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Autore: _LostinLove    09/11/2018    1 recensioni
Lei è Elena. Lei passa l'estate dai nonni, in montagna, ignorata. Passeggia a lungo nei giardini, spesso si ferma al torrente dietro casa a guardare l'acqua scorrere. L'acqua scorre sui sassi, come la sua vita sulla pelle.
Elena è malata. Elena ha paura di vivere, ma la vita la vuole con determinazione. Elena vuole viaggiare e amare, ma scoprirà che non serve allontanarsi per trovare uno spicchio d'amore, perfino tra quelle montagne.
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Il sole sta tramontando oltre le montagne, il cielo sembra la tavolozza di un pittore pazzo. Osservo il giardino dalla finestra cercando con lo sguardo mia sorella. Non la vedo da ore, la mamma dice che si è nascosta ancora. Si nasconde sempre e osserva quella ragazzina, la nipote dei vicini, mentre passeggia.
Vai a cercare tua sorella.”, mi dice mio padre. Gli sorrido e mi dirigo alla piccola radura dove di solito c’è sempre Lei. Lei la ragazza, Lei che per me non ha ancora un nome. Lei che ho visto tante volte, ma non ne so nulla. Una volta ho origliato una discussione tra i miei, e l’unica cosa che ho saputo era che è malata. Non ho capito di cosa. Non ho capito se fosse semplice influenza o qualcosa di più grave. Si può essere anche malati d’amore, o di qualcosa di mortale. Sorrido. L’amore per me è mortale, in qualche modo. Mi dilungo in pensieri complessi quando la vedo, sotto l’albero, che guarda mia sorella. Indossa un vestito semplice oltre ad un sorriso timido sulle labbra. Sembra molto più piccola. Molto più piccola di non so quanto, perché non ho idea di quanti anni abbia. La osservo per un po’, Lei non mi nota, è troppo presa. Pensa intensamente, corruga la fronte e sembra perplessa. Mi avvicino piano, ho quasi paura di rompere quella bolla invisibile in cui vive.
Scusa, ma devo recuperare mia sorella.”, dico. Lei sussulta e sgrana gli occhi, fingo di non essermene accorto. Le sorrido e mi passo una mano tra i capelli neri. Mi avvicino al corpo addormentato e sorreggo la mia sorellina tra le braccia. Sento lo sguardo di Lei perfino quando mi allontano, ma quando mi volto Lei osserva il cielo, rapita. Mio padre mi apre la porta ridendo. “Non è possibile che tua figlia dorma sempre.”, dico e lui la prende tra le braccia. Io resto a guardare il giardino, vedo la figura di Lei camminare su e giù sul prato. Cosa darei per i suoi pensieri. Con le dita traccio sul vetro della finestra le linee del tramonto che sta solcando il cielo come una crepa.

