Cap. 5
“A
Sigyn”
Sonje
increspò le labbra in una
smorfia leggera. Sua madre sarebbe rientrata solo a notte inoltrata;
una noiosa
festa da grandi l’avrebbe
trattenuta
ben oltre il tempo in cui lei e Vali sarebbero rimasti alzati. Per
tutta la
sera, sarebbe rimasta insieme a suo fratello sotto la rigida
sorveglianza di
Hilda, una delle Asinne fuggiasche che avevano lasciato Asgard quando
Thanos
l’aveva messa a ferro e a fuoco. Era una donna magra, ossuta,
dai lineamenti
duri e affilati, che solo raramente si concedeva di raccontarle
com’era il
regno dove suo padre era cresciuto. All’inizio, a onor del
vero, Hilda parlava
con un certo orgoglio di alcune delle avventure vissute da Thor e Loki.
Con un
sorriso appena accennato sulle labbra, concedeva loro qualche breve
dettaglio
della vita vivace e scapestrata dei due giovani figli di Odino prima
che
l’Hlidskjalf fosse sconvolto dall’amara
verità sulla nascita del dio degli
inganni.
Sonje e Vali non
conoscevano che per
sommi capi quella storia. Sapevano di avere sangue Jotunn nelle vene e
di
essere mezzi Asi per adozione, ma quella complessa genealogia per loro
non
aveva un grande significato. Era irrilevante, una caratteristica come
un’altra
di cui non comprendevano bene le implicazioni. Una nota di colore, come
il
fatto che gli occhi di Vali erano identici a quelli del dio degli
inganni,
mentre quelli di Sonje avevano la medesima sfumatura grigia di Sigyn.
Fatto sta
che l’ossuta Hilda che non rideva mai a un certo punto aveva
semplicemente
smesso di raccontar loro storie. Ora la donna, seria in volto, sedeva
in un
angolo della biblioteca a sonnecchiare accanto a un ricamo che non
riusciva a finire.
Li aveva trascinati lì piuttosto in fretta per qualche
oscura ragione che Sonje
non comprendeva e che Vali era troppo piccolo per poter decifrare. La
bambina
detestava tutta quella situazione: fuori pioveva – una
pioggia fitta e lugubre
che funestava Vanheim da giorni – e il palazzo era pieno di
gente straniera
venuta da chissà dove, che lei non doveva incrociare nemmeno
per sbaglio.
Mentre suo fratello era intento a colorare un tetro disegno dove un non
ben
identificato guerriero infilava la spada nel corpo di non si capiva
bene che
brutta bestia, lei, che s’annoiava, prese a dare
un’occhiata all’immensa
distesa di libri che tappezzava ogni angolo della biblioteca, sfiorando
con il
dito il dorso di pelle dei numerosi volumi. Toccò, senza
saperlo, quelli contro
cui Loki aveva spinto Sigyn per strapparle un bacio feroce e ardito, la
notte
lontana in cui l’aveva aiutata a liberare una cucciolata di
lupacchiotti[1].
Prese in mano, per riposarlo subito senza nemmeno aprirlo, il
noiosissimo testo
che Loki stava studiando, e che era effettivamente pieno delle sue
chiose
minuziose, il giorno remotissimo in cui il dio degli inganni si era
finalmente
accorto che la nipote di Njord era diventata una donna. Venne attratta
da un
altro libro, però. Un volume ugualmente importante e
piuttosto sottile, che osservò
aggrottando appena le sopracciglia. La copertina era in pelle, gli
angoli
appena consunti. Lo aprì distrattamente, incuriosita dal
fatto che le lettere
del titolo fossero quasi illeggibili, e trattene il fiato quando lo
sguardo le
cadde sul frontespizio. C’era una dedica, al centro della
pagina. Poche righe
vergate con una grafia assai fluida e corsiva.
A Sigyn,
Che conosce gli
incantesimi più potenti e non lo sa.
Che queste
storie possano scaldarti nelle notti fredde che verranno.
L.
