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Autore: AdhoMu    07/11/2018    5 recensioni
[Alicia Spinnet/Bastian Macnair (OC)]
Il regolamento parla chiaro: al migliore studente del corso di Pozioni Avanzate, la Cambridge Magical University offre una borsa di studio per affiancare la docenza di Hogwarts sulle classi del 6° e 7° anno.
Grazie al punteggio stratosferico ottenuto agli esami, un esultante e macchinoso Bastian Macnair si aggiudica il posto e si appresta a raggiungere il castello dove - ne è certo - riuscirà finalmente a portare a compimento il suo Piano.
Una volta a destinazione, però, il nostro ambizioso antieroe scopre che si dovrà impegnare il doppio... per evitare di perdere definitivamente la testa.
*
Warning: prologo postumo!
Genere: Commedia, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alicia Spinnet, Angelina Johnson, Nuovo personaggio, Walden Macnair
Note: Lime, Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
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Nota iniziale:
A più di un mese dalla conclusione di questa storia, mi sono resa conto che mancava qualcosa, e così ho deciso di inserire questo prologo che riprende quasi pedissequamente la prima parte di una vecchia OS chiamata "L'ultima impressione è quella che resta", nella quale descrivevo alcuni momenti del rapporto fra Alicia Spinnet e Sebastian Macnair (qui ritratto nella sua versione più "dark", che però cambierà nel corso dei capitoli).
Nulla di nuovo sotto il sole, quindi, ma ho pensato che questo prologo potesse essere utile (per tutti coloro che non hanno letto la OS) per capire meglio le origini dell'attrazione un po'ossessiva del nostro protagonista nei confronti della sua bella.

Prologo.

[Espresso di Hogwarts, 1°settembre 1989 – Hogwarts, 30 giugno 1991]
Altro non era che una bambina, con quei capelli biondi e lucenti come spighe di grano e i grandi occhi verdi che lo guardavano un po’ intimoriti.
Durante il loro primissimo incontro,avvenuto all'interno di un vagone dell'Espresso di Hogwarts, lui aveva dato il peggio di sé e aveva sollevato con malagrazia quel suo ridicolo animaletto per la coda, per poi deriderlo e dargli una bella scrollata.
L’aveva vista saltare in piedi e urlargli di lasciarlo andare; la sua voce rotta, modulata da quel suo accento così strano, era risuonata intrisa di sdegno, costernazione, paura.
Poco ma sicuro, non le aveva fatto una buona impressione.
Si era comportato in modo sciocco e crudele, del tutto inappropriato per uno studente del quinto anno che già si vantava di non essere più un ragazzino.
Nel corso dei due anni successivi, poi, le cose non erano andate in modo molto diverso. Quando la incontrava nei corridoi, le rivolgeva parole taglienti e la scherniva per la sua pronuncia stravagante e per l’aspetto bizzarro della sua bestiola.
Continuava a comportarsi da sciocco, ostentando una caustica malvagità che spesso, se n’era accorto chiaramente, le aveva fatto salire le lacrime agli occhi per il dispetto.
Farle paura lo divertiva; a questo scopo, le indirizzava volutamente le sue ormai celebri occhiate glaciali, che lei si dedicava ad evitare con cura, allontanandosi da lui in tutta fretta.
Tentava di ignorarlo, di farsi i fatti suoi.
Non gli rispondeva, non lo provocava, non gli dava soddisfazione.
Non lo guardava e non gli diceva nulla.
Dopo quella prima e unica volta sul treno, non gli aveva mai più rivolto neanche una parola.

[Hogwarts, settembre 1991 – giugno 1992]
Aveva già compiuto diciassette anni e già si considerava un uomo fatto (e in effetti lo era dato che, durante l’estate, lui e Avery avevano frequentato assiduamente Notturn Alley - e nello specifico, l'ambiguo castelletto di Madama Dauphine) quando in un giorno d'inizio autunno, inaspettetamente, l'aveva vista che passava in corridoio, il manico della scopa stretto fra le mani.
Aveva subito notato che durante le vacanze estive era cresciuta; si era fatta più alta e più femminile; doveva essere vicina ai quattoridici, ormai.
Quel giorno, aveva lasciato sciolti i lunghi capelli biondi e lucenti, che si muovevano in onde morbide sulle sue spalle mentre, camminando di buon passo, si dirigeva verso l'atrio del castello. Ogni qualche passo, un raggio di sole filtrava dai vetri delle finestre a bifora e li colpiva, facendoli risplendere come rivoli d'oro liquido che lo avevano lasciato un po' abbagliato.
Affidandosi appena all'impulso, cosa che non faceva quasi mai, lui l’aveva seguita come ipnotizzato, appiattendosi dietro gli angoli per non farsi sorprendere; lei, ignara, aveva attraversato l’atrio ed era scesa di corsa verso il campo, dove già si trovavano i suoi compagni di squadra. Lui, stando bene attento a non farsi vedere, si era arrampicato sulla tribuna, confondendosi fra gli studenti che vi si erano seduti per assistere all' allenamento.
L’aveva vista ridere, in piedi sull’erba appena tagliata; proprio lei, di solito così silenziosa e discreta, gli era invece parsa solare, diversa, istantaneamente ricolma d'entusiasmo e di vita.
Il suo Capitano le stava spiegando qualcosa.
Lei gli sorrideva e faceva “sì” con la testa.
E lui se n’era accorto chiaramente: i verdi occhi di lei carezzavano con affettuosa timidezza il viso di quel ragazzo fin troppo dedito al Quidditch, che sembrava non percepire assolutamente i sentimenti celati nello sguardo ammirato della ragazza.
Con immenso disappunto e senza sapersene spiegare il perché, aveva avvertito una punta d'invidia; stizzito, si era alzato in piedi con il fermo proposito di andarsene.
Qualcosa, però, l'aveva fermato.
La fase teorica dell'allenamento era terminata e i giocatori, montati a cavallo delle rispettive scope, erano finalmente decollati. E lui si era ritrovato a guardare verso l'alto, fermo come una colonna di sale e incapace di muovere un passo.
Alicia Spinnet si muoveva nell'aria tersa d'inizio autunno con la velocità e la grazia di un giovane nibbio.
Il vento fresco le gonfiava i capelli, facendoglieli turbinare intorno al viso, mentre i morbidi raggi del sole di fine settembre glieli accendevano di riflessi infuocati, rendendoli simili ad un'aureola, o a una corona, o ad un manto regale intessuto di fili d'oro.
Lassù, nell'aria, Alicia sembrava finalmente trovarsi a suo agio, come se il vento fosse il suo habitat naturale; era sciolta, impavida, libera e felice.
Non era possibile guardarla senza rimanere incantati.