Hai intenzione di stare lì a lungo o mangi?”, mi chiede mia madre, appoggiando una mano sulla mia spalla. Il buio ricopre ormai le montagne e si vedono le prime stelle brillare.
No, non mangio.”, dico afferrando la coperta dal divano ed una pila. Non so cosa mi passi per la testa, ma non riesco a fermarmi. Esco di casa e continuo a camminare verso di Lei. L’erba mi solletica i piedi e sento il freddo della sera. “Ehi rossa, questa potrebbe servirti?”, dico sorridendo. Lei si siede e mi guarda. Ci fissiamo, e mi perdo nei suoi occhi color nocciola. Dopo un po’ mi accorgo di star puntando la pila a terra, vicino alle sue mani. L’anulare della mano sinistra le trema, non sembra accorgersene.
No.”, dice secca. “Non sono rossa, io sono Elena e ”, si ferma di colpo. E’ turbata, pensa un po’ e poi abbassa lo sguardo. Mi chiedo se io abbia detto qualcosa di strano. Tace.
Ho bisogno di rompere il silenzio, quindi chiedo ancora: “Non sei rossa?
No. Io sono Elena e ...”, balbetta e non sa dove posare lo sguardo. E’ così timida che arrossisce, vedo le sue guancie colorarsi nonostante la poca luce.
E ...?”, la sprono.
E ho i capelli rossi.”, la sua frase mi sorprende e rido. Lei ride assieme a me, e mi sembra che quella frase sia la più spontanea che abbia mai detto. Sorride quasi orgogliosa. Mi guarda e stringe le gambe al petto. La fisso, forse in modo troppo convinto ma lei sostiene il mio sguardo e restiamo in silenzio per un po’. Il vento si alza ed Elena comincia a tremare di freddo.
Questa ti serve.”, sussurro appoggiando la coperta sulle sue spalle. Stringo le braccia al petto per scaldarmi e mi siedo accanto a lei. La guardo ancora, mentre l’aria si fa fredda. “Tremi come una foglia, sai?”, dico e le prendo delicatamente la mano sinistra. La chiudo tra le mie, per poi portarla sulle mie labbra e le bacio delicatamente ogni polpastrello. Cerco di essere sicuro, con movimento decisi, ma in realtà tremo dalla paura. Mi vergogno del mio gesto appena allontano la sua mano dalla mia bocca, ma lei si è già coperta il viso con l’altra mano. Tra le dita affusolate intravedo il suo sorriso imbarazzato e non posso fare a meno di sorridere a mia volta. Ci guardiamo di nuovo negli occhi e mi ritrovo a pregare che questi istanti non passino mai. Ha gli occhi luminosi, innocenti, da bambina. Ma allo stesso tempo profondi, misteriosi. Nascondono un grande segreto. Lo so. La sua espressione si fa’ dolce e si alza, corrugo la fronte perplesso. Si siede sulle mie gambe distese. Automaticamente mi ritiro inclinando il bacino all’indietro continuando a guardarla negli occhi.
Con le dita mi sfiora le guancie e la nuca, un leggero sorriso si forma sulle sue labbra. Poi sussurra, piano: “Scusa.”, la sua bocca mi distrae, troppo vicina alla mia. Appoggio le mani sui suoi fianchi, col tentativo di avvicinarla a me. I nostri sguardi si incrociano ancora, e i suoi occhi mi trasmettono sicurezza, così pieni di speranza e vita. La bacio. La bacio come se fossi nato per baciare solo lei. La bacio perché mi sento sia la cosa giusta da fare. La bacio e ne sorreggo il peso: mi sembra di sostenere anche le sue preoccupazioni, le sue paure, il suo mistero. Lei si aggrappa a me e a questo bacio. E mentre la stringo i suoi gesti sembrano farsi più sicuri, meno distratti. Tra le mie braccia sembra ricomporsi, come se prima cadesse in mille pezzi.
 
 
Non ho più freddo in questa notte buia. Non con lei.
Sono seduto sopra la coperta ed Elena mi abbraccia ormai da ore. Siamo fermi così, in silenzio. Le accarezzo i capelli, morbidi, e lei affonda il viso nell’incavo tra la mia spalla e il collo. Talvolta la sento singhiozzare, il suo corpo comincia a sussultare e si asciuga le lacrime con le mani. In quei momenti le bacio piano la fronte  e la stringo più forte. Non diciamo nulla, ma sentiamo tutto. Siamo incastrati in un abbraccio, e nessuno dei due vuole allontanarsi dall’altro. Mi chiedo se il coraggio che l’ha spinta a baciarmi sia lo stesso che ha costretto me ad uscire per incontrarla. Mi sento confuso, lo stomaco sottosopra, ma non smetto di tenerla fra le mie braccia. Ho veramente paura di lasciarla fuggire via. Chiudo gli occhi e spero lei abbia lo stesso timore.
Scusa.”, dice poi in un sussurro. “Scusa.”, ripete e scioglie l’abbraccio. Mi guarda negli occhi, ma io vorrei tenerla tra le mie braccia ancora un po’.
Non è neanche sorto il sole quando lei si alza e lentamente si incammina verso casa sua. Non è neanche sorto il sole quando lei, scrollandosi di dosso l’erba del prato e i mille pensieri, decide che doveva scusarsi. Un errore. Non è neanche sorto il sole quando la vedo richiudere dietro di sé il cancello. L’unica cosa che riesco a pensare, a sperare è che lei si volti. Che guardi il disastro che aveva creato nella mia testa.
Mi passo una mano tra i capelli mentre sussurro il suo nome: “Elena.