Era un regalo
che suo padre aveva
fatto a sua madre. Sonje batté le palpebre, sorpresa e
incuriosita da quella
dedica asciutta eppure carica di qualcosa che lei aveva visto e non era
mai
riuscita a dimenticare. Le domestiche amavano raccontare che i suoi
genitori si
scambiavano sempre doni sontuosissimi. Gioielli, perlopiù,
fatti dai Nani o
dagli Elfi. Tiare e collane e diademi e anelli che sua madre sfoggiava
solamente nelle occasioni ufficiali. Doni importanti che andavano a
impinguare
il Tesoro di Vanheim ed erano più di rappresentanza, che di
altro. Concetti,
questi, che la bambina non era in grado di decifrare. Curiosa
com’era,
raccoglieva con gli occhi ogni informazione possibile cercando di dare
a ogni
tassello il giusto senso. Sua mamma non era una maga né
un’incantatrice: di che
cosa parlava suo padre? Lesse e rilesse quelle due semplici righe fino
a
impararle a memoria, perché captava, in esse, la magia e il
mistero che avevano
determinato la sua nascita, ma anche quel calore che era svanito per
sempre
dalla sua casa il giorno in cui suo padre aveva varcato per
l’ultima volta la
soglia di casa. A Sigyn. La dedica
aveva in sé una dolcezza e una premura rese ancora
più particolari dalla natura
stessa del dono: un semplice libro che conteneva una serie di racconti
di
Asgard che non c’era più[2].
Tornò verso le poltrone di pelle su cui, in un altro tempo,
suo padre aveva
trovato sua madre addormentata – lei si sarebbe svegliata per
poi offrirsi di
preparargli una tisana e lui non avrebbe né accettato
né rifiutato, ma questo
Sonje non poteva saperlo – e si sedette sfogliando le pagine
ingiallite[3].
“Cos’è?”
Vali, sdraiato sul tappeto,
smise di disegnare per puntare i suoi occhi verdissimi in quelli della
sorella.
“Guarda,”
lo incitò la bambina
mostrandogli orgogliosa il frontespizio, “questo è
un regalo che papà ha fatto
a mamma.”
“A
Sigyn,” lesse il bambino cercando
di decifrare la grafia adulta e corsiva di Loki, “che conosce
gli incantesimi
più potenti e non lo sa. Che significa? Mamma non
è una maga,” disse arricciando
il naso con sospetto.
Sonje non seppe
che rispondere a
quella domanda lecita che si era posta anche lei.
S’interrogò sulla metafora
che aveva utilizzato il padre e ricordò quello che il
fratellino non riusciva
più a rammentare. Anche quando la sua famiglia era unita
capitavano serate come
quella, in cui i suoi genitori rientravano a tarda sera, ma
l’aria che si
respirava in casa era diversa, più allegra. Sigyn si
adornava davanti allo
specchio dei bei gioielli che Loki le regalava e che faceva indossare
per gioco
anche a lei promettendole che, un giorno, ognuna di quelle gioie
sarebbe stata
sua, e poi Sonje l’aiutava a scegliere l’abito
giusto, quello che papà avrebbe
trovato più bello. E lui, a un certo punto,
compariva dal nulla nel vano della porta col suo sorriso perfetto e
diceva che
le principesse di Vanheim erano terribilmente vanitose, tutte. Sua
madre
rispondeva fintamente piccata e arrossiva lanciandole uno sguardo
d’intesa – lo
trovavano bellissimo entrambe – e poi andavano via insieme,
lui con le insegne
color oro e verde che gli luccicavano addosso, lei ammantata delle sete
più
preziose di Vanheim. Tornavano a sera tardi, quando lei già
dormiva, ma a volte
li sentiva rientrare – bisbigli e risate soffocate
– e correva da loro scalza e
allegra, stringendo tra le braccia l’enorme gatto di pezza
regalo di suo zio
Thor[4].
Mamma e papà erano di nuovo a casa, e Sonje alle volte
riusciva a sorprenderli
mentre erano labbra contro labbra, lei che gli cingeva il collo in
punta di
piedi e teneva le palpebre socchiuse, lui che la guardava sfiorandole
la
schiena o i capelli[5].
