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Autore: Adeia Di Elferas    10/11/2018    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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“Che c'è?” chiese Manfredi, rendendosi conto che Caterina aveva qualcosa di diverso dal solito.

Erano nella sua tana, sotto spesse coperte e scaldati dal camino, eppure l'uomo aveva avuto l'impressione di sentire i muscoli della donna scossi da un breve tremore.

La Tigre, che teneva la testa contro la sua spalla, e un braccio sul suo petto, la mano che gli sfiorava il fianco, si affrettò a rispondere: “Non c'è niente.”

La partenza di Ottaviano era fissata per il mattino seguente e il faentino pensava che forse sarebbe stato meglio per lui concedersi qualche ora di sonno, prima di affrontare una giornata intera a cavallo. Però, quando era stato messo davanti alla scelta, appena dopo il banchetto, aveva preferito seguire la Sforza piuttosto che ritirarsi per riposare.

“Non mi dirai che sei gelosa di Bianca.” fece lui, dopo un po', con una risata sommessa.

La Contessa sentì la gabbia toracica del suo amante fremere contro di lei, ma non la trovò una sensazione molto piacevole, così come non trovò quell'insinuazione divertente.

“Lo sai che non la toccherei nemmeno con un dito. Te l'ho già detto, mi pare.” fece allora Manfredi, con più serietà, rendendosi conto di aver forse centrato il nocciolo della questione.

“Ma tu le piaci.” fece notare la Leonessa, atona.

“Non mi interessa.” ribatté lui, iniziando ad alterarsi un po'.

“Conosco bene gli uomini. Ho passato una vita intera in mezzo a loro.” fu l'unico commento che Caterina si sentì in grado di fare.

“Se quello che c'è tra noi ha qualche importanza, per te, allora sappi che giuro su di noi che non le farò mai nulla, nemmeno se fosse lei a chiedermelo.” ribadì il faentino, posando una mano sulla schiena della Tigre e massaggiandola lentamente: “Mantengo i miei giuramenti, non avere paura.”

Le ombre che le fiamme gettavano su di loro avevano un che di ipnotico e la Contessa, che si era puntellata sul gomito per poter guardare in viso Ottaviano, rimase qualche istante rapita dalla sfumatura che gli occhi azzurri di lui avevano acquisito.

Poi, come riscuotendosi, chiese: “Staremo facendo la cosa giusta?”

“L'importante è che noi due siamo d'accordo. Se agiamo di comune accordo, non è comunque uno baglio.” fece lui avvicinandola a sé per poterla baciare.

“Io non voglio farti partire.” sussurrò Caterina, la voce un po' rotta.

Si era resa conto solo nelle ultime ore quanto le costasse separarsi da lui. Per quanto a volte lo trovasse insopportabile e di difficile comprensione, sapeva che vederlo partire non sarebbe stato facile. Il fronte del Casentino era abbastanza tranquillo, ma c'era comunque una guerra e quindi poteva capitargli qualsiasi cosa. Il rischio di non vederlo tornare mai più c'era, e la Sforza non voleva nemmeno pensare a una simile eventualità.

“Devo partire, lo sai. L'hai detto tu stessa.” sospirò l'uomo che, parimenti, avrebbe dato tutto l'oro del mondo, pur di poter rimanere per sempre a Forlì.

La Leonessa riappoggiò il capo contro la spalla dell'amante e disse: “Se solo le cose fossero più facili...”

Manfredi preferì non dire la sua, dato che la donna pareva intenzionata a proseguire il discorso appena iniziato. Non era facile, almeno per lui, sentirla parlare apertamente di ciò che la tormentava ed era sicuro che stesse per farlo.

“Io volevo evitare a ogni costo gli errori di mio padre.” cominciò infatti a confessare la Sforza, con la voce un po' arrochita: “Lui ne ha commessi molti, e certi non sono mai riuscita a perdonarglieli del tutto.”

Mentre Ottaviano riprendeva a massaggiarle la schiena per farle coraggio, Caterina ripensò non solo al suo matrimonio con Girolamo – ai suoi occhi il peccato più grave che suo padre avesse mai commesso – ma anche la misteriosa morte di sua nonna. Non aveva mai voluto credere davvero che fosse stato Galeazzo Maria ad ucciderla, ma poi, crescendo, i dubbi si erano fatti più consistenti, fino a che, per paura di giungere a una logica conclusione, si era sforzata di non pensarci più.

