Film > Brisby e il segreto di Nimh
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Autore: Redferne    03/11/2018    4 recensioni
Li costrinsero a nutrirsi dei frutti proibiti. Dopo averli strappati dritti dritti dalle fronde dell'albero della conoscenza del bene e del male.
E da allora...mai più nulla fu come prima, per loro. Per tutti quanti loro.
Ma non finirono perduti, a differenza di chi li aveva voluti creare. Tutt'altro.
E adesso é finalmente giunta l'ora di raggiungere l'Eden, la terra promessa.
Ma il giovane e novello Adamo che é in procinto di condurli verso la salvezza ha bisogno della sua Eva.
E forse...vi é ancora il tempo di poter fare qualcosa.
Forse non é ancora il momento di dover rinunciare a tutto.
Non é ancora troppo tardi per poter sperare...
Genere: Malinconico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
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I’ LL WAIT FOR YOU FOREVER

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Stava avanzando tra i fili d’erba ancora bagnati dalle goccioline di rugiada. Minuscole perle testimoni della nuova alba che stava per fare capolino al vecchio mondo. Quello di sempre. Quello che ogni sacrosanta mattina il creato si decide a mandare in terra.

L’aria era frizzante, aromatica ed appena umida. Odore di terra, erba, fieno e muffa. E stava già iniziando ad impregnarsi a fondo nel suo manto, giungendo fino all’epidermide sottostante e facendolo rabbrividire. Sentì l’ultima di quelle scosse propagarsi da essa fino all’interno delle sue membra. E da lì fino alle ossa e poi ancora più dentro, nel midollo cavo e spugnoso racchiuso in esse, che custodivano gelosamente come il caro e prezioso dei tesori e che proteggevano dagli urti improvvisi e dai pericoli ancora più inaspettati.

Procedeva in linea retta e alla massima velocità possibile, ma prestando al contempo estrema attenzione a tutto ciò che lo circondava e ad ogni potenziale ostacolo o minaccia.

Schivò un rametto spezzato appena oltre la metà, poi evitò zigzagando una serie di sassi.

Sbuffò. Aveva già il fiatone. Non ci era più abituato. O forse era semplicemente l’età che avanzava inesorabile. Il tempo passava per tutti, spietato ed inflessibile. E lui non costituiva certo un’eccezione alla cosa. Però…

Però non era il caso di dimostrarsi così lapidari e pessimisti, specie nei propri confronti. Magari gli occorreva un po’ di allenamento supplementare. Non in senso stretto, però. Tutti i soldati che facevano parte della guardia scelta venivano sottoposti ad un rigido addestramento, sin dalle prime ore mattutine. E che si svolgeva lungo l’arco di almeno dieci ore giornaliere. Otto, se l’istruttore si presentava particolarmente in buona e non aveva voglia di farli faticare troppo.

Non che nel suo caso facesse poi molta differenza. Visto che era lui a comandarla, quella combriccola di scalmanati, toccava sempre a lui dare il buon esempio. E non aveva mai fatto sconti, soprattutto verso sé stesso. Continuava imperterrito anche quando tutti gli altri avevano già finito con lo stramazzare al suolo per la fatica, e da un bel pezzo.

No, non gli occorreva affatto un surplus di fatica. Quel di cui aveva veramente bisogno era di imparare a CAMMINARE. Ma come si faceva una volta, però. Come avevano fatto i suoi genitori. E i suoi nonni. Ed ovviamente tutto lo stuolo di fratelli, zii, cugini. Sempre ammesso che ne avesse mai avuti. Ma doveva essere così, per forza, visto che la sua razza era tra le più numerose e prolifiche che avessero mai calcato il suolo.

La quantità aveva sempre costituito loro salvezza. L’ UNICA SALVEZZA, a ben vedere.

Quando sei la cena per qualunque altro essere vivente dotato di un minimo di zanne e artigli, e sei praticamente sulla lista del menù per ogni specie che non sia la tua, la sola possibilità che hai e di riprodurti a dismisura. Più che puoi. Forse, qualcuno della tua prole sarà abbastanza fortunato e scaltro da poter riuscire a vedere il domani. Anche se il domani non sarà certo migliore di oggi. Perché l’unica cosa veramente importante, l’unica a contare davvero per tutti quelli come lui…è SOPRAVVIVERE. A qualunque costo.

Si concesse ancora un istante per riflettere sulla nutrita schiera di consanguinei che non aveva mai potuto avere l’opportunità di conoscere. Magari per il semplice fatto che non esistevano. Perché erano IMMAGINARI, e nulla più.

Gli venne da sorridere, a quella strampalata idea.

Ma si metta per un solo attimo in conto che siano esistiti per davvero.

Quanti, quali tra loro avevano avuto il privilegio di vedere il domani? Un altro domani, proprio come stava accadendo a lui?

Il sorrisetto ironico gli svanì di colpo. Meglio tornare a concentrarsi sull’andatura.

Indubbiamente, tornare alle care e vecchie quattro zampe rappresentava la scelta migliore, le volte in cui occorreva passare inosservati. O se si aveva una certa fretta. Ma stravolgeva completamente la prospettiva. Specie da quando non era più l’unico ed esclusivo tipo di camminata a disposizione. Specie da quando era diventato un mero OPTIONAL e non più la condizione stabile.

Un prato incolto diventava una foresta. I fili d’erba, fronde di alberi. E i pezzetti di legno ed i rametti…interi tronchi.

Senza contare…senza contare che era DANNATAMENTE FATICOSO, accidenti.

In quella modalità il cuore si metteva a battere e a pompare al doppio della velocità e della potenza, ed in questo modo il sangue con cui provvedeva ad irrorare i vasi sanguigni e a innaffiare gli organi vitali scorreva molto più rapidamente, generando un sacco di attrito e calore.

Certe volte lo assaliva un dubbio. Certe volte si chiedeva se ad aver assunto la postura eretta ci avevano veramente guadagnato qualcosa. Oppure…ci avevano solo PERSO.

Difficile dirlo con certezza.

Doveva essere a dir poco fradicio. Meno male che faceva abbastanza fresco, quella mattina. Altrimenti qualche grosso predatore goloso della sua carne fresca e succosa avrebbe finito col fiutare e percepire il suo odore. E non avrebbe dovuto nemmeno sforzarsi più di tanto, visto che per come era messo lo si poteva percepire senz’altro a miglia di distanza.

 

Tsk. Che bel modo di presentarsi, rifletté tra sé. I miei complimenti, davvero.

 

No, non era proprio il modo di presentarsi al cospetto di una signora, per un prode soldato quale era lui.

Così come era vero che la corsa non doveva costituire di certo un’attività molto indicata, per un RATTO. A dirla tutta…non era consigliata per nessun tipo di mammifero o animale in generale. Sottopone il corpo ad uno stress e ad uno sforzo eccessivi. Non bisognava mai abusarne, e di norma andava utilizzata solamente in casi di estrema necessità. Quali procacciarsi il cibo e sfuggire a chi ha deciso di darci la caccia per banchettare con la nostra carcassa ancora calda e pulsante.

Quel genere di situazioni, insomma, che tendevano a confluire tutte quante in un solo gesto: LA FUGA.

Ma ovviamente, come in ogni caso che si conosca, anche questa volta c’era qualcuno che non la pensava affatto così.

Tipo i BIPEDI, tanto per cambiare.

Ma la cosa peggiore era che, dal canto loro, non si ritenevano affatto un’eccezione. Anzi, consideravano il loro punto di vista come L’ UNICO POSSIBILE.

Tutto il resto all’infuori di esso non era che STRANEZZA. PAZZIA. FOLLIA.

Li vedeva sempre, soprattutto durante la sera e i fine settimana, con particolare predilezione per la domenica mattina. Da soli oppure in gruppo, per farsi forza e costringersi ad arrancare coi loro corpi grassi e flaccidi e col respiro mozzo lungo le stradine che costeggiavano i boschi, le brughiere, gli orti ed i campi coltivati. Con i calzari ai piedi ed il resto, dalle caviglie all’insù, infilato ed intabarrato in quegli assurdi sacchi sgargianti e multicolori dalle tonalità e combinazioni più tristi ed improbabili, che emanavano un tanfo così sgradevole…

Non sapeva come definirla, quell’astrusa fragranza. Il suo naso piccolo ma ultrasensibile ed il suo olfatto iper – sviluppato non riuscivano proprio a riconoscerla o ad identificarla.

Sapeva…sapeva di FINTO. DI ARTIFICIALE.

Non avrebbe saputo spiegarlo in altro modo.

Niente a che vedere con gli odori presenti in natura. Le foglie, gli alberi, il fieno…persino la puzza nauseabonda di un uovo marcio o di un frutto mezzo divorato dai vermi aveva più personalità.

Quelli, invece…non sapevano DI NULLA. DI NIENTE.

Li osservava pazientemente e a debita distanza, nascosto nell’erba più alta e fitta, agghindati in quella maniera così ridicola e mentre erano impegnati in quella sorta di strano rito che loro chiamavano…come diavolo è che lo chiamavano, sempre?

Eppure glielo aveva sentito ripetere tante di quelle volte…decine di volte.

Ah, si…JOGGING, doveva chiamarsi.

Jogging. Si chiamava senz’altro così. Ne era più che sicuro.

Aveva sentito fuoriuscire quel nome a fior delle loro labbra, tra una bollente esalazione ed un ancor più bollente schizzo di saliva mista a sudore che gli addensava attorno agli angoli della bocca, talmente denso e grumoso da parer la schiuma dei cavalli, e che appiccicava peggio della colla.

Più di una volta aveva rischiato di farsi centrare in pieno sul dorso da quella schifezza, mentre se ne stava buono buono ed acquattato ai bordi dei parti a spiare le le loro abitudini.

Del resto…SE VUOI VINCERE LA GUERRA, PER PRIMA COSA DEVI CONOSCERE IL TUO NEMICO. E SAPERE CONTRO COSA E CHI TI STAI BATTENDO.

Così sostiene un vecchio adagio.

Che razza di idioti, che erano. Producevano cibo e scorte in abbondanza, a differenza del suo popolo che doveva correre e lottare strenuamente per riuscire a procacciarne e rimediarne anche solo una misera oncia. E ne producevano più di quanto ne avessero effettivamente bisogno. Col risultato che per smaltirle tutte finivano con l’ingozzarsi come i porci. Peggio dei porci. E poi si mettevano a correre come i forsennati e senza alcun motivo per consumare le loro riserve di grasso in eccesso, visto che ce le avevano addosso praticamente tutto l’anno. Non certo come lui e i suoi fratelli, che quel minimo di grasso corporeo se lo mettevano da parte solo durante il rigido periodo invernale, in previsione di un eventuale letargo. Anche se, da quando avevano acquisito la capacità di pensare, riflettere ma soprattutto di avere delle idee, dormire quando la campagna era ammantata di neve si stava rivelando sempre meno necessario. Superfluo.

Prendessero esempio da loro e dagli altri esseri viventi una volta tanto, quei rincitrulliti.

Si mangia, si deve mangiare quel tanto che basta per sopravvivere. Non un chicco di più del necessario. Ed ogni volta che se ne ha o si riesce ad averne l’opportunità. Poiché non si può avere la certezza di quando potrà ricapitare. E soprattutto se RICAPITERA’.

La fame è praticamente CRONICA, in natura. Ecco perché non si ingrassa, mai. Se non in circostanze particolari. Come il letargo, appunto. O quando una femmina aspetta dei cuccioli. Non si conduce una vita tranquilla e sedentaria per poi inventarsi mille passatempi assurdi per generare sforzo dove non si dovrebbe.

L’appetito non si presenta ad intervalli regolari o ad orari prestabiliti della giornata. Non ci sono pranzi, colazioni o cene. Ad esser sinceri…non esistono nemmeno questi concetti, nel mondo da cui proveniva lui. Sono concetti ALIENI, per il resto degli altri animali.

Esiste un solo ed unico punto fermo. Varrebbe a dire il NUTRIRSI. Eppure…

Eppure QUELLI si comportavano e parlavano come se avessero sempre e soltanto ragione loro. Certo che avevano un bel coraggio ad autodefinirsi (proprio così, gente. AUTODEFINIRSI. Ma quale essere provvisto di anche solo un briciolo di raziocinio potrebbe mai sostenere una tesi così idiota?) IL GRADINO PIU’ ALTO SULLA SCALA DELL’EVOLUZIONE.

Certo, come no. Sicuro.

Con loro l’evoluzione aveva compiuto davvero un bel balzo in avanti. Per poi perdere l’equilibrio e piombare dentro ad un LURIDO PANTANO.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La comparsa delle prime file di stoppie mezze storte ed infangate, reduci dell’ultima mietitura, furono il chiaro avviso e segnale che si trovava ormai prossimo a destinazione.

Si fermò proprio nel punto esatto in cui l’erba alta, inframezzata da qualche verde spiga ancora acerba e quindi non commestibile e da qualche rosso papavero, iniziava a fare spazio alla distesa ormai brulla dove una volta sorgevano le pannocchie ed i filari.

Una volta arrestata la corsa, per prima cosa si rimise sulla posizione a due zampe ed odorò l’aria attorno a sé alzando il minuscolo naso, alla ricerca di possibili pericoli. Poi cominciò ad avanzare lentamente e con circospezione. Il suo sguardo vagava senza sosta da una parte all’altra.

Non era ancora sorto il sole. E confidava nel fatto che la spessa coltre di nebbia mattutina presente al livello del terreno gli avrebbe garantito un certo grado di protezione e di invisibilità.

Ancora per un po’, almeno.

E poi…era senza dubbio l’orario perfetto, da quel punto di vista. Troppo tardi per i cacciatori notturni e troppo presto per quelli diurni.

Era un po’ come IL CREPUSCOLO. Anche se in realtà ne costituiva l’esatta nemesi, il preciso contrario. Come il NADIR con lo ZENITH.

Prese ad avanzare fiducioso, convinto dalle inoppugnabili elucubrazioni a cui era giunto. Ma forse non avrebbe dovuto dedicare totalmente la sua attenzione e la sua concentrazione ad esse. Non del tutto, almeno.

L’orgoglio e la pienezza di sé possono essere due nemici molto subdoli, alle volte. Perché prima ti lusingano e poi ti piantano un lungo stiletto tra le costole, in aggiunta all’ultimo e fatale abbraccio. Ed a quel punto non rimane che crollare esterrefatti al suolo, chiedendosi perché le proprie gambe si siano fatte di colpo così deboli e molli mentre un liquido caldo, scuro e denso come il più amaro ed aspro dei liquori inizia a scorrere e a scendere lungo il petto. Ed intanto che un velo nero come la notte e pesante più del piombo cala sugli occhi senza alcuna pietà ci si continua a domandare e a ripetere mentalmente PERCHE’, PERCHE’…

NON E’ POSSIBILE…NON E’ POSSIBILE…

La verità è che troppa sicurezza e spavalderia non rappresentano affatto il migliore degli approcci, per affrontare le sfide che un roditore è chiamato ad affrontare nel corso della sua travagliata e ben misera esistenza. Insidie che sono persino banali, dato che per lui e tutti i suoi simili rappresentano il vivere quotidiano.

Se ne stava avanzando tutto bello tronfio e gagliardo a testa alta, petto in fuori e spalle come il soldatino che era e che sentiva di essere. Talmente impegnato a scacciare fantasmi, remore e paure dalla propria mente e talmente orgoglioso della propria posa marziale da accorgersi con un attimo di ritardo di troppo del lieve contatto all’altezza del collo del piede destro, non appena ebbe mosso il passo successivo. E di ciò a cui aveva appena dato vita con quella sua mossa incauta.

Maledì sé stesso e la propria dabbenaggine, lasciandosi sfuggire una sfilza di imprecazioni a mezza bocca. Ma ormai era troppo tardi.

Il fattore sorpresa era bello che andato.

Si sarebbero certamente accorti di lui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il piccolo topolino riposava sereno, sdraiato su di un fianco e sopra al suo giaciglio in miniatura ricavato all’interno di una minuscola spelonca. Il suo corpicino era avvolto da una leggera coperta ricavata da tutto ciò che rimaneva di una vecchia tovaglia scovata tra i bidoni della spazzatura della fattoria più vicina.

Il motivo a quadrettoni bianchi e rossi che doveva averla caratterizzata nella sua interezza lo si poteva chiaramente sorgere in quella porzione di stoffa che lo intabarrava, ricavata a sua volta da un tocchetto appena di un poco più grande.

Allungò lentamente una mano, da dove si trovava rannicchiata ad osservarlo da una mezz’oretta circa, e gliela posò con delicatezza sopra la testolina. Gliela accarezzò, scompigliandogli lievemente il ciuffetto di pelo sopra la sommità, e da lì passò sulla nuca.

Il piccolino compì un lieve sussulto, accompagnato da un altrettanto flebile gemito. Per un istante sembrò sul punto di voltarsi e cambiare la propria posizione, ma poi se ne rimase lì dov’era e seguitò a dormire tranquillo come prima.

Sorrise. Era fresco anche questa volta. L’ennesimo, inequivocabile segno che la febbre era finalmente sparita. Da un paio di giorni circa non ne aveva più nemmeno una linea. Così come quella tosse ostinata che da tanto, troppo tempo continuava a squassare suoi polmoncini a suon di violenti spasmi. Ed aveva persino iniziato a recuperare l’appetito, anche se di poco.

Pur non tirando in ballo un eccessivo ottimismo, visto che non faceva parte né della sua intima natura e nemmeno della natura della specie a cui apparteneva considerando la vita assai breve e perigliosa a cui veniva sottoposta la razza sin dalla nascita…ci si poteva azzardare ad affermare che il peggio era senz’altro passato. La brutta malattia che lo tormentava da più di un mese stava finalmente iniziando a cedere il passo.

Ma si. Ammettiamolo pure. E al diavolo i foschi presagi e gli uccelli del malaugurio.

Se ne rimaneva comunque cauta, pur nel suo slancio improvviso di euforia. Tenendo un atteggiamento esteriore piuttosto tranquillo e compassato. Anche se dentro si sentiva in tumulto.

L’esperienza le aveva da sempre insegnato ad essere estremamente prudente, e a non cantare vittoria troppo presto e prima del previsto. I morbi come quello tendevano ad essere particolarmente cocciuti e ad abbassare la guardia, fosse anche solo per un semplice istante, le ricadute erano sempre dietro l’angolo. Le polmoniti, in particolare, lasciavano sempre dietro qualche strascico o principio di focolaio dopo il loro passaggio. Pronti a riesplodere e a far danni quando meno ce la si aspettava.

