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Autore: Fabio Brusa    31/10/2018    0 recensioni
L'usanza delle zucche di Halloween nasce da una leggenda irlandese: uno spirito che vaga tra il mondo dei vivi e quello dei morti, illuminando il proprio eterno cammino con un lumino infilato non in una zucca, ma in una rapa.
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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SMILING JACK

Osservo la pallida fiamma di una candela, da solo nello studio, vagamente consapevole del tremolio delle mie mani. Non è per il gelo, ormai alle spalle in questa primavera inoltrata, quanto per l'opprimente immagine che mi assale dalle ombre danzanti sulla parete. Mi è impossibile abbandonare l'idea che la candela possa non spegnersi mai. È una fobia insensata, eppure, giù per Dùin Street, quella sera, io la vidi distintamente. Non posso essere sicuro di cosa fosse, ma era lì, che scendeva lungo la strada, come granelli di sabbia nell'imboccatura della clessidra.
Mi ero precipitato alla finestra, con Tristan alle mie spalle che mi guardava sconvolto. Guardava me, non oltre il vetro - ma di questo mi sarei reso conto più tardi. Io, invece, non potevo staccare gli occhi dalle lunghissime gambe, secche, immonde, e dalle mani corrotte che inesorabilmente si avvicinavano alla villa, trasportando la fiammella. La lanterna che la conteneva ciondolava meccanicamente, stridendo passo dopo passo. Irradiava una luce così flebile, così diversa dalle altre lanterne, intagliate e lasciate sulle soglie delle case dagli abitanti. Si erano rintanati come topi nelle proprie tane, protetti da quattro mura e una speranza accesa. Loro sapevano e, senza ancora volerlo ammettere, anche io ormai avevo fatto mia la speranza di non essere scelto da Jack.
Fu in quel momento che mi accorsi della nostra fiamma guardiana: la rapa intagliata era spenta. Un filo di fumo chiaro fuoriusciva dalle orbite grottesche dell'immagine che io stesso avevo scolpito. Spalancai la bocca, terrorizzato.
Mentre voltavo la testa, per sfuggire alla disperazione che mi cresceva dentro, rividi la croce sulla gola di Tristan. Distorta, come tracciata in fretta e furia, una cicatrice meschina, che avevo creduto priva di ogni significato. Solo allora capii, sentendomi come l'uomo che al buio sale le scale e, arrivato in cima, crede di avere ancora la sicurezza di un ultimo scalino. Invece il passo cade inesorabilmente nel vuoto.
La prima volta che gli chiesi di parlarmene eravamo seduti a un tavolo, in compagnia di amici, a bere il tè. Chiusi fra i caseggiati, nella Upper Marrion Street, il cielo trasudava umidità. Il mio amico Randal mi riprese con un imbarazzato sorriso, cercando di convincermi che una simile domanda, a un uomo di cui avevo appena fatto la conoscenza, appariva eccessiva. Tristan Auberdine, invece, tono colto e posato, mi rispose gentilmente.
«Un'incomprensione» disse lui, mentre al suo fianco Antoinette reagiva stranamente irritata a un gesto innocente del cameriere. Era una ragazza graziosa, eppure col volto scavato dai pensieri. Randal, che l'aveva accolta nella facoltosa famiglia Bacon come sua sposa, le strinse la mano. Avevo sorvolato sull'episodio considerandolo privo di interesse e continuando la discussione. Lasciai intendere a Tristan che avevo immaginato uno scontro fra gentiluomini come causa della cicatrice e lui rispose con un educato sorriso, prima di portarsi alle labbra la tazzina. Non potevo essere più lontano dalla verità. Quanto è amaro il sapore della consapevolezza giunta troppo tardi, quando ormai il passato è inchiostro su carta. Se avessi compreso all'epoca la natura di Tristan, della sua meschinità, dei malsani motivi per cui non si separava mai da una lama intarsiata nascosta sotto il panciotto, avrei potuto essere pronto a ciò che mi aspettava. Appresi molto in ritardo del suo passato nebuloso, della sua sparizione, improvvisa quanto il ritorno. E l'amicizia epistolare – avrei cavato fuori dalle voci rotte di Randal e Antoinette mesi dopo - l'avevo intessuta sì con loro, ma con lui nell'ombra. Quante volte si era mostrato interessato alla mia attività di ricerca, quante volte mi aveva chiesto di raggiungerli!
