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Autore: crazy lion    13/11/2018    5 recensioni
Attenzione! Spoiler per la presenza nella storia di fatti raccontati nel libro di Dianna De La Garza "Falling With Wings: A Mother's Story", non ancora tradotto in italiano.
Mancano diversi mesi alla pubblicazione dell’album “Confident” e Demi dovrebbe concentrarsi per dare il meglio di sé, ma sono altri i pensieri che le riempiono la mente: vuole avere un bambino. Scopre, però, di non poter avere figli. Disperata, sgomenta, prende tempo per accettare la sua infertilità e decidere cosa fare. Mesi dopo, l'amica Selena Gomez le ricorda che ci sono altri modi per avere un figlio. Demi intraprenderà così la difficile e lunga strada dell'adozione, supportata dalla famiglia e in particolare da Andrew, amico d'infanzia. Dopo molto tempo, le cose per lei sembrano andare per il verso giusto. Riuscirà a fare la mamma? Che succederà quando le cose si complicheranno e la vita sarà crudele con lei e con coloro che ama? Demi lotterà o si arrenderà?
Disclaimer: con questo mio scritto, pubblicato senza alcuno scopo di lucro, non intendo dare rappresentazione veritiera del carattere di questa persona, né offenderla in alcun modo. Saranno presenti familiari e amici di Demi. Anche per loro vale questo avviso.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Demi Lovato, Joe Jonas, Nuovo personaggio, Selena Gomez
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Ciao ragazze, sono tornata!
Allora, prima di tutto una cosa importantissima: Demi Lovato (quella vera, intendo) è uscita dalla clinica! Facciamole tutte un augurio perché possa riprendersi e stare bene. È stato così bello leggere quella notizia! Sono molto sollevata. Preghiamo per lei.
 
In secondo luogo, in questo capitolo mi sono concentrata di più sui sentimenti di Demi che su quelli di Mac, anche se ci saranno suoi punti di vista, ma è una cosa voluta. Il tutto Avrebbe dovuto essere molto più lungo e trattare di più giorni, ma purtroppo siccome non sto tanto bene non sono riuscita a scriverlo, quindi il resto sarà spiegato nel prossimo. Comunque queste sono quindici pagine, direi abbastanza. :) Ma l’importante è che siano scritte bene e coinvolgenti, ditemi cosa ne pensate.
E niente, ci vediamo il prima possibile con il capitolo centocinque. E vi annuncio che, a meno di imprevisti (cosa che spero non accadrà) mancano sedici capitoli alla fine! Ce l’ho quasi fatta, incoraggiatemi!
Grazie come sempre per il supporto e le recensioni! Vi adoro tutte quante, e commuovendomi vi dico sinceramente che senza di voi non sarei arrivata dove sono ora.
 
 
 
 
 