Bisognava starsene cauti, e non forzare troppo i tempi. Occorreva estrema calma, e pazienza.

Un passo alla volta. Passo dopo passo.

Ad un tratto un insistente scampanellio la fece trasalire.

Si era attivato l’allarme.

Si voltò verso il resto della propria abitazione. E precisamente oltra la porta, nel punto in cui si accedeva agli altri locali, anche se da lì non poteva certo riuscire a vederli. La sua espressione mutò di colpo, iniziando a tradire una certa ansia mista ad un’evidente preoccupazione.

D’istinto si portò una zampina sul petto, quasi a voler tentare di calmare i battiti scomposti del suo piccolo cuoricino, che minacciava di uscir fuori dalla sua sede naturale da un momento all’altro. Quella opposta, invece, si trovava ancora adagiata sul corpo del topino, all’altezza della spalla destra.

Lo guardò, di nuovo. Seguitava a dormire sereno. Per fortuna il rumore non lo aveva svegliato.

Fece un breve sospiro di sollievo.

Meno male. Una preoccupazione di meno. Ma ora era il momento di pensare al misterioso visitatore. O potenziale minaccia, ancora non era chiaro. Un dubbio, questo, che aveva espresso in maniera più che eloquente mediante una farse appena sussurrata e rivolta alle pareti della propria tana, che nel frattempo aveva ripreso a scrutare.

“…Chi potrà mai essere?”

Ed era un dubbio che aveva tutte le intenzioni di chiarire. Ed al più presto, senza nemmeno dargli il tempo di assillarla più di quanto fosse necessario. E più di quanto non lo fosse già.

Si alzò dal giaciglio e tirò la piccola tenda di colore verde scuro, anch’essa ricavata da qualche infimo scampolo gettato via da qualcuno. In questo modo fu sicura di mettere al riparo il piccolo paziente dalla luce e dal frastuono.

I tondi anelli di ferro a cui si trovava attaccata e che la tenevano sollevata dal terreno si misero ad avanzare lungo l’asta a cui si trovavano infilati, e che era fatta del medesimo metallo di cui loro stessi erano composti. Scorsero uno a seguito dell’altro, in fila indiana, come una torma di scolaretti perfettamente allineati, diligenti e disciplinati.

La sistemò ben bene, assestandole ancora un paio di di bei e decisi strattoni nella direzione prevista per la chiusura. Poi, una volta sicura e soddisfatta del risultato appena ottenuto ma al contempo angustiata per la natura ignota dell’incombenza che la attendeva, procedette a passo sicuro verso il tinello.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Si fermò al termine del breve corridoio, proprio sulla soglia, ad osservare la situazione.

Gli altri componenti della sua prole erano già piuttosto svegli, vispi ed arzilli. Nonostante qualche sbadiglio di troppo, seppur alquanto sporadico, lasciasse facilmente intuire che dovevano essersi tutti quanti svegliati da poco.

Certe volte, ripensandoci, le dispiaceva davvero esser costretta a doverli buttar giù dai propri lettini a quell’ora, e alla mattina così presto. Ma si stava avvicinando la stagione fredda, e a quel periodo le giornate si stavano facendo corte. Molto corte, e sempre di più man mano che si avvicinava l’inverno.

Le più corte di tutto quanto l’anno. Toccava quindi approfittare di quelle poche ore di luce che venivano concesse, dal primo all’ultimo minuto. Sveglia prima del solito e a dormire altrettanto prima del solito.

Non era facile, la vita che il destino aveva riservato per loro e per quelli come loro.

A volerli giudicare mentre erano all’opera, sembrava proprio che stessero cercando di preparare la tavola ed imbastire l’occorrente per la prima colazione. O almeno questo doveva rientrare nelle loro intenzioni. Perché stando a ciò che poteva vedere almeno in quel momento, era rimasto tutto quanto confinato nel puro campo dell’empirico e dell’ipotetico.

E con le pure intenzioni e basta, per quanto lodevoli siano, di norma non si combina nulla.

I piatti e le stoviglie giacevano ancora impilati sul mobile appena sotto alla credenza da dove erano stati tirati fuori. Ma almeno quello era stato fatto. Era già qualcosa, dopotutto. Sul resto…meglio lasciar perdere. L’unico maschietto del trio era troppo impegnato a sbertucciare e a prendere in giro la femminuccia più piccola, che reagiva a sua volta con linguacce, smorfie e sberleffi. Nel frattempo quella che doveva essere la loro sorella maggiore aveva il suo bel da fare a mettersi in mezzo, agendo da paciere e tentando di ricondurli a più miti consigli. Inutilmente. Li teneva a debita distanza con entrambe le braccine ben stese, stando ben attenta a non beccarsi ora un calcio ora una manata o uno scapaccione, e dicendogli di piantarla una buona volta di far così tanto baccano che il loro fratellino più piccolo stava riposando, era ancora molto malato e a far così era una vera vergogna.

Forse era dovuto principalmente da quel motivo. O forse erano talmente presi ed assorbiti da quello che stavano facendo. Ma c’era da giurare che, a differenza di lei, non si fossero minimamente accorti del rumore che era provenuto da fuori. Allo stesso modo in cui non si dovevano essere ancora accorti della sua presenza e dalle sua entrata in soggiorno.

Occorreva il suo intervento. Per riportare l’ordine e la tranquillità. E l’armonia famigliare. Prima che ci scappasse davvero IL MORTO, di questo passo.

Toccava a lei.

“Insomma, bambini!!” Disse, con tono sommesso ma fermo. “Adesso fate un po’ di silenzio, su!!”

Non appena la udirono si fermarono tutti e tre fissi nel punto dove si trovavano e nelle posizioni in cui erano, per poi girarsi a guardarla con espressione sorpresa.

“Mamma!!” Esclamarono in coro.

“Vostra sorella ha ragione” ribadì lei, ammonendo i due più piccoli. “State facendo troppo rumore. Finirete con lo svegliare il povero Timmy, prima o poi. Vostro fratello non sta ancora bene, e ha bisogno di assoluto riposo.”

“Ma mamma, ha cominciato lei!!” Protestò il maschietto, indicando a dito la più piccola.

La madre sospirò. Era difficile crederlo, conoscendo Cynthia. Ma soprattutto suo fratello maggiore. Erano entrambi piuttosto vivaci, ma i fondo di buon cuore. Ma lui…sapeva e poteva diventare parecchio testardo, alle volte. E anche molto, molto orgoglioso. Non tanto da non capire quando commetteva degli errori ed oltrepassava la misura, ma nemmeno abbastanza da fargli chinare umilmente il capo e chiedere perdono per il proprio comportamento. Eppure capiva, e gli dispiaceva di sbagliare. Ma la sua individualità spiccava ancora sugli altri sentimenti e sovente gli impediva di poter scendere a patti col prossimo. Ed in particolar modo con le sue sorelle. Ma era giovane, e doveva ancora crescere. Il tempo per correggere i propri difetti e per ravvedersi non gli mancava di certo.

“Non mi importa di chi ha cominciato, Martin” sentenziò, interrompendolo. “Ve lo ricordate quello che ci siamo sempre detti? QUANDO SI LITIGA, TUTTI HANNO TORTO. E adesso fate pace, su.”

I due la squadrarono, come se per un attimo fossero indecisi sul da farsi.

“Forza” li sollecitò di nuovo lei.

“Io…e va bene. Mi spiace, Cynthia. Ho esagerato. Ti chiedo scusa.” disse il più grande, guardando la sorellina.

“No…” fece quest’ultima, con tono pentito. “…scusami tu, Martin. Non dovevo darti dello ZUCCONE.”

“Ed io…io non avrei dovuto darti della SMORFIOSA. Mi spiace tanto.”

I lineamenti della madre, da vagamente severi che erano, si addolcirono nel giro di un istante. Si avvicinò loro e li cinse per le spalle, gettandoli l’uno trale braccia dell’altra.

“Ora va meglio” commentò. “Bravi, figlioli. Così si fa.”

In realtà non le riusciva proprio di essere né dura e nemmeno troppo cattiva o severa, con loro. Non quanto avrebbe forse dovuto. E nemmeno di rimproverarli o sgridarli come invece veniva così semplice e naturale alla cara, vecchia ZIA BISBETICA, la loro burbera ed anziana vicina di casa. E la cosa scatenava ovviamente una ridda di critiche e di polemiche ogni qualvolta le due avevano l’occasione di farsi una bella chiacchierata relativa all’educazione dei figli.

 

“Sei troppo buona con loro, mia cara. E di questo passo finirai per farti mettere le zampe in testa, un giorno o l’altro. Specie da quello ZOTICONE di Martin. Guarda i miei figli, ad esempio, con tutti quelli che ho messo al mondo e cresciuto…beh, sappi che non ho lesinato SBERLE E SMATAFLONI con nessuno di loro, e a memoria mia non mi pare che ne abbia mai AMMAZZATO QUALCUNO. In cambio NE PORTANO ANCORA BENE I SEGNI, di sicuro. E ben se ne ricordano, quando si mettono a fare qualcosa da non fare!!”

 

Forse la sua anziana conoscente aveva ragione. Ma come poteva?

I suoi figli erano tutto ciò che aveva. Tutto ciò che le era rimasto.

Erano i suoi TESORI. I suoi tesori più PREZIOSI. Con la loro cocciutaggine, i loro difetti, la loro impulsività e la loro irrequietezza. Tutti tratti tipici della fanciullezza più pura e spensierata. Anche se non ci si può concedere il lusso di essere spensierati, TROPPO SPENSIERATI, in un mondo come il loro. E’ già così breve, il periodo che possono dedicare ai giochi e ai lazzi. Per lo meno finché dura…conviene lasciarglielo vivere.

Difetti, si diceva. Ma con essi si accompagnano anche i pregi, poiché gli uni non possono esistere senza gli altri. E i ragazzi ne avevano. E molti, anche. Tra qui quello di essere L’ EREDITA’, IL LASCITO di suo marito. Il segno tangibile, concreto, reale del suo passaggio, del sua fugace presenza su questo mondo. E DEL SUO MONDO. Per tutto l’affetto che le aveva donato. E per il breve ma intenso tempo in cui si erano amati. COSI’ TANTO AMATI.

Erano tutto, per lei. Ma un poco di polso e di fermezza erano necessari, per mantenere l’equilibrio. Specie quando si aveva a che fare con una prole così numerosa ed eterogenea. Ma soprattutto non si potevano fare distinzioni di alcun genere. Occorreva mettere tutti sullo stesso piano, piccoli e grandi, ed insegnar loro la responsabilità. Se i primi si dimostravano pestiferi, toccava ai secondi dimostrare maggior maturità non cascandoci e non facendosi coinvolgere nei loro tranelli. Sarebbe stato poi suo compito, in quanto madre, provvedere a redarguire il monello di turno invitandolo a riflettere sulla sua maleducazione.

La vocina della piccola Cynthia la distolse dai suoi pensieri. La vide avvicinarsi.

“Mamma…” le chiese, con tono preoccupato. “…ma Timmy sta davvero ancora così male?”

“No, tesoro…” rispose lei, poggiandole una mano sulla guancia e dandole una gentile via di mezzo tra una dolce carezza ed un tenero buffetto. “…Non temere. Sta molto meglio. Pian piano guarirà. Ma ha bisogno di rimanersene a letto, e di dormire.”

“Piuttosto…” domandò poi, rivolgendosi agli altri due. “…Non avete sentito suonare l’allarme?”

“Ha…ha suonato?” Esclamò la più grande, sinceramente sorpresa.

“Si, Theresa” le confermò, con un sorriso ironico. “Ma probabilmente eravate troppo impegnati a litigare tra voi per accorgervene.”

La figlia abbassò lo sguardo e parve arrossire, a quella constatazione.

“Ecco, uhm…” bofonchiò, imbarazzata. “…Io…”

“Non preoccuparti” la tranquillizzò. “E’ tutto a posto. Ma sarà meglio che io vada fuori a dare un’occhiata.”

“Ehi, un momento!!” Intervenne il maschietto. “Ci sono! Non è che potrebbe essere quella VECCHIA CIABATTA BRONTOLONA E INACIDITA di zia Bisbetica?!”

“Martin!!” Lo rimproverò di nuovo lei, pur cercando di continuare a mantenere la voce sommessa. “Quante volte ti avrò detto di non voglio che tu parli di lei in questo modo! E’ anziana ed è sola. Ed è normale che sia un po’ scontrosa. Ma è tanto cara.”

“Ehm, io…” fece lui, mortificato. “…Scusami ancora, mamma. Io…io non volevo. Non volevo dire quelle cose. Non so perché le ho dette, davvero.”

Lei gli posò una mano sulla fronte, smuovendogli e scompigliandogli lievemente la frangetta di pelo che stazionava permanentemente da quelle parti.

“Su, su” gli disse. “Non fa nulla, tesoro. Devi solamente imparare a riflettere prima di iniziare a parlare, tutto qui. Nient’altro. Vuoi sapere perché tu e zia Bisbetica non andate d’accordo e la vedi come il fumo negli occhi? Perché in fondo avete LO STESSO CARATTERE, ecco perché.”

Il piccolo fece tanto d’occhi, mentre le due sue sorelle se la ridevano di gusto.

“Ma…ma non è vero!” rispose, quasi offeso e lanciando occhiatacce minacciose sia all’una che all’altra, in egual misura. “Io…io non sono affatto come lei!!”

“Ascolta, Martin…” continuò sua madre. “…Zia Bisbetica avrà anche un brutto carattere ma è anche gentile, premurosa e disponibile. Però devi tener conto che a quell’età è molto difficile cambiare. Tu invece sei ancora giovane, ed hai tutto il tempo che ti occorre per poterti correggere.”

Gli frizionò ancora una volta il ciuffetto sulla sommità del capo.

“E poi è impossibile che si tratti di lei” osservò. “Di solito arriva mezz’ora dopo che abbiamo fatto colazione. Ed è sempre puntuale come un orologio.”

“Come un…cosa?!” Fece il topolino, alquanto perplesso.

“Un OROLOGIO, Martin” spiegò lei. “Come quello che vi ho mostrato l’altro giorno, mentre attraversavamo il campo per far provviste. Era lì per terra in mezzo alla fanghiglia e agli scti di pannocchie, ti ricordi? E’ lo strumento che usano gli uomini per misurare il tempo.”

“Anche…anche noi abbiamo un OREGIOLO, mamma?” Chiese la più piccina.

“Si dice OROLOGIO, scema!!” La zittì il fratello.

“Mamma!!” Urlò Cynthia. “Martin mi ha dato della scema!!”

“Martin!!” Esclamò lei. “Cosa ci siamo appena detti?”

“Scusa ancora, mamma.”

“Anche stavolta, Martin. Ma è l’ultima, te lo garantisco. Per questa mattina hai già oltrepassato il limite consentito.”

“No, tesoro” aggiunse subito dopo, rivolgendosi verso la figlioletta più piccola. “A noi non serve. Non ne abbiamo bisogno. Lo sentiamo benissimo per conto nostro il passare dei minuti, delle ore ed ei giorni. Non è forse così?”

“Beh, si…” ammise Cynthia.

“Quella sensazione noi ce l’abbiamo DENTRO. Ma gli umani no. NON CI RIESCONO. Non sono capaci di sentirla. Ecco perché costruiscono quei congegni.”

Sapeva fin troppo bene di quel che stava parlando. Era ciò che si provava sin dai primi secondi successivi alla nascita, e si diceva che venisse donata direttamente dalla terra come augurio di una vita lunga e prospera a tutti i suoi figli che generava, nessuno escluso.

A parte una certa e ben ristretta categoria di bipedi.

Quella sorta di suono. Il suono simile alla polvere o alla rena che si accumulava e che componeva la parte sabbiosa che si poteva trovare lungo le sponde del letto di un fiume, quando egli si ritirava durante le stagioni di secca. La sabbia della vita portata via dal vento impetuoso degli anni e delle ere che scorrevano, e dei pianeti e delle galassie che si espandevano e si allontanavano sempre di più. Sempre più lontano le une dalle altre, fino a spegnersi e a morire.

Un vento impetuoso ed impietoso. Ed implacabile.

Un oceano sconfinato di cui si riusciva a malapena a scorgere e a comprenderne la vastità e la magnificenza perché, pur essendoci dentro e facendone parte, alla fine non si era altro che uno di quegli stessi, insignificanti, infinitesimali granelli che venivano sballottati senza sosta né pietà dal movimento incessante che avveniva al suo interno.

Era un suono appena percettibile, che trasmetteva a volume sempre basso e a frequenza costante. Ma che sapevi essere SEMPRE LI’, con te. E lo si poteva udire ogni volta che si desiderava. Bastava tendere le proprie orecchie verso l’interno del proprio corpo, fino al centro del proprio cuore. Alle volte lo si sentiva innalzare di intensità, specialmente quando ci si ritrovava a dover fronteggiare un pericolo. E trovarsi a tu per tu con la morte era una condizione assai consueta, per un roditore. Si poteva dire, senza timore di poter essere smentiti, che fosse addirittura LA NORMA. Ma una volta che la minaccia, potenziale o reale che fosse, era svanita o si riusciva a sfuggire e a scampare da essa, esso si placava e tornava alla normalità. Arrivava però un preciso momento, nel corso dell’esistenza di ogni essere vivente (a parte una precisa tipologia, ovviamente), in cui quella specie di flebile soffio iniziava ad aumentare per conto proprio, senza bisogno di alcuna interferenza esterna. Era un segnale. Il chiaro segnale che ormai erano più i giorni che avevi vissuto che quelli che ti rimanevano da vivere. E giunti a quel punto non rimaneva altro da fare che mettersi il proprio animo in pace e dare inizio alla conta. Alla conta finale.

Era una capacità meravigliosa e terribile al tempo stesso. Praticamente equivaleva a conoscere, a sapere in anticipo la data della propria MORTE. Era una cosa spietata.