Pensavo di trovarmi con amici a un tavolo per il tè delle cinque, sotto il cielo a specchio di ottobre. Mi sentivo rilassato ed entusiasta. Oggi, invece, con la coscienza dei mesi successivi, rabbrividisco nel ricordare con quale terrore isterico Antoinette spense, a mani nude, la fiamma del lumino al centro del tavolo.

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Salto la palizzata e sono in città. Non è come la ricordavo, ma non lo è più ormai da molti anni. Ai lati degli occhi vedo ombre sfocate. Si muovono senza requie, danzano, mi deridono. Quando provo a stringere le palpebre, a osservare meglio, più in profondità e con più attenzione, svaniscono in un'accozzaglia indistinta di bianco e nero.
È sempre tutto bianco e nero, a tratti grigio, quando i due estremi si confondono. Accade la maggior parte delle volte, a dire la verità. Ci ho fatto l'abitudine, unica àncora di salvezza dall'angoscia del nulla che mi attanaglia le viscere. Ho il voltastomaco.
Solo il fuoco mi da conforto. Per qualche motivo, le fiamme ardenti ancora mi si rivelano per quello che sono realmente: soltanto punte di giallo e arancione in una notte senza fine.
Come l'ultima volta, sto cercando il posto giusto, per lasciare la soglia con una figura al seguito. È strano, non lo comprendo fino in fondo. È sempre una sola, mentre le altre cadono a terra, costantemente distorte dal vorticoso incendio nero che a malapena le delinea. Anche a loro mi sono abituato. Prima o poi ci si abitua a tutto. A fumare, a bere, a camminare.
Un tempo mi importava solo di sentire la testa leggera. Ed ero bravo a riuscirci, un bicchiere dopo l'altro. Poi è arrivata anche l'abitudine all'imbroglio e al gioco. Infine, dopo aver vinto troppo, ho cominciato a dovermi abituare a camminare. Un passo dopo l'altro.
Quante miglia ho fatto, per quanto tempo. Le gambe mi fanno male. Le sento... stiracchiate. Ero un buon camminatore, una volta. Raggiungevo Fellow Road a piedi, coi suoi bar e i suoi bordelli. Mi sentivo tranquillo.
L'odore di una birra.
Il bacio di una puttana dalle labbra rosse.
Un uomo solitario non dovrebbe essere giudicato con gli stessi occhi degli altri. A casa non c'è mai stata una minestra calda ad aspettarmi. Né un letto per dormire. Né carne calda da stringere.
Portavo la croce del peccatore, ma non facevo male a nessuno. Non avrei mai voluto farne, una volta.
Sei cambiata, Dublino mia.


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Ero arrivato in città sulle tracce di antiche epistole, convinto di seguire le orme d'inchiostro di San Patrizio. Mi era stata spedita della documentazione stimolante, ottenuta da Randal al Garlan Institute, o così credevo. Il 16 di ottobre avevo trovato una camera in affitto non distante dalla biblioteca nazionale, che mi aveva procurato non poca gioia. Così mi trasferii definitivamente una settimana dopo, carico di una valigia di effetti personali e due custodie rigide piene di appunti sulle mie ricerche alla Baia di Clew. Randal e Antoinette furono i primi e gli unici a farmi visita nella nuova sistemazione. In città conoscevo solo loro, interessati amici di penna, amanti delle mie ricerche. Avevo ancora le camicie piegate sul letto quando mi domandarono della zucca.