“Ora, però, che mi ritrovo con tanti figli e uno Stato in difficoltà... Lo capisco di più e mi rendo conto che tenere una via retta è difficile.” concluse la donna, schiarendosi poi la voce: “Ho cercato di difendere mia figlia come meglio ho potuto, e non volevo costringerla a un matrimonio combinato, ma...”

“Ti giuro, Tigre, che con me sarà al sicuro.” la interruppe a quel punto Manfredi, avvertendo come non mai la preoccupazione della sua amante e soffrendone: “Sarà libera di fare quello che vuole e non le farò mancare mai nulla. Ha il tuo sangue, dunque mi è cara come se fosse una figlia mia.”

La Contessa sapeva benissimo che nelle parole del faentino c'era solo una parte di verità, ma voleva convincersi del fatto che fosse del tutto sincero.

Lo strinse per qualche secondo a sé, con forza, e poi, lasciandolo quasi di colpo, gli sussurrò, malvolentieri: “Adesso dovresti andare nelle tue stanze a dormire un po'. Non puoi passare una giornata a cavallo senza esserti concesso prima qualche ora di sonno.”

“Preferisco restare qui con te fino all'alba.” ribatté lui, un po' incerto, conscio del fatto che a una simile affermazione, la Tigre avrebbe anche potuto reagire in modo duro.

Invece, per quella volta, la Sforza decise di abbassare le difese, di fidarsi, e sussurrò: “E va bene, Manfredi. Per questa volta, ti lascio dormire nel mio letto. Ma solo per questa volta.”

L'uomo sorrise, felice per quella concessione, e poco dopo, quando stava per dire qualcosa per ringraziarla di quella dimostrazione di fiducia, sentì il respiro della sua donna farsi più regolare e i suoi muscoli rilassarsi un po' e capì che, stremata da quella lunga giornata, si era addormentata.

 

“Avete capito, mi auguro, l'importanza del compito che vi sto affidando.” disse il Moro, fissando Giovanni da Casale con un che di minaccioso negli occhi.

Il soldato annuì e poi, sentendosi osservato non solo dal Duca, ma anche dal suo cancelliere, aggiunse: “Ovviamente, mio signore.”

“Bene, bene.” fece allora Ludovico, tornando ad appoggiare la sua grossa schiena allo scranno su cui era seduto: “E sappiate che esigo da voi resoconti dettagliati e frequenti e se saprò che avete fatto delle deviazioni non concordate, e sapete a cosa mi riferisco, sappiate che non sarò tollerante nei vostri confronti.”

Pirovano strinse i denti. Il signore di Milano aveva voluto rivederlo anche quella sera perché ciò che gli aveva chiesto di fare, a suo dire, era di vitale importanza, e andava pianificato il più possibile fin nei dettagli. Lo stava mandando in Emilia con due compiti principali: il primo riguardava la riconferma della condotta a Galeazzo Sanseverino, il secondo, invece, consisteva nel raccogliere mille fanti.

Il Moro, quando parlava di 'deviazioni non concordate' si riferiva chiaramente a Forlì. L'Emilia era così prossima alla Romagna che in effetti quella missione, per Giovanni, rappresentava un'autentica tentazione.

Tuttavia, occhieggiando verso il forziere in cui erano stati già sistemati i mille ducati con cui finanziare l'arruolamento dei fanti, l'uomo fece un inchino profondo e promise: “Farò quello che mi ordinate, né più né meno, mio signore.”

Ludovico non sapeva se fidarsi o meno del tutto di lui, però, da quando il figlio di sua nipote Caterina era stato lì a Milano, gli era parso che l'atteggiamento di Pirovano fosse un pochino cambiato. Se prima sembrava un leone in gabbia, impaziente di potersi ritenere libero per tornare subito dalla donna che credeva di amare, adesso si era fatto molto più calmo, per quanto sempre molto mesto.

“Posso andare, adesso?” chiese dopo un po' il soldato, dato che nessuno aveva più aperto bocca.