Spietata, si. Ma anche GIUSTA. Sapere quanto tempo restava prima dell’inevitabile fine poteva rivelarsi talvolta molto utile, se non addirittura necessario. Specialmente se si avevano delle cose in sospeso o se si era alla ricerca di qualcosa. Saperlo aiutava a rimanere ben presenti e concentrati sul momento, per non correre il rischio di mandare tutto all’aria con qualche mossa o decisione improvvida. E una volta asservito il proprio compito, si accettava di buon grado il proprio fato e gli si andava incontro con serenità. Poiché…TUTTO ERA COMPIUTO.

Quello era il massimo a cui si poteva aspirare mentre si abbandonavano le proprie spoglie mortali, con il corpo che veniva restituito alla terra e l’anima che volava in cielo fino a trasformarsi in una nuova, fulgida stella.

Non siamo noi a decidere, anche se qualcuno è convinto da sempre del contrario.

Nasciamo, ci muoviamo e moriamo in seno e nel ventre della grande madre. E lei a capire quando non serviamo più, e a toglierci di mezzo.

Chissà se anche gli umani possedevano questa facoltà, una volta. Di sicuro non la possedevano più ORA, questo era certo. Non capivano, non sentivano NULLA. Nulla di ciò che poteva riuscire a sentire un topolino di campagna o anche il più insignificante degli insetti.

Gli umani non erano in grado di sentire le voci della natura. E nemmeno quelle dei prati. Né quelle dei boschi. O dei fiumi. O del sottosuolo. E neanche il POTERE contenuto in esse.

Non si accorgevano di niente. Erano completamente ciechi e sordi. A tutto, ad ogni cosa. E forse era proprio per compensare questo vuoto che si lanciavano a testa bassa verso qualunque genere di frenetica attività.

Non conoscevano mai sosta alcuna. Erano come posseduti, in preda ad una sorta di febbre perenne.

Ma la natura insegna che non puoi andare contro la corrente. Non puoi metterti contro di essa senza finire col PERDERE TE STESSO.

Assecondala, o sarà peggio per te. Perché se cerchi di combatterla…TI ROVINERAI. Ti rovinerai con le tue stesse zampe. Puoi tentare di deviarla, di forzarne il corso o il flusso, ma prima o poi essa troverà sempre il modo di sfuggirti e di eludere il tuo controllo. Per ogni paletto o argine che tenterai di piantare per volerla imbrigliare alla tua volontà, lei scoverà una nuova via di uscita per passare in mezzo alle tue dita.

E’ completamente inutile. Se non nasci formica, non ha senso vivere come le formiche. Sempre avanti ed indietro, con la loro incessante frenesia come sola ed unica compagna.

Secondo la buonanima di Nicodemus, era proprio per questo motivo che gli esseri umani avevano creato e dato vita ad abomini come il NIMH. Per sottoporre le altre creature ad atroci esperimenti e sevizie di ogni sorta. Cercavano di capire tramite la scienza ciò che non riuscivano a capire con il cuore. Mediante la scienza più deviata, malata ed allucinata.

La scienza impazzita nella sua forma più pura.

Erano come dei folli. Un branco di pazzi furiosi. Scomponevano, squartavano, smembravano, dissezionavano. In preda alla brama di conoscere, di sapere.

Che stupidi.

Che razza di stupidi, che erano. La loro pretesa costituiva un’autentica ASSURDITA’. Un assurdità BELLA E BUONA.

Il vero segreto della vita non lo si può trovare nel profondo dei visceri di una cavia, e nemmeno lo si rivela estraendo a forza gli organi uno dopo l’altro dal torace ancora caldo della vittima ancora viva, urlante ed agonizzante.

Volevano cercare a tutti i costi la verità, la soluzione del mistero dentro ad uno. Ad ogni singolo uno. Ed in questo modo finivano solo col lasciarsi scappare il tutto. Per comprendere ancor meno di prima.

Che stupidi che erano, gli uomini. Proprio stupidi.

Stupidi e pericolosi. Anzi…PERICOLOSI IN QUANTO STUPIDI.

Quanto sangue versato inutilmente. E quante orribili torture. E tutto per ottenere IL NULLA.

Si può essere a tal punto GRETTI ED OTTUSI? Si può essere più CIECHI, CRUDELI ED ABIETTI DI COSI’?

No. Non si può. Eppure LORO lo facevano. E senza il minimo segno di pietà o di rimorso.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Si avvicinò alla maggiore delle figlie.

“Mi raccomando, Theresa” le disse, poggiandole una mano sulla spalla destra. “Bada tu ai tuoi fratelli, intanto che io sarò fuori.”

V – va bene, mamma” le rispose lei.

“Un…solo un pochino meglio di quanto tu abbia fatto fino ad ora. Solo questo, ti chiedo.” Aggiunse poi sua mamma con tono accorato, come in una supplica.

L’altra sembrò arrossire, mentre chinava il capo in segno di scuse.

“P – perdonami, mamma” balbettò. “M – ma i – io ti giuro che…”

“Non preoccuparti” le fece la madre, stringendole delicatamente nel punto in cui aveva appoggiato la propria zampa anteriore. “Sono certa che tu abbia fatto del tuo meglio. Pensaci tu. E controlla che Timmy non riprenda a tossire, per favore.”

“Va bene, mamma” promise quest’ultima, sfoggiando l’appena timido sorriso di chi l’ha appena scampata bella da una sonora ramanzina. “Stà tranquilla. Penserò io a tutto quanto.”

“Conto su di te.”

Dopo aver tolto la mano dalla spalla della figlia andò verso la porta. Scartò lievemente a destra di essa e si protese verso l’appendiabiti agganciato alla parete a fianco, dove vi si trovava il suo vecchio e consunto scialle color porpora. Lo tolse dalla gruccia e dopo averlo stretto e soppesato con entrambi i palmi, lo avvolse attorno alla schiena e al dorso con un ampio movimento circolare, facendolo roteare a mezz’aria fin sopra la propria minuscola testolina. A quel punto afferrò la maniglia dell’uscio di casa e la spalancò.

Un attimo prima di dirigersi verso l’esterno si voltò a guardare ancora una volta ed uno ad uno i componenti della famiglia per un’ultima esortazione.

“Voi finite di preparare la tavola, intanto” disse loro. “E la colazione. Farò in un attimo.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Non appena si ritrovò fuori, diede una rapida e furtiva occhiata sia a destra che e a sinistra della propria abitazione. E poi sopra di sé.

Eccoli lì. Le quattro file di piccoli sonagli in acciaio smaltate in ottone, ognuna corrispondente alla direzione cardinale dove era stata piazzata. E di cui lei era guardiana e custode. Attaccati a quel filamento nero e fino di…com’era che lo avevano chiamato i ratti, mentre lo stavano montando?

Ah, si…NYLON, o qualche cosa del genere. Era così trasparente da risultare quasi invisibile. Però, nonostante l’aspetto così fragile…era davvero resistente. RESISTENTISSIMO. Si diceva che nemmeno il più forzuto degli umani potesse spezzarlo con la sola forza delle braccia, neppure tirando fino allo spasimo.

La fila di sonagli dell’ovest non aveva ancora finito di ondeggiare e tintinnare. Il trillio prodotto dai minuscoli battagli presenti al loro interno fuoriusciva dalle fessure poste sulla parte anteriore, talmente sottili da sembrare le pupille degli occhi di un gatto, e si diffondeva tutt’intorno grazie al movimento alternato di ognuno. Tutto quel gran sali e scendi da parte loro le ricordava il ciclo vitale del flutto di un fiume col suo gonfiarsi, abbattersi ed infrangersi per poi riformarsi, in un movimento continuo ed incessante.

Crearsi e distruggersi per poi ricrearsi o ricreare qualcosa d’altro. Alle volte si aveva l’impressione che funzionasse tutto allo stesso, identico modo. Lo schema del creato e dell’universo, guardando attentamente, lo si poteva trovare e riscontrare praticamente in ogni cosa. Da quella enorme a quella minuscola.

Guardando attentamente, certo. Oppure, usando un poco di immaginazione.

Stesso discorso per gli occhi di un gatto.

Gli occhi di un gatto…

Un topo li può scorgere praticamente DOVUNQUE. Che lo voglia o no. Fa parte della sua natura. Bisogna sempre esser pronti ad identificare i propri acerrimi nemici.

Cero che i ratti avevano fatto proprio un gran bel lavoro. Ed avevano avuto davvero un gran colpo di genio.

Forse era vero quando sostenevano che non tutto il male veniva per nuocere. Era indubbio che nel corso della loro esistenza quei ratti avevano dovuto passare e patire delle esperienze e delle sofferenze davvero terribili, ma…non si poteva nemmeno negare che ne avessero tratto i loro indiscutibili vantaggi. Come il sistema anti – intruso che avevano ideato e costruito per lei e la sua famigliola mediante un complesso ed intricato sistema di leve, contrappesi e carrucole, funzionava che era una meraviglia. Era talmente preciso e sensibile da scattare alla minima sollecitazione. Ed in più quel filo sottile (com’è che si chiamava? Ah, si…NYLON, o qualcosa del genere. Non vi era proprio nulla da fare. Quel nome non ne voleva proprio sapere di entrale in testa, accidenti), oltre che indistruttibile, era anche molto, molto flessibile. Una volta piegato, entro pochi secondi ritornava nella posizione di origine senza deformarsi, piegarsi o spostarsi di una sola virgola.

Non aveva mai visto nulla del genere. Mai nulla di simile, in tutta la sua vita. Chissà dove erano andati a recuperarla, quella diavoleria. Forse nel corso dell’ultima, ennesima scorribanda alla fattoria dei Fitzgibbons. O magari avevano organizzato una spedizione apposita in qualcuno dei magazzini o degli stabilimenti industriali che stavano giusto a metà tra la campagna e la città.

Ce n’erano sempre di più, di quei giganteschi ammassi di cemento e metallo. E di questo passo avrebbero finito col mangiarsi tutta quanta l’erba, un giorno o l’altro.

E poi quei sonagli…uno solo di essi, applicato e legato ben stretto attorno al vasto e peloso collo del vecchio Dragon, sarebbe stato più che sufficiente per annunciare la sua presenza ed il suo imminente arrivo ai quattro venti. Anche a decine di miglia di distanza.

Sarebbe bastato solamente trovare qualcuno abbastanza coraggioso. Oppure tanto temerario o pazzo da essere disposto ad avvicinarsi a sufficienza per metterglielo.

Rabbrividì, soltanto all’idea.

Per carità. Non c’era neanche da pensarci, ad una cosa simile. Già una volta si era ritrovata a tu per tu con lui, e le era bastata. Al punto che non l’avrebbe ripetuta mai più.

Già in un’occasione era finita muso a muso con quel ferocissimo mostro a quattro zampe e dalle folta coda, unici tratti somatici che ancora gli davano il diritto di rientrare tra la schiera dei felini. Per il resto era talmente grosso, brutto, deforme e sanguinario da non parer nemmeno un gatto. Nonostante quelli della sua specie fossero specializzati nel dar la caccia e compiere autentiche stragi, tra i suoi simili. E tirando in ballo gli occhi…

I suoi erano persino di un diverso colore, così come metà della testa. Era impressionante. A vederlo bene sembrava la fusione malriuscita di due enormi gatti morti tempo addietro, mal combinati e peggio ricuciti ed attaccati. Per poi venire rianimati tramite qualche oscuro processo di stregoneria.

Ma può esistere davvero, la stregoneria? E se esiste, possono davvero averla usata per aver dato la vita ad un demonio come quello?

Chissà. Forse esiste davvero. Del resto…nel breve tempo in cui aveva avuto a che fare con ratti del NIMH aveva visto ed udito cose che a raccontarle non ci si crede. Con uno di loro, in particolare. Colui che ne rappresentava il capo, la guida.

Si dice che siano ben poche le cose che vale la pena ricordare, nell’esistenza di ognuno di noi.

E frequentando e parlando con Nicodemus aveva potuto imparare una cosa importantissima. Fondamentale.

E cioè che nella vita, e al mondo…bisogna tenere sempre gli occhi, le orecchie ma soprattutto la mente bene aperta. E che non bisogna mai stupirsi di nulla.

Poiché TUTTO E’ POSSIBILE.

Ci si era ritrovata faccia a faccia, ad un solo passo dalle sue fauci e dai suoi artigli, quella volta che si era intrufolata nella grande casa allo scopo di drogare il cibo dentro la sua ciotola. Avrebbe dovuto metterlo fuori combattimento in modo da permettere a Nicodemus e a i suoi di recuperare materiale ed attrezzature necessarie, e di escogitare uno stratagemma per spostare la sua casa dal prato e scongiurare così il pericolo di essere travolti e ridotti in briciole dal trattore o dalla mietitrebbia. Oppure di sprofondare nel fango a causa dell’imminente arrivo della stagione delle piogge.

Lei ed i suoi piccoli erano davvero in mezzo a due fuochi, in quel periodo. Difficile dire quale fosse il più urgente ed imminente, tra i due pericoli. Se la giocavano praticamente alla pari.

Mentre era intenta a tentare di narcotizzare il grosso felino, sulla via della fuga era finita catturata ed imprigionata dentro ad una gabbia per criceti. Una di quelle dove quei loro addomesticati cugini alla lontana privi di coda, a cui sembrava piacere così tanto rimanersene rinchiusi dentro ad uno spazio angusto a rincorrersi da soli per ore ed ore, come degli autentici ossessi. E dalla quale era riuscita a fuggire con grazie ad un colpo di genio dettato dalla pura disperazione. Per poi fare ritorno a casa propria giusto in tempo per veder morire il vecchio saggio ratto sotto a i suoi occhi. E per correre il rischio di morire a sua volta giustiziata dal malvagio Cornelius, reso ormai folle dall’avidità e dalla sete di potere. E a quel punto il fango aveva iniziato ad inghiottire ciò che restava della sua casetta insieme ai resti ormai esanimi del vecchio Nicodemus, dopo che qualcuno aveva provveduto a tagliare i cavi che la stavano issando e portando via da lì, facendogliela piombare dritta dritta sulla testa. E poi…poi…

E poi erano successe tante cose…così tante…una più assurda ed incredibile dell’altra. Ed in un lasso di tempo così breve che ancora non riusciva a credere del tutto a quello che era avvenuto. E che era accaduto, sia a lei che alla sua famiglia.

Abbassò la testolina e si osservò le mani.

Tutto così assurdo. C’erano le piaghe, però.

C’erano le piaghe al centro delle palme a fare da muti e severi testimoni di quella strana vicenda. A base di poteri magici, luci intense e sfolgoranti e funi fatate e dotate di volontà propria. Finalmente si erano richiuse, anche se non erano ancora scomparse del tutto. Rappresentavano la prova concreta ed inconfutabile che non si fosse trattato tutto di un sogno. O di un’illusione.

Di una sola cosa era assolutamente certa. Finché fosse campata non avrebbe più provato a fronteggiare quel gigantesco demonio assetato di sangue e di carne di topo. Mai più. Per nessun motivo o ragione al mondo. C’era solo da pregare che il destino, sempre pronto quando si tratta di mettere i bastoni tra le zampe o di inventare nuove sciagure con cui complicare e rendere amara la vita, non gliene fornisse di nuovi e sufficienti per costringerla a farlo ancora.

In ogni caso…non era il momento di occuparsi di questo, almeno per il momento.

Una cosa alla volta. E adesso come adesso ce n’era un'altra ben più importante, da risolvere.

Chi poteva mai essere l’intruso rilevato dal dispositivo d’allarme?

Si poteva trattare di un aggressore? Un forestiero? Oppure un viandante capitato lì per puro caso? O un semplice sbadato o smemorato che aveva smarrito la via?

O magari…si trattava proprio di DRAGON?

No, era impossibile. Non si era mai spinto così lontano. O, meglio…era da un pezzo che non si spingeva fino a lì. Da quando…

Meglio non pensarci. Troppi ricordi tristi.

Anche se…L’ IMPOSSIBILE NON ESISTE, si era detta e ripetuta più volte.

Era dunque tempo di dare un volto ed una forma all’ignoto visitatore.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Un agile balzo dopo l'altro discese tutta quanta la parete di roccia nel giro di pochissimi istanti, saltando tra le rocce di deposito calcareo e di arenaria naturale dai bordi frastagliati, vagamente spugnosi ed irregolari che sbucavano dal circostante pendio argilloso come frammenti e gemme di oro o di quarzo, ma solo in formato più grosso. Ed in quantità sicuramente più numerosa. Ed ovviamente non ne condividevano lo splendore, non essendo altrettanto scintillanti. Anzi...non brillavano proprio, a parte quando il caldo e giallo sole di pieno mezzogiorno gli picchiava proprio sopra in testa. E poi quelle pietruzze lucenti non erano certo così facili da rimediare in superficie. In compenso di quella roba se ne poteva trovare quanta ne si volesse, nel fondo di alcune grotte.

Per riuscire a scovarle gli umani scavavano senza sosta gallerie e costruivano quelle specie di caverne artificiali tutte puntellate di legno, ferro ed acciaio che loro chiamavano MINIERE, nella pancia delle montagne. Le sventravano fino a raggiungerne il cuore e le più profonde ed oscure viscere.

Erano PREZIOSE, dicevano. Al punto da rubare ed uccidere pur di poterle possedere, alle volte. Forse per loro. Non certo per il popolo dalle orecchie e dalle zampette corte e dalla lunga coda. Loro non sapevano che farsene, di quella roba. Sembravano chicchi di mais o di grano alle volte, ma non si potevano certo mangiare. A meno che non si volesse rischiare una grossa indigestione o un atroce mal di pancia. O un infezione che bucasse le budella riducendole ad un colabrodo, nel peggiore dei casi. Al massimo, potevano mettersi a brillare quando li esponeva di fronte ad una grossa fonte di luce.

Per l'appunto. Erano UNA COSA BELLA. Gradevoli da osservare, almeno per qualche istante. Ma nulla di più.

Avanzò con estrema rapidità da una parte all'altra, procedendo prima a destra e poi a sinistra e poi ancora a sinistra, seguendo un filo invisibile che delineava un sentiero presente unicamente nella sua immaginazione. Ma sempre ben vivido. Perché era conosciuto e collaudato, avendolo percorso decine e decine di volte in entrambi i sensi di marcia. Per salire e per scendere, sia da sola che in compagnia della sua scapestrata famigliola, per far loro prendere confidenza col percorso fino a farglielo diventare abituale. Amico. E a forza di percorrerlo...era come se al momento di utilizzarlo quella linea che aveva tracciato con cura all'interno della propria testolina e di quelle dei suoi figlioletti si sovrapponesse come per incanto avanti ai loro occhi, indicando la corretta via.