«Non ne hai portata una?» chiesero quasi all'unisono. Mi raccontarono che in certe zone d'Irlanda le festività dei giorni a venire sarebbero state particolarmente sentite, almeno quanto il Natale e la Pasqua. Probabilmente anche di più. «Bisogna attrezzarsi per la notte del capodanno celtico, Howard. Mi sorprende che un letterato come te l'abbia dimenticato.» In realtà le mie preoccupazioni andavano a ben altro che dolcetti, bambini e ortaggi intagliati. La carnevalata a cui si era ridotta la ricorrenza antica, la radice di All-Hallows-Eve. Avrei sorvolato con un sorriso anche questa volta, se non fosse stato per l'espressione di Antoinette. La pelle del volto era talmente tesa che avrebbe potuto spaccarsi come cuoio stracciato. C'era qualcosa di incomprensibilmente inclinato in lei, come una trave storta, una finestra dagli angoli incongruenti. Così accettai l'invito ad accodarmi a loro per la doverosa cerca e scendemmo per le vie del mercato.
Il giorno di Ognissanti era alle porte. Da quando i popoli gaelici avevano traghettato le proprie tradizioni nel nuovo continente, le zucche erano diventate un bene preso d'assalto durante i mesi autunnali. A chiazzare le città alla fine dei giochi, la polpa ormai marcia, color del rigurgito, sarebbe stata un'obbligata sopportazione. Essendo però un ortaggio sconosciuto agli europei prima della colonizzazione, scoprii ben presto che faceva da sostituto a un parente d'oltreoceano che per secoli ne aveva svolto le veci: la rapa. Dovendo adempiere, con i miei amici, agli obblighi della festività, pensai di optare per una scelta più tradizionale.
«Più piccola e meno spettacolare, di certo» commentò Randal, ruotando nella mano la sfera bitorzoluta, «non sorprende che gli americani abbiano scelto qualcosa di più, come dire, scenografico. Ma questa, amico mio, sarà più efficace. Almeno è la stessa che porta Jack.»

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La domenica, seguivo l'opera evangelica di un certo padre Amory. Pace all'anima sua. Quel vecchio obeso sermoneggiava nella piazza della chiesa, con una voce capace di far crollare a terra le stelle. Io stavo seduto al bancone del Bolton's, ma anche da lì sentivo. Ottobre, novembre, dicembre: stavo lì e bevevo. La carrozza di miss Marie Louise passava di fronte al pub alle dieci, ogni santa domenica. Bella e ingenua.
Una volta ho anche pregato. Un tentativo disperato di illuminare la via oscura che avevo di fronte. Una rapa di Ognissanti avrebbe fatto una chiarezza maggiore. Poi non lo feci mai più; di sicuro, non in quel modo.
Che piova, tiri il vento del demonio o cada tutta questa notte infinita sulla mia testa: non c'è preghiera che mi possa salvare! Posso contare solo sulle mie gambe. Loro, anche se stanche, vanno avanti. Gli uomini-ombra stanno nelle loro pallide case-ombra, corrono alle mie spalle lanciando grida inascoltabili. Mi colpiscono. Sparano. Piangono.
E muoiono.
Questa mi seguirà senza fare storie. Ogni tanto capita. Sembrano morti che camminano, delle marionette violente che cercano di farmi del male. Ne ho viste innumerevoli, ne ho avuto paura. Ho tremato a causa loro, spaventato nel coricarmi, temendo che mi potessero essere più vicine di quanto credessi. Loro però non sanno nulla di tutto questo. Mi sento invisibile. Riesco a raggiungerne poche, troppo poche. Sono anni che cerco una via per espandere il mio orizzonte.
Non vedo bene, dannazione, non vedo altro che buio. Dov'è il sole? Dove sono finite le stelle? È sempre una notte senza luna, quaggiù. Senza la mia lampada, lo giuro, avrei perduto per sempre la strada di casa. Per fortuna, lei è rimasta con me.
L'unica superstite di un mondo che mi ha abbandonato. Oltrepasso la biblioteca e la sua luce rischiara i corpi ridotti a maleodoranti mucchi di carne, passati per penitenza sotto la lama della mia falce. Non sono io a scegliere, ma loro. Hanno diritto al gioco. In fondo, l'ho avuto anche io, a mio tempo.