Lo Sforza sollevò le sopracciglia e rispose: “Certo, certo. Siate pronto a partire entro domani mattina, mi raccomando.” precisò.

Anche Calco fece un cenno di permesso a Giovanni e così questi si congedò, lasciando il salone senza aggiungere altro.

“Che cosa sappiamo di preciso di quanto deciso a Blois?” chiese a quel punto il Moro, guardando il cancelliere.

“Quello che vi ho detto anche ieri, mio signore.” fece quello, stancamente: “Pare che il re abbia tirato dalla sua parte Venezia e che Firenze abbia tutta l'intenzione di non contrastarli.”

“Ma Firenze e Venezia sono in guerra!” sbottò Ludovico, esattamente come aveva fatto la prima volta che Calco gli aveva spiegato quella strana situazione: “Vorrebbero venirmi a dire che sono pronti a fare la pace, pur di permettere al re di Francia di fare la pelle a me?!”

Il cancelliere, senza scomporsi, sistemò con cura la penna che aveva sul suo scrittoietto e poi giunse la punta nelle dita e disse, con voce pacata, ma ferma: “Il re di Francia ha alla sua corte il figlio del papa. La figlia del papa è sposata ad Alfonso d'Aragona. Non lo capite che saranno tutti contro di noi?”

Il Duca si sentì gelare il sangue nelle vene. Lo capiva, e benissimo, ma non voleva crederci. Si alzò e cominciò a camminare a passo svelto per tutta la sala, le grandi mani da agricoltore allacciate dietro la schiena.

“Questa... Questa cosa... Non è... Non è ancora del tutto decisa, insomma...” borbottava tra sé, come a tranquillizzarsi da solo: “La guerra tra Venezia e Firenze non è ancora finita e io... Noi... Io posso ancora fare qualcosa per...”

Calco lo guardò ancora per un po', poi, scuotendo la testa, lo interruppe dicendogli: “Dovresti iniziare a concentrarvi sulla difesa di Milano. E su un possibile piano di fuga. Invece di perdervi con cose di poco conto come Giovanni da Casale... Se vuole tornare da vostra nipote, lasciatelo andare e convincete lei in cambio ad appoggiarvi contro re Luigi. E cercate di riallacciare i contatti anche vostra nipote Bianca Maria. Se l'Imperatore...”

Vedendosi soverchiato da tutte quelle parole e dallo scenario apocalittico che il cancelliere gli stava prospettando, il Moro sollevò le mani al cielo, interrompendolo bruscamente: “Oh! Andate al diavolo, voi e le vostre congetture! Ho bisogno di calmarmi e voi mi fate venire altri mille pensieri!”

L'altro, allora, mordendosi l'interno della guancia, si alzò dalla sua seggiola e, spegnendo la candela che aveva davanti e prendendo le sue carte, fece una mezza riverenza e si congedò: “Perdonatemi, mio signore. Non era mia intenzione angustiarvi.”

Mentre l'uomo si allontanava, Ludovico tentò di fermarlo con un debole: “Suvvia, Calco! Quanto siete permaloso...” ma ormai il cancelliere, uno dei pochi che ancora stesse ad ascoltarlo, era già andato via sbattendosi la porta alle spalle.

 

L'aria che spirava fredda dalle montagne scompigliava i lunghi capelli ormai bianchi di Caterina mentre, ritta in piedi sulle merlature della sua rocca, guardava il corteo di Manfredi allontanrsi.

Accanto a lei c'era anche Bianca. Avevano discusso, lei e il faentino, se far presenziare alla partenza anche la giovane Riario e alla fine erano stati d'accordo nel mostrarla, per rafforzare la notizia che fosse ormai la sua promessa sposa e che, per Astorre Manfredi, si stesse avvicinando la fine.

Tuttavia, mentre vedeva il guizzo biondo della testa di Ottaviano farsi sempre più lontana, la Sforza avrebbe voluto essere da sola, su quei camminamenti. Sentiva la figlia accanto a sé e questo la rendeva meno libera nel mostrare quello che provava.

Se ciò che aveva nell'anima fosse stata tristezza o preoccupazione, forse, avrebbe lasciato che Bianca lo capisse, ma ciò che aveva dentro di sé quella mattina era solo rabbia.