Lei non si volta, non si scompone. E’ una ragazza forte ma sembra che il mondo le stia chiedendo troppo.
 
 
 


Mi scusi infermiere! Mi scusi!”, mi volto giusto in tempo per vedere una figura precipitarsi fuori dalla stanza. Abbandono il plico di fogli sul tavolino mentre arrangio qualche veloce scusa. Seguo il suono assillante del macchinario. “Il paziente della stanza 210!
Camera 210. Codice blu, Dipartimento Cardio Toracico, codice blu.”, una voce ripete dagli altoparlanti.
Persone in camice entrano nella stanza accanto, li seguo senza indugiare. Tutti sono rivolti verso un lettino, posizionato in fondo alla stanza. Un medico effettua la RCP su una donna incosciente. Lunghi capelli biondi ricadono a lato del viso, gli occhi chiusi ed un espressione stanca. I familiari vengono allontanati mentre mi faccio strada e mi accosto al lettino. Osservo i parametri vitali del paziente, il macchinario che emette un unico fischio riconoscibile. Battito assente.
Dammi una fiala di epinefrina. Preparate il defibrillatore.”, urla il dottore mentre comprime con i pugni il petto della paziente. Vedo gocce di sudore formarsi sulla sua fronte. Si abbassa per effettuare la respirazione, sigilla il naso e ricopre con le sue labbra la bocca della donna.
L’infermiere che mi aveva preceduto allunga la fiala e con un gesto secco colpisce l’addome nudo della donna. Sbatto le palpebre mentre un leggero Click ci conferma l’attivazione dell’ago a molla. L’adrenalina è in circolo. Non solo nel corpo della paziente.
Un’infermiera mi accosta il defibrillatore. Posiziono i due elettrodi sul petto e sul fianco della donna.
Vai, 200 Joules.” , mi conferma il medico. Il macchinario fischia. Non c’è tempo per avere dubbi.
Via tutti!”, urlo. Premo il pulsante. Il petto della paziente si alza in un sussulto, la testa reclinata all’indietro, i capelli biondi arruffati. Il medico di fronte a me riprende la proceduta RCP. Abbiamo tutti il respiro affannoso, gli occhi sbarrati. Continuiamo a guardare prima la donna e poi il macchinario. Le afferro il polso: nessun battito. Ha delle mani piccole e curate, la pelle abbronzata.
Di nuovo, 200 Joules.”, grida il medico. Allontaniamo tutti le mani dal paziente, il defibrillatore fischia. Premo il pulsante e il petto della donna di alza, ancora. Il corpo inerme e fragile, soggetto alla forte scarica, sbatte con forza sul lettino. La testa si piega di lato. Le speranze cominciano a scemare mentre continuiamo nel tentativo di salvarla.
Ancora!”, i suoni diventano ovattati, lo sguardo concentrato posato davanti a me. Continuo a seguire gli ordini ignorando le grida dei familiari, la stanchezza del turno, la paura di non farcela.
 