Continuò con lo zig – zag, prendendo lo slancio con gli arti posteriori e planando su ogni successivo appiglio con quelli davanti, e concedendosi qualche breve discesa in verticale solo dove il terreno si faceva sufficientemente agibile. O meglio, meno aspro da poter consentire tale manovre senza dover correre eccessivi rischi per il proprio osso del collo.

Non bisogna mai compiere salti nel vuoto. E nemmeno voler coprire troppa distanza tutta in una sola volta per la la pura e semplice fretta. Ma sopratutto, mai voler fare il passo più lungo delle proprie zampe. E comunque, mai oltre la distanza che esse possono riuscire a coprire. Sempre un passo più indietro, piuttosto.

Questa era una buona norma e regola che un topo doveva osservare scrupolosamente se aveva in programma di campare bene, tranquillo e sereno. E A LUNGO. Sempre nei limiti che la natura aveva concesso a quelli della sua razza, ovviamente.

Arrivò ai piedi del piccolo costone Proprio nel punto dove iniziava ciò che rimaneva del campo di granturco, dopo il passaggio dei mezzi agricoli adibiti alla mietitura e al raccolto.

Si voltò per un attimo all'indietro, a guardare ciò che aveva appena compiuto. La strada che aveva appena terminato di percorrere.

Era davvero perfetto. Così accessibile per chi aveva dimestichezza con ogni sua minima sporgenza e rientranza, ed ogni suo minimo appiglio ed anfratto. E al contempo così impervio per chiunque altro. Costituiva una rapida via d'accesso ad un rifugio tranquillo e sicuro tanto quanto una via di fuga ancor più veloce e sicura.

Aveva scelto davvero bene. Anzi...non poteva aver fatto scelta migliore. I suoi piccoli non avrebbero corso più alcun pericolo, finché se ne fossero rimasti lì. Con lei...o senza di lei, eventualmente.

Era una possibilità da non scartare. Era troppo concreta e reale per concedersi la sciocca presunzione di farlo.

La vita di un topo é così terribilmente casuale...

Si rimise sulle quattro zampe e ripartì, senza più girarsi e senza più indugio alcuno, in direzione del dispositivo. Teneva gli occhietti bene aperti, le piccole orecchie ben dritte e le ancor più piccole narici ben dilatate in modo da poter captare qualunque segnale ed informazione utile potesse provenire dal vento, dalla terra e dall'erba, dalla rugiada e da qualunque altro elemento che componeva l'ambiente tutt'intorno. E prestando attenzione anche alla minima e più insignificante variazione improvvisa da parte di essi. Un colore, un suono, un odore...

Non ebbe affatto bisogno di giungere fino al punto dove i ratti avevano installato il dispositivo. E nemmeno dove si era attivato.

A circa tre quarti del tragitto iniziò ad intravedere una figura mezza sbiadita nella nebbia, che faceva capolino all'orizzonte. Si fermò e si alzò sulle zampine didietro, inspirando l'aria attorno a sé e muovendo la parte anteriore del muso in ogni direzione possibile alla ricerca di qualche effluvio che le fosse quantomeno familiare.

Niente. Tutta quella foschia le guastava l'olfatto, al punto che non poteva esserle di alcun aiuto. Così come gli occhi e le orecchie. Sembravano sbiadire persino i suoni e le immagini, insieme alle fragranze.

Vi era comunque una sorta di NON SO CHE, a giudicare dal pizzicore insistente che percepiva sulle punte e dentro al naso...ma si trattava di una sensazione vaga.

TROPPO VAGA, per i suoi gusti. Troppo vaga, per potersi fidare.

Era meglio non andare troppo A SENSAZIONI. Almeno per quella mattina.

Mentre rimuginava e rimuginava senza sosta sul da farsi, vide la figura in lontananza alzare una mano nella sua direzione.

Chissà...forse non aveva ancora riconosciuto quella sagoma, ma quest'ultima aveva già riconosciuto lei. Ma ad una tale distanza non era nemmeno possibile capire se le stesse rivolgendo un cenno di saluto, o se le stesse piuttosto raccomandando di starsene ferma e rimanersene lì dov'era.

Le incognite da chiarire, a riguardo, erano ancora troppe. Non ci si poteva ancora fidare.

Non é mai saggio riporre troppa fiducia. E non rappresenta affatto un buon modo per sopravvivere né scamparla, da quelle parti.

Specialmente per un topo.

Po,all'improvviso, una voce ben nota spazzò via in un solo istante tutti i dubbi e tutte le paure.

“MISS BRISBY!!”

Lei sgranò i minuscoli occhietti.

“Non...non é possibile...” mormorò, incredula. “GIU...GIUSTINO?!”

A pronunciar quel nome, il suo cuoricino le fece un tuffo all'interno del petto.

“MISS BRISBY!!” Urlò ancora l'altro, mettendosi ad agitare il braccio appena alzato. “SIETE VOI, NON E' VERO? SONO IO, GIUSTINO! NON ABBIATE TIMORE!”

Era davvero lui!

Non ebbe bisogno di farsi ripetere l'avviso una seconda volta. E nemmeno il nome.

Le era bastato che aprisse bocca per capire che era lui. E l'ansia lasciò il posto ad una raggiante felicità. Si sentiva letteralmente al settimo cielo.

Non le pareva vero.

Certo...avrebbe potuto domandarsi cosa ci facesse lì. Per quale motivo. Ma per chiedere c'era di sicuro tutto il tempo. Ed inoltre...trovò che era assai sciocco stare a lambiccarsi il cervello per ottenere risposte quando lui stesso avrebbe potuto provvedere a fornirgliele.

Ma per dargli quest'opportunità...doveva prima raggiungerlo.

E così fece, senza la benché minima esitazione.

Scattò in avanti e si mise di nuovo a quattro zampe, mettendosi a correre a perdifiato. Fino ad intravedere il suo corpo alto e slanciato. Fino ad intravedere il suo pelo castano di una tonalità assai più scura della sua. Con quella striscia grigiastra che partiva dalla punta del mento e poi lungo tutto il collo, fino in giù. E la sua casacca vecchia e mezza sciupata color panna avvolta dal corpetto protettivo in blu di prussia. Anch'esso liso e consunto come di consueto, ma che il suo dovere lo faceva ancora. Sempre. Proprio come chi la indossava.

Servire, e proteggere.

Corse fino ad intravedere il bianco dei suoi occhi, neri e lucenti come la punta del suo naso. Occhi stupiti che la fissavano, probabilmente non avvezzi ad una tale reazione da parte sua. E corse fino ad avere tutto quell'insieme a completa portata di zampa.

Lui, invece, se ne restò inspiegabilmente fermo sul posto. Magari avrebbe desiderato fare altrettanto, ma forse era rimasto sorpreso da così tanto impeto da parte della sua conoscente. E quindi...non poté far altro che lasciarsi travolgere da esso.

La topolina lo abbracciò, cingendolo all'altezza della vita e dei fianchi, e stringendo forte forte. Fu allora che si accorse che il ratto non portava la spada d'ordinanza con tanto di fondina, che teneva d'abitudine alla parte destra della cintola. Ciò costituiva un fatto alquanto strano, per un soldato come lui. Ma non c'era nulla di cui doversi preoccupare. Dopotutto non portava nemmeno il suo tipico copricapo realizzato con la medesima stoffa e tonalità del corpetto, e dal rosso pennacchio.

Sicuramente li aveva lasciati nella sua dimora di propria volontà, non certo per sbadatezza o dimenticanza.

Anzi...doveva aver pensato che gli impacciassero i movimenti.

Le cose stavano di sicuro così.

Strofinò quindi la sua fronte contro il suo busto ed appena sotto al petto, ripetutamente. Come a volersi sincerare che si trovasse davvero lì. Per imprimersi bene in testa che fosse reale, e non un sogno. O un'illusione. O peggio ancora, di un'allucinazione.

In tutto questo, l'eroico capo della guardia dei ratti del NIMH se ne era rimasto imbambolato come il peggiore e più povero dei fessi. Gli riuscì solo di tendere le braccia verso di lei per poi bloccarle a mezz'aria ed a metà tragitto in una goffa, malriuscita ed incompiuta imitazione e replica del suo gesto d'affetto.

Non ce l'aveva fatta a correrle incontro. Così come non ce l'aveva fatta nemmeno ad abbracciarla a sua volta.

E solo il cielo sapeva QUANTO AVESSE VOLUTO FARLO. Ma...

Ebbe un singulto. Era fin troppo chiaro che non si aspettava un simile gesto. E nemmeno quella situazione. Per non parlare di QUEL PENSIERO...

Quello che gli aveva appena fatto capolino...

Il rispetto che nutriva nei suoi confronti era troppo. Davvero troppo, per lasciarsi andare a simili tentazioni.

Ma anche quello che stava accadendo...ERA DAVVERO TROPPO.

Era...A DIR POCO IMBARAZZANTE.

Era in evidente imbarazzo. E Brisby se ne accorse al volo.

Forse lo percepì da un lieve ondeggiare proveniente dalla bocca del suo stomaco contro cui era poggiata. O magari da un aumento di temperatura proveniente dalla cute sotto al manto. Oppure da entrambe le cose.

Alzò il musino.

“Che...che c'é, Giustino?” Gli chiese, con aria preoccupata. “Qualcosa...qualcosa non va, per caso?”

“Ehm...no, MILADY.” bofonchiò lui. “N – non é niente. A – ASSOLUTAMENTE NIENTE, vi assicuro.”

Lei gli afferrò le mani che nel frattempo si erano riabbassate, intercettandole esattamente un attimo prima che potessero cascare inerti lungo i fianchi, e gliele portò davanti al su torace. E proprio ad altezza del suo visino colmo e raggiante di gioia.

E le sue parole successive diedero piena conferma a quell'impressione.

“Sono davvero felice di vederti!!” Esclamò lei, con un enorme sorriso. “Ma, dimmi...cosa ci fai ancora da queste parti? Credevo che tu e tutti quanti i tuoi compagni foste già in viaggio per VALLE SPINOSA! Ma non avreste dovuto partire DUE NOTTI FA?!”

Prima di rispondere, il ratto decise che forse era giunto sia il caso che il momento di sganciarsi dalla duplice presa in cui lei lo aveva costretto tramite un gesto da parte sua. Un gesto che risultasse gentile ma al contempo fermo e deciso.

Eseguì in principio uno scatto secco coi polsi, tirandoli verso sé. E non sentendo particolari resistenze di sorta, ripeté immediatamente la manovra e fu finalmente libero.

A quel punto prese la parola.

“Beh, così doveva essere...” si affrettò a confermare.

“Ma...ma cosa é successo?” Domandò Brisby, manifestando una certa apprensione. “Nulla di grave, spero...”

“Sapete com'é...” spiegò Giustino. “...Come siamo sempre soliti dire noi del NIMH...una cosa O LA SI FA BENE O NON LA SI FA AFFATTO! Quindi, sia come sia...non potevo certo andarmene prima di poter avere l'occasione di COLLAUDARE IL NOSTRO RINOMATO SISTEMA DI SORVEGLIANZA! E colgo l'occasione per affermare che HA FUNZIONATO BENONE! Non lo trovate anche voi, Milady?”

La topolina lo osservò, stupita.

“Ma...ma allora...sei stato tu a farlo scattare!!” Gli disse.

“Già” ammise lui, portando una mano dietro alla nuca per poi cominciare a frizionarsela tradendo una certa frenesia, proprio come un cucciolo sorpreso a combinare una marachella di quelle formato gigante. “Ma tu guarda che razza di sbadato, che sono...finito in trappola come un autentico allocco dal meccanismo che IO STESSO avevo provveduto a far mettere.”

“Davvero ridicolo, non é vero?” Aggiunse poi, mentre scoppiava in una fragorosa risata di gusto. Tra l'altro prontamente imitato dalla sua interlocutrice.

“Scherzi a parte” le confidò, “pare proprio che ci siano stati più contrattempi del previsto. Anche se abbiamo imparato ad organizzarci alla perfezione, ho potuto scoprire mio malgrado che non é affatto semplice riuscire a muover una così tale moltitudine. Nonostante tutto fosse già preparato da tempo, come voi ben saprete.”

“D – da tempo, dici?”

“Si, mia signora. Nicodemus aveva già predisposto tutto quanto in vista dell'imminente partenza dal nostro covo” le rivelò. “Aveva già provveduto a sistemare gran parte delle cose, e mi aveva messo minuziosamente al corrente di tutti i suoi piani. Non ho...non ho dovuto fare altro applicare i suoi dettami alla lettera, nient'altro.”

“Me lo ricordo bene, Giustino. Diceva sempre che era fondamentale partire il prima possibile.”

“Esatto, Milady. Mi ricordo bene anch'io, le sue parole. Com'é...com'é che sosteneva sempre? Ah, si. Ora mi sovviene...NON POSSIAMO PIU' VIVERE COME SEMPLICI RATTI, ORMAI. E NEMMENO CONTINUARE A RUBARE ENERGIA ELETTRICA AGLI UOMINI. Lo ripeteva in continuazione.”

“Presumo avesse ragione. Almeno per quel che riguardava la sua gente.”

“Credo di poter condividere il vostro pensiero. Eh, si...il vecchio Nicodemus ci aveva sempre visto lungo, a differenza di molti altri. Era sempre più avanti, e più lontano di noi tutti. Ma anche se aveva elaborato tutto quanto per filo e per segno, qualche...si, insomma, qualche imprevisto capita sempre. Inoltre...non é comunque facile, per me. Per niente.”

“C -come dici?”

“Avete capito perfettamente. E' perfettamente inutile che continuiamo a prenderci in giro. La verità...la verità é che io non sono che un semplice CAPO DELLE GUARDIE, nient'altro.”

“Oh...non dire così, Giustino!” Gli fece lei, con un tono quasi di rimprovero. “Tu eri...eri IL SUO BRACCIO DESTRO, non dimenticarlo! Nicodemus ha sempre nutrito la massima stima e fiducia in te!”

“Questo...questo lo so, mia signora. Ma io...io sono UN SOLDATO, non di certo UN CONDOTTIERO. So...so combattere, ma soltanto se qualcuno che si trova sopra di me me lo ha ordinato. Io gli ordini di norma li eseguo, non li do. So a malapena comandare Bruto ed un sparuto drappello di armigeri, figuriamoci una simile moltitudine. Figuriamoci...figuriamoci UN INTERO POPOLO, addirittura.”

“Non ti preoccupare” lo rassicurò la topolina poggiandole una manina sull'avambraccio sinistro, appena sopra al polso. “Sono certa che ce la farai. DEVI FARCELA. E' quello il tuo compito, ora.”

“Dovrai imparare, questo é certo” ammise subito dopo, “ma sono più che convinta che ci riuscirai. Tutti i tuoi compagni credono in te, e sanno che solo di te si possono fidare. Anche Nicodemus la pensava allo stesso modo, sul tuo conto. E ANCHE IO.”

Il giovane capitano ebbe un sussulto.

“Anche...ANCHE VOI, dite?” Esclamò. “Sul...sul serio?”

“Si, Giustino” confermò Brisby. “Anche io. E sul serio.”

“Grazie, Milady. Le vostre parole significano davvero molto, per me. Spero di essere all'altezza. Lo spero proprio.”

“Non SPERO” lo corresse gentilmente lei. “DEVO, Giustino. DEVO. Tienilo bene a mente. Sempre.”

“Avete ragione” ammise lui. “Avete proprio ragione. Devo essere all'altezza. DOVRO' ESSERLO, ad ogni costo. Solo...solo io posso riuscirci. Solo io. E nessun altro.”

“E' così” gli confermò l'amica.

“Allora” aggiunse poi, “dimmi: per quando é prevista la vostra partenza? Per quando riuscirete a mettervi in marcia?”

“Tra un'ora esatta, Miss Brisby.” rispose il ratto.

“Tra...TRA UN' ORA?! Ma...ma manca pochissimo! E poi é...”

“Ne sono a conoscenza, Milady. E' mattina presto.”

“Appunto! E'...é mattina presto, Giustino? Potrebbe essere...E' TROPPO PERICOLOSO!”

“So molto bene anche questo” la interruppe il soldatino. “E so quel che volete dire. Immagino anch'io che sarebbe stato molto più prudente partire questa sera, in modo da essere in viaggio a notte fonda e col favore delle tenebre. E' un grosso rischio, ne sono ben consapevole. Ma non possiamo più aspettare. Non ci possiamo concedere il lusso di indugiare oltre. Non...non abbiamo più tempo, e di questo ne siete al corrente pure voi. Vi ricorderete senz'altro di quel che avete udito giù alla fattoria, visto che siete stata voi stessa a comunicarcelo. Gli uomini del centro ricerche del NIMH verranno qui a darci la caccia. E a catturarci per riportarci al laboratorio. Non possiamo rimanere qui. E' troppo pericoloso. Incombono su di noi, e potrebbero piombarci addosso da un momento all'altro. Potrebbero arrivare nel giro di poche ore, magari questa stessa mattinata. Ogni minuto é prezioso.”

“Credo tu abbia ragione, Giustino. Dev'essere stato senz'altro difficile prendere una simile decisione, ma...hai ponderato le possibilità e sei giunto ad una scelta saggia.”

“Dite...dite davvero, Milady?”

“Si. Forse non sarà la scelta migliore, ma...vista la situazione di emergenza, la ritengo la scelta PIU' GIUSTA. E' così che si fa. Hai agito come deve agire UN CAPO. I miei più sinceri complimenti.”

“Beh...grazie” si schermì il comandante. “Anch'io la penso così. Ho riflettuto attentamente, e...sono arrivato al vostro stesso ragionamento. Anch'io la penso così, se ci tenete a saperlo. Però...”

“Però?”

“Ecco, io...non potevo andarmene senza prima SALUTARVI. Non...non potevo proprio. Sia voi che la vostra famiglia. Non potevo andarmene senza prima rivolgere un ultimo saluto a tutti quanti.”

“Dici...dici davvero?”

“Davvero. E quindi...”