Adesso, invece,
tutto era diverso.
Sigyn si era preparata, quel giorno come tante altre volte, scegliendo
con cura
gli abiti e i gioielli che doveva sfoggiare, facendo ben attenzione a
che la
collana che le si infilava in mezzo al seno non mostrasse
l’anello e l’ametista
che indossava sempre[6].
Si era guardata allo specchio e Sonje aveva pensato che fosse molto
bella, con
quei capelli d’oro, anche se sua madre non rideva
più di fronte alla sua
immagine riflessa e non la riusciva a coinvolgere con
l’entusiasmo di prima
nella scelta degli abiti. Sonje non sapeva decifrare lo sguardo critico
che la regina
di Vanheim rivolgeva allo specchio, né comprendeva quanto
fosse difficile farsi
bella per degli uomini che l’avrebbero scrutata con finta
deferenza o con
sincera preoccupazione, ma aveva sviluppato, nei confronti di sua
madre, una
palese e feroce gelosia che la facevano assomigliare fin troppo
all’altero
genitore di cui aveva ereditato le labbra e la capigliatura corvina. Un
sentimento che era nato per un milione di motivi, primo tra tutti la
consapevolezza che la sua mamma, alle feste cui partecipava, ballava e
rideva e
scherzava con gli altri ospiti come faceva quando ancora
l’accompagnava suo
padre. Una consapevolezza che l’aveva raggiunta quando era
stata sgridata da
una delle domestiche per un capriccio, anzi, un vero e proprio dispetto
fatto
con deliberata cattiveria, di cui si era pentita solo a voce, ma che
avrebbe
rifatto altre mille volte. Aveva sentito le donne ciarlare della sera
precedente. Aveva captato il nome di sua madre ed era rimasta ad
ascoltare: le
cameriere parlavano di quant’era bello l’abito che
indossava la regina e di
quanto era sembrato a tutti che si stesse finalmente divertendo in
compagnia di
quel nobile così ammodo – era il momento che si
rifacesse una vita, del resto. Il
commento l’aveva colpita come uno schiaffo. Le aveva dato la
misura definitiva
di quanto era successo nella sua famiglia, insinuandole il sospetto
che, forse,
il suo magnifico papà non sarebbe mai più tornato
da loro.
Per chi si
faceva bella sua madre?
Perché lasciava soli lei e Vali? Se ne sarebbe andata anche
lei? Tornava da
quelle feste a volte allegra, altre con un umore nero. Allora, si
sedeva alla
toletta togliendosi con lentezza il trucco nero che le esaltava lo
sguardo,
pulendo con stizza il rosso che le tingeva le labbra e le diceva di
avere gli
occhi lucidi perché era stanca. Per placare il suo broncio
sospettoso, le dava
un bacio sulla guancia sussurrando che andava tutto bene. Mentiva,
ovviamente.
A
Sigyn. Che conosce gli incantesimi più potenti e non lo sa. Sonje lesse
rapidamente una delle
storie e si accorse di conoscerla da tempo, perché era una
fiaba molto amata;
parlava di come suo padre avesse ottenuto dai Nani e dagli Elfi doni
preziosi
da portare agli Asi – la cintura e i guanti per zio Thor su
tutti – e del modo
in cui Odino aveva evitato che i Nani, offesi dai suoi tranelli, gli
tagliassero di netto la testa[7].
Quando Loki ripercorreva con lei quell’evento, riusciva a
farla ridere e le
mostrava la piccola cicatrice che gli era rimasta addosso come fosse un
trofeo.