Nessuno mi aveva detto, però, che non c'era possibilità vincere.


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Me ne parlarono abbondantemente, ma io già conoscevo la leggenda di Stingy Jack, il vecchio ubriacone che aveva ingannato il diavolo. Per ben due volte era venuto meno al patto stretto con il male, ed entrambe le volte salvo. Era riuscito a incastrare il demone con proposte disoneste, che alla fine gli avevano garantito qualche anno in più per i suoi vizi. Rifiutato dal paradiso per la sua vita dissoluta e malvoluto all'inferno per il suo burlarsi della morte, fu condannato a rimanere tra i viventi, continuamente alla ricerca di una via. E per non perdersi, un tizzone ardente proveniente dalla fiamme eterne, ben chiuso in una rapa. Da qui l'usanza popolare. Imitazione, mera imitazione. Almeno credevo che non ci fosse altro.
Passammo i successivi giorni in completa tranquillità. Gli abitanti di Dublino invece erano in fermento e provavo gusto nell'osservarli affaccendati per la festa. Si era unito più volte a noi Tristan, garbato e amichevole. Trovavo interessante la sua compagnia per la mole di informazioni che possedeva sul folklore e la cronaca locale.
«Qui è più di una leggenda, professor Veidt» prese a spiegarmi quando feci notare con quale agitazione venivano affrontati i preparativi in ogni casa, locale o angolo della strada. Mancava lo strato profondo di serenità che mi sarei aspettato. Vidi due uomini arrivare ad azzuffarsi per uno dei grossi ortaggi violacei, contesa che finì con uno dei due carponi a tenersi il naso gocciolante sangue. «È una necessità. Le persone sentono Jack, durante la fatidica notte. E cose spiacevoli, a volte, caso fortuito o meno, accadono.»
Curiosi avvenimenti si erano succeduti con una certa regolarità, alcuni addirittura inquietanti, come la sparizione di una donna, nei primi anni ottanta, proprio la notte del capodanno celtico. Ne appresi l'angoscioso racconto da Antoinette, che, stranamente partecipe, mi metteva in guardia. Non mi capacitai dei motivi per i quali la mia nuova amica apparisse tanto scossa. Diedi la colpa ai fatti che, di per sé, risultavano destabilizzanti. Una donna scomparsa, che appare nuovamente dopo quasi tre anni di assenza, viene accolta dalla propria famiglia come la più grande delle gioie e torna nella comunità fra mille domande e visi sereni. Dopo due mesi uccise nel sonno i suoi tre figli, il marito e l'anziana madre, prima di sparire e non far mai più ritorno. Di nuovo durante la notte di Ognissanti.
Convinto, e scosso, mi ero offerto di acquistare anch'io una rapa da mettere sul portone di casa di Tristan, nostro gentile ospite per la serata degli spiriti. Cercai fra le illustrazioni storiche di qualche tomo ammuffito, dimenticato nella biblioteca civica, per ispirarmi all'intaglio. Per abitudine, nell'intraprendere un'attività alla quale non sono avvezzo, preferisco documentarmi in partenza. Ne uscì comunque un lavoro mediocre, non pienamente soddisfacente, ciononostante utile allo scopo. Fu così che incrociai per caso la lettera di Erskine Childers, scritta di suo pugno alla nipote Patricia durante gli anni della presidenza dell'isola. Era riportata come citazione di spirito patriottico nello storico manuale. Ma ai miei occhi apparve come un monito sinistro che la notte ancora mi tormenta: «Gli antenati sono antenati, gli spiriti sono la storia, le creature sono le favole, e in verità ad avere il potere di nuocerci sono solo coloro che vivono il nostro presente.» Il pensiero di un uomo legato alle tradizioni che vide il proprio padre giustiziato durante la guerra civile. Se solo avesse saputo quanto profondo è il legame fra tradizione e presente, avrebbe avuto l'attacco di cuore con molti anni d'anticipo.

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A volte mi convinco di essere morto. Non c'è altra spiegazione.