Non riusciva a sopportare l'idea di doversi separare dal suo amante, tanto meno di doverlo fare in un momento tanto difficile.

La piccola folla che si era radunata fuori da Ravaldino per salutare il condottiero si stava già diradando e, in quell'occasione, i forlivesi davano quasi l'impressione di essere accorsi più per compiacere la Contessa che non per sincera curiosità.

Quel dettaglio non era sfuggito alla giovane Riario che, osservando la rapidità con cui la gente accalcata attorno alla statua di Giacomo se ne stava tornando alle proprie occupazioni, aveva subito intuito quanto poco calore ci fosse, nei confronti del Manfredi. Che fosse per via del suo cognome, delle sue origini, o della sua fama da arruffapopoli, era difficile però dirlo a quella sommaria osservazione.

“Avanti, rientriamo.” disse, quando ormai il corteo fu troppo lontano per essere ancora ben visibile.

Bianca annuì e la seguì fin sulle scale a chiocciola e da lì nelle viscere della rocca. Aveva capito molto bene lo stato d'animo di sua madre, benché la Tigre paresse intenzionata a dissimulare l'ira che provava. Da un lato, la capiva, ma dall'altro si chiedeva come potesse essere quello, il sentimento che sopra ogni altro la governasse sempre.

“Stai andando da Giovannino?” chiese Caterina, vedendo come la figlia, una volta in corridoio, avesse puntato dritta verso la stanza del fratello.

“Sì.” confermò Bianca: “Volete venire anche voi?” suggerì, sperando che la presenza del piccolo potesse in qualche modo lenire la furia di sua madre.

La Leonessa non ci pensò su un momento e accettò subito. Però, mentre si avvicinavano alla porta della camera di Giovannino, Cesare Feo arrivò dalle scale, chiamando la Tigre.

“Che c'è?” fece lei, scontrosa, mentre il castellano le si avvicinava con il fiato un po' grosso.

“Spinuccio Aspini è appena rientrato in città. Volete incontrarlo subito?” chiese l'uomo.

La risposta più sincera sarebbe stato un sonoro 'no', ma la Sforza sapeva anche troppo bene che far attendere gli affari di Stato in favore di quelli personali poteva rivelarsi un errore fatale. Così, sospirando annuì e si scusò con Bianca.

“Magari vi raggiungo più tardi.” disse, chiedendosi se sarebbe riuscita a farlo davvero: “Ditegli che lo aspetto nel vostro studiolo.” fece poi, tornando al Feo.

Quando Spinuccio Aspini arrivò, Caterina era seduta sulla poltrona che era stata di suo marito Giacomo, lo sguardo lontano, le dita della mano sinistra intente a giocherellare con il nodo nuziale che le ricordava Giovanni.

Il diplomatico chinò il capo e la salutò con fare ossequioso. Aveva portato con sé un forte odore di umidità, come se lungo la via avesse catturato nel suo spesso mantello di lana cotta tutta la nebbia e la pioggia del mondo.

“Allora, che cosa mi dite di Bologna?” chiese la donna, senza guardarlo.

Spinuccio capì all'istante che la sua signora non era di buon umore. L'aveva vista di rado in quello stato. Era come un fuoco che covava sotto la cenere, pronto a far scoppiare un incendio da un momento all'altro.

Tuttavia era stata lei stessa a volerlo incontrare subito, così l'uomo si schiarì la voce e cominciò a raccontare quanto successo alla corte di Giovanni Bentivoglio.

“E così vi ha dato la lista degli effetti personali di suo figlio.” fece la Sforza, sollevando finalmente gli occhi verdi su di lui e smettendo di tormentare l'anello che le aveva donato il suo terzo marito in occasione delle loro nozze.

Aspini annuì e trafficò per un po' con il suo giaccone, fino a far uscire da una delle tasche una pagina dall'aria estremamente ufficiale.

La Tigre si alzò dalla poltrona e quasi gli strappò il messaggio di mano. Cominciò a leggere nella mente quanto il signore di Bologna reclamava per avere giustizia e, più scendeva nella lista, più la sua espressione si faceva furente.