Giustino allargò entrambe le braccia come voler mostrare la sua figura per intero. Il gesto posato e misurato di un consumato attore di teatro che fa improvvisamente irruzione sul palcoscenico nel bel mezzo di uno spettacolo in corso, per una comparsata fuori programma. Col resto degli attori e della troupe che si paralizzano di colpo e lo osservano sbalorditi, mentre erano ancora intenti a recitare ed a lavorare.

“Ti ringrazio molto” gli confidò lei. “E comunque...si dà il caso che ANCHE IO AVESSI IL BISOGNO DI PARLARTI. E fortuna ha voluto che tu venissi qui, grazie al cielo.”

“P – parlare?” Balbettò Giustino. “V – voi? C – con me?”

“Si. Con te. Ma non mi sembra opportuno doverlo fare qui. Torniamo verso casa, prima. Così con l'occasione potrai salutare anche i ragazzi, no?”

“S – si, ma...”

“Niente ma. Andiamo, forza. Ti prometto che non ci vorrà molto.”

“D'accordo. Ma solo...solamente per pochi minuti. Come vi ho detto...vado piuttosto di fretta.”

“Va bene. Ora seguimi, su.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Arrivarono di nuovo alle pendici della collinetta rocciosa in men che non si dica. Non appena furono lì, Brisby guardò immediatamente verso l'alto.

“THERESA!! MARTIN!! CYNTHIA!!” Gridò. “VENITE FUORI, PICCOLINI MIEI!! GUARDATE UN PO' CHI E' VENUTO A FARCI VISITA!!”

Subito dopo i tre piccoli topolini fecero capolino in simultanea dalla piccola casetta posta sulla sommità. E poco dopo i loro occhietti, da ancora lievemente gonfi ed assonnati che erano, si fecero di colpo sgranati per lo stupore e la sorpresa.

“Ma...GIUSTINO?!” Esclamò la più grande.

“GIUSTINO?!” Le fece prontamente eco il fratello di mezzo.

“GIUSTINO!!” Confermò il pieno la più piccola.

“GIUSTINO? GIUSTINO?! GIUSTINO!!”

Le loro grida si mescolarono ed unirono fino a diventare una sola.

Quel nome, dapprima pronunciato con molta titubanza, cominciò a venire ripetuto e ripetuto all'unisono con sicurezza e convinzione sempre più maggiori e crescenti, mano a mano che l'entusiasmo mano a mano invadeva i loro cuori. All'inizio con lentezza ed intensità inversamente proporzionali alla gioia dell'inattesa scoperta, per poi tramutarsi in un autentico, tumultuoso crescendo.

Era l contentezza senza freni di trovarselo lì davanti, a quell'ora e in quella maniera del tutto inattesa ed inaspettata.

“Messer Giustino!!”

“Ma...sei davvero tu?!”

I tre piccoli corsero fuori dall'abitazione e discesero a loro volta il pendio in un batter d'occhio. Ormai anche loro conoscevano a menadito il percorso da seguire, e le tecniche di arrampicata da utilizzare sia durante la fase di discesa che quella di risalita. La loro mamma li aveva istruiti ed addestrati alla perfezione sulla procedura corretta da seguire, facendogliela provare e riprovare più volte in modo fargliela assimilare alla perfezione. All'occorrenza ognuno di loro avrebbe dovuto essere in grado di badare a sé stesso, e ad ognuno degli altri componenti. Persino il piccolo Timmy, una volta ripreso e completamente ristabilito, si sarebbe dovuto sottoporre alla medesima procedura e sorbirsi tutta quanta la trafila, senza alcuna eccezione.

Era fondamentale, per la loro sopravvivenza.

Non appena furono a terra, i cuccioli corsero incontro al soldatino, travolgendolo col loro esuberante impeto. Il povero Giustino dovette metterci del bello e del buono per non terminare a zampe all'insù, insieme al resto dell'improvvisato quartetto.

“Ehi, Ehi!! Ah, ah, ah!! Calma, ragazzi!! Come state, eh? Sono passati due giorni dal nostro ultimo incontro ma mi sembra trascorsa una vita! Ouch!! Ehi, piano!! Anzi...sapete che vi dico? Che mi sembrate persino cresciuti!! Ah, ah, ah!!”

Cercò di tenerli a bada come meglio poté. Dapprima scompigliò anche lui il ciuffetto ribelle sulla sommità del capo di Martin. Poi, dopo averle dato un buffetto sulla guancia sinistra, afferrò la piccola Cynthia per il busto e la sollevò portandola fin quasi sopra la testa. Le fece fare un triplice giro di valzer a gambe all'aria ed in senso antiorario. Quindi, dopo averla poggiata al suolo, tentò di fare la stessa cosa con Theresa, la sorella più grande, che nel frattempo gli si era lanciata al collo approfittando all'istante delle sue braccia rimaste libere.

La prese al volo e di puro riflesso. Ma purtroppo purtroppo dovette bloccare l'operazione e fermarsi a metà strada, limitandosi ad alzarla fino alle spalle. Una volta rimessa a terra pure lei il ratto, notando la sua fin troppo evidente delusione, la invitò ad accontentarsi, almeno per quest'occasione. E non mancò di scusarsi per la mancata e scarsa performance, giustificandola col fatto che era diventata GRANDE. E che iniziava davvero a PESARE TROPPO, per la sua povera schiena.

Una constatazione, questa, che non manco di suscitare un gran scorno da parte della povera topolina. Che iniziò immediatamente ad agitarsi, dimenarsi, sbattere i piedi e sbuffare in preda alla stizza. Il tutto condito dall'ilarità generata da quella buffa scena, con un suoi due fratellini che li osservavano e se la ridevano di gusto.

Anche Brisby soffocò una lieve rista, a quella situazione. Ma per tutt'altro motivo. Stava pensando al fatto che Giustino doveva essere senz'altro un combattente molto abile, disciplinato e ben preparato. Ma che con le fanciulle, ahimé, dimostrava chiaramente non ci saperci fare. Nel modo più assoluto. Per carità...la schiettezza e la sincerità sono senza delle doti che vanno apprezzate, in un cavaliere. Ma con le gentil damigelle rischiavano di scatenare autentici DISASTRI, persino se usate senza volerlo, o senza malizia alcuna. Specie se insinuavano illazioni o se si azzardavano ad alludere a qualche presunto difetto o tara fisica. O all'età che avanza. O all'essere in sovrappeso, anche se solo in maniera lieve.

Ma non era solo questo, a farla sorridere. Se n'era accorta vedendo il giovane alle prese con la sua prole.

Probabilmente Giustino stesso era il primo a non rendersene conto, di ciò. E se magari se ne fosse accorto, lo avrebbe negato e rifiutato con tutte le sue forze. O non lo avrebbe creduto possibile.

Ma lei era una femmina. Ed aveva più anni di lui. E, cosa più importante...era una madre, prima di tutto. Certe cose le riconosceva al volo.

In lui vi era ben altro, oltre che a un guerriero. Molto altro.

Sarebbe stato un meraviglioso...

Meglio non pensarci. Meglio non pensarci NEMMENO, a quell'eventualità.

Scacciò quel pensiero dalla testa, seduta stante. E decise di approfittarne del fatto che fosse lì, tutto intento ad intrattenerli, per andare a compiere ciò che doveva.

Salì verso la porta di casa.

“Bambini, mi raccomando” disse poi al terzetto, intanto che si arrampicava. “Vi lascio per qualche istante in compagnia di messer Giustino. E non me lo strapazzate troppo: lo aspetta un lungo viaggio. Io torno subito.”

“Dove...dove state andando, Miss Brisby?” Chiese lui.

“Devo fare un salto dentro” gli spiegò lei. “Ci vorrà solo un istante.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Quando tornò giù vide le adorabili pesti che stavano saltellando come molle attorno al povero ratto, tempestandolo e subissandolo di domande. Alcune delle quali parecchio inopportune, a dirla tutta.

Con il buon Giustino che stava facendo del suo meglio per tenerli a bada, cercando al contempo di soddisfare la loro sempre più crescente curiosità pur rimanendo sul vago.

“Ma non dovevate essere già in viaggio?”

“Si...Martin, giusto? Si, avremmo già dovuto partire, ma...”

“Ma quanto tempo ci metterete ad arrivare?”

“Temo sia un po' difficile calcolarlo con esattezza, mia damigella. Ma ad occhio e croce...direi un paio di giorni di cammino, senza fare pause. E senza deviazioni imprevist...”

“E...rimarrete a Valle Spinosa per sempre?”

“Si. La nostra idea é di stabilirci lì e fondare una nuova comunità.”

“E...e CI PORTERETE CON VOI?”

“Beh, ecco...uhm, io...”

“Sei venuto qui per PORTARCI VIA CON TE, non é vero?”

“Beh...vedete, ragazzi...non é una decisione che posso prendere da solo, e...”

“Ma tu sei FIDANZATO?”

“C – chi, io? A – al momento non ancora, signorina. Vi voglio rammentare che il qui presente é un SOLDATO. E quindi, per prima cosa, il sottoscritto abbisogna di badare al DOVERE. Poi verrà tutto il resto, se mai ci sarà tempo. E spazio.”

“Vorresti fidanzarti con LA MIA SORELLA PIU' GRANDE?”

“Ecco, io...apprezzo la generosa offerta da parte vostra, signorina. Inoltre apprezzo la disponibilità della signorina vostra sorella, ma non mi sembra questa né la sede né il momento più indicato per affrontare la questione, e...”

“Oppure ti vuoi fidanzare CON ME?”

“Grazie infinite anche per questa proposta, ma...ahimé, mi vedo costretto cortesemente a declinare l'invito. Non siete ancora in ETA' DA MARITO, e...”

“Aah, ho capito! Allora vuoi fidanzarti CON LA MAMMA!!”

“Ugh...”

Fu proprio il provvidenziale arrivo della loro madre a toglierlo dagli impicci e da quella scomoda situazione di stallo. E da tutta una serie di risposte dall'esito alquanto difficile ed incerto. Con particolare riferimento a DUE di quella sfilza di domande, nella fattispecie.

“Sono pronta” gli disse, semplicemente. “Ora possiamo andare.”

Giustino la guardò attonito.

“M – ma...e quella cosa che dovevate fare?”

“Non ora” tagliò corto lei. “E non qui.”

“Come...come volete.”

“Coraggio, bambini” aggiunse poi Brisby, con tono perentorio. “Salutate messer Giustino! E' di partenza!”

I tre piccoli, a quell'annuncio, non riuscirono a trattenere neppure per un solo attimo la loro cocente delusione.

“Oh, no!!”

“Ma come?!”

“Te ne vai di già?”

“Non é giusto!!”

“E quando tornerai?”

“Tornerai presto, non é cosi?”

“Perché tu TORNI prima o poi, non é vero?”

Non potevano non riuscire a manifestarla. Anche se in fondo se o aspettavano, quell'esito. Nella visita a sorpresa da parte del loro conoscente era già implicito che si accomiatasse da loro. E nel giro di brevissimo tempo.

“Si, bambini. Chiedo venia, ma...purtroppo me ne devo andare. Grandi incombenze mi aspettano. Ma...vi prometto che tornerò. Tornerò presto, avete la mia parola. Passerò di qui, fosse anche solo per vedere come vanno le cose. E' una promessa.”

Il capitano ci mise del bello e del buono da parte sua, per tentare di convincerli. Anche se, in cuor suo, sapeva benissimo di mentire. Sapeva fin troppo bene di non poter riuscire a mantenere ciò che aveva appena proclamato a gran voce. E che l'arrivederci in questione era un realtà un ADDIO.

Forse non definitivo. Ma sicuramente destinato a protrarsi a lungo nel tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Erano arrivati di nuovo di fronte alla barriera delimitata dal filo di nylon di Nord – Ovest. Proprio la direzione da cui era provenuto Giustino. E in cui avrebbe fatto ritorno, da lì a poco.

Si trovava in estremo ritardo sulla già stringatissima tabella di marcia, a causa del protrarsi di strette di mano, pacche sulle spalle, abbracci e carezze sulla testa per i più piccini. E scambio di baci sulle guance per le eventuali presenze femminili, ovviamente. Il tutto opportunamente condito da garanzie, scongiuri ed esortazioni sia da una parte che dall'altra di rivedersi il prima possibile ed alla prima occasione disponibile.

Insomma il consueto, trito e ri – trito corollario che, in vista di simili circostanze, si decide di tirare fuori al gran completo. Ed in un sol botto.

Tutto, qualunque cosa per non far arrivare, per non far apparire QUEL MOMENTO.

Il momento in cui ci si congeda, ci si separa e si saluta coloro che sono a noi più cari. E forse PER SEMPRE.

Ma più che apparire, ci viene mostrato per ciò che REALMENTE é. E cioé una cosa estremamente triste, noiosa e superflua. Che di solito non aggiunge e non serve assolutamente a nulla, se non a generare ulteriore patimento e dolore. In aggiunta a quello già causato dall'imminente e prossima separazione.

“Bene...” osservò Brisby emettendo un breve sospiro, mentre si fermava. “...Pare proprio che il momento sia giunto. Sembra che le nostre strade debbano dividersi qui...”

“Già...” confermò Giustino. Sembrava vi fosse una nota alquanto dolente, nel tono della sua voce.

“Ho...ho giusto una curiosità...” aggiunse un attimo dopo, rivolgendosi alla topolina. “...Sempre che voi mi permettiate...”

“E quale?” Gli chiese.

“Prima, a casa vostra...non mi é parso di vedere il piccolo Timothy, tra i vostri figli. Come...come sta?”

A quella domanda Brisby sembrò esitare per un istante, come se custodisse un terribile segreto che non poteva proprio rivelare ad anima viva. E la cosa lo mandò immediatamente sul chi va là.

“Non...non vorrete certo dirmi che...che forse é...” bofonchiò, allarmato.

“No, no. Stà tranquillo” lo rassicurò prontamente lei. “Stava riposando. Sicuramente dormiva, e non mi sembrava il caso di disturbarlo. E' ancora molto debole.”

“Avete fatto bene” commentò lui.

“Meno male” disse anche, tirando un gran sospiro di sollievo e detergendosi il sudore dalla fronte col dorso della mano. “E pensare che per un attimo ho davvero temuto per il peggio. E...e ditemi: come...come sta, ora? Come si sente?”

“Le sue condizioni sono notevolmente migliorate” si affrettò a chiarire Brisby. “La polmonite é quasi completamente debellata.”

“Ne sono felice.”

“Pare che lo sciroppo medicinale fornitomi dal signor Agenore abbia fatto miracoli.”

“Ottimo. Davvero ottimo. Non che io abbia bisogno di dirvelo, ma...continuate a dargli bun cibo e fate molta attenzione, mi raccomando. Ed ora...”

“Aspetta” lo interruppe. “Prima che tu te ne vada...dobbiamo sistemare alcune questioni in sospeso.”

“Q – questioni in sospeso, dite?”

“Si. Ci sono delle cose da dire...ma soprattutto da fare, prima dei saluti.”

“C – come?!”

“E' così. Inoltre...dovevo fare una cosa importante. MOLTO IMPORTANTE. Una cosa che ti riguarda da vicino. Ascoltami, Giustino. Io...io credo che il cielo abbia voluto che tu tornassi qui stamattina per un ultima volta, poco prima di partire.”

Lui la guardò, sorpreso.

“Che...che intendete di...”

“Lasciami finire il discorso, ti prego. Io...non ero ben sicura, sul da farsi. Non mi riusciva di prendere una decisione precisa, a riguardo. Figurati che...che per un attimo avevo persino pensato di recarmi io stessa, lì da voi. Ma credevo che ormai voi foste già partiti ed essere in viaggio da tempo, quindi...ritenevo fosse troppo tardi. Troppo tardi per tutto. Ed invece...invece eccoti qui. Ed il fatto che noi due...che noi ci siamo potuti ritrovare di nuovo, anche se per breve tempo...io lo considero come UN SEGNO. UN CHIARO SEGNO.”
“U...un segno?!”

“Si. Un segno. Era...doveva essere proprio destino, a quanto pare. E adesso...adesso mi é tutto più chiaro, finalmente. Ed io...credo di essere sicura, anzi...più che sicura, di quel che sto per fare.”

“Cosa...cosa volete...”

Lo zittì, puntandogli contro uno dei suoi minuscoli indici all'altezza della bocca, rimasta ancora aperta nell'atto di pronunciare l'ultima parola.

“Tra poco capirai. Lo capirai da solo.”

Brisby infilò entrambe le proprie zampe anteriori sotto allo scialle. Armeggiò e frugò per qualche istante, come se stesse estraendo qualcosa da dentro le falde. Poi, dopo aver trovato ed afferrato ciò che stava cercando, se lo sfilò dal collo.

Glielo mostro. E Giustino sgranò gli occhi per lo stupore.

“M – ma questo...questo é...”

Era inconfondibile. Era proprio lui. Con quel ciondolo dorato che, nonostante l'aspetto alquanto vetusto , manteneva ancora intatto ogni grammo del suo antico splendore. Non ne aveva perso una sola particella. E lo stesso valeva per la lunga catenina a piccole maglie agganciata all'estremità. E la pietra scura dalla vaga forma ovale che si trovava incastonata al suo interno, dal colore talmente rosso da ricordare quello del sangue, sembrava irradiare dei sinistri bagliori a contatto con la flebile luce proveniente da tutto quanto l'ambiente circostante. E non solo. Sembrava provenire addirittura dal fondo del gioiello, come se qualcosa in esso stesse andando avanti ad agitarsi e a ribollire senza sosta.

Qualcosa di VIVO.

“L' a...l'a...” balbettò lui.

“Si” confermò lei. “E' L' AMULETO. L' AMULETO DI NICODEMUS. Dovevo...VOLEVO portartelo. A qualunque costo.”

“E...e perché mai, se posso chiedervelo?”

“E' molto semplice. Per CONSEGNARTELO.”

“Cosa...cosa avete detto, Milady? Ho...ho capito bene?”

“Hai capito benissimo, Giustino. Voglio...VOGLIO CHE LO PRENDA TU.”

“M – ma io...”

“Niente ma. Portalo con te, a Valle Spinosa. Te lo chiedo per favore.”

A fronte di quelle ripetute ed insistite esortazioni, il capo delle guardie riprese di colpo il proprio autocontrollo. Era il senso di autorità che gli imponeva il ruolo che ricopriva. Quello del COMANDANTE.

Riacquistò l'aria fiera ed impettita di cui disponeva di solito.