 
104. PROBLEMI E CALORE UMANO
 
Paralizzata. Era questa l’unica parola che veniva in mente a Demi: era completamente bloccata dall’ansia e dalla frustrazione e da Dio solo sapeva cos’altro. Era con Hope che, quando l’aveva vista piangere, aveva ricominciato a farlo anche lei dopo qualche secondo di pausa. Demi non sapeva che fare. O meglio sì, ma non riusciva a muovere un muscolo e si malediva per questo. Era solo ansia, dannazione! “Solo” era una parola grossa, ma comunque era consapevole del fatto che avrebbe dovuto essere più forte di lei almeno momentaneamente. Con uno sforzo che le parve immane riuscì a fare qualche passo e ad avvicinarsi al lettino, sentendo le gambe sempre più deboli.
“Ehi” riuscì a mormorare, “sono qui, sta’ tranquilla.”
In quel momento le squillò il cellulare.
“Merda” sussurrò la ragazza vedendo che era Phil. Non si sentiva in vena di rispondere, proprio no, ma dato che probabilmente si trattava di lavoro non poteva fare altrimenti. “P-pronto?”
Ecco, fantastico, aveva balbettato. Ora lui si sarebbe accorto di qualcosa.
“Demi, ma tu per caso, per caso, eh, ti sei resa conto che stamattina alle nove avrebbe dovuto venire Lil per registrare la versione finale della canzone e nessuno si è presentato perché tu hai detto che potevamo iniziare alle dieci?”
Le ci volle qualche secondo per realizzare ciò che il suo manager aveva appena detto parlando a macchinetta, anzi, quasi urlando. Non era lei a scegliere gli orari di lavoro, di solito, ma per quel giorno si era presa la libertà di farlo dato che aveva pensato che, tanto, con l’album erano a buon punto e per il documentario ci sarebbe stato tempo.
Oh, santo cielo! Se n’era completamente dimenticata! Le mancò il fiato e, per un momento, si sentì sprofondare. Avrebbe voluto prendere a pugni qualcosa, anzi qualcuno: se stessa. In tanti anni di carriera non aveva mai commesso uno sbaglio del genere.
“Io… io non…” balbettò, a disagio.
Ed ora come sarebbe uscita da quella situazione? Era colpa sua, aveva dato lei a tutti un orario diverso e di sicuro Lil aveva chiamato in studio numerosissime volte in quell’ora per capire che cavolo stava succedendo e come mai non c’era nessuno.
“Non te ne ricordavi, vero? Beh, abbiamo fatto proprio una figura di merda con lui!” continuò il manager alzando la voce. “E non è solo colpa tua” proseguì addolcendosi un poco.
“Non so come sia potuto succedere, non…” L’ansia stava aumentando in maniera vertiginosa tanto che dovette sedersi sul letto mentre Hope la guardava perplessa. “Q-quante volte ha chiamato?”
“Circa una sessantina.”
“Gesù Cristo” sibilò fra i denti. Per quanto odiasse nominare il nome di Dio invano, quella volta le era venuto quasi spontaneo e si odiò per questo. “E perché quando siamo arrivati nessuno mi ha detto niente?”
“Perché sei partita subito in quarta e non volevo mandarti in crisi. Comunque alla fine ha lasciato un messaggio in segreteria piuttosto scocciato dicendo che verrà domani mattina alla stessa ora e che faremo meglio a farci trovare e ad avere una buona giustificazione, altrimenti niente collaborazione.”
Demi sentì un nodo contorcerle lo stomaco.
“Mi prenderò io tutta la colpa” mormorò.
“Gli parleremo insieme, non è giusto che tu…”
“Ho detto che me la vedo io!” sbottò, battendo la mano libera sul letto. “Ho fatto un casino, non ho mantenuto la parola data, avevo la testa da un’altra parte ma non posso permettermi questo mentre lavoro. È colpa mia, Phil. Non posso credere di aver fatto una cazzata simile! Non posso crederci!” proseguì dandosi piccole pacche sulla fronte. “Ma che idiota sono? E poi questa giornata è iniziata di merda, è continuata abbastanza di merda, sta proseguendo da schifo anche ora e probabilmente finirà di merda, giusto?”
“Ehi, calmati.”
“No, non mi calmo!”
Demi quasi urlò, ma si controllò per non svegliare Mackenzie - sperando di non averlo già fatto - e di non spaventare Hope.
“Che hai?” le domandò il manager con dolcezza. “Abbiamo tutti saltato un appuntamento ed è una cosa gravissima, ma non puoi essere così nervosa solo per questo. Sei agitata, ansiosa, sento il tuo respiro affannoso attraverso il telefono. Demetria, non farmi preoccupare. È successo qualcosa?”
“Mackenzie è vittima di bullismo.”
Sganciò la bomba così, senza girarci intorno, tanto non avrebbe avuto senso.
“Che cosa?” le domandò Phil apprensivo. “Ma sei sicura?”
Era una domanda stupida, lo sapeva, ma il manager si aggrappò alla speranza che non fosse vero.
“Sì, al cento per cento” confermò la ragazza. “Avevo dei sospetti e in questi giorni sono riuscita a farla aprire.”
“Mio Dio Dem, è tremendo!”
Era sconvolto, ma non voleva metterle ancora più ansia.
“Lo so. Ed oggi è stata trattata piuttosto male ed io… ne parliamo domani, ti dispiace?”
“No, ma è ovvio che non stai bene. Vuoi che venga lì?”
“No” sussurrò, così piano che Phil quasi non la sentì. “No tranquillo.”
“Ti prego, non dirmi di stare tranquillo! Non lo sono mai, quando stai male.”
Demi sorrise appena. Phil era così premuroso!
“Lo so, ma non si tratta solo di me stavolta.”
“Lei come sta?”
“È spossata e scossa, ma vedremo di risolvere questo casino con la psicologa e la scuola.”
“È per questo che dici di aver avuto la testa da un’altra parte, immagino.”
“Esatto; e per l’incidente, ovvio. È successo pochissimo tempo fa.”
“Già… Come va la testa?”
“Ogni tanto fa male, ma è sopportabile. Ci vediamo domani e risolveremo il disastro che ho combinato… Dimmi che lo faremo, che ci riusciremo!” lo implorò.
“Ce la faremo, Dem. Tu ora pensa solo a calmarti e alle tue figlie, d’accordo? Il lavoro aspetterà domani.”
“Okay. Grazie, Phil.”
“Di nulla.”
Una volta messo giù il telefono, la ragazza prese Hope in braccio e si diresse in cucina.
“La tua mamma è un disastro, oggi!” esclamò. “Un casino totale!”
La bambina stava per rimettersi a piangere a sua volta, ma Demi si affrettò a calmarla, poi prese in mano il cellulare e compose un numero.
 