Ma ora, rileggendola, Sonje aggrottò la fronte ed ebbe
paura. Dall’alto dei
suoi dieci anni, si accorse improvvisamente che le belle avventure di
suo padre
avevano tutte un retrogusto amaro e inquietante. Stringendo il libro il
petto,
decise che avrebbe tenuto il volume con sé.[8]
***
Loki si
guardò accuratamente attorno,
e solo quando fu sicuro che non ci fosse nessuno a spiarlo, si decise a
riprendere il suo consueto aspetto. Deglutendo, si incamminò
col suo solito
passo altero ed elegante verso i corridoi spogli
dell’ennesima dimora adibita a
quartier generale. All’inizio del suo servizio presso Thanos,
aveva provato a
mettere in salvo alcune delle reliquie appartenute ai vari popoli che
erano
stati schiacciati sotto gli stivali del Titano. Libri,
perlopiù, ma anche gioielli,
manufatti artistici, opere d’arte. Con un’ansia che
non sapeva di possedere,
aveva scoperto di amare il bello e di volerlo proteggere[9].
Che pena che era stata, vedere le guglie delle biblioteche bruciare, le
splendide e ricercate torri d’astronomia ridotte in macerie,
gli ingranaggi di
qualche strana macchina distrutti senza poter essere nemmeno compresi!
All’inizio della sua ritrovata carriera di tirapiedi scelto
di Thanos, Loki si
era premurato di proteggere e salvare il salvabile; quando il Titano si
era
accorto della sua mania, lo aveva apostrofato con uno sprezzo ilare e
palese,
cui l’ingannatore aveva risposto abbassando il capo e
mordendosi le labbra
quasi a sangue per non ribattere.
“Siete
un popolo di ladri e
saccheggiatori, voialtri asgardiani,” aveva detto,
“ce l’avete nel sangue.”
Forse era vero.
Magari c’era
realmente una cupidigia instillata fin da piccoli e assimilata assieme
al latte
materno, negli Asi che, da popolo potente e invincibile, si era
trasformato in
un manipolo di profughi reietti, ma il dio degli inganni non
riuscì soffocare
un moto d’orgoglio per l’attrazione smodata che la
gente con cui era cresciuto
– la sua gente
– nutriva per i tesori
e per le reliquie e per tutto ciò che di strano e complicato
c’era nel mondo e
nell’universo. Di fronte alle beffe del Titano capace solo di
inseguire il suo
folle piano, Loki si era sentito come il re che non era mai stato e il
petto
gli si era caricato d’orgoglio. Il suo padrone avrebbe potuto
dimezzare la
popolazione e schioccare le dita quante volte voleva: sarebbe sempre
rimasto
una creatura gretta e ottusa, incapace di capire e comprendere la vera
bellezza
dei suoi domini. L’ignoranza lo avrebbe relegato in una
dimensione di
subalternità rispetto a lui, dio degli inganni e principe di
Asgard, legittimo
erede al trono di Jotunheim e figlio di Odino[10].
Da allora, tuttavia, aveva smesso di accumulare tesori e salvare opere
d’arte.
Esporsi sarebbe stato troppo rischioso. Si limitava, quando poteva, a
sfiorare
con la punta delle dita gli splendidi manufatti prima che fossero
irrimediabilmente distrutti. Solo così, si diceva, un giorno
qualcuno avrebbe
ripreso a creare. Un prezzo altissimo che, inevitabilmente, avrebbe
dovuto
essere pagato. Le sontuose porte delle stanze del Titano si aprirono, e
subito
fu apostrofato dal suo occupante, visibilmente scocciato.
“Loki
Laufeyson, razza d’intrigante, che
fine hai fatto?”
L’Ase
non riuscì a puntare lo sguardo
a terra come avrebbe dovuto. Non ce la faceva mai del tutto.
“Perlustravo le
zone attorno al quartier generale, nobile Thanos.” Mio signore sarebbe risultato un
appellativo decisamente più
opportuno, ma la deferenza con cui gli riuscì di pronunciare
quel nobile parve placare
l’alieno. Lo vide
piegare la testa calva e lucida in un breve cenno d’assenso.
“E che
mi dici delle notizie
sull’ultima gemma?”
“False.”
Loki rispose sicuro, alzando
il mento fino a incontrare gli occhi color ametista del mostro.
