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Autore: Martina Murdock    12/11/2018    3 recensioni
Da quando i suoi genitori sono stati assassinati durante la Guerra Oscura, Emma Carstairs ha spesso degli incubi che la portano ad urlare nella notte dell'Istituto di Los Angeles. In quei momenti, Julian è sempre lì per lei, pronto a tranquillizzarla e strapparle una risata. Ma essere il parabatai della ragazza, quello che per la legge può essere solo il migliore degli amici, forse non è più abbastanza per lui... perché le cose cambiano. Le persone cambiano. E a volte scoprono sentimenti che forse non saranno mai in grado di confessare.
Genere: Fantasy, Fluff, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Emma Carstairs, Julian Blackthorn
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Qualcosa di sbagliato
 
 
 
Julian Blackthorn era bravo a far caso ai rumori. E non intendeva rumori da Shadowhunter, come passi furtivi o un demone che striscia o una lama che lentamente viene tirata fuori dal fodero. Sentiva anche quelli, certo, ma la sua specialità erano gli altri rumori, quelli che popolavano la notte dell’Istituto di Los Angeles.
Quelli che, più che con le orecchie, si percepivano con una sorta di istinto.
Tavvy che da piccolo si rigirava nel letto, che frignava piano perché doveva essere cambiato.
Ty che accendeva la luce della biblioteca, le notti in cui non riusciva a dormire e aveva bisogno della compagnia di Sherlock Holmes.
Livvy che tentava di uscire di nascosto, con addosso tutto meno che buone intenzioni, e Dru che accendeva il computer con il volume al minimo, guardando un film dell’orrore sotto le coperte.
Sentiva tutte queste cose, sempre, e in anni di esperienza aveva imparato che alcune azioni erano innocue, altre invece lo obbligavano ad intervenire. A volte aveva pensato a quello che gli aveva sempre detto sua madre, che quando lui era piccolo e dormiva nel lettino lei era in grado di capire se si svegliava, anche se si trovavano in stanze diverse.
Un genitore lo sa, diceva lei, e probabilmente era vero.
Julian non era un genitore, ma era la cosa più vicina a quella figura che avessero i Blackthorn di Los Angeles.
Un padre. Una madre. Un fratello maggiore.
Per quello la notte, dalla sua stanza, era in grado di sentire tutto.
Non solo i suoi fratelli.
Anche lei.
Si tirò su di colpo, districandosi dalla palla che aveva fatto con il lenzuolo. Era Emma, non c’era dubbio. Era stata lei a gridare. Rimase per un istante immobile, in ascolto, poi si alzò rapidamente, rabbrividendo solo per un secondo quando i piedi nudi toccarono il pavimento di marmo. Fece per prendere la spada angelica, perché non si sapeva mai, poi decise di lasciarla dov’era.
Quello che aveva sentito non era il grido di chi era stato attaccato, o di chi aveva visto qualcuno fare irruzione nella propria camera. Conosceva quelle urla, soffocate ma sempre udibili, perlomeno da lui.
Emma, la sua parabatai, stava avendo un incubo.
Senza preoccuparsi di mettersi qualcosa addosso (quando era andato a letto aveva una T-shirt, ma il caldo torrido del maggio californiano gliel’aveva fatta lanciare via dopo cinque minuti, quindi adesso indossava solo un paio di boxer), uscì nel corridoio, pronto a raggiungere l’altra, ma si bloccò dopo un paio di passi. Velocemente, un po’ imbarazzato, tornò indietro e recuperò la maglietta. Sarebbe passato davanti alle camere dei fratelli, e non voleva che qualcuno si affacciasse e lo vedesse girare per casa mezzo nudo come un idiota. Gli avrebbe fatto perdere tempo, e lui di tempo non ne aveva.
Doveva raggiungere Emma.
Possibilmente, prima che gridasse ancora.