“Questa è una presa in giro.” commentò, a voce bassa: “Tutte queste cose, secondo il Bentivoglio, sarebbero di un solo uomo? Faceva prima a dire che voleva indietro tutti i carri, anime dei morti comprese!”

Spinuccio sollevò appena le sopracciglia e convenne: “In effetti, mia signora, trovo anche io che questa lista sia molto poco realistica.”

La Contessa, che, per quanto cercasse di restare presente a quello che stava leggendo e dicendo, continuava a tornare con la mente al mezzo addio che lei e Manfredi si erano dati quella mattina. Si erano svegliati abbastanza presto e non si erano quasi parlati per tutto il tempo, se non per decidere in merito alla presenza di Bianca al momento della partenza del faentino.

Si sfioravano con lo sguardo, si toccavano di quando in quando, ma per lo più avevano cercato di rendere il distacco meno difficile iniziando fin da subito a cercarsi meno.

Era stata la stessa Caterina a scegliere quella via, ma poi, quando il momento di dividersi era arrivato davvero, avrebbe voluto tornare indietro e passare quelle ore abbracciati a letto, l'uno perso nell'altra, e non a perdere tempo fingendo che non stesse succedendo nulla.

Borbottando qualche bestemmia molto pesante, la Leonessa strappò la lista e la gettò nel camino, lasciando basito Spinuccio, che non ebbe la prontezza di fermarla.

“Mia signora...” fece lui, dopo qualche minuto, mentre la donna gli dava le spalle, apparentemente intenta a osservare i resti del foglio che si accartocciavano in cenere tra le fiamme: “Non vorrei lanciare falsi allarmi, ma...”

Ma cosa? Parlate, per Dio, Aspini! Non ho voglia di perdere tempo!” scattò la Contessa, guardandolo da sopra la spalla.

L'uomo spostò il peso da un piede all'altro e poi spiegò: “Ecco, mia signora, sono stato a Bologna per ben più di un giorno, come sapete, e lì ho avuto modo di tastare i malumori dei Bentivoglio. Io credo che ancor più che verso di voi, il suo odio sia rivolto a messer Ottaviano Manfredi.”

Nel sentir citare il nome del suo amante, Caterina tornò a fissare le fiamme e invitò Spinuccio a proseguire, dicendo: “Che intendete, di preciso?”

“Ecco, ormai tutti sospettano che voi siate in accordi con messer Manfredi e che la vostra tacita alleanza sia legata al desiderio di rovesciare il governo di Astorre Manfredi a Faenza. E Astorre è un ragazzino ed è il nipote del Bentivoglio.” riassunse Aspini: “Non ho ben capito se abbiano in animo qualche azione criminosa ai danni di messer Ottaviano, ma non credo che resteranno a guardare ancora molto a lungo.”

La Sforza strinse i pugni lungo i fianchi. Non avrebbe dovuto lasciar partire Manfredi, sapeva che era un rischio, farlo uscire dalla rocca. Per quanto fosse pericoloso, per lei, tenerselo accanto con tutte le accuse che i loro alleati e i loro nemici parevano propensi a muovere contro di lui e, di rimando, contro di lei, pensare che potesse cadere vittima di qualche imboscata la terrorizzava.

“Ho capito.” disse piano, voltando le spalle al camino e tornando a guardare Spinuccio: “Vi ringrazio, siete stato prezioso, avete fatto un ottimo lavoro. Vi farò avere una ricompensa per la cura che avete messo, nel curare i miei affari.”

“Era un dovere, mia signora.” fece l'Aspini, producendosi in un inchino.

“E non date peso ai miei modi...” soggiunse la Contessa, appena prima di lasciarlo andare: “Sono giornate pesanti.”

L'uomo annuì e convenne: “Lo sono, mia signora.”

Rimasta sola, Caterina attese ancora qualche minuto, per ragionare a freddo su quanto riferitole da Spinuccio e poi, con un sospiro pesante, lasciò lo studiolo del castellano e si incamminò verso la stanza di Giovannino.