“Totalmente
false. Un possibile depistaggio,” insinuò con il
principio di un sorriso furbo.
“Chi
oserebbe?”
“Chi
non ha niente da perdere,
signore.” Deglutì, intimamente soddisfatto per il
pronome possessivo che era
fortunosamente riuscito a evitare ancora una volta, e che solo
pronunciare
faceva male come un coltello infilzato nella carne.
Il Titano
strinse le palpebre fino a
ridurle a due fessure sottili. “Voglio le loro teste su una
picca,” replicò distante.
L’ingannatore si affrettò a porgere un inchino
breve e deciso, e quello
proseguì impassibile. “E la pietra vera
dov’è?”
Eccola, la sola,
unica e vera ragione
per cui il dio degli inganni respirava ancora e non era un cadavere
gettato in
una fossa comune col collo spezzato: la sua abilità di mago
che gli aveva fatto
intercettare una a una le varie gemme. Era davvero incalcolabile il
numero di
massacri che il Titano aveva compiuto per recuperarle; il dio degli
inganni,
che pure era nato per essere re e per guidare eserciti feroci, sentiva
di avere
le mani lorde del sangue degli innocenti. Gli Asi erano sempre stati un
popolo
di guerrieri spietati, cui combattere piaceva in una maniera viscerale
e
morbosa, ma le loro battaglie e le successive razzie cui si
abbandonavano
avendo poi la premura di chiamarle con altri nomi, avevano un limite.
Odino e
Bor prima di lui non avevano mai avuto l’intenzione di
cancellare per sempre
popoli e tradizioni. Mancava loro la sistematicità
che, invece, caratterizzava il modo di agire delle truppe di Thanos. Al
contrario degli Asi, il suo nuovo, tremendo signore aveva un solo,
irragionevole scopo, e non dava né peso né valore
alle vite che spezzava. Il
suo obiettivo era trovare le Gemme dell’Infinito e portare un
presunto ordine
nell’universo distruggendo tutto ciò che gli si
parava davanti, senza
distinzioni né eccezioni. Mentre rientrava nella sua tenda o
in qualche base
fatiscente resa appena più gradevole per gli ufficiali e i
generali, con gli
stivali ancora inzaccherati dal sangue e dal fango, Loki si era
ritrovato più
volte a domandarsi se il prezzo che stava pagando in vista di una
futura quanto
sfocata vendetta non fosse troppo alto. Fino a dove e a che punto
sarebbe
riuscito a liberarsi dal peso delle inutili atrocità
commesse e a raccontarsi
la bugia che aveva ucciso e sterminato seguendo un criterio disgustoso,
sì, ma solo
e unicamente per creare il più in fretta possibile le
condizioni necessarie per
liberarsi di Thanos.
“Quella
vera, mio signore,” annunciò,
e stavolta lo sentì in tutta la sua interezza, il peso grave
e opprimente di
quel possessivo che gli era uscito dalle labbra.
“L’hanno nascosta davvero
molto bene per non farcela trovare,” proseguì,
“l’hanno occultata alla vista
con incantesimi potenti, ma io l’ho trovata lo stesso, ho
intercettato anche
questa.” Increspò l’angolo esterno
delle labbra verso l’alto sforzandosi di sfoggiare il sorriso
soddisfatto del
tirapiedi zelante la cui parte era costretto a recitare, lui, che era
nato per
essere re.
Il Titano lo
soppesò per un momento
troppo lungo, quasi volesse valutare quanto fosse affidabile e sicuro.
“Organizzerai la spedizione di recupero,
Ingannatore,” ordinò infine senza
entusiasmo. “So che hai passato del tempo con tua moglie,
ultimamente.”
Del
tempo.
Loki sentì l’adrenalina scorrergli nelle vene, si
sforzò di mascherare ogni
traccia di sorpresa, stupore, terrore. Del tempo. Una sera sola non
è “del tempo”.