La sua porta era in fondo al corridoio, e ci mise qualche manciata di secondi a raggiungerla. Esitò un attimo prima di entrare. Da dentro si sentivano i rumori di qualcuno che si rigirava nelle coperte, le molle del vecchio letto matrimoniale che cigolavano sotto il peso della ragazza.
È un letto che fa male all’autostima, diceva sempre Emma, quando lei e Julian ci si buttavano con tutta la loro forza solo per sentire quanto baccano riuscivano a fare. È fatto apposta per farti sentire grassa.
Non che credesse che fosse possibile fare sentire Emma grassa: la sua parabatai aveva il tipico fisico atletico degli Shadowhunters, muscoloso, asciutto e senza nemmeno un grammo in eccesso. La possibilità che fosse in grado di sfondare un letto era molto remota.
Ma la confusione che veniva dalla stanza era lo stesso assordante, e il ragazzo sospirò. Doveva entrare. Era così che andava, tra loro due.
Da quando, alcuni anni prima, i suoi genitori erano stati uccisi durante gli attacchi di Sebastian agli Istituti, la ragazza aveva avuto spesso incubi a cui difficilmente riusciva a sfuggire da sola. A volte, gli aveva raccontato, rivedeva la morte dei suoi, ma di solito c’era lei che affogava nelle onde, senza poter rimanere a galla per quanto battesse i piedi e si agitasse. E sì che prima dell’omicidio, Emma era stata una nuotatrice provetta. Ora all’acqua non voleva neanche avvicinarsi, e si sentiva coraggiosissima se accettava di bagnarsi fino al ginocchio.
Nei suoi sogni non era mai fino al ginocchio.
Lì l’acqua era alta, e non lasciava scampo.
Ogni volta che la sentiva gridare, o anche solo gemere, Julian si alzava e la raggiungeva nel suo letto, rassicurandola e facendole compagnia finché non si addormentavano insieme, abbracciati come quando avevano dieci anni e il loro mondo non era ancora andato in pezzi.
Quando la mamma di Julian era viva e stava bene. Quando non era stato ancora costretto ad uccidere suo padre, assoggettato al volere di Sebastian dopo aver bevuto dalla coppa infernale.
Quando Helen, sua sorella, non era in esilio, e Mark non era con la Caccia Selvaggia a cavalcare i cieli.
Quando Emma Carstairs abitava ancora con i suoi genitori.
Quando non erano parabatai.
Anche se non voleva, anche se non avrebbe dovuto, a volte Julian pensava a questa cosa. Anzi, ci pensava spesso. Non che non volesse bene ad Emma. I parabatai erano una coppia di guerrieri legati per la vita, più dei migliori amici, anche più dei fratelli. E non c’era nessuno, al mondo, a cui Julian fosse più legato di Emma. In fondo avevano passato tutta la loro vita appiccicati come cozze, fin da quando avevano meno di un anno e le loro attività insieme si limitavano probabilmente a tirarsi i capelli a vicenda e ficcarsi le mani in bocca. Avevano imparato insieme a nuotare nell’oceano, insieme erano caduti sui pattini e si erano sporcati di gelato, insieme avevano tirato palline di carta a Mark invece di studiare le rune e insieme si erano spaventati guardando film horror di nascosto dai loro genitori, per poi rimanere tutta la notte con gli occhi fissi verso l’armadio per paura che ne spuntasse fuori un mostro. Emma c’era stata quando sua madre se n’era andata all’improvviso, da un giorno all’altro, e aveva aiutato lui e Mark a fare i panini per tutti i fratelli quando loro padre era troppo depresso per potersi occupare di loro. L’aveva aiutato a prendersi cura di tutti dopo che erano rimasti soli a seguito della Guerra Oscura, ed era sempre stata disponibile, sia per farsi due risate sia per parlare seriamente.
Se ripensava alla sua vita, non riusciva ad immaginarla senza Emma.
Eppure, a volte, si era chiesto come sarebbe stato se non l’avesse avuta come parabatai.