“A – ascoltate, Miss Brisby. Io...io vi sono grato. V – vi ringrazio di cuore, davvero. M – ma...non posso. D – davvero, i – io n – non...”

Difficilmente nella vita si può avere tutto e subito, ed in una sola volta. Ed anche in questo caso non vi fu alcuna eccezione, né proroga. Sia il timbro della voce che la cadenza delle parole seguitarono a rimanere alquanto incerte, nonostante il ritrovato portamento baldanzoso ed eroico.

La proposta appena ricevuta doveva averlo alquanto spiazzato.

“A – ascoltatemi, vi prego...” ribadì. “I – io...io v – vi ringrazio, m – ma...non posso accettarlo. Proprio non posso!!”

“Si che puoi, invece.” lo esortò.

“No” obiettò il ratto, recuperando a quanto pare la piena padronanza del dialogo in corso. “Vi sbagliate. Vi sbagliate, vi dico. Nicodemus lo ha consegnato a voi. E lo ha affidato alla vostra precisa custodia. E poi, potrebbe tornarvi ancora util...”

“No, Giustino. Sei tu che ti stai sbagliando. L'ho già usato una volta, ricordi? Per salvare la vita dei miei figli. Non credo mi servirà più, da ora in poi. E comunque, non appartiene a me. Appartiene a colui che era la vostra giuda. E a colui che ne ha preso degnamente il posto. La tua gente ti ascolta e ti obbedisce, ora. Si fida unicamente e totalmente di te. E...e anch'io voglio farlo.”

“V – voi?!”

“Si. Credo che anche lui...anche Nicodemus lo desiderasse, nel profondo del suo cuore. Se solo avesse potuto farlo...te lo avrebbe consegnato di persona. Ne sono più che certa. Chissà...forse lo ha dato a me proprio perché io potessi consegnarlo a te, in futuro. O in questo preciso momento.”

“Volete...volete forse intendere che...”

“Nicodemus sapeva molte cose. Molte più di noi. Più di me e di te messi insieme. Ed era in grado di vedere avanti. Molto più in là di chiunque altro.”
“Forse é davvero così, Milady. In ogni caso...insisto perché lo teniate voi. Io...io non saprei assolutamente cosa farci. Non...non funzionerà mai con me, capite?”

“Non é questo l'importante” spiegò lei. “Non conta ciò che può fare. Conta quel che rappresenta. E questo sta a significare che...CHE SEI TU, il suo legittimo successore. Com'é...com'é che diceva? UNA PICCOLA FORZA PUO' FARE GRANDI COSE. E QUANDO INCONTRA UN' ANIMA CORAGGIOSA E INDOMITA, ESSO INIZIERA' A SPRIGIONARE UNA FORTE LUCE...”

“ED UN GRANDE POTERE” continuò lui. “Si, lo so. Me lo ricordo bene. Tuttavia...credo che mi stiate enormemente sopravvalutando. Siete fin troppo magnanima, nei miei confronti. Io...non credo affatto di meritare tutta questa considerazione. La verità é che io...io non ho nemmeno una misera briciola del vostro coraggio o del vostro spirito di sacrificio, e...”

“Oh si, che ce l'hai, invece” lo interruppe nuovamente Brisby. “Mi ricordo che mi hai sempre aiutata e protetta da ogni pericolo. E hai preso le mie difese quando Cornelius mi ha aggredita. Voleva...voleva uccidermi. E ,o avrebbe fatto, se tu non glielo avessi impedito. Hai messo a repentaglio la tua vita, pur di impedirglielo.”

“Cornelius...” commentò Giustino, con tono irato.

Da...da quanto non se lo ricordava? Da quanto non si ricordava di lui?

Sembrava passata una vita. Eppure erano trascorsi si e no due giorni da quella terribile sera.

Era quasi riuscito a levarselo dalla testa. O almeno così sperava. Ed il cielo sa quanto lo avesse voluto.

“Vi prego, Milady...” le disse. “Non...non nominatelo, per cortesia. Non...non in mia presenza, almeno.”

“D'accordo” rispose lei. “E comunque, tornando al ciondolo...chi può dirlo, con certezza? Al momento giusto, potrebbe tornarti utile. Potresti riuscire ad utilizzarlo anche tu. E poi...dicono che non bisogna mai abusare di un grande potere, di qualunque tipo esso sia. Anzi...pare che la loro prerogativa sia proprio quella di venire utilizzati solo in caso di estrema necessità. E solamente quando non si ha altra scelta o alternativa. Più sono potenti, meno vanno utilizzati. E in ogni caso, il meno che sia possibile. Inoltre...”

“...Inoltre?”

“Inoltre...ritengo che vi sia rimasto QUALCOSA, qui dentro” spiegò la topolina, volgendo il proprio sguardo alla rossa pietra del monile.

“Voi dite...dite sul serio?” Domandò il soldatino. “Lo...lo pensate veramente? Ma...ma che significa?”

“Non saprei spiegarlo nemmeno io con chiarezza, Giustino. Ma sento...quando lo guardo, lo guardo bene da vicino, ho come l'impressione che una parte di Nicodemus sia rimasta all'interno di questo prezioso. Forse la sua essenza, o il suo spirito...non so. Non saprei dirlo. Non so definirlo, con certezza. Ma...ma se così fosse...se fosse veramente così, allora ha il diritto anche lui di venire a Valle Spinosa con voi tutti. E' stato...é stato lui a scoprire la terra promessa. La VOSTRA terra promessa. E quindi...merita di accompagnarvi nel vostro viaggio. E di giungere a destinazione con voi, il suo popolo. Per poterla finalmente vedere. Perciò...”

Rialzò la testolina verso il ratto. I loro occhi si incrociarono, mentre glielo porgeva.

“...Perciò é giusto che LO PRENDA TU. E che lo PORTI CON TE.”

Giustino non ebbe né trovò più nulla da obiettare. La forza delle argomentazioni di lei era troppo grande.

Era sempre stata LA PIU' FORTE, in ogni cosa.

Si decise quindi ad afferrarlo e lo portò a sé.

Ci fu un nuovo bagliore, sulla superficie lucida dell'oggetto. E scottava, come se emanasse un gran calore.

Aveva ragione. PIENAMENTE RAGIONE.

Vi era davvero qualche cosa di VIVO, lì dentro. Una parte del vecchio e saggio Nicodemus era ANCORA VIVA. E VIVEVA IN QUEL GIOIELLO.

“Santo cielo!” Imprecò tutto a d'un tratto, con voce sgomenta. “Mia...mia signora, l – le mani...l – le V – VOSTRE MANI...”

Mentre lo aveva preso in consegna non aveva proprio potuto fare a meno di notare le numerose bruciature e le escoriazioni presenti sui suoi piccoli palmi, simili a delle STIMMATE.

Lei a quel commento quasi le nascose, come se se ne stesse vergognando.

“No” intervenne il capitano. “Non...non dovete, Milady. Non é necessario. E vi voglio anche chiedere scusa. Il mio é stato un commento inopportuno. Non...non avrei dovuto.”

“Purtroppo non sono ancora guarite del tutto” gli rivelò lei, notando la sua fin troppo evidente preoccupazione. “Ma il signor Agenore mi ha preparato una pomata medicamentosa a base di erbe selvatiche e di bosco. Pare stia facendo miracoli. Figurati che riesco persino a muoverle esattamente come prima, e non mi fanno nemmeno più male. E mi ha anche fornito la ricetta e la lista degli ingredienti per potermela preparare da sola, una volta che non sarà più qui. In questo modo potrò andare avanti ad impiegarla fino a che non saranno guarite del tutto.”

“S -si, ma...”

“E' un prezzo che ho accettato volentieri di pagare, per la salvezza dei miei piccoli.”

“Piuttosto” aggiunse poi. “Quanto credi che ci metterete, per arrivare alla valle?”

“Quanto...quanto tempo, dite? Approssimativamente parlando, e rispettando i calcoli di Nicodemus...circa un paio di giorni, come minimo. Mantenendo una buona andatura, s'intende.” le rispose Giustino mentre era intento a mettersi il gioiello dentro la blusa, infilandolo con cura in una delle bisacce interne.

“Bene” disse lei. “Vorrà dire che tra qualche giorno manderò Geremia in perlustrazione.”

“G – Geremia, dite?”

“SI. Gli chiederò un piccolo favore. Gli chiederò di farsi un voletto da quelle parti. Giusto per vedere com'é la situazione.”

“Voi siete...siete sicura che ci si possa...che vi possiate fidare di quell' UCCELLACCIO MEZZO SPENNACCHIATO E TOTALMENTE SQUINTERNATO?”

Brisby scoppiò a ridere.

“Si, é vero” ammise, mentre ridacchiava ancora. “Gli manca senza dubbio qualche rotella, e non ha tutti i Venerdì. Ma...é un caro amico. Si é preso cura dei miei bambini. E mi ha dato una grossa mano. E'...é fidato. E' l'unico che conosca, oltre a te. Ed inoltre...ho il forte sospetto che abbia UN DEBOLE per la sottoscritta. Fa sempre tutto quel che gli chiedo, senza mai protestare una sola volta. Non mi dirà mai di no.”

“Capisco, miss Brisby.”

“Doveva esserci stato un tono strano, nella voce del ratto. E nella sua ultima affermazione. Una punta di non si sa bene che. Qualcosa che doveva averle rivelato invidia, oppure disappunto. O forse, addirittura GELOSIA. Ma era davvero possibile?

Fatto sta che il piccolo ma significativo dettaglio non le era affatto sfuggito. E nemmeno alle sue sensibili orecchie.

“Ho detto...ho detto forse qualcosa di male?” Gli chiese.

“N – no...” si affrettò a chiarire lui, se pur con fare titubante. “Lasciate...lasciate stare. Come non detto.”

“In ogni caso” proseguì lei, facendo spallucce, “come stavo dicendo poco fa...credo che la cosa migliore da fare sia di affidarlo a te. Portalo a Valle Spinosa, insieme a tutti i tuoi compagni.”

“Lo farò, Milady” promise lui, mettendosi una mano all'altezza del petto. “Avete la mia parola.”

“Ed ora và, Giustino” lo esortò. “La tua gente ti aspetta. E ricordati di portare i miei saluti al signor Agenore.”

“Solo un attimo, mia signora” la interruppe bruscamente quest'ultimo, nonostante il tono cortese e confidenziale.

La topolina restò come interdetta, all'udire quella frase tanto perentoria. Ma a bloccarla fu soprattutto la sua voce, che da tentennate si fece ferma ed imperiosa in meno di un battito di ciglia.

“S – si?” gli disse. “C – cosa...cosa c'é?”

“Ecco...” le fece, “...in realtà...ci sarebbe un altro motivo per cui ho deciso di recarmi qui da voi, stamane.”

“E...e sarebbe a dire?”

“Ecco, a dirla tutta...io ero venuto per volervi proporre UN INVITO.”

“U – un invito? C – che genere di invito?” Disse lei, strabuzzando gli occhietti.

“Vi prego di non fraintendere, Milady” le spiegò. “Io...io vorrei CHE VENISTE VIA CON NOI. TUTTI QUANTI.”

Brisby rimase a dir poco allibita.

“V – venire...venire con...con voi?” Balbettò. “E...e dove?”

“Credo lo abbiate senz'altro capito, a cosa mi riferisco. Vorrei portarvi con noi a VALLE SPINOSA. SIA LEI CHE LA SUA FAMIGLIA.”

“A...A VALLE SPINOSA?!”

Non le riusciva davvero di crederci. Si portò entrambe le mani davnti alla bocca, come a voler soffocare un impellente grido.

“Si” le confermò il capitano. “Venite via con noi, Miss Brisby. Lì sarete al riparo da ogni minaccia.”

“Io...io non so davvero che dire, Giustino. Una...una tale proposta, e per di più in un simile momento...mi cogli un po' impreparata. Mi hai colto di sorpresa, davvero.”

“Mi basta solo che diciate una parola, Milady. Basta un si. Una vostra parola...ed é cosa fatta. Penserò io a tutto.”

“Io...io non so. Questa tua offerta mi prende alla sprovvista. Io...io non...”

Sembrava che stesse faticando a trovare le parole. Tanto quanto il capo delle guardie ad attendere la sua risposta.

“E...ebbene?” Le domandò. “Cosa...cosa mi potete dire, a tale riguardo?”

“Io...io ti ringrazio di cuore, Giustino. Sul serio. Te lo giuro.”
“A – allora...allora v – volete d – dire c – che...”

“Ma...”

Forse stava davvero faticando a trovare le parole. Ma solo quelle. Sui pensieri non era sicuramente valido lo stesso discorso. Aveva le idee ben chiare, in proposito. Le aveva sempre avute. Doveva solamente decidersi a tirarle fuori.

“...M – ma?”

“...Ma mi vedo costretta a doverla RIFUTARE, purtroppo.”

“C – come dite?”

“Proprio così. Non posso accettare, mi dispiace.”

“M – ma...ma perché, Milady?” Disse lui, affranto. “Ditemelo, vi prego. PERCHE'?!”

Brisby, per tutta risposta, si girò all'indietro roteando sul piccolo busto e puntò il ditino in alto, verso la fitta coltre di nebbia. Nel punto in cui sapeva trovarsi la sua dimora.

“La mia casa...la NOSTRA casa...l'abbiamo costruita io e Jonathan. Con le nostre sole forze. Non posso abbandonarla. Ci sono troppi ricordi. Là dentro e qui, tutt'intorno.”

“Jonathan era uno di noi, Miss Brisby. E voi siete la sua famiglia. Anche voi fate parte della nostra gente. Della MIA gente. Avete tutti i diritti di aggregarvi al nostro gruppo. E di avere un posto giù a Valle Spinosa esattamente come ognuno di noi. Avete anche voi una casa che vi spetta, laggiù. Sicura ed accogliente. Come e più di quella che abitate ora. E ve la costruiremo, non temete.”

“Giustino...”

“Non...non siete certo obbligati a partire subito, come sta facendo il nostro gruppo. Non vi sto chiedendo certo questo. Preparate le vostre cose con calma. Tra una settimana o due, anzi...fate così: quando sarete pronti, mandate Geremia ad avvisarmi. Vi manderò una scorta ad aiutarvi con il trasporto. Metterò Brutus nella guarnigione, tanto per stare sicuri. Certo, occorrerà spiegare il tragitto a qualchedun'altro, visto che quell'ottuso di un bestione non brilla certo per acume o intelligenza. Ma se si tratta di combattere o di fare da guardia del corpo, non ha rivali. E' il migliore.”

“Ascolta, Giustino...”

“Pensateci” aggiunse lui, con insistenza. “Pensateci bene. Io credo...credo che vostro marito sarebbe più che d'accordo. E anche Nicodemus lo vorrebbe. Sono convinto che lo vorrebbero entrambi. E sarebbero entrambi contenti, se decideste di seguirci. Ne sono sicuro. In quanto al resto...”

“Se é per la casa” intervenne lei, “la nostra é confortevole quanto basta. E non ti devi assolutamente preoccupare. Là dove ci troviamo siamo al sicuro. Da ora in poi il signor Fitzgibbons sarà libero di arare, dissodare, seminare e mietere il suo campo come più gli aggrada. Non potrà farci più nulla.”

“Certo, Miss Brisby...per ora siete al sicuro. PER ORA. Ma...PER QUANTO, sarà così? Siete forse in grado di valutarlo, con certezza?” Rispose il ratto, con un moto di stizza.

“Io...”

La topolina non potè finire la frase. Il soldatino iniziò ad imprecare e a gesticolare come un forsennato, in preda ad evidente disappunto.

“Non si é mai completamente al sicuro dagli umani! MAI!!” Gridò. “Non sarete mai del tutto al sicuro da loro, mia signora!! Ed io e i miei compagni ne sappiamo qualcosa...anzi, lo sappiamo fin troppo bene!! Ce li ricordiamo tutti, uno per uno, i supplizi che ci hanno inflitto al laboratorio! E tutti in nome della VIVISEZIONE!! In nome di quell'abominio che hanno il coraggio di chiamare SCIENZA!! Sono solo...sono solo delle ATROCI TORTURE che non portano a nulla!! Che...che non hanno mai portato a nulla!! E adesso...adesso vorrebbero distruggerci perché siamo diventati MOLTO PIU' DI CIO' CHE SI ASPETTAVANO!! Siamo alla pari di loro, ora. E forse...forse ADDIRTTURA SUPERIORI!! E questo a loro NON VA GIU', ecco la verità!! Non lo vogliono accettare!! Così come non accettano chiunque non sia come loro!! Noi...noi per loro DOVEVAMO MORIRE, miss Brisby. DOVEVAMO MORIRE TUTTI!! Ma invece siamo riusciti a sopravvivere, nonostante tutto. Contro le avversità e contro la loro stessa volontà!! E questo loro lo giudicano INACCETTABILE!! Stupidi BIPEDI...credono di essere I PADRONI DEL MONDO. Beh...imparassero almeno a RISPETTARLO!! A RISPETTARLO ALMENO UN' ONCIA DI QUANTO LO RISPETTIAMO NOI!! Pensano di aver capito tutto quel che c'é da capire...pensano di aver capito ogni cosa,e che gli sia tutto DOVUTO!! E invece non sanno NIENTE. NIENTE!! NON HANNO MAI CAPITO NIENTE!! Persino un misero filo d'erba é più consapevole di loro. Pensano di poter disporre liberamente di ogni altro essere di questo pianeta, e non capiscono che di questo passo finiranno solo col DISTRUGGERE SE' STESSI!! E quando saranno rimasti solo loro, state pur certa che inizieranno ad AMMAZZARSI E A STERMINARSI ADDIRITTURA A VICENDA, ve lo dico io. E forse...FORSE SARA' SOLO UN BENE. Anzi...pare che in passato abbiano GIA' TENTATO DI FARLO, e...”

“Ora basta, Giustino!” Lo rimproverò Brisby. “Calmati, ti prego. Non é da te.”

Mentre lo riprendeva lo aveva afferrato per un polso con entrambe le mani, iniziando a stringere e a scuotere forte.

Il ratto smise di strepitare. Aveva il fiatone. Fece quindi un paio di respiri lunghi, lenti e profondi, per tentare di calmarsi.

“Io...io...” balbettò. “...Avete ragione, Milady. Io devo...devo aver perso la testa. Non so cosa mi sia preso. Vi chiedo perdono per questa ignobile scenata.”

