alle spalle con un tonfo.

In casa le luci erano accese, un piacevole tepore le sfiorò le membra intirizzite assieme ai profumi residui di una buona cena, consumata non troppo tempo prima. Sentiva provenire dalla cucina il vociare a basso volume del televisore che borbottava qualcosa sul nubifragio che stava mettendo in ginocchio tutta la costa orientale del Giappone.

Fissò la sveglia a forma di gatto sul muro del soggiorno. Era quasi l’una di notte.

Lasciò cadere la borsa a terra con un tonfo, mentre tremante si sfilava il cappotto, talmente fradicio d’acqua da pesare tre volte il solito. Un attimo dopo sentì dei passi avvicinarsi dalla cucina ed il bel viso famigliare di Masaya, il suo fidanzato, fece capolino da dietro la tenda che divideva l’ambiente dall’ingresso. “Ichigo!” la chiamò lui trafelato. “Dove eri finita?”

La ragazza neanche gli rispose, gli si gettò a capofitto tra le braccia stringendolo con tutta la forza che aveva e prendendo a singhiozzare.

“Che... cosa è successo?” le domandò lui, con voce rotta dalla preoccupazione. “Stai bene?”

“Al centro commerciale... un fantasma... Akasaka era uno zombie... e i ragni giganti... e poi... quella cosa... volava... e...”

Seguì un lungo silenzio, durante il quale Masaya probabilmente stava analizzando tutte le sue parole smozzicate e ne stava traendo la conclusione che la sua fidanzata fosse impazzita. Magari stava pensando che avesse battuto la testa cadendo per la pioggia o che qualche oggetto trascinato dal vento l’avesse colpita accidentalmente. Prese ad accarezzarle i capelli zuppi d’acqua, cercando di calmarla. “Ho sentito che si sono abbattuti due fulmini proprio nella zona sud di Nerima e che c’è stato un black out. Ero preoccupato a morte quando non ho più avuto tue notizie...”

“Scusami, scusami...” singhiozzò più forte la ragazza, strofinandogli la faccia sul petto. “Avevo perso il telefono e sono tornata indietro a prenderlo e poi... e poi...”

“Non importa, sei a casa e stai bene, no? Mi racconterai cosa ti ha spaventata tanto?” tentò lui, cullandola tra le braccia con voce sommessa e gentile.

La ragazza si scostò un attimo, asciugandosi le lacrime col palmo della mano destra e tirando su col naso. Improvvisamente, col sorriso rassicurante di Masaya davanti e il tepore confortevole della sua casa ad avvolgerla, tutti gli avvenimenti delle ultime due ore sembrava talmente irreali che non era neanche sicura fosse possibile raccontarli, dando una coerenza a tutto quanto accaduto. “Non lo so... forse mi sono sognata tutto...” riprese a frignare lei, con aria sconvolta.

“Su, su... Ichigo...” tentò Masaya, chiaramente in difficoltà. Prese a massaggiarle energicamente la braccia intirizzite dal freddo, cercando di rincuorarla un po’. “È per colpa di Halloween, vero? Hai visto qualcosa che ti ha spaventato o qualcuno ti ha fatto qualche scherzo...” fece poi. Era chiaro che fosse più una sua deduzione logica che una domanda. “È proprio una festa stupida...”

Uno scherzo...

Sì, magari era stato tutto solo uno scherzo...

Sarebbe stato meraviglioso...

“Vuoi mangiare?” aveva ripreso intanto lui. “Ti ho tenuto in caldo qualcosa...”

La rossa scosse la testa vigorosamente, sentendo la nausea che le attanagliava lo stomaco. “Voglio solo fare un bagno caldo...” bisbigliò, fissando vacua a terra e tirandosi via alcune ciocche fradice di capelli rossi dalla fronte. “E... e... non so dove ho messo il telefono....” riprese a singhiozzare poi, realizzando d’un tratto quel piccolo, insignificante particolare che le provocò l’ennesimo tracollo emotivo.

Masaya sorrise inquieto, davanti a quella che poteva a ragione ritenere l’ennesima crisi isterica della fidanzata. “Nella borsa?” fece speranzoso, andando a recuperare l’oggetto dal pavimento e porgendolo alla ragazza. Lei vi frugò dentro un attimo e scosse mesta il capo. “Magari l’hai lasciato in macchina... vado a vedere io.” Si offrì gentilmente il giovane, mentre Ichigo annuiva con aria debole e stanca. Per quanto si ricordava, il suo cellulare lo aveva avuto in mano Kisshu durante l’ultima parte della loro fuga, ma non aveva alcuna idea di dove fosse finito in seguito.

Kisshu...

Al pensiero dello strano ragazzo, un brivido d’angoscia si impossessò di nuovo di lei. Faticava enormemente a capire quanto di quello che rammentava fosse o meno reale, ma il pensiero di quel tipo che la baciava appassionatamente sull’auto e poi se ne andava nella pioggia per... sempre... per permettere a lei di tornare a casa viva...

Oh Kami...

No, sul serio, non poteva credere che le fosse davvero successo tutto ciò.
Doveva aver veramente sbattuto la testa ed essersi sognata tutto.
Era assurdo, incredibile, una specie di brutto incubo angoscioso...