Aveva accettato controvoglia di compiere il rito, più per non rischiare che venisse mandata in un altro Istituto che per altro, ma gli era sempre sembrato che ci fosse qualcosa di sbagliato in quell’unione.
Non sapeva bene cosa.
Qualcosa.
Un gemito proveniente dalla stanza lo riscosse dai pensieri. Per l’Angelo, quant’era scemo a perdere tempo in corridoio? Doveva svegliare Emma, prima che la sentisse qualcuno. Conosceva abbastanza la sua parabatai per sapere che non le sarebbe piaciuto affatto che uno dei suoi fratelli sapesse cosa le succedeva alcune notti. Era una delle cose che avevano in comune, per quanto diversi potessero sembrare all’esterno.
Dovevano apparire forti, sempre, come se avessero tutto sotto controllo.
Solo da soli potevano permettersi di crollare.
Aprì delicatamente la porta, i piedi nudi che si muovevano silenziosi sul legno. Nella penombra, vide Emma che dormiva a pancia in giù, le coperte lanciate un po’ ovunque e i lunghi capelli dorati sparsi sul cuscino. Si sedette accanto a lei e le posò una mano sulla schiena, solo per un attimo. Era tutta sudata, pensò Julian mordendosi l’interno della guancia, e sussultava a ogni respiro. Anche un idiota avrebbe capito che stava facendo un incubo. Le labbra contro la federa, mormorava piano, contraendo le sopracciglia in piccoli spasmi. D’un tratto prese un respiro profondo, rantolante, e il ragazzo capì che era il momento d’intervenire.
Sapeva che sogno stava facendo.
Emma Carstairs stava annegando nell’oceano.
“Emma”, sussurrò, piegandosi leggermente per scuoterla. “Emma, svegliati. Svegliati, sono Julian.”
Un altro rantolo. Sembrava non averlo neanche sentito.
D’accordo. Forse sarebbero servite le maniere forti.
Julian si appoggiò con la schiena alla testiera e poi, gentilmente ma anche con decisione, prese la ragazza tra le braccia, stringendola a sé. Ora dormiva per metà appoggiata al petto di lui, che se la teneva addosso senza farla scivolare.
“Emma. Emma, svegliati, tranquilla, è solo un sogno. Ci sono qui io.”
La ragazza emise un suono strano, a metà strada tra un gemito e un singhiozzo, e gli si strinse addosso con uno spasmo.
“Aiuto…”, riuscì a capire il ragazzo in quello che la sua parabatai stava farfugliando. “Aiuto… aiutatemi, vi prego…”
“Emma!” Senza più preoccuparsi della delicatezza, la scosse come se fosse stata una bambola, e lei sussultò. Aprì gli occhi di scatto, girandosi nel suo abbraccio per guardarlo in faccia, l’espressione attonita di chi ancora non si è ben svegliato.
“Jules?”, mormorò incerta, sbattendo le palpebre. Aveva ancora il fiato corto, e sulle guance chiari segni di lacrime.
Lacrime sulla sua Emma, che non piangeva mai. Istintivamente, senza stare a pensarci, si trovò ad asciugargliele con il dito, proprio come aveva sempre fatto con quelle dei suoi fratelli quando erano più piccoli. Sotto il suo tocco, la pelle abbronzata della ragazza era morbidissima.
“Sì, sono io”, rispose senza lasciarla. “Stavi sognando, ma è tutto okay, adesso.”
Lei lo guardò per qualche istante in silenzio, forse ancora un po’ intontita, e poi tirò un lungo sospiro tremante, di quelli che forse non portano al pianto ma ci vanno molto vicino.
“Tu non hai idea”, sussurrò, sistemandosi meglio nell’abbraccio. “Stavolta sembrava proprio vero.”
“Cos’hai sognato? Il mare?”