A metà strada, però, capì di essere troppo piena di rabbia, per riuscire a stare con il suo figlio più piccolo godendosi davvero la sua compagnia. Per di più, il bambino sembrava incredibilmente sensibile all'umore della madre e quindi la Tigre sapeva a prescindere che se si fosse presentata da lui in quello stato, probabilmente anche Giovannino, nel giro di qualche minuto, si sarebbe irritato e magari si sarebbe abbandonato a uno dei suoi pianti furibondi. Preferiva lasciarlo tranquillo, assieme a Bianca che, inutile negarlo, lo adorava quasi fosse un figlio suo.

Così, per dar sfogo alla sua inquietudine, la Contessa uscì quasi di corsa dalla rocca, passò attraverso il cantiere della cittadella, e vedere il Paradiso la caricò ancora di più. Andò a passo di marcia fino al Quartiere Militare e si mise a osservare i soldati in addestramento.

Dopo pochi minuti, però, perse la pazienza e, facendosi passare un giubbetto imbottito e una spada da allenamento, si gettò anche lei nella mischia, giustificando quell'incursione con un lapidario: “Lo chiamate tirare di spada, questo? Adesso vi insegno io come si fa!”

 

Isabella Este sollevò alla luce pallida del sole di Mantova, che filtrava incerta dalla finestra, la nuova moneta antica che era riuscita a procurarsi, dopo settimane di ricerche. Non le era costata poco, ma un pezzo del genere, nella sua collezione, mancava e lei non lo sopportava.

“Ti disturbo?” suo marito Francesco, restando sulla porta, la osservava da lontano, cercando di capire che cosa sua moglie stesse rimirando con tanta attenzione.

La donna appoggiò la moneta alla scrivania e poi, assumendo un'espressione molto severa, chiese, mesta: “Che vuoi?”

L'uomo, un po' incoraggiato da quella domanda, molto più promettente rispetto al mutismo che l'Este gli aveva riservato nelle ultime settimane, fece qualche passo avanti.

Isabella aveva ancora ben presente la lite a cui si erano abbandonati qualche giorno addietro, quando lei aveva scoperto i maneggi del Gonzaga, che aveva cercato di staccarsi dalla condotta milanese per tornare in seno ai veneziani. Si erano detti cose orribili e forse la discussione sarebbe finita malissimo, se solo non fossero stati interrotti dal provvidenziale arrivo di una delle sue dame di compagnia.

“Il Duca di Milano – disse Francesco, teso – vuole che vada a Castrocaro, per contenere i veneziani. Non si fida delle manovre di difesa della Tigre di Forlì e quindi vuole mandare me.”

“E tu ci andrai, mi auguro.” commentò a denti stretti la donna, riprendendo in mano la moneta e iniziando a valutare come custodirla, in modo da non rovinarla.

“Ho ordinato a cento balestrieri a cavallo di raggiungere Castrocaro, ma io non partirò.” fece l'uomo, sollevando appena il mento e puntando gli occhi, distanti tra loro e non perfettamente in asse, su Isabella.

Questa strinse i denti: “Francesco, il Duca di Milano ha chiesto a te di andare, non di mandare i tuoi uomini. Ti rendi conto di quanto ci sia costato, poter tornare alle sue dipendenze?”

“Oh, immagino che portarti a letto Ludovico Sforza per te sia stato davvero un immenso sacrificio!” scattò a quel punto Gonzaga, che, quando sua moglie parlava a quel modo, non riusciva proprio a trattenersi.

L'Este si alzò, con tanta furia da far cadere in terra la sedia: “Ti impedisco di parlarmi ancora a questo modo! E, comunque, se anche me lo fossi portato a letto, a te non deve interessare! Almeno l'avrei fatto per un buon motivo, per salvarti la pelle!”

“Preferivo farmi ammazzare, che saperti sua!” gridò allora Francesco, battendo un piede in terra.

Isabella aggirò la scrivania, fino a trovarsi davanti al marito e gli disse, con voce bassa e implacabile: “Hai ragione, forse sarebbe stato meglio vederti morto che in queste condizioni pietose. Ma non potevo permettermelo, perché non sei nemmeno stato in grado di dare al Marchesato un erede!”

A quelle parole, che, come sempre, pungevano il punto più dolente dell'anima del Marchese, il Gonzaga fece un suono disarticolato e afferrò la moglie per i polsi, quasi volesse sopraffarla in quel modo.