Avete lavorato tutti sodo.
Il dottore si allontana dal lettino, si asciuga il velo di sudore dalla fronte. Sospira. Abbassiamo tutti il volto. Alzo la manica del camice e controllo l’ora. Per la prima volta mi rendo conto di avere i polpastrelli delle dita sporchi di sangue.
11 Luglio, ore 21.37. Il cuore ha smesso di battere.”, affermo.  Alzo lo sguardo. I familiari si avvicinano piano, quasi a destare il riposo. Gli occhi gonfi, le guance rosee. L’infermiera accanto a me si porta le mani alla bocca, per nascondere lo stupore. Mi trascino fuori dalla stanza verso la sala relax dei medici. Il mio turno era finito.
Mi lascio accompagnare dal mio passo pesante, la testa svuotata. Non mi piaceva sentirmi così. Avremmo potuto fare di più. Attraverso quelli che sembrano corridoi infiniti, mentre mi lascio travolgere ancora una volta dall’impotenza.
Avremmo potuto fare di più.” , sussurro mentre apro il mio armadietto. Mi sfilo il camice e lo butto dentro il borsone, non importa se spiegazzato. La stanza vuota e il solo silenzio che mi circonda. Finalmente. Con le dita cerco inutilmente di pulire l’impronta di sangue sul quadrante dell’orologio.
A casa.”, mi dico. Lascio uscire un sospiro lunghissimo. Mi rilasso e comincio a sbottonarmi la camicia. Osservo il mio volto stanco dallo specchio appeso all’anta dell’armadietto. Le occhiaie evidenti e le labbra contratte. Rifletto su quale cena potrebbe soddisfare al meglio il mio appetito, mentre nelle orecchie fischia ancora il suono del defibrillatore. Scuoto la testa. Le mie mani stanche si fermano, non riescono a liberare un bottone. Mi guardo il petto, la pelle diafana nonostante il periodo dell’anno. Le dita della mano sinistra tremano e mi lascio scappare un sorriso di sconfitta. Mi sfilo la camicia oltre il seno, oltre la testa e la getto nel borsone. Cerco nell’armadietto le mie pillole. Un cocktail di dodici pillole che assumo ogni giorno.
Dodici pillole che prendo da anni. Dodici pillole che stanno rallentando la mia malattia. Dodici pillole capaci di rallentare, certo, ma non fermare il mio Parkinson. Dodici pillole che, per lo meno, mi stanno permettendo  di vivere.
Vivere non certo quella vita che sognavo, con i piedi in ammollo nel torrente. Una vita migliore, piena. Piena perché posso darle un senso. Un vivere che mi è stato insegnato lentamente ed io, studente ingordo, ho appreso entusiasta.
Non ho più bisogno di regole, di razionalizzare, di suddividere la mia vita in numeri. L’unico numero di cui ho bisogno ora sono quelle dodici pillole. Con un paio di sorsi d’acqua prendo le medicine che mi servono e getto la bottiglia nel cestino accanto alla porta.
Mi sciolgo i capelli e li lascio cadere sulle spalle. Una folta chioma rossa mi incornicia il volto. I capelli corti da combattente sono un vecchio ricordo. Mi osservo allo specchio. La mia figura minuta è ancora la stessa. Ma non mi chiamerei più fragile, sorrido e abbasso lo sguardo. Non ho più paure. L’amore ti da la forza di fare tante cose. A volte è solo l’amore che ti manca. L’amore ti da la forza di fare tante cose, a volte ti sveglia da un sonno che non sapevi stessi dormendo.
Svegliarsi ogni giorno, questa volta senza spiegazioni da dare, solo vite da salvare. Amore da donare.
Afferro la prima maglietta pulita che trovo nell’armadietto e la indosso, in fretta.
Sono pronta: richiudo dietro di me l’armadietto, mi getto il borsone sulle spalle e mi incammino verso l’uscita dell’ospedale. Sorrido salutando i colleghi. Nei corridoi vedo mille emozioni sui volti delle persone. Una vecchia signora tiene stretta tra le mani la croce che porta al collo. Le rughe che le ha donato la vita, i capelli argentei, il modo composto in cui è seduta. Tutto di lei mi affascina.
La supero ed esco dall’edificio. La notte calata sulla città.
Se porto la mano al petto, sotto la maglietta, riesco a sentire il cuore battere tra le costole. E questo è abbastanza per me. Sapere che non è tardi.

 
  
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