“No, Giustino” gli rispose lei. “In realtà, capisco benissimo quel che provi. Tutti noi abbiamo sofferto o soffriamo per qualcosa. Ma se c'é una cosa che ho imparato dalla vita, da QUESTA vita...é che essa non offre garanzie di alcun tipo. Io...non ho mai chiesto molto. Come tutti, del resto. Perché...perché il calcolo delle probabilità é sempre SFAVOREVOLE, per quelli come noi. Lo é SEMPRE STATO. Quel che la vita dà, o prima o poi te lo toglie. Se lo viene riprendere, Senza preavviso e con tutti quanti gli interessi.”

“Miss Brisby, voi...”

“Ripensa a QUEL GIORNO, Giustino. Al giorno della vostra fuga dal centro di ricerche. Nicodemus mi raccontò che fu proprio mio marito Jonathan a portarvi in salvo tutti quanti, quel giorno. Per poi morire sotto i colpi delle zanne e degli artigli di quel mostro di Dragon. Lasciandomi completamente da sola e senza nemmeno avere la consolazione di averlo accanto a me a veder crescere i suoi figli. Però...però mi sono FATTA FORZA. Avevo...avevo UN COMPITO, da portare a termine. E cioé di CRESCERE I MIEI BAMBINI. I NOSTRI BAMBINI. E forse...forse l'unica cosa che possiamo davvero fare é...é di SOPRAVVIVERE. O quanto meno...cercare di farlo IL PIU' A LUNGO CHE CI SIA POSSIBILE. FARE DEL NOSTRO MEGLIO, NEL TEMPO CHE CI VIENE CONCESSO. E' quel che io faccio ogni giorno, nel nome e in onore di Jonathan. E anche tu, anche voi dovete farlo. Anche per chi non ce l'ha fatta. E per chi non c'é più. Abbiamo IL DOVERE di vivere, Giustino. Per Jonathan. Per Nicodemus. E anche per Sullivan. E per CORNELIUS...”

“Vi...vi ho detto di non...di non nominarlo...”

Anche lei si ricordava bene di lui. Con l'unica differenza che NON VOLEVA levarselo dalla mente, al contrario di chi aveva appena terminato di implorarla.

Cornelius.

Il rinnegato. Il ribelle. Il traditore.

Era uno dei membri anziani del consiglio. Uno dei più influenti. Che si era opposto con tutte le sue forze all'esodo di massa verso Valle Spinosa. Voleva che tutti rimanessero nel rifugio sotterraneo.

Nicodemus aveva visto oltre anche in quell'occasione. Sapeva che stava complottando. E sapeva quanto era invidioso, malvagio e pericoloso. E di cosa era capace. Ma forse non immaginava fino a che punto avrebbe potuto spingersi pur di ottenere il dominio assoluto. L'anziano saggio non avrebbe mai potuto immaginare che sarebbe arrivato al punto di ucciderlo, tentando di far passare il tutto per un fatale incidente.

Era disposto davvero a tutto. Persino a sacrificare lei e la sua famiglia al completo, pur di soddisfare la sua avidità e la sua ingordigia. E ci sarebbe anche potuto riuscire, se non fosse intervenuto Giustino a smascherare le sue ignobili intenzioni.

 

Tu...sei STATO TU, MALEDETTO!! HAI UCCISO TU NICODEMUS!! CONFESSA!!”

 

Si...hai indovinato. Nicodemus...L' HO UCCISO IO.”

 

Lo aveva costretto a tradirsi, sotto agli occhi e alle orecchie di tutti. Per poi trafiggerlo con la sua spada, al termine di un duello all'ultimo sangue.

 

Non sei altro che un povero idealista illuso, Giustino. Proprio come quello stupido vecchiaccio a cui facevi da tirapiedi. Razza di SMIDOLLATO che non sei altro...vuoi sapere cosa ho imparato io dalla vita, eh? ARRAFFA SEMPRE TUTTO QUELLO CHE PUOI. FINCHE' PUOI!!”

 

Beh...mi rincresce per te, Cornelius. Se parli così...allora significa che tu dalla vita non hai imparato proprio UN BEL NIENTE, mi hai capito? NIENTE!!”

 

Lo aveva giustiziato con un abile affondo da spadaccino consumato. E a finirlo ci aveva pensato proprio Sullivan, l'accolito più fidato dell'infido consigliere. Era ormai morente, trafitto a tradimento dopo essersi reso conto di aver commesso un grave errore, a dar retta a quel tipo. IL PIU' GRANDE E PEGGIOR ERRORE DELLA SUA VITA. Ma si era riscattato giusto un istante prima di esalare il suo ultimo respiro. Aveva centrato il malvagio con uno dei suoi pugnali da lancio in pieno dorso, proprio mentre questi tentava di colpire l'avversario vigliaccamente e alle spalle nell'ultimo, disperato tentativo di trascinarlo all'inferno con sé. Ma gli era andata male, e all'inferno ci era finito da solo. Con ogni probabilità stava ancora finendo di BRUCIARE, laggiù.

Voleva uccidere tutti. Tutti quelli che volevano ostacolare i suoi progetti. Eppure...

Eppure Brisby non gli serbava rancore. Non gli riusciva di odiarlo. O, per lo meno...non quanto avrebbe voluto.

 

Dall'odio non nasce nulla, Brisby.

 

Erano le parole di Jonathan. Le ultime parole che ancora si ricordava di suo marito. E ne aveva fatto tesoro.

Chissà...forse era vero, quando si diceva che non tutto il male veniva per nuocere. Forse la terribile tragedia di quella sera non era accaduta invano. E forse la condotta scellerata di Cornelius non era stata puramente fine a sé stessa.

Forse faceva davvero tutto quanto parte di un PIANO. Di un progetto più ampio che riguardava tutti loro. E di cui riuscivano a scorgere solamente pochi, ma significativi dettagli.

Erano morti in tanti. E non sarebbero tornati, mai più. Ed ogni morte é una perdita. Ma...

Quei lutti erano serviti a riunire i cuori, le menti e gli intenti di tutti. Di una comunità intera.

Forse Jonathan non era morto invano. E nemmeno Nicodemus. E neanche Cornelius.

NESSUNO MUORE INUTILMENTE.

Era una frase che si trovava su uno dei libri che le aveva mostrato il suo defunto marito, quando si era messo in testa di farle imparare a leggere la lingua degli uomini. Un libro che, come avrebbe scoperto in seguito, proveniva dalla sterminata biblioteca del vecchio e saggio capo dei ratti del NIMH. E che il suo legittimo proprietario aveva donato al padre dei suoi figli, in segno di stima e rispetto.

Mai un'altra frase le sembrò più vera, autentica ma soprattutto PURA di quella, in quel preciso istante.

“Invece si, Giustino” gli disse. “Anche lui. Anche Cornelius. Può darsi che avesse smarrito la retta via. Può darsi che il potere lo abbia corrotto fino al punto di farlo marcire. Ma anche lui era COME VOI. Già, era UNO DI VOI. Anzi...può darsi che il suo tradimento sia servito proprio allo scopo di farvi ritrovare la vostra UNITA' PERDUTA. Quell'unità che vi mancava da tanto, troppo tempo.”

“Milady...”

“Presto o tardi ognuno di noi cerca di giungere alla fine del proprio percorso, Giustino. Breve o lungo che sia. Ma questo non sta a noi poterlo stabilire con chiarezza. A noi é dato solo di poterlo PERCORRERE, quel percorso. Alle volte si sceglie la via più stretta, alle volte la più larga. Ma la destinazione é e resta sempre una. E una soltanto. Noi lo sappiamo da sempre. Anche gli umani...anche gli umani lo sanno. Ma ne hanno PAURA, a differenza nostra. Ne sono terrorizzati. E pensano che vi sia un modo per poter sovvertire l'ordine naturale delle cose. E di sfuggire alla morte. Ma non comprendono che é una battaglia che NON POSSONO VINCERE. Poiché parte da una regola che non può essere stravolta o modificata. Perché fa parte della natura stessa degli esseri viventi. Ma io sono convinta...sono fermamente convinta che ci sia SPERANZA PER TUTTI, prima o poi. Forse...forse un giorno riusciranno a comprenderlo anche loro, proprio come noi. Noi lo sappiamo fin troppo bene, invece. Lo sappiamo DA SEMPRE, come ti dicevo poc'anzi. Perché...perché noi...noi NON TEMIAMO LA FINE. Per il semplice motivo che noi...NOI CI VIVIAMO ASSIEME, GIORNO PER GIORNO.”

Una delle sue mani, la destra, si alzò ad accarezzare la guancia di Giustino. Lui, come d'istinto, si abbassò per agevolarle l'intento, mentre la sua mano corrispondente si posò con delicatezza estrema sul dorso della mano di lei.

Sapeva che quelle ferite le facevano ancora male. MOLTO MALE. Non voleva rischiare di causarle dolore.

“BRISBY...” mormorò, col cuore in gola.

Le aveva dato DEL TU.

LE AVEVA DATO DEL TU, PER LA PRIMA VOLTA DA QUANDO SI ERANO CONOSCIUTI.

Aveva definitivamente rinunciato all'etichetta. Ma non fu l'unica cosa a rischiare di vacillare, in quel frangente.

“Giustino...”

I loro sguardi si incrociarono di nuovo. E le loro labbra si schiusero ed iniziarono ad avvicinarsi, rispondendo ad una sorta di atavico impulso. Ma i due movimenti, se pur simultanei, furono talmente brevi e contenuti da apparire quasi impercettibili. Persino a loro stessi, che li avevano appena eseguiti.

Se qualcosa, anche solo una minuscola e misera scintilla, si doveva essere generata all'interno dei loro cuori per merito di quell'istante durato meno del battito di ali di una farfalla, ebbene...

Doveva essere già spirata. Aveva già esalato l'ultimo ed estremo fiato ancora prima di emettere il primo, sonoro vagito.

La ragione, in loro, era troppo forte. Le loro ragioni erano troppo forti.

C'era davvero troppo in gioco. Erano responsabili di troppe vite. E troppo importanti. Lui, di quelle del suo popolo. Lei, di quelle dei suoi figli.

Erano le guide, per entrambi.

Non potevano lasciarsi andare. Non era concesso.

Erano voci troppo forti, quelle che udivano. Voci che domandavano, chiedevano, esigevano senza sosta aiuto e conforto. Talmente forti da coprire tutto il resto. Talmente forti che la voce, l'unica che riguardasse LORO DUE SOLI, non riuscivano ad udirla.

Avevano creato il silenzio per un istante. E l'avevano ascoltata. Ma era debole.

TROPPO DEBOLE, per poter sopravvivere.

Brisby ritrasse la mano, sfuggendo e sottraendosi alla presa gentile ma tenace di lui.

Fu la prima, recuperare il controllo. Era pur sempre UNA MADRE, dopotutto. Prima ancora che una FEMMINA. Ed era abituata a giocarsi il tutto per tutto finché aveva una prole a cui badare. Ed una madre ha figli a cui dover ogni giorno della sua vita, senza farsi tentare o distrarre da assurdi colpi di testa.

“Tu sei tanto caro, Giustino...” gli confidò, con un sorriso triste. “...Ma il mio posto E' QUI. Ed il tuo é a Valle Spinosa, con i tuoi compagni. Non possiamo rischiare di stravolgere tutto per soddisfare il nostro EGOISMO.”

“E – egoismo?” Saltò su il capitano. “EGOISMO, avete detto? Secondo voi é egoismo il volerci AM...”

La topolina lo fece ammutolire piazzandogli un ditino davanti alla bocca e appena sotto al naso.

“Sssshh.” gli fece. “Ora ti chiedo io di non nominarla, quella parola. Non é proprio il caso. E'...é meglio così, fidati di me. E' meglio che le cose rimangano così come sono, tra noi. E ora và. Torna dal tuo popolo. Ti attendono con ansia.”

“I ragazzi...” buttò lì Giustino con la convinzione che, con tutta probabilità, si trattava dell'ultima possibilità che aveva a disposizione per ribaltare la situazione. “...I vostri ragazzi mi sono sembrati a dir poco entusiasti, all'idea. Potremmo...potremmo aspettare quando il piccolo Timmy starà meglio, e...”

“Non rimarranno sempre con me, ne sono consapevole. Quando cresceranno e diverranno degli adulti responsabili, prenderanno le loro decisioni in completa libertà ed autonomia. Decideranno con la propria testa cosa sarà meglio per loro. Ma, fino ad allora...sono e resteranno sotto la ia custodia e tutela. Com'é giusto che sia. Me ne occuperò io, che sono la loro mamma. Se in futuro vorranno raggiungervi a Valle Spinosa, beh...ne sarò felice. Più che felice.”

Lui, a quelle parole, si arrese definitivamente.

“Ho capito” commentò rassegnato, con un sospiro. “E va bene, farò come desiderate. Almeno potrò vantarmi di averci provato in tutti i modi. Vorrà dire che andremo avanti a vivere, ognuno seguendo la sua strada. Ed onoreremo entrambi Jonathan, ognuno a modo suo. Io condurrò la gente che lui ha portato in salvo verso una vita tranquilla. E la governerò con saggezza. In quanto a voi...crescerete e tirerete grandi i suoi figli.”

“Sapevo che avresti compreso. Grazie, Giustino.”

“Ma sappiate che, se mai doveste cambiare idea...quando accadrà, vi accoglieremo a braccia aperte. Mi occuperò io di voi. Io...o colui che prenderà il mio posto, un giorno.”

“Ne sono sicura. Grazie ancora. E grazie anche per tutto il resto.”

Il ratto si posizionò sull'attenti, poggiando le dita della mano destra all'altezza della tempia in segno di saluto.

“Dovere, mia signora.”

“Adesso và. Forza.”

Giustino, questa volta, partì per davvero. Si rimise sulle quattro zampe e scattò in avanti in direzione del rifugio, senza più voltarsi.

“Addio” mormorò Brisby, mentre diventava una figura sempre più distante e sbiadita, mano a mano che lui si si stava allontanando sempre più da lei, senza che nemmeno la vedesse.

La immaginò farsi sempre più piccola e sfocata nella bruma, fino a sparire definitivamente. Come un ricordo ormai remoto e sul punto di venire rimosso.

Non la vedeva, ma la udì. La udì chiaramente. Ed udì anche quella parola di commiato che era più una spietata sentenza, oltre che un saluto. R decise di intraprendere un'ultima, spietata ribellione a quel fato. A quel loro destino già scritto e deciso. E anche...anche alla cocciutaggine di Milady, dannazione.

Non poteva...non poteva finire così.

Si fermò di colpo e si rimise ben ritto sulle zampe posteriori, girandosi a guardarla. Anche se non la vedeva quasi più. E sapendo in cuor suo che poteva essere davvero L'ULTIMA VOLTA CHE LA VEDEVA.

“Brisby” proclamò, con la voce alta e rotta per l'emozione. “Ascolta bene ciò che sto per dirti. Questo...questo NON E' UN ADDIO. E'...é soltanto un ARRIVEDERCI. Ti giuro...ti giuro che io e te CI RINCONTREREMO, un giorno. Dovessero volerci anche MILLE ANNI. E'...é UNA PROMESSA. E un cavaliere come me mantiene SEMPRE le sue promesse. Sulla sua vita.”

“Ci rivedremo senz'altro” le annunciò inoltre. “Ti do la mia parola.”

La figura quasi sul punto di svanire a cui era ormai ridotta la topolina non rispose. Si limitò unicamente ad alzare di nuovo un braccio, quello destro. E stavolta verso l'alto e verso il cielo, con il secondo dito ben puntato, ad indicare stelle che ormai non c'erano più. O che in realtà c'erano sempre ma in quel momento non si potevano più rimirare in alcun modo, dato che la notte stessa le aveva inghiottite e portate via con sé per fare posto al nuovo giorno.

Un nuovo giorno che verrà. E chi si sarebbe ricordato di ciò che era accaduto in quello precedente, ormai defunto.

Alzò ancora di più il braccio verso il firmamento reso invisibile dall'alba.

Era un gesto che significava un'unica cosa.

 

Lassù.

Lassù, Giustino.

Ci rivedremo LASSU', un giorno.

LASSU'.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Era in un ritardo a dir poco mostruoso. Con tutta probabilità stavano aspettando solo lui, per mettersi in cammino.

Non gli restava altro da fare che procedere spedito nel velleitario tentativo di colmarlo, quel ritardo da parte sua. Almeno in minima parte. O forse...

O forse stava correndo come un matto solo per l'altrettanto velleitaria volontà di lasciare oltre le proprie spalle la tristezza e i rimorsi. Ma non sembrava stesse funzionando, purtroppo.

Correre, correre ed ancora correre fino a potersi levare tutto quanto di dosso come un abito scomodo.

Fosse così facile...

Non riusciva proprio a smettere di pensarci. Era forse questo gran peccato mortale essere un poco egoisti, fosse anche solo per una volta? Accantonare i problemi e le esigenze altrui per volersi concentrare solo ed esclusivamente sulle proprie?

Ci aveva provato. Ci avevano provato entrambi. Anche lei, ne era più che sicuro.

E per un istante...un solo, dannatissimo istante la barriera , la solida barriera di compiti e doveri reciproci che li teneva separati si era incrinata, anche se solo per un poco.

Era stata davvero sul punto di cedere, una buona volta. Ma solamente per un breve attimo, e nulla più. Poi si era ricostruita e ricostituita, più forte e spessa che mai. Come prima ed ancor più di prima.

Probabilmente era il massimo a cui potevano aspirare. Non si poteva pretendere di più, purtroppo.

Avevano avuto un'occasione. La LORO OCCASIONE. Ma...era andata male. E si sa...un'occasione fallita é praticamente PERSA. PERSA PER SEMPRE.

L'eredità di Nicodemus ed il ricordo di Jonathan erano ancora troppo forti. Troppo pesanti e forti per poter essere sconfitti.

Peccato. Davvero un gran peccato. E dire che questa volta l'egoismo non c'entrava nulla.

Jonathan era stato un valente compagno. Nonché uno dei suoi migliori amici. Erano fuggiti insieme dal NIMH.

Erano stati come FRATELLI. Ed in più lo aveva sempre ammirato. Era stato un autentico EROE, coraggioso e temerario come pochi. Aveva rappresentato, e rappresentava tutto ciò a cui poteva solo AMBIRE DI ESSERE, un giorno.