“Eravamo in missione, io e te”, cominciò lei, e rabbrividì contro il suo petto. Indossava solo una canottiera bianca e un paio di culottes, e Julian riusciva a sentire la pelle d’oca attraverso il sottile strato di stoffa. “Tipo su un pontile, come quello che c’è a Santa Monica.”
“Non sembra un brutto sogno”, commentò Julian per sdrammatizzare, districando un braccio dalla presa solo per accarezzarle i capelli. Adorava i capelli di Emma. Assomigliavano ad una cascata di luce, di un biondo dorato che riusciva a sembrare irreale senza apparire finto. Con i pennelli aveva provato migliaia di volte a replicare quel colore, ma non c’era mai riuscito. Non c’era niente che eguagliasse l’originale. “È un bel luna park. Dovremmo tornarci, una volta o l’altra.”
Ciò che ottenne fu una gomitata in pieno stomaco, ma anche una risatina.
E, in una situazione del genere, era contento di essere riuscito a farla ridere.
“Non lo diresti se lo avessi visto nella mia versione. Ad un certo punto si alzavano le onde… però non erano onde normali. Erano come braccia, braccia senza mani… tentacoli, diciamo… e ti afferravano e ti portavano giù. Erano talmente forti che nessuno riusciva a divincolarsi, e allora ci nascondevamo, ma poi…”
“Ti hanno preso.”
Lei lo guardò fisso, per una volta molto seria. L’oceano le faceva sempre quell’effetto: “Hanno preso te. E allora io sono uscita dal nascondiglio e mi sono messa ad agitare Cortana, ma i tentacoli erano fatti d’acqua e non gli facevo niente, e… ad un certo punto hanno catturato anche me. Jules…” Si bloccò.
“Shh. È finito, adesso. E non devi continuare se non vuoi.”
Lei respirò a fondo, un respiro lungo e tremante che gli fece stringere il cuore. Emma era una guerriera, la più tosta che avesse mai conosciuto, e si buttava in qualunque situazione a testa bassa, senza stare a pensarci due volte. E una volta aveva amato il mare. Ci avevano passato ore, loro due, surfando, facendo il bagno o semplicemente cercando di affogarsi a vicenda.
Ora una cosa del genere sarebbe stata fuori questione.
“Ormai ti stavo raccontando”, disse alla fine. Non si era ancora staccata da lui, ma a Julian andava benissimo. Del resto, lui non aveva ancora smesso di accarezzarle i capelli. “Ecco, c’ero io che ti cercavo in acqua… solo che non ti vedevo, e i tentacoli mi ributtavano sempre giù, e non riuscivo… non riuscivo a rimanere a galla. Jules, è stato bruttissimo.” Fece un sospiro strano. “Poi dopo un po’ mi è sembrato di vederti… dentro l’acqua, come se stessi andando a fondo… ma sembravi… Jules, sembravi…”
Non c’era bisogno che terminasse la frase. Lo sapevano benissimo entrambi, cosa sembrava Julian.
“Lo so”, sussurrò il ragazzo, stringendola a sé. “Lo so.”
Rimasero in silenzio per qualche istante, la quiete rotta solo dal respiro irregolare di Emma e dal fruscio della mano di Julian sulla schiena di lei. Poi:
“Sai, credo che dovrei ringraziarti. Forse mi hai allungato la vita.”
Lei lo guardò come se fosse impazzito: “Te sei scemo. Che cavolo stai dicendo?”
“Quando sogni la morte di qualcuno gli allunghi la vita, no? C’era il detto. Mia mamma me lo aveva insegnato una volta che avevo sognato la morte del nostro cane ed ero andato da lei in lacrime.” Julian si morse il labbro. Forse quello di sua madre non era stato l’esempio più azzeccato. Da quando aveva cominciato a stare male, aveva fatto almeno una decina di incubi in cui era morta, ma ciò non le aveva impedito di andarsene, alla fine dei conti.