Ed aveva baciato un tizio sconosciuto...

Si schiaffò il palmo della mano sulla bocca incriminata, tappandosela e stampandosi in faccia un’aria colpevole, proprio mentre Masaya rientrava in casa. Lo vide scrollare l’ombrello fuori dall’uscio e chiudere la porta, quindi rivolgersi verso di lei con gli abiti umidi ed un sorriso trionfante in viso. “Eccolo qui!” esclamò, dondolandole il suo cellulare davanti al viso.

Ichigo lo prese tra le dita titubante, osservando l’oggetto che era stato causa di tanto tormento. Aveva ancora la torcia accesa.

Deglutì a vuoto.

Sbloccò il display, notando la batteria quasi scarica, due chiamate perse ed una mail. Le chiamate erano di Masaya, indubbiamente l’aveva cercata più volte in quelle due ore. La mail...

La aprì.

Il numero era visualizzato in cifre, non memorizzato tra i contatti.

Lo lesse lentamente.

“Ciao Gattina. Mi spiace essermene dovuto andare così, ma avevo, diciamo, sforato i termini del mio congedo a Tokyo da un po’ troppo tempo. Hanno mandato il mio collega a riportarmi a casa. A quanto pare al mio paese non possono fare a meno di me. Scusa per questa nostra prima serata movimentata, anche se, dal bacio, deduco ti sia piaciuta. ♥ Non temere, conto di tornare presto a prenderti. Non vedo l’ora.”

Ichigo bloccò rapidamente lo schermo, facendo sparire quel messaggio agghiacciante dalla sua vista. Ci mancò poco che scagliasse persino via il cellulare, mandandolo a fracassarsi contro una parete.

Si ritrovò a fissare il riflesso dei suoi stessi occhi sgranati sul display spento del congegno, quindi alzò uno sguardo terrorizzato verso il povero Masaya, che era ancora in piedi davanti a lei, assai turbato dalle sue reazione inconsulte.

Hanno mandato il mio collega a riportarmi a casa.

A casa...

Al mio paese non possono fare a meno di me.


Il disco volante...

Era...

Era un alieno quello con cui aveva passato le ultime due ore.

Era un alieno anche l’altro essere abominevole che l’aveva inseguita apparendo e scomparendo per tutto il tempo.

Sguinzagliandogli dietro mostri orripilanti.

Trasformando Akasaka in uno zombie.

Non un fantasma.

Un alieno.

Oddio...


Aveva baciato un alieno.

E lui sarebbe tornato presto a prenderla.
 

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Za-za-zaaaaaan, eccoci arrivati in fondo a questa caleidoscopica giostra di boiate... X°D Spero di avervi strappato delle risate e, soprattutto, tanti facepalm. Ancora non riesco a credere di essere riuscita a buttare tutto giù, davvero, in cinque giorni precisi (oltretutto ammorbata dall’influenza). So che ci sono sicuramente parecchi errori e che non è perfetta come vorrei, ma sono comunque tanto fiera di aver vinto questa sfida contro me stessa che ho voluto postarla uguale. È inoltre la mia prima (semi-)AU e, contrariamente a quanto pensassi, anche questa è stata una sfida stimolante e parecchio divertente. Alla fine dovevo cadere anch’io nei grandi classici della pelle nera e dei cappellini. X°D Il concept di una Kishigo a sottofondo horror-demenziale, in realtà, viene da una cosa che avevo iniziato a buttare giù miliardi di ere geologiche fa, non era una AU ed era ambientata durante il Tanabata, ma alla fine non l’ho mai conclusa. Chissà... magari un giorno potrei riversare ancora un po’ del mio amore su Ichigo... * Evil Grin *

E niente, vi lascio la zucchetta RGB che mi ha fatto compagnia durante tutta la stesura e che fa da easter egg nella fikky... e vi auguro un buon Halloween! Spaventevole serata a tutti quanti!


Leemy: * Si volta e vede una presenza spettrale ciondolare nell’aria dietro di lei, con sguardo perso e due occhiaie terrificanti *
Figura spettrale: * sigh * odio il mio lavoro... odio la mia vita...
Leemy: * Gli si avvicina, lo tira giù per una gamba e gli passa un braccio sulle spalle, facendogli pat pat * Su, su Pai, lo so che è dura. Quant’è che fai le notti in bianco davanti al computer?
Pai/Figura Spettrale: È tutta colpa di Kisshu... è sempre colpa sua... sai quanto ci ho messo a trovarlo stavolta? LO SAI?
Leemy: * Gli allunga confezione di patch al cetriolo per le occhiaie, correttore e due confezioni di integratori all’arginina * Dai... vai a rimetterti un po’ in sesto...
Pai/Figura Spettrale: Posso? * inizia a lacrimare commosso * È finita?
Leemy: * Sorride * Per ora sì.
Pai/Figura Spettrale: Yeeeeeeah... * evapora via *
Leemy: * Ghigna maleficamente * PER ORA. MUAHAHAHAHAH!

Noticina solitaria:

(*) Dall'inglese "Half" (lett. metà) è il termine comunemente usato tutt'oggi in Giappone per indicare le persone nate da unioni miste tra un giapponese e un non giapponese. (Wikipedia docet)

   
 
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