E quell'anno lui, che di Quidditch se n'era sempre fregato altamente, non si perse una sola partita; e quando poteva, scendeva al campo durante gli allenamenti, sempre senza farsi vedere, e la seguiva con lo sguardo: quello sguardo che tutti definivano gelido come il ghiaccio ma che, neanche troppo sotto, nascondeva un accalorato turbamento.
Certo: quando la incontrava in giro per la scuola l'effetto era un po' diverso; Alicia tornava ad essere quella ragazzina riservata e leggermente schiva che era sempre stata, quella che lo evitava meticolosamente e che, quando lo vedeva, tentava di scomparire nel suo gruppetto di amici. Non si metteva in mostra, non cercava mai di richiamare l'attenzione.
Ormai, però, lui l'aveva vista volare.
Non gli era più possibile, a quel punto, guardarla con altri occhi.

E la deriva era stata rapida e inevitabile.
Aveva tentato di resistere, di autoconvincersi, di argomentare con se stesso.
Tutto invano.
Nonostante gli sforzi, non riusciva proprio a levarsela dalla testa.
E così alla fine, sconfitto, aveva ceduto.
Messi da parte l'orgoglio e il buon senso, aveva scritto un biglietto nel quale la invitava ad uscire con lui e glielo aveva fatto recapitare da Zlatan, la lugubre cornacchia di suo zio Walden.
In attesa della risposta, che non era mai arrivata, gli era spesso capitato di svegliarsi sudato ed ansimante, dopo aver sognato di affondare le dita in quella sua morbida chioma dorata e di stringersi a lei per catturare le sue labbra in baci ardenti.
E nel passaggio da un sonno agitato ad una veglia confusa, Sebastian inevitabilmente fantasticava; spalancava gli occhi chiari nell'ombra del suo baldacchino e si perdeva in deliranti fantasie.
Desiderava tenerla fra le mani, stringere e baciare quel corpo giovane e flessuoso che, giorno dopo giorno, fioriva dinnanzi ai suoi occhi un po' annebbiati. Intriso di compiaciuto disagio, immaginava di insegnarle ciò che aveva imparato dalle dame di Notturn Alley durante l'estate; e sognava di essere lui, lui e nessun altro, colui che l'avrebbe iniziata all'amore, rendendola donna.
E poi rabbrividiva e scuoteva il capo, tentando disperatamente di recuperare il buon senso e di togliersi dalla testa quelle idee sconsiderate. Era troppo presto: Alicia era ancora troppo giovane, troppo bambina per certe cose.
Eppure, un secondo dopo, il pensiero della sua innocenza ancora tutta da plasmare riprendeva ad assillarlo. Faceva vagare lo sguardo nel buio ed inevitabilmente si trovava davanti la sua immagine luminosa; e per quanto si sforzasse, non riusciva a scacciarla dai suoi pensieri.
E così riprendeva a rotolarsi nel letto, febbrile e affannato, desiderando soltanto di averla lì accanto a sé, ma già sapendo che ciò difficilmente si sarebbe verificato.

Le cose, purtroppo, erano fin troppo chiare.
Alicia aveva paura di lui.
Lo si vedeva, lo si percepiva: il suo timore era quasi palpabile, era quasi possibile annusarlo. E la colpa, pensava lui maledicendosi in silenzio, era tutta sua: sua e di come l'aveva sempre trattata.
E così quella soggezione che, dapprima, lo aveva divertito, divenne per lui motivo di immensa frustrazione. Alicia non aveva mai risposto al suo invito; negli ultimi mesi di scuola, l'aveva metodicamente evitato.
Alla fine di quell'anno, in giugno, lui si era diplomato.
Sapendo che non l'avrebbe più rivista, Sebastian l'aveva cercata freneticamente in mezzo alla folla di studenti che gremiva King's Cross. Quando, dopo tanto cercare, il suo sguardo aveva incrociato quello di lei, il ragazzo aveva visto distintamente le pupille dilatarlesi nelle iridi verdi; Alicia si era irrigidita, aveva trattenuto il fiato.
Poi, prima che lui avesse il tempo di muovere un passo, un gruppetto di Tassorosso si era frapposto fra loro, celandola alla sua vista.
Quando finalmente i ragazzi si erano spostati, lei era sparita.

   
 
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