Però Emma sorrise. Era una delle cose che più amava di lei. Anche quando era turbata, non lo rimaneva mai per troppo tempo.
“Eri palloso anche con lei, quindi? Dev’essere proprio un’abitudine quella di entrare nelle stanze della gente in piena notte con il solo motivo di scuoterle.”
“Giusto perché tu lo sappia non la scuotevo, quello lo faccio solo con te.”
“Ah, e allora cosa facevi? La chiamavi educatamente dalla porta?”
Il ragazzo arrossì: “No, mi infilavo direttamente nel lettone, ma a mia discolpa dico che avevo sette anni.”
“Che mammone.” Emma si divincolò quel tanto che bastava per mollargli un pugno sul petto, e Julian rise.
“Non c’è alcun bisogno di picchiarmi. Certo che hai proprio una gran bell’educazione. Uno viene qui, ti fa compagnia, e tu lo picchi!”
“E ringrazia che non sei Cameron. Altrimenti ti avrei già buttato fuori a pedate.”
Al sentire nominare Cameron, il ragazzo tira e molla di Emma, Julian si irrigidì appena. Cameron gli piaceva (un po’) quando erano piccoli, ma la cosa era finita lì. Era sempre stato convinto che più cresceva e più diventava idiota, e avendo diciassette anni aveva accumulato una discreta dose di idiozia. Non è che fosse proprio stupido, era solo… come tutti gli altri. Con Emma rideva e faceva il simpaticone, ma era, a parere di Julian, del tutto incapace di capirla. Diceva di voler stare con lei, e doveva essere davvero convinto di questa decisione, dato che ogni volta che veniva mollato tornava a supplicare all’Istituto, ma per lui la ragazza era solo bella, solare e da portare a letto.
Questa era una cosa che mandava Julian su tutte le furie.
Come poteva insistere con lei? Come poteva permettersi di fare pressioni a una ragazza a cui non era degno neanche di baciare la punta dell’alluce? E poi quella volta che per convincerla a nuotare l’aveva gettata in mare. Emma. In mare. Scherziamo? Era tornata a casa fradicia e sconvolta, senza riuscire a smettere di tremare, e a Julian bastava ripensarci per avere voglia di andare a casa di Cameron e riempirlo di botte.
Non sapeva perché lei si ostinasse a tornarci insieme, quando era tutto meno che presa, e sentirlo nominare, anche se era per parlare di prenderlo a calci… gli dava una strana sensazione.
Una sensazione sgradevole.
“Com’è la situazione con Cameron adesso? Sto avendo serie difficoltà a starvi dietro.”
Meno avvinghiata di prima ma sempre appoggiata a lui, Emma scrollò le spalle: “Ci siamo lasciati. Credo. Ieri gli ho detto di non farsi più vedere altrimenti lo sbattevo contro la porta finché non perdeva conoscenza, ma non mi è sembrato molto colpito.”
“Le tue minacce cominciano a non avere più effetto.”
“Finché non l’ho inchiodato al muro.” Emma gli fece un gran sorriso. “A quel punto mi sembra che abbia capito un po’ di più.” Julian scoppiò a ridere.
“Ma lo sai, vero, che domani sarà qui di nuovo?”
“Domani è un altro giorno”, replicò lei, passandosi le mani sul viso per eliminare gli ultimi accenni di lacrime. “Un nuovo giorno, una nuova battaglia.”
“Potresti chiudere le cose per bene”, disse il ragazzo dopo un istante, uno strano peso sullo stomaco. Qualche settimana prima, lui ed Emma avevano semi litigato a causa di quel coglione. Lui non avrebbe mai voluto che ci tornasse insieme dopo la storia dell’oceano, ma lei non l’aveva voluto ascoltare. Era sempre stato così, quando si trattava delle loro storie. Non sapeva perché, ma si sentiva un po’ meglio pensando a quanto anche Emma fosse stata arrabbiata, quando si era messo con la tipa dell’Istituto di Puerto Rico. “Sul serio, intendo.”
