Anime & Manga > Kuroko no Basket
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Autore: _EverAfter_    07/11/2018    2 recensioni
Sono passati sei mesi da quando Kagami è tornato in America.
Il giovane talento si sente smarrito, mentre cerca di non interrogarsi sul perché senta quella stretta al petto, così dolorosa da non riuscire a farlo giocare come vorrebbe.
Ma è davvero per questo, che non riesce più a giocare?
Quando è sul punto di darsi una risposta, due occhi azzurri tornano a tormentarlo, in quelli che sono i suoi ricordi più dolci.
Spero vi piaccia! :D
Genere: Angst, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Taiga Kagami, Tetsuya Kuroko
Note: Missing Moments, OOC | Avvertimenti: nessuno
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NdA:
Ci tengo a specificare che sono incazzata a morte con chi ha steso l'ultima sceneggiatura di Kuroko no Basket: Last Game. Non è corretto far soffrire in questo modo le persone T___T.
Questa storia è una riflessione fatta da me, pensando a come debba sentirsi Kagami dopo il suo ritorno in America - essendo il mio personaggio preferito, non potevo certo lasciarlo in disparte con un finale così struggente.
P.s. Ho messo l'OOC, perchè mi rendo conto che Kagami può risultare un pò troppo fluffoso! >.<
Spero che vi piaccia, baci!

_Vintage_






Ho visto una luce, eri tu




«Che razza di passaggio era?»

Quante altre volte dovrà rimproverarlo, si chiede, mentre scuote la testa, disilluso. Non che pretenda poi molto, da un novellino come lui. Non solo non ha una buona tenuta di palla, ma è anche schifosamente basso.

Sospira, passandosi una mano tra i capelli sudati che gli pizzicano la fronte. È lì da quanto, sei mesi?

«Kagami,» lo chiama il coach, facendogli un gesto con la mano, «eri in anticipo sulla ricezione.»

È quel piccoletto, è lento come un mollusco, pensa, ma rimane in silenzio, stringendo i denti. Non avrebbe alcun senso, polemizzare sul campo.

Si volta di spalle, afferrando l’asciugamano che gli passa il preparatore atletico. «Devi capirlo,» dice quest’ultimo, sospirando, «Brian non riesce a starti dietro.»

Tutte balle. Il rosso lo sa benissimo, è una scusa per giustificare l’ennesimo errore del nuovo titolare. Non che gl’importi, ciò che gli importa davvero è solo giocare.

Il suono del fischietto rende ufficiale la fine dell’allenamento. Anche quella giornata volge al termine, pensa, mentre afferra la bottiglietta d’acqua e si dirige agli spogliatoi. Agguanta svogliato il suo borsone e si dirige verso l’uscita, sul volto ha ancora la stessa espressione amorfa di poco prima.

«Kagami!» Non ha voglia di girarsi ad ascoltare le frottole di qualcuno, ma si trattiene dal mandarlo al diavolo. Si volta, e nella sua visuale capita a tiro proprio la pippa. «Scusami per oggi, starò più attento.»

No, non lo farai. «Ok, non preoccuparti.» Non è mai capitato di essere così remissivo con qualcuno. Forse è questo l’effetto che fa, crescere.

S’incammina verso la solita strada che porta a casa, ma s’accorge di non aver voglia di tornare. Fa una deviazione, certo che suo padre non se la prenderà troppo a male. In fondo, non c’è quasi mai.

Non si sorprende affatto di dove i suoi passi l’abbiano condotto. Lascia andare la tracolla, facendo rotolare il borsone giù per gli spalti improvvisati. Afferra il pallone, portandosi al centro dell’area dei tre secondi; il canestro è un po’ dismesso, ma andrà bene comunque.

Tira. Canestro.

Quanti ne ha fatti nella sua vita, di tiri così? Quanti ne ha sbagliati?

Palleggia, alternando il ritmo delle mani. Fa scorrere velocemente la pesante sfera sotto le sue gambe, riportandola in avanti un istante dopo. È tutto un gioco di velocità, si dice, mentre si volta di scatto e lancia ancora una volta verso il cesto. Sente il fruscio della rete. Altri due punti.

Andando avanti così, arriverà davvero lontano. Arriverò davvero lontano?

Dribbla via dei giocatori fatti d’aria, mentre si porta in avanti, pronto per schiacciare: gli altri tiri li ha sempre considerati noiosi. Supera con facilità l’altezza del canestro, è pronto per infilare ancora una volta la palla nel luogo a cui appartiene. Inizia la frenetica discesa verso il cestello, ma quando s’accinge a premere la mano contro il materiale sintetico che ha davanti, nella sua visuale appare la prima ombra del pomeriggio inoltrato.

Sente il rumore dell’anello di metallo, poi un rimbalzo prolungato. Il pallone giace per terra, come la vittima di un suo fatale errore.

Ha sbagliato la schiacciata. Rimane in silenzio, stringendo i pugni nelle mani, con lo sguardo che vagabonda per il campo.

Scuote la testa, ritirando indietro ciò che agli occhi pare lo sfogo di non essere più sincero con sé stesso. È per questo che ha voglia di piangere.

Gli ha fatto una promessa. Gli ha detto che non avrebbe mollato, che non si sarebbe arreso. Per questo sta pensando a lui, adesso.