Sono ore rubate al Fato
filato dalle Norne, minuti spesi a ricordarsi com’era la vita
prima di diventare
uno schiavo. Ricoperto di mostrine e con le insegne lucide, certo, ma
pur
sempre un subalterno, un servitore che potrebbe essere rimpiazzato in
ogni
istante. Si sforzò di utilizzare un tono di voce mellifluo e
distante. Chissà
chi era, l’intrigante ficcanaso bastardo che si era
preoccupato di spargere la
voce di quella notte in cui lui si era soffermato nella stanza per gli
ospiti
allestita per la regina di Vanheim fino all’alba. Forse uno
dei commensali
impomatati che li aveva visti lanciarsi occhiate troppo lunghe e
intense? Oppure
la spia era l’attendente che, per un momento, aveva guardato
la porta chiusa
oltre le sue spalle dove sapeva esserci Sigyn? Non
voglio rubare tempo alla vostra udienza privata con la regina,
si era azzardato a dire, e Loki non lo aveva corretto né
redarguito perché
aveva nelle narici l’odore di lei e la desiderava e voleva
ribadire il suo
possesso, la conquista dai capelli d’oro che stava per cadere
di nuovo tra le
sue braccia.
“Il
prezzo di una firma,” spiegò
asciutto, ma il sangue Jotunn gli ribollì nelle vene, al
pensiero di dover dare
spiegazioni a qualcuno circa il suo operato – peggio, tra le
lenzuola.
Thanos
annuì appena. “Ti ha dato dei
figli. Anche un maschio, mi pare.”
“Un
bambino di pochi anni,” minimizzò
Loki scrollando le spalle.
“Ci
occuperemo anche di lui.”
“È
presto, mio signore. È davvero
presto.” Il dio degli inganni
puntò lo sguardo chiaro e quasi trasparente sul Titano,
dimenticando
improvvisamente i suoi orgogliosi tentativi per non piegarsi
definitivamente di
fronte a lui – non più di quanto avesse
già fatto, ad ogni modo.
Quello gli
rivolse un’occhiata in
tralice. “Voialtri asgardiani succhiate il latte materno con
le armi già in
mano. Anzi, succhiavate,”
puntualizzò
con una nota di disprezzo, rievocando la città degli Asi
distrutta. “Vuoi che
per il tuo piccolo erede sia diverso, Loki?”
“So
bene qual era la regola, ad
Asgard. Non appena sarà il momento, andrò di
persona a Vanheim affinché faccia
quello che deve: diventare un tuo soldato, nobile Thanos.”
La voce di Loki
risuonò sicura e
decisa come lo sguardo fiero e determinato che rivolse al Titano, anzi:
c’era,
nel suo tono, l’ombra di un lieve compiacimento, come se
l’idea che il più
giovane dei suoi figli potesse presto vestire le insegne blu e rosse di
Thanos
fosse un vanto. Era una menzogna atroce, ovviamente, una delle
più false che
gli era mai uscita dalle labbra. Il solo pensiero di ficcare il figlio
in una
delle orrende accademie militari da cui sarebbe uscito solo per
arruolarsi
nelle fila del Titano rappresentava un incubo atroce che quasi non
aveva
corrispettivi. Era vero, gli Asi iniziavano a combattere più
o meno all’età di
Vali, ma la loro innocenza veniva tutelata e preservata il
più possibile
dall’occhio vigile di maestri selezionati con cura. Il dio
degli scherzi e
degli inganni aveva visto molte cose, nella sua vita, forse persino
troppe.
Conosceva bene il cuore degli uomini e le ombre che, talvolta, lo
divoravano,
ed era proprio grazie alla sua acuta e appuntita capacità di
analisi che, dopo
tante battaglie, era ancora vivo. Il pensiero doloroso che gli era
balenato in
testa la notte infinitamente lunga in cui Sonje era nata –
che lui non dovesse
avere una progenie di nessun tipo perché aveva troppi nemici
– si affacciò di
nuovo nella sua mente insinuandosi come una scheggia[11].