“Sì, la fai facile, te. Non capisce nulla.”
“È che ormai è abituato a sentirti urlare, la cosa non lo butta giù più di tanto. Dovresti provare in un altro modo. Fargli capire che è davvero finita.”
Lei sospirò, socchiudendo appena gli occhi. Li aveva così belli, Emma, così diversi dal colore verde-azzurro dei Blackthorn a cui era tanto abituato. I suoi erano di un marrone scurissimo, identico alle ciglia, e quando combatteva acquisivano una sfumatura d’acciaio.
“Hai provato anche tu. E non è servito a niente.”
“Certo che è servito. Mi sono divertito un sacco.”
Lei gli lanciò un’occhiata in tralice: “Non sembrava che ti stessi divertendo. Sembrava più che stessi per andare a casa sua e farlo a pezzi.”
I pugni di Julian si strinsero al ricordo, ma non permise al suo viso di mostrare neanche la più piccola contrazione. Non sapeva perché, ma non voleva che Emma vedesse che era ancora furioso per quella faccenda.
Non con lei. Con Cameron.
I pugni ancora stretti, rise: “Mi stavo divertendo all’interno. Un vero uomo non deve mostrare troppa emozione.”
“Ma sentilo, il giustiziere.” La ragazza scoppiò a ridere e lo spinse contro la testiera, il suo corpo appena inarcato contro quello di lui. “Ti chiameranno Batman.”
“Sarei stato Batman se tu mi avessi permesso di prenderlo a pugni.” Era più rilassato, adesso, e riuscì anche a sfoderare un sorriso vero. Quanto a Emma, lei sorrideva già da prima, completamente ignara.
Lei era così. Sempre ignara. Come della loro unione.
Lei non ci vedeva proprio niente di sbagliato.
Non vedeva quel qualcosa.
“Assolutamente no. Quello è compito mio.”
Julian scoppiò a ridere a sua volta, abbracciandola stretta.
“Vedi di svolgere meglio il tuo compito, allora. E comunque il mio intervento mi era sembrato abbastanza definitivo, sei tu che l’hai rovinato perdonandolo troppo presto.”
Emma fece spallucce, cosa non semplice visto che ogni pezzo del suo corpo era attaccato a quello di Julian: “Dopo un po’ mi dispiaceva per lui. Mi ha fatto pena.”
“Non si sta con qualcuno per pena. Il fatto che ti dispiaceva per lui non significa che ti piaccia. L’amore non è compassione. È… un’altra cosa.”, disse il ragazzo prima di potersi fermare. Si morse l’interno della guancia. Non gli piaceva come aveva parlato. Era un tono strano, troppo serio.
Il tono di chi sa qualcosa.
Infatti, Emma cercò di voltarsi, stavolta con un sorrisetto appena guardingo: “Mi diventi un esperto, ora? Vuoi aprire una rubrica?”
“Le rubriche non sono più di moda. Meglio un blog, o un profilo Instagram”, replicò lui, ma arrossì.
“Ma se non sai neanche usarlo, Instagram.”
“Sì, invece. Livvy la settimana scorsa è stata mezz’ora a spiegarmi tutto. Ora ho un profilo aziendale.”
“Ma dai.”
“Ti giuro. Sarò l’invidia di tutti i Nephilim.”
“Non credo. Se gli dici che hai messo un profilo aziendale, crederanno che tu abbia fondato una fabbrica o qualcosa di simile.”
“Già, probabile.”
Ci fu un momento di silenzio, ma non di silenzio opprimente.
Quelli da Emma. Quelli che sarebbero potuti durare anche un giorno intero senza essere pesanti.