Era a lui che doveva la salvezza sua e di tutti gli altri. Di quelli che avevano fondato il nucleo primigenio da cui si era sviluppata poi l'intera comunità.

Gli doveva veramente tutto. Ed il minimo che avrebbe potuto...il minimo che avrebbe DOVUTO fare per provare a sdebitarsi sarebbe stato di prendersi cura della sua famiglia in sua vece.

Avrebbe tirato grandi i bambini al posto suo. Si sentiva più che pronto per il ruolo di padre, oltre che di comandante. E...anche per il ruolo DI MARITO.

Si, esatto. UN MARITO.

Doveva essere un capo? Ed allora ogni buon capo che si rispetti dovrebbe anzi, DEVE avere UNA MOGLIE, con sé. Perché dietro ogni buon MASCHIO vi é sempre un ancor più buona FEMMINA.

E Brisby...Brisby l'aveva sempre considerata LA CANDIDATA IDEALE.

Era PERFETTA. Non avrebbe potuto scegliere di meglio.

A dirla tutta...NON AVREBBE VOLUTO SCEGLIERE ALTRO. NESSUN' ALTRA, ALL' INFUORI DI LEI.

Non aveva più POTUTO scegliere nessun'altra, dopo averla vista. E conosciuta.

Il sentimento ne suoi confronti era cresciuto giorno dopo giorno, sempre di più, dopo il loro primo incontro.

La compagna di Jonathan...per essere stata degna di lui doveva essere senz'altro qualcosa di UNICO. DI UNICO E SPECIALE.

E la piccola Brisby lo era davvero. Sia unica, che speciale. Non vi era modo migliore, per definirla.

Così come non vi sarebbe stato modo migliore per onorare la memoria di un amico valoroso e leale.

E di un marito devoto e di un padre affettuoso.

Sarebbe stato persino disposto a rinunciare a tramandare il suo seme. A rinunciare a una discendenza diretta, pur di tenerla accanto a sé. E per quelli della loro specie, il sangue e la discendenza rappresentano praticamente TUTTO. Sono la ragione per cui si viene al mondo, sostengono alcuni. Ma...

Lei, senza voler in alcun modo risultare offensivi o voler fare inopportune illazioni riguardo alla sua età...era decisamente TROPPO IN LA', CON GLI ANNI.

Bisognava aggiungere che appartenevano a due specie diverse. Simili, ma diverse. E poi...non é un bene che un maschio sia più grosso di una femmina, per quanto riguarda il RIPRODURSI.

Avrebbe potuto NON SOPRAVVIVERE, ad una nuova gravidanza. Ammesso e non concesso che fosse stata possibile, con lui. Quella, oppure il parto, avrebbero potuto UCCIDERLA. Però...

Però c'erano i figli. I figli di Jonathan. Li avrebbe cresciuti come FIGLI SUOI. Li avrebbe allevati, accuditi e protetti. Ed avrebbe fatto altrettanto con la loro mamma.

L'avrebbe onorata ogni giorno della loro futura esistenza insieme. E rispettata. E am...

La rispettava così tanto al punto che non gli era riuscito di infrangere l'ultimo tabù. Quel tabù che lei stessa le aveva imposto. Quando gli aveva cortesemente ma fermamente chiesto di non nominarla nemmeno, quella parola. E comunque...

Cosa importava, ormai? Che importanza poteva mai avere?

Era stato bello sognare, sperare ed illudersi, anche se per poco. Ma giusto quello, potevano essere.

Illusioni. Sogni. Nient'altro.

E i sogni sono fatti per morire all'alba. La stessa alba che era sorta già da un pezzo.

Quello scorcio, quello scampolo di futuro che aveva osato immaginare ed auspicare, per sé stesso e tutti loro...non esisteva più.

Aveva smesso, cessato di esistere.

NON ERA MAI ESISTITO.

Lui era un capo. E prima di tutto un soldato.

E un soldato non ha bisogno di simili distrazioni. Non gli servono.

La sua gente lo stava aspettando. Aveva un intero popolo, da condurre verso la salvezza. E aveva una nazione da fondare.

Lui e gli altri avevano rubato il sacro fuoco agli Dei. O meglio, avevano rubato la sapienza e la conoscenza agli umani che tali si credevano, pur senza esserlo. Proprio come loro avevano fatto con i veri Dei nei tempi antichi. Quelli descritti dai tomi narranti miti e leggende che gli aveva fatto leggere Nicodemus, un giorno.

Avevano preso il frutto dall'albero proibito. Quello della conoscenza del bene e del male. E lo avevano mangiato, uscendo dalla loro condizione di pura e beata ignoranza. Ma, a differenza di quanto veniva narrato tra le pagine di un altro libro sacro, quello che descriveva tale avvenimento, loro non avevano subito la medesima sorte toccata ai trasgressori.

Nessuno li aveva puniti per avere disobbedito. Loro non erano stati cacciati dal paradiso terrestre per la loro presunzione, arroganza ed insolenza. E costretti a vagare per luoghi aridi, desolati e sterili.

Nel loro caso L' EDEN, la TERRA PROMESSA che gli spettava, se la dovevano ancora guadagnare.

Anche loro si erano nutriti di ciò che non avrebbero dovuto toccare. Ma non si era trattata di una scelta effettuata in maniera consapevole. Non lo avevano chiesto, e nemmeno scelto. Li avevano costretti a farlo. Costretti da gente che giocava a fare Dio. E quindi...ciò significava che, a differenza di questi ultimi e di tutti gli altri loro simili, il loro destino non era ancora definitivamente compromesso.

Si erano ritrovati a dover percorre una via che non era la loro. Ma non l'avevano smarrita come avevano fatto coloro a cui quella via era destinata sin dal principio.

Il LORO EDEN, contrariamente a quello dell'uomo, non era ancora perduto. Andava cercato e trovato. E quando lo avrebbero trovato, finalmente...

Non se lo sarebbero fatti più sfuggire. Avrebbero fatto tutto quanto in loro potere per dimostrarsi DEGNI di quel paradiso.

Degni di Valle Spinosa.

Ricacciò indietro le lacrime con tutte le sue forze. Solo due gli fecero capolino da entrambi gli occhi, una per ognuno, e volarono all'indietro venendo prontamente risucchiate nel vento dalla frenesia di quella sua corsa sfrenata.

Come il resto di quei poveri topini in quelle oscure e turbinanti condotte, il giorno della loro fuga. Solo Jonathan ed il vecchio Agenore erano scampati. Ed il primo aveva condotto il resto del gruppo alla salvezza e alla libertà.

E poco fa...aveva detto addio a sua moglie. E ai suoi figli.

Chi lo avrebbe mai detto. Le coincidenze, alle volte...

Forse era davvero destino che finisse così. Forse era davvero destino che lui e Brisby si sarebbero ritrovati nel luogo in cui tutti loro erano destinati a ritrovarsi, una volta volta che la forza e l'essenza vitale ne avrebbe abbandonato i piccoli e fragili corpi, riducendoli a vuoti ed inutili involucri.

Il luogo in cui Jonathan e Nicodemus già si trovavano, e che da lì li attendevano.

E aspettavano, pazientemente.

Aspettavano il giorno in cui si sarebbero potuti ritrovare e riabbracciare, finalmente. Tutti quanti. Insieme a tutti coloro che erano ANDATI AVANTI. PASSATI OLTRE.

Quando anche loro due sarebbero diventati anche loro delle STELLE.

E lì sarebbero rimasti. Fino a che il cielo non fosse caduto, facendoli precipitare sulla terra.

Alla fine dei giorni e dei tempi.

Così era scritto. Ed è così che doveva sicuramente andare. Ma...

Era sicuro di aver fatto la scelta giusta, questa volta?

Era stata davvero l'unica scelta possibile?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Avete finito con la colazione, ragazzi?” Chiese Brisby pochi istanti dopo esser di nuovo giunta sulla soglia della propria casa.

“Si, mamma” rispose Theresa, facendo capolino dall'uscio. “Martin e Cynthia stanno finendo di sparecchiare.”

“Molto bene. Quando avranno terminato, mandali a lavarsi le mani ed il viso. E poi preparati anche tu. Si esce non appena arriverà zia Bisbetica. Mentre lei baderà a Timmy, noi andremo a fare provviste qui intorno. Ci sono parecchi chicchi, sparsi per il campo. Ci aspetta una lunga giornata.”

“Ma...mamma!” Obiettò la topolina. “Tu...tu non hai ancora fatto colazione!”

“Va...va bene così, Theresa” le rispose la madre. “Incarta quel che é avanzato in un fagotto. Lo porteremo con noi. Ci servirà da spuntino.”

“Sei...ne sei sicura, mamma?”

“Non preoccuparti, cara. Non ho molta fame.”

La figlia maggiore uscì dalla casetta e la trovò seduta ed accoccolata sul bordo esterno del grosso sasso bianco e piatto che fungeva da veranda. Teneva le proprie mani attorno alle ginocchia, e fissava dritto davanti a sé.

“Stai...stai bene, mamma?”

Non le rispose.

Theresa trasalì.

La verità era che sua madre le faceva PAURA, in quei momenti. Le causava un'estrema paura, quando si comportava a quel modo.

Era piuttosto grandicella. E molto più saggia dell'età che dimostrava. Questo perchè, viste le circostanze in cui versava il resto della sua famiglia, era stata costretta a crescere e maturare piuttosto in fretta. Lei più degli altri suoi due fratelli, dato che era la maggiore.

Era quindi già parecchio assennata. Ed era in grado di capire già molte cose. Capiva che l'assenza di papà era piuttosto pesante, e che aveva generato un senso di vuoto che restava alquanto difficile da colmare.

Mancava a tutti. Ed in special modo alla mamma. Ma quest'ultima aveva sempre cercato di fare del suo meglio, anche se non era certo facile. Ma quando la vedeva così, con quello sguardo perso e fisso a miglia di distanza verso un punto imprecisato lungo la linea dell'orizzonte...

Aveva come la spiacevole sensazione che, in quei momenti, desiderasse soltanto RAGGIUNGERLO.

Voleva solo raggiungere papà, certe volte.

Ammirava sua madre. La considerava una roccia. Alla pari di tutte quelle che, ora, proteggevano e tenevano al sicuro ed al riparo la loro umile dimora.

E se lei avesse ceduto...se avesse finito col CROLLARE anche lei...non avrebbe davvero più saputo che fare.

Non poteva...non osava nemmeno immaginare cosa sarebbe potuto succedere.

Brisby si passò il dorso di una mano all'altezza degli occhi e, dopo essersi rialzata in piedi, la guardò.

Theresa deglutì. Non l'aveva mai vista così. Non l'aveva mai vista ridotta così.

Ma cosa era successo?

“Mamma” esclamò, “ma tu...tu stavi piangend...”

“Non é nulla” la interruppe quest'ultima. “Sto bene. Tra poco mi passa. Anzi...é già passato.”

Detto questo la raggiunse e le cinse le spalle con le mani.

“Sei...sei stata molto brava, figlia mia. Sapevo...sapevo di poter contare su di te.”
L' abbracciò forte.

“Ora andiamo a prepararci, su.”

“V – va bene, mamma.”

Già. Era passata. Anche questa.

Tutto passa. Sempre. Era l'ora di tornare alle cose di tutti i giorni. Quelle cose all'apparenza così piccole, scontate e così insignificanti. Ma che in fondo era le uniche a contare qualcosa.

Erano le uniche a contare davvero, nel corso della vita. Perché CI DEFINISCONO.

Definiscono chi siamo, quel che abbiamo fatto e dove stiamo andando.

Costituiscono la NOSTRA REALTA'.

Perché sono le scelte insignificanti i mattoni e la malta su cui essa viene fondata. E costruita. Ma...

Era sicura di aver fatto la scelta giusta, questa volta?

Era stata davvero l'unica scelta possibile?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Questa é la triste storia di Brisby e Giustino, per chi ha la voglia di ascoltarla. E la pazienza di volerla rimanere a sentire.

Due povere, piccole anime destinate solo a sfiorarsi, per poi venire condannate a doversi rincorrere per sempre. Per non potersi ritrovare mai.

Perché le cose, tra loro, erano destinate a dover rimanere così.

IRRISOLTE. In eterno.

Un bene superiore ad entrambi glielo aveva imposto. E loro non avevano potuto fare altro che piegarsi ad esso.

Ve l'ho raccontata per come la conosco io. E per come me l'ha raccontata il mio patrigno. Nonché mentore e venerato maestro.

E allo stesso modo la troverete scritta negli annali della sterminata biblioteca di cui sono custode e proprietario. Perché certe cose vanno tramandate assolutamente. Perché si possano ricordare e ripetere, se sono buone. E non commettere e ripetere mai più, se non lo sono affatto.

Il mio nome, dite?

Volete davvero saperlo?

Non che abbia molta importanza, ma...se ci tenete così tanto, ve lo svelerò.

Mi chiamo TIMOTHY.

TIMOTHY BRISBY.

Successore di Sir Giustino ed attuale reggente della comunità dei ratti di Valle Spinosa, creata dagli ex – appartenenti alla colonia dei ratti del NIMH.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Salve a tutti!!

Dopo aver letto e recensito le storie pubblicate in questa sezione...ho deciso di provarci.

E ho deciso di pubblicare una storia che tenevo nel cassetto da tanto tempo.

Ce n'é voluto, ma alla fine ce l'ho fatta.

Avevo (ed ho tuttora) un leggero timore, a riguardo. Perché BRISBY E IL SEGRETO DI NIMH é senza dubbio uno dei film di animazione che hanno segnato e marchiato a fuoco la mia infanzia. E che mi hanno permesso di conoscere il talento del suo straordinario autore, Don Bluth.

In realtà, lo conoscevo già da tempo. Anche se non sapevo chi fosse.

Lo avevo scoperto grazie ai videogames (altra mia grande passionbe). Da quando avevano iniziato a circolare i mitici “laser – games” come DRAGON'S LAIR e SPACE ACE.

Quello stile di disegno e di animazione inconfondibile, così simile alla Disney (dopotutto, la scuola é quella. Lui ed il gruppo di amici e collaboratori con cui ha fondato lo studio venivano proprio da lì. Ma hanno abbandonato dopo dissidi interni) ma che Disney non era...

Poi hanno iniziato ad arrivare anche i suoi film, e finalmente ho avuto un nome a cui associare tutto quel genio...

Una carriera molto controversa, la sua. Purtroppo, per la maggior parte delle volte si é ritrovato a dover lavorare con dei budget a dir poco da terzo mondo. Ed infatti ha da subito intuito che l'unica possibilità di avere successo era di percorrere un'altra strada. E cioé di mostrare ciò che la casa di Topolino & company non si sognava nemmeno di guardare da lontano col binocolo.

Da qui il taglio molto più dark, cupo e maturo delle sue opere. Come Brisby, appunto. Che tratta temi ancora adesso scomodi come la vivisezione e gli esperimenti sugli animali. O come quell'altra perla di FIEVEL SBARCA IN AMERICA, che affronta argomenti come il razzismo e l'immigrazione (anche questi molto attuali, oggigiorno).

Ha continuato a fare il suo onesto lavoro (vorrei citare altri film che ho adorato tantissimo come ALLA RICERCA DELLA VALLE INCANTATA, col mitico Piedino, oppure il commovente CHARLIE – ANCHE I CANI VANNO IN PARADISO), tra successi inaspettati (uno su tutti, ANASTASIA) e flop inopportuni (come EDDY E LA BANDA DEL SOLE LUMINOSO o l'ultima sua opera, TITAN A. E.) e, forse senza volerlo, ha finito per influenzare persino la sua casa di provenienza. Non é un caso che la Disney, per un certo periodo, abbia sfornato della roba assolutamente fuori dai suoi canoni. Come TARON E LA PENTOLA MAGICA. Peccato che se ne vergognino tantissimo. E abbiano fatto di tutto per rimuoverlo.

Una menzione d'onore meritano anche le colonne sonore dei suoi film, davvero stupende.

E in tal proposito...

Per L'ANGOLO DELLA COLONNA SONORA (non fateci caso, é un mio pallino. Cerco sempre il pezzo musicale giusto da associare alla lettura. E' una mia fissa)...quando Brisby e Giustino si dicono addio (per sempre, temo), mettete su I WILL WAIT FOR YOU di Connie Francis.

Che, per la cronaca, é la canzone della parte finale dell'episodio “Cuore di cane” (o “Jurassic bark”, nell'originale) della serie FUTURAMA. Quello che parla di Fry e del suo cane, Seymour. Ed é inutile aggiungere altro.

Chiunque di voi lo abbia visto...SA.

Due note riguardo al racconto. Prima di tutto, nel film Giustino da alla protagonista del LEI.

Qui, invece, le dà addirittura del VOI. E la chiama MILADY e MIA SIGNORA, addirittura.

Mi sembrava più corretto. Dopotutto...il nostro Giustino é un CAVALIERE.

E poi...si, lo so. Il termine con cui si riferisce a lei (Miss) non sarebbe corretto.

Il termine giusto, grammaticalmente parlando, sarebbe Mrs (diminutivo di MISTRESS).

Ciò perché é il diminutivo che, di norma, si dà alle donne sposate. E Brisby lo é, anche se vedova.

Del resto, anche il titolo originale dell'opera da cui é stato tratto il film lo conferma in pieno.

MRS. FRISBY AND THE RATS OF NIMH.

Però...a me non piaceva. Lo trovavo poco fluido, come termine.

Quindi...ho preferito mettere un generico Miss. Spero non vi spiaccia.

Per il resto...vi auguro buon divertimento.

E voglio approfittare dell'occasione per rivolgere un aticipato GRAZIE achiunque vorrà leggere la mia storia. E a chi se la sentirà di lasciare un parere.

Un'ultima cosa: di solito il fandom dove opero abitualmente é quello dedicato a ZOOTROPOLIS.

Attualmente sono alle prese con una long (intitolata THE PROMISE YOU MADE), e ho scritto anche diverse storie brevi.

Inoltre, ho scritto una long anche su un'altra pietra miliare della mia infanzia, vale a dire ROCKY JOE. Si chiama IL MATCH INFINITO, e la trovate nella sezione apposita.

Se a qualcuno interessasse...

Grazie ancora a tutti, di cuore.

E alla prossima!

 

See ya!!

 

 

 

 

Roberto

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

   
 
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