Suo figlio era
un bambino di pochi
anni che a malapena lo ricordava, un principino molto amato del tutto
incapace
di sopravvivere alla schiavitù e ai soprusi cui i ragazzini
venivano sottoposti
una volta inquadrati nelle file di Thanos. Circondato com’era
sempre stato
dall’affetto e dal tepore della calda e luminosa Vanheim,
Vali non aveva i
mezzi e gli strumenti per resistere nemmeno un giorno in mezzo al fango
e alla
fame e non perché ritenesse che il suo erede fosse
invariabilmente debole, ma
per una delle sue constatazioni precise quanto amare: al Titano non
interessava
affatto addestrare un nuovo futuro generale. Lo schiocco, se ci fosse
stato,
sarebbe avvenuto molto prima e dopo, con tutta probabilità,
non ci sarebbe
stata alcuna necessità di avere un esercito. No, Thanos
voleva semplicemente
controllare maggiormente lui, Loki, di cui, a ragione, non si era mai
fidato
del tutto. Desiderava testare la sua devozione e, perché no,
anche torturarlo con
il peso della conoscenza.
Il figlio maschio del dio degli inganni, per quanto
fosse nient’altro che un bambino, era una pedina importante
nello scacchiere
politico dei Nove Regni anche se non sarebbe mai diventato re di
niente, esattamente
come lui. Avrebbe, invece, raccolto il peso delle molte malefatte che
Loki
stesso aveva compiuto, pagando sulla propria pelle per atti di cui non
era
responsabile. Che vendetta facile e squisita sarebbe stata, per i suoi
nemici,
quella che avrebbe avuto per oggetto Vali! Anche i più
insignificanti e luridi
tra quanti lo volevano vedere morto, coloro che Loki avrebbe potuto
schiacciare
senza problemi sotto le suole dei suoi alti stivali in qualsiasi
momento,
avrebbero finalmente avuto l’occasione per fargliela pagare
nel più atroce dei
modi. Un ricordo sepolto nel tempo tornò improvvisamente a
galla, uno di quelli
che non si concedeva mai di ricordare: Vali aveva mosso i primi passi
sotto il
suo sguardo orgoglioso, fierissimo. Lo aveva raggiunto barcollando sul
tappeto
del salotto, le braccine tese nel tentativo di afferrarlo, e il dio
dell’inganno si era ritrovato a stupirsi per quella conquista
semplice eppure
eccezionale.
Deglutendo, si
chiese se Odino avesse
provato lo stesso vuoto nel petto, la prima volta che li aveva visti
nelle file
dell’esercito di Asgard. La sua mente svelta e aguzza
arrivò anche a sfiorare
il pensiero di Laufey e del suo sguardo scarlatto, ma
accantonò immediatamente
quel pensiero a favore di un altro, ben più terribile. Sigyn. S’immaginò
nell’atto di eseguire la promessa che aveva
appena fatto a Thanos e di portarglielo via. Pensò alle
lacrime che lei avrebbe
versato, allo sguardo tremendo che gli avrebbe rivolto. Poteva
sopportare la
sua lontananza, ma quella di suo figlio no, non ne era in grado.
“Ancora
pochi mesi e sarà pronto,”
concesse modulando accortamente la voce. “Non è
opportuno accelerare i tempi. Come
con la Gemma, dobbiamo essere cauti, per ottenere il migliore risultato
possibile.”
L’allusione
tetra e forse troppo
rivelatoria chiuse finalmente il pesante dialogo. Thanos finse di
credere alle
sue parole bugiarde e di condividere la posizione che aveva espresso;
gli
affibbiò altri compiti scomodi riguardanti il recupero
dell’ultima reliquia e
poi, finalmente, si decise a lasciarlo andare.
Allontanandosi
dalle stanze del
tiranno, Loki non riuscì a trattenere un sospiro grave e
basso, a malapena
soffocato dal rumore secco dei suoi stivali sulla pietra del corridoio.