Isabella, però, fu abbastanza pronta da sgusciare via dalla sua presa all'istante: “Non mi toccare! Mi fai schifo!”

“Come accidenti lo vuoi, un erede, se non mi permetti nemmeno di sfiorarti?!” sbottò Francesco, che comunque non avrebbe avuto il coraggio di andare oltre, senza il chiaro consenso di una donna implacabile come sua moglie.

“Non riesco ancora nemmeno a pensare di giacere con te.” fece lei, facendo un passo indietro: “Io non ti ho ancora perdonato per tutto il male che mi hai fatto, coprendomi di ridicolo davanti a tutti!”

Mentre si gridavano addosso l'un l'altro, ci fu un momento in cui entrambi rimasero in silenzio. Si trovarono a distanza di pochi centimetri, ansanti e rabbiosi, ma in quella vicinanza qualcosa riportò entrambi indietro di anni, a quando potevano definirsi una coppia affiatata.

Isabella perse qualche istante a guardare il viso, di rara bruttezza, ma a lei così familiare, del marito, il suo petto largo e il suo fisico, non slanciato, ma potente. Era invecchiato, soprattutto nell'ultimo periodo, ma portava comunque i suoi trentadue anni con dignità.

Francesco, di contro, aveva osservato gli occhi vivi di sua moglie, i suoi capelli lunghi, e il suo corpo che, per quanto avesse preso chili negli ultimi anni, restava a suoi occhi il più desiderabile del mondo. Aveva venticinque anni, era nella pienezza, ma aveva in sé la saggezza di una donna molto più in là con l'età e al contempo la vitalità di una ragazza parecchio più giovane.

Per una frazione di secondo, a tutti e due parve che l'altro fosse pronto a deporre le armi e provare un riavvicinamento, magari all'inizio solo fisico, ma, poi, l'Este si ritrasse e sussurrò: “Non ti voglio, Francesco.”

“Preferisci i ragazzini come quel Bembo di cui ti vanti tanto?” chiese in un soffio cattivo il Gonzaga.

“Non è un ragazzino. Ha quasi trent'anni. E, comunque sia, stai facendo tutto da te.” ribatté Isabella, deglutendo e tornando alla sua scrivania.

“Tu e le tue collezioni di anticaglia!” esclamò Francesco che, però, avrebbe voluto mettersi a piangere, per quanto si sentiva sperso e abbattuto.

“Se non hai altro da dire, ti prego di lasciarmi in pace.” concluse l'Este, senza guardarlo più, il viso ancora molto arrossato e il respiro rapido, ma gli occhi puntati sulle sue monete, come se avesse già archiviato la loro discussione.

Il Marchese rimase fermo sul posto per qualche minuto, poi, non riuscendo più a parlare, sollevò una mano, come a mandare a quel paese la moglie e girò sui tacchi, uscendo.

Appena fu di nuovo sola, Isabella allontanò un po' da sé il piccolo scrigno pieno di sesterzi e altri cimeli e si passò una mano sulle labbra, gli occhi che si inumidivano di lacrime e un profondo senso di vuoto che le scavava lo stomaco.

Aveva amato Francesco fin da subito, fin da bambina. Aveva saputo plasmarlo come voleva lei, facendone un marito ideale, ai suoi occhi. Poi era arrivata la politica, erano arrivate due figlie femmine, si erano moltiplicati i tradimenti e le incomprensioni, e, senza accorgersene quasi, aveva finito per perderlo.

Forse non era ancora finita, tra loro, e un erede, lo sapeva anche troppo bene, serviva a entrambi, a maggior ragione con la guerra che non accennava a finire.

Due dame di compagnia della Marchesa arrivarono all'ingresso del suo studiolo e così la donna cercò di darsi un tono. Si schiarì la voce, sbatté con forza le palpebre e, quando le due le si avvinarono chiedendole se volesse iniziare a cambiarsi per il pranzo, la donna annuì e cercò di concentrarsi solo su quello che stava facendo, come se perdersi nei piccoli gesti della quotidianità potesse davvero aiutarla a dimenticare il dolore e la rabbia che provava per quello che le pareva il più grande fallimento della sua vita.

 
   
 
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