È forse questo un limbo? L'odore della fuliggine permea l'aria umida. Le rare fiamme, le scorgo vivide. L'aperta campagna è come un fondale marino, ondeggiante, pieno di dita molli che mi indicano.
Sto sulla strada, non me ne separo mai. Neanche quando incrocio i lumi accecanti, occhi fissi e vacui, che vagano avanti e indietro. Mi vedono ma non mi guardano. Le prime volte mi gettavo a terra, o di lato, per evitarli. Poi mi resi conto che sono loro a voler evitare me. Scartano all'improvviso proprio quando mi arrivano più vicini, con un ruggito stridente. Nella testa una voce mi spingerebbe a indagare, una voce che rimane inascoltata. Ho paura ad addentrarmi nel nero oltre la strada.
Seguo la lampada. La seguo giù per la via. Fino a che, capita sempre, ne vedo altre. Altre lampade, altra gente-ombra. Ma diversa: questa mi dà conforto. Sembra che loro sappiano che esisto, che ricordino di me più quanto rimembri io stesso. Come sono arrivato qui? Dov'è “qui”? Il vecchio mondo era marcio e malato, ma infinite volte meglio di questo. Qui manca ogni scintilla della dannata felicità.
Così mi ritrovo a cercare di prendere la gente-ombra. Di farla camminare con me.
Non so cosa fanno, non so cosa vogliono, ma so che c'è un posto dove posso portarle.
Quando il guardiano sarà sazio, mi lascerà passare.
C'è uno di loro, uno degli ultimi che mi ha seguito, che ha scelto un accordo. Ha scelto la maledizione, per non affrontare il sacrificio. Chi sono io per rifiutare? Specialmente quando è nei miei interessi.
Un patto è un patto. Ora mi sta aspettando. E avrà con se ciò che mi deve.


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La sera del capodanno celtico, in attesa sulla veranda, Tristan mi accolse con la consueta gentilezza, posizionò un lumino nella rapa e la lasciò in bella vista.
Non c'è molto da riportare riguardo allo svolgimento della cena, del tutto ordinaria. Pietanze a base di rape e zucca non ve ne furono. Accadde al dolce, però, che Antoinette cominciò a tremare. Dapprima lievi tremolii, forse già insiti nella sua natura cagionevole di ragazza. Si manifestarono successivamente dei veri e propri spasmi. Lei smise di mangiare, in viso era pallida come un lenzuolo e sudava in preda a una fredda febbre.
Credemmo a un'indigestione. Tristan mise a disposizione l'ottomana per far rilassare e distendere Antoinette, che ben presto cadde in uno stato delirante. Urlava parole senza senso, era impaurita oltre il sopportabile. Arrivò a strapparsi i bottoni del corpetto, convinta di non poter respirare. Aggravatasi così la sua condizione, fui io stesso a suggerire di portarla da un medico. Non feci una strenua opposizione alla richiesta di Randal di continuare la serata senza di loro. Avrei preferito rendermi utile, eppure lui fu così categorico - ora me ne capacito - che accettai di restare con Tristan.
Ripensando al momento in cui vidi Randal uscire dalla porta, credo di aver percepito, per un istante, lo sguardo di Antoinette su di me. Lo stesso sguardo addolorato, consapevolmente colpevole, di un bambino che abbandona il proprio cane.
Prima che il silenzio cadesse come neve a coprire la città, avevo bevuto un buon mezzo bicchiere di scotch. Mi sistemai accanto al focolare, con Tristan di fronte. Anche lui bevve. Le lancette dell'orologio a pendolo scattavano con un fracasso infernale, ora che non c'era altro rumore oltre al nostro sommesso vociare. Poi, passi.
Lenti, lontani ma udibili. Sordi colpi di mazza sulla pelle tesa di un tamburo. Schiocchi appena accennati fuori dalla finestra.
Tristan mi guardò come se avesse sentito lo stesso rumore. Eppure non c'era traccia di stupore sul suo viso.
Mi affacciai alla finestra e le vidi.
Quelle gambe.
Quelle mani.
Quella lanterna.