Si
chiese a che punto fosse Thor con l’organizzazione del loro
piano. Increspando
le labbra in una smorfia infastidita, ripassò per
l’ennesima volta il piano
precisissimo che aveva ideato il giorno in cui Asgard si era
trasformata in un
mucchio di cenere e rovine, che si era dato la pena di limare e
perfezionare
ogni giorno per anni – che continuava ad aggiustare persino
in quel momento,
perché ogni dettaglio doveva essere perfetto. Anche se il
tempo a sua
disposizione era spaventosamente poco e la speranza di sopravvivere
scarsa, lui
e Thor avrebbero messo a segno la loro vendetta: presto, sarebbe stata
la testa
calva di Thanos ad essere infilata su una picca. Ecco quanto poteva
essere
spaventosa la rappresaglia degli Asi. Di fronte a quel pensiero forse
troppo
intriso di speranza, Loki stirò le labbra in un ghigno
feroce.
Continua…
L’angolo
di Shilyss
Cari Lettori che
siete
arrivati fin qua,
Voglio
ringraziare
tutti coloro che hanno recensito, preferito, ricordato e seguito questa
storia.
Grazie davvero, ogni riga è per voi ♥ Per quelli
che non lo hanno fatto, vi
ricordo che su Efp è possibile utilizzare delle liste:
usatele, non vi costa
niente e farete un Autore felice! ^^
Vi avevo
promesso un
capitolo a stretto giro e, avete visto? Voi avete nutrito la Fatina
(grazie ♥)
e io ho avuto una botta d’ispirazione unica (merito del fatto
che sto
metabolizzando pian piano l’Infinity War). Allora, purtroppo
che Vali debba
espiare per le colpe del padre è canone nel mito. Ci sono
dei riferimenti
riguardo a ciò che potrebbe capitare al bambino se fosse
strappato alla madre.
Il rating di questa storia è arancione e lo
rimarrà: pertanto, non leggerete
nulla di più sconvolgente a delle allusioni come quelle di
oggi. Non è affatto
detto che io sia così crudele con Vali come nel mito,
però trovo giusto partire
dalle medesime basi. La connotazione un po’ alla Seconda
Guerra Mondiale di Thanos
sono un mio canone che spero
possiate gradire.
La Fatina
dell’Ispirazione necessita sempre delle vostre cure per poter
spandere i suoi
glitter! Per ulteriori info e un po’ di
divertimento… c’è la mia pagina
facebook ♥ https://www.facebook.com/Shilyss/
Ricordo che Vanheim e l’Impero di Thanos così
come QUI sono intesi e
descritti, con questo ordinamento
sociale, politico e culturale sono una mia
idea: vi pregherei di non utilizzarla o, di inserire un disclaimer
apposito
in cui dichiarate i credits ♥. Anche
il personaggio di Sigyn, tolto quello che trovate
alla
voce “Sigyn” su Wikipedia, è una mia
personale
interpretazione/reinterpretazione/riscrittura.
Vostra,
Shilyss
[1]
Come raccontato in Tutte le tue bugie, la mia fanfiction che anticipa
questa!
Stessa cosa vale per il ricordo successivo.
[2]
Come raccontato ampiamente negli scorsi capitoli.
[3]
Come raccontato nel capitolo 1 della raccolta di shot: “Oltre
l’inganno.”
[4]
Ehhh sì, è proprio Gatto Thoo <3
[5]
Questa scena è un omaggio alla mia fanfiction
“Tesori, whisky e ossessioni.”
Leggetevela!
[6]
Come ricorderete, l’ametista è menzionata in Tutte
le tue bugie; sulla fede che
Sigyn porta al collo e non al dito, guardate i capitoli precedenti! ^^
[7]
È la storia legata al mito di Sif e del taglio dei capelli.
Si trova,
ovviamente, nell’Edda.
[8]
I nani punirono Loki severamente, anche se non gli tagliarono la testa.
[9]
Un omaggio a me medesima meco: mi riferisco alla mia long
“Confessioni di una
mente pericolosa.”
[10]
Una citazione da Avengers: Infinity War ovviamente (piango).
[11]
Riferimento al capitolo 2 di Oltre l’inganno, la shot
“Se solo riuscissi a
pregare.”