«Dannate ombre di merda» sospira, strofinandosi gli occhi arrossati. Ce ne fossero di uguali a quella a cui ha dovuto dire addio.

Vorrebbe tanto dire a Brian che non ha voglia di giocare con lui; la verità è tutta lì. Anzi, non ha proprio voglia di giocare con qualcun altro che non sia lui.

Da adesso e per sempre, io… sarò la tua ombra.

Le sente di nuovo. Corrono veloci lungo le sue guance, unendosi verso il mento. Sono calde e familiari, le ha già sentite addosso in passato. Perfino quel giorno, quando Kuroko gli ha detto quelle parole. Quel giorno gli ha creduto davvero, per questo è stato in grado di girarsi e puntare gli occhi sul tabellone su cui troneggiava la grande scritta America.

Ha fatto la cosa giusta, per il suo sogno. Ma ha fatto quella sbagliata per il suo cuore.

Lo sa, lo vede ogni giorno: quando si concentra troppo, si aspetta il passaggio di sempre, quello rapido e scattante; quello a cui segue il commento dei giocatori, che si chiedono chi sia stato a tirare. Come se loro potessero davvero vederlo. Che razza di sciocchi. Eppure, lui riusciva a farlo. Quei buffi e insoliti capelli azzurro cielo, e quegli occhi così convinti di poter fare meglio, mentre dava tutto sé stesso per assisterlo, con quel passaggio che sembrava urlargli: “Vai. Vai e segna.”

Si lascia sfuggire un singhiozzo, mentre ancora tenta d’asciugar via le lacrime che sembrano tirargli via la pelle. Non credeva potesse esistere un’emozione come quella, certo com’era di riuscire ad andare avanti da solo. Perfino durante quell’addio, ne era convinto.

Adesso è diverso, perché Kagami è molto lontano da Kuroko. Non potrà mai tornare da lui, è troppo tardi.

Kuroko – anche lui – andrà avanti, imparerà a fare a meno di lui, riuscirà a trovare un realizzatore all’altezza dei suoi passaggi. Ma non sarà più lui. Non sarà più Kagami.

È terribile come quella consapevolezza gli serri il petto più di tutte le angosce provate nella sua vita. Essere sconfitti in una partita è un conto, ma perdere… non credeva mai che potesse accadere.

«Ho perso la mia ombra» mormora, stringendo le palpebre per bloccare l’inarrestabile piena che gli bagna gli occhi, le ciglia, l’intero viso.

Fa male, male, male. Potrebbe smetterla di pensarci, ma la verità è che non vuole. Significherebbe dimenticarsi dell’unica persona di cui gli sia davvero importato qualcosa: un giovane e goffo ragazzo, il cui unico scopo era quello di far brillare lui. Non ne ha mai capito il motivo, e nonostante questo non è più così convinto che Kuroko ci sia davvero riuscito.

Ma quale ombra. Kagami, se si sforza, può ancora vederlo sfrecciare veloce lungo il bordo campo, con lo sguardo concentrato e pronto all’ennesima azione. Kuroko non poteva essere un’ombra, non per lui. Kagami lo vedeva, ed era il più luminoso tra tutti i suoi compagni di squadra. Perfino più di lui.

«Eri tu la mia luce, Kuroko» singhiozza, lasciandosi cadere per terra, con le mani premute contro l’asfalto del campo.

Piange. Piange come un bambino, piange perché capisce fin troppo bene la differenza tra il vincere una partita e il perdere sé stessi.

«Addio, Kagami-kun.»


***



Cinque anni dopo



Cammina svogliato, grattandosi la nuca. Deve ricordarsi di non comprare più shampoo da mezzo dollaro, gli creano un fastidioso prurito.

«Ohi, Kagami,» lo chiama il playmaker della squadra, distogliendolo dai suoi pensieri, «muoviti, sei rimasto indietro.»

«Sto arrivando.» Entra in campo; è la prima volta che ne vede uno così grande. Suppone che entrare nell’NBA significhi anche questo.

Indossa fieramente i colori della sua squadra, ricordandosi ogni giorno di essere una persona diversa. Un campione, così come aveva promesso. Dopo quel lontano giorno al parco, ha smesso di piangere.

Il coach si porta davanti a loro, il suo sguardo brilla di una strana scintilla, oggi. «A breve comincerà il campionato,» lo sentono dire, «non ho alcuna intenzione di perdere, quest’anno.»

«Sì» rispondono in coro, convinti di poter dare sostegno al proprio preparatore.

«È per questo che voglio presentarvi la nostra nuova ala grande.»

Appare silenziosamente, sembra che nessuno l’abbia notato prima. Si porta in avanti con fare umile, chinando subito il capo in segno di rispetto. «Piacere di fare la vostra conoscenza.»

Kagami sbarra gli occhi, portandosi in avanti per vederlo. Quella voce. È la sua.

Quando il giocatore alza la testa, il suo sguardo azzurro si posa sul massiccio esordiente dei Chicago Bulls. Sta sorridendo. «Ciao, Kagami-kun.»

Il rosso rimane in silenzio, ma sul suo volto appare un sorriso raggiante.

È tornata.

La sua luce è tornata da lui.

  
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