Non per la prima volta, il ragazzo si chiese come sarebbe stato, condividere quei silenzi con Emma per tutta la vita, senza preoccuparsi che fosse qualcun altro ad accaparrarseli. Sapere che lei sarebbe stata lì ogni mattina, addormentata tra le sue braccia, e che forse sentendolo agitarsi si sarebbe svegliata e gli avrebbe sorriso e avrebbe detto “Buongiorno”, ma poi sarebbero rimasti entrambi zitti, godendosi il calore e il tocco dell’altro senza che ci fosse bisogno di aggiungere niente, felici di poter rimanere sotto le coperte per qualche minuto ancora.
Ecco, a volte Julian voleva cose come quelle. Non sapeva perché, le voleva e basta.
Cose che non poteva avere.
Che non poteva neanche desiderare.
“Comunque…”, disse la ragazza dopo un po’, spostandosi appena per riuscire a guardarlo in faccia. D’un tratto, sembrava un po’ insicura, cosa che per Emma era più impossibile che strana. “Prima… non intendevi Patricia, vero? La tipa che era venuta all’Istituto.”
Il cuore di Julian fece un balzo. Visto?, gli disse la vocina che viveva nella sua testa, quella che ogni giorno cercava di mettere a tacere. Lo vedi che anche lei si interessa, che anche lei indaga? Lo vedi che chiede? Cosa può significare, secondo te?
“No”, rispose, cercando di sembrare calmo. “Non intendevo nessuno. Parlavo in generale.”
“Ah, ok”, rispose Emma, fiduciosa come sempre. No, disse alla vocina, non significa niente. Lei è così, se si parla di relazioni cade dalle nuvole. È stata solo con Cameron, ma non conta, non del tutto. Qualsiasi cosa possa dirmi, è completamente priva di malizia. “Perché me lo chiedevo da un po’, ma mi scordavo sempre di parlartene… con lei non era una cosa seria seria, no? Era solo…”
“Non era niente”, fece lui con un sorriso, cingendole meglio la schiena. “Era una sciocchezza, e ora è finita. E comunque, non ci ho perso granché. Non aveva neanche un po’ di senso dell’umorismo.”
“Quindi è per questo che te ne vai sempre in giro con me. Ti faccio ridere.”
“È una qualità importante, in una ragazza.”
“E sentiamo un po’, che altre qualità dovrebbe avere?” Emma aveva in faccia un sorriso malizioso, ma Julian si rese conto di non avere voglia di giocare.
Cosa avrebbe potuto dirle?
Che doveva avere i capelli biondo dorato, di una sfumatura talmente particolare da rendere impossibile ricrearla sulla tela?
Che doveva sapere sempre la cosa giusta da dire quando le responsabilità di gestire un Istituto lo schiacciavano, ma che al tempo stesso doveva essere una valida avversaria nella lotta con i cuscini?
Che doveva avere una fissazione per i vestiti vintage e la paccottiglia da turisti, e che doveva farlo girare per ore in brutti negozi del centro che avevano urgente bisogno di una ripulita?
Che aveva paura del mare, ma di nient’altro?
Respirò a fondo, d’un tratto incapace di mandare aria ai polmoni.
Era questo che doveva dire ad Emma?
Che doveva essere lei, perché il suo cuore non aveva mai considerato nessun’altra?
Mentre la guardava osservarlo sorridente, per la prima volta in vita sua ne ebbe la certezza. Non erano sensazioni. Non erano momenti di confusione, dovuti al fatto che era solo o che le altre ragazze che aveva avuto fossero così sbagliate.
Era reale. Era così, per lui.
Nessuna ragazza poteva essere giusta, perché solo Emma lo era.
Solo Emma lo era sempre stata.
Solo che non poteva dirglielo, né quella sera, né mai.
“Non è che c’è una lista di caratteristiche”, borbottò, togliendole il braccio da dietro la schiena e sdraiandosi con la testa appoggiata ai duemila cuscini che la ragazza aveva collezionato negli anni. Su quello che aveva scelto, due mariachi lanciavano in aria i sombreri e gridavano “Messico!” Era un pochino kitch (d’accordo, togliamo il pochino), ma a breve sarebbe arrivata una Shadowhunter messicana per il suo anno all’estero e quello era il modo di Emma di essere contenta della sua presenza. Guardandolo storto, la ragazza sbuffò:
“Dai, non fare il musone! Voglio delle qualità, ora.”