Era lì, sulla strada. Camminava lentamente. Si guardava attorno, come se cercasse qualcosa. Una forma orribile che non oso ricordare.
Solo allora Tristan parlò e io compresi, nel totale sconcerto, cosa stava per accadere.
«Per pagare una maledizione è necessario un patto, Howard.» Si toccò istintivamente la cicatrice a forma di croce sul collo. “Un simbolo, dunque”. «Mi dispiace.»
La rapa intagliata, sulla veranda, era spenta. Un fumo leggero saliva dalle orbite intagliate. E la creatura che a passi lenti scendeva lungo la via, attorniata da sorrisi sghembi e luminosi, come una recinzione spirituale che la contenesse, notò la mancanza.
Un movimento verso di noi.
Tristan arretrò, spalle al caminetto, ed estrasse dal panciotto la lunga lama coperta di simboli dimenticati. Tremava, anche lui tremava. Mi guardava e osservava l'entrata, come se ci fosse un vetro fra noi. Poteva vedermi, ma non era lì. Non voleva esserlo.
Io non capii. Ma, uno dopo l'altro, sentii i passi avvicinarsi.
Mi scese nella gola il disgusto di un maiale che attende di essere trascinato al macello.
Lo sentii espirare.
Poi, fu alla porta.

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Dalla fila di lumi rassicuranti a volte manca un elemento, un punto della trama. È una delle ombre - ho capito - che mi chiama. Sono tante, sono identiche l'una all'altra, anche se alcune tentano di farmi del male. Non quelle che mi chiamano, però. Lo so che hanno bisogno di qualcosa, anche se non so perché la chiedano a me. Cosa ho fatto io per scegliere questo destino? Non ero un uomo di fede, anche se portavo la croce. La croce mi ha protetto contro le forze del male. Fino a che non sono arrivato qui. Fino a che non mi sono state chiuse tutte le porte in faccia. Perché un giorno il mondo intero mi ha masticato e sputato, come un frutto guasto che non vuole nessuno.
Arrivato al primo cancello mi scacciarono come un appestato.
Al secondo mi diedero un tizzone, per far sì che la mia lampada non si spegnesse mai, prima di mandarmi di nuovo nelle ombre.
E ora ho solo una falce e una rapa. Mai nella vita mi sono trovato a elemosinare. Mai ho implorato pietà.
Ciò che mi spetta, lo prendo. Ciò che mi diletta, lo consumo.
Io oltrepasserò i cancelli, l'uno o l'altro. Arriverò in cielo o entrerò per sempre nelle viscere ribollenti della terra. E le ombre, una dopo l'altra, scompariranno.
Quando le consegno, do loro una scelta. E sono loro, stupidi uomini-ombra, a decidere del loro stesso destino. Ne verranno a conoscenza con il tempo, sapranno ogni cosa. Troverò il modo di dir loro di me. E con la conoscenza si accompagna la paura. Con la paura, il credo. Maggiore sarà la fede, tanto più avrò la forza di raggiungere chiunque su questa landa desolata, capace finalmente di andarmene.
Sono un uomo che ama la vita, dopotutto. Altrimenti non l'avrei ingannata.
Forse per questo il mio fato mi diverte e qualcuno mi chiama Smiling Jack. Forse per questo propongo sempre una scelta quando busso. Anche a questa porta, questa sera.
E io chiederò: «Sacrificio o maledizione?» Scelgono sempre tutti la stessa cosa. E non capiscono che c'è un prezzo da pagare in ogni caso. Soprattutto per concludere un patto.
Tempo, in cambio di un pegno. Per far sì che tutti sappiano.
Ma per portare un messaggio, serve che il messaggero rimanga integro.
Eppure, dovrò consegnare al guardiano un'anima questa notte. Sposto lo sguardo. In fondo, questi uomini-ombra sembrano tutti uguali. Quello con cui ho stretto il patto ha lo stesso calore dell'altro sconosciuto.
Lo posso afferrare con la stessa facilità.
Urlano, urlano sempre quando li porto via con me.


"Smiling Jack" di Howard Veidt, a cura di Fabio Brusa.
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