“Ma non lo so… dai, Emma, forse dovremmo dormire. Se non sbaglio, domani Diana vuole venire a far lezione alle otto.”
“Le nove”, lo corresse lei, guardandolo con le sopracciglia aggrottate.
“Ecco, appunto. Sono già le quattro e mezza. Me la concedi qualche ora di sonno, adesso che hai finito con i mostri marini?”
“Non erano mostri marini. Erano fatti d’acqua.”
“Sì, ma stavano nel mare, no? Quindi erano marini.”
“Semmai oceanici.”
“Chi ha mai sentito parlare di mostri oceanici?” Risero, poi lui la tirò giù. “Dico sul serio, dovremmo dormire un po’.”
La ragazza sospirò: “E va bene, se ci tieni tanto. Ma la discussione è solo rimandata.” Fece una breve pausa. “Tu rimani qui, però.” Lo sguardo nei suoi occhi non lasciava spazio a risposte negative.
Una parte di Julian voleva solo scappare lontano, prima che lei capisse ciò che era successo nella sua mente e provasse disgusto, ma non ce la faceva a lasciarla.
Non ce la faceva mai.
“Io… ok, d’accordo. Ma non rubarmi tutto il lenzuolo.”
“Tanto fa caldo.”
“Tu non rubarmelo lo stesso, altrimenti me ne vado.”
“Sei un rompiballe.”
“E tu una ladra.”
Senza rispondergli, Emma gli si raggomitolò contro, appoggiandogli la testa sulla spalla. I suoi capelli gli facevano un po’ il solletico, ma non li spostò. Averli addosso era un privilegio, in fondo: non sapeva per quanto gli sarebbe stato accordato.
“Dormi”, le sussurrò, baciandola sulla fronte come faceva sempre i quei casi. Da una parte era triste vedere la naturalezza con cui lei accettava quel gesto, come se fosse un bacio fraterno di cui non doveva preoccuparsi. “Ci sono qui io, adesso. Qualunque incubo tu faccia, lo affronteremo insieme.”
Di nuovo lei non rispose, e presto scivolò nel sonno, il respiro lento e regolare contro la pelle del ragazzo.
Julian, dal canto suo, non riusciva a dormire.
Perché adesso sapeva cosa c’era di sbagliato nel patto che avevano stretto.
Sapeva cos’era quel qualcosa che lo aveva turbato quando aveva accettato il legame.
I parabatai non potevano stare insieme.
Rimase a guardare il soffitto bianco finché la notte non lasciò spazio all’alba.

Nota dell'autrice: Julian ed Emma sono una coppia che adoro, quindi ad un certo punto scrivere qualcosa su di loro mi era diventato necessario. Ho voluto ricreare la mia versione di quello che considero un momento molto importante, ovvero quando Julian si rende conto di ciò che prova per Emma (e lei, purtroppo, no;)), ma ripeto che è la mia versione, e che quindi è per questo se alcune cose, soprattutto per quanto riguarda le precedenti relazioni dei due protagonisti, non si attengono del tutto alla trama originale. L'avevo già pubblicata più o meno una settimana fa, ma l'ho cancellata e rimessa a causa di un errore di battitura nel titolo che mi faceva sembrare una cialtrona. Scusate, giuro che di solito sto più attenta ;) In ogni caso, se sei arrivato/a a leggere fin qua grazie mille, spero che ti sia piaciuta almeno la metà di quanto io mi sia divertita a scriverla! Se vuoi lasciare un'impressione o un commento mi farebbe molto piacere, sono curiosa di sentire un parere! Vostra,

Martina Targioni Writer (Martina Murdock)
   
 
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