 
 
Mackenzie stava sognando. Correva in una fitta foresta e continuava a scivolare a causa del terreno bagnato da una recente pioggia. Il cielo era plumbeo, il che rendeva quel luogo ancora più spaventoso soprattutto per una bambina della sua età. Non sapeva che cosa ci facesse lì, né dove si trovasse con precisione e né, soprattutto, come avrebbe fatto a tornare a casa. Le mancavano i genitori e sua sorella e non potendo parlare non sarebbe nemmeno riuscita a chiamarli. Provò ad urlare ma non accadde niente. Non era giusto. A volte, quando aveva sognato qualcosa di brutto o aveva avuto paura ce l’aveva fatta, e invece adesso che sarebbe stato necessario…
“Ti ho trovata, finalmente!”
La voce alle sue spalle era tutt’altro che rassicurante. Per un momento aveva pensato che si trattasse dell’uomo cattivo, il che l’avrebbe terrorizzata a morte, invece era James. Aveva comunque paura di lui, inutile negarlo. Non si girò nemmeno a guardarlo e riprese a correre il più veloce possibile per tentare di seminarlo, ma sentiva i suoi passi sempre più vicini e a volte poteva udire il suo respiro. Era come una preda spaventata e inseguita dal cacciatore, e di solito quelle cose andavano a finire male.
“Giuro,” sibilò il bambino, “che se hai parlato a qualcuno di quello che ti sto facendo…”
 
 
Aprì gli occhi di scatto dopo aver tremato violentemente. Si mise a sedere, sudata e in lacrime. Che cos’avrebbe voluto farle James nel sogno? Gettarla a terra e darle uno schiaffo? Dirle ancora cose orribili?
Sentì dei passi frettolosi e subito la mamma le fu accanto.
“Amore, sono qui. È tutto finito, piccola! Hai avuto un incubo? Eh?”
Mac annuì e Demi la strinse forte.
“Ti va di scrivermi cos’hai sognato?”
Fece cenno di no e rifletté sul fatto che, quando i bambini la vedevano girare con i fogli in mano o con quello zainetto nel quale a volte li portava per comodità, dovevano sempre pensare che in effetti lei era diversa da loro. Potevano vederlo in ogni momento: quando scriveva per parlare con Lizzie, quando rispondeva alle domande degli insegnanti sempre nello stesso modo, e poi aveva quelle cicatrici sul viso che si vedevano parecchio e non parlava, e il suo colore della pelle era diverso, e… I pensieri erano così tanti che rimase senza fiato come se li stesse dicendo ad alta voce.
“A che stai pensando?”
La mamma se n’era accorta. Ma come faceva a capire così tanto di lei?
Mackenzie si rassegnò ad alzarsi e prendere un foglio - che poi, già che c’era, si sentì anche in colpa per tutta la carta che utilizzava. Le maestre a scuola dicevano che non bisognava sprecarla per non far male all’ambiente, e anche se lei la usava per necessità ci era stata male, quando l’avevano detto -, ma ora basta pensare. Mise su carta tutti quei pensieri, tanto la madre li avrebbe  scoperti comunque prima o poi, e sotto disegnò gli alberi e due bambini che correvano.
Quando Demi lesse e guardò il disegno rimase positivamente impressionata. Mackenzie era molto brava, sembrava che quei bambini fossero, se non veri, quasi e l’atto di correre, con le gambe una davanti all’altra era riprodotto abbastanza bene.
“Sei fantastica nel disegno, lo sai?”
Lei sorrise.
Grazie.
“No, davvero, è bellissimo! Anche se immagino ti abbia fatto male quel sogno, quindi non avrei dovuto dirlo. Scusa.”
Non scusarti, non hai fatto nulla di male.
Demi avrebbe voluto parlarle di ciò che aveva scritto, ma vedendola ancora molto stanca e con gli occhi arrossati preferì rimandare a dopo, o magari al giorno successivo quando si sarebbe calmata ancora di più.
“È tutto finito, adesso” mormorò stringendola ancora. “Non sei in quel bosco, sei qui con me. Va tutto bene, capito?”
Sì.
Mac sorrise ancora, rilassandosi un po’. Stava meglio adesso che la mamma era lì vicino e le parlava.
“Vuoi una tisana ai mirtilli? Ti aiuterà a rilassarti.”
Le avrebbe proposto una camomilla, ma sapeva che quella bevanda la faceva vomitare. Era un’altra delle cose che le accomunava. Le tisane, invece, di solito le piacevano.
Sì, va bene.
“Mac Mac!” esclamò Hope una volta che la mamma si fu allontanata.
Fino a quel momento, da quando Demi era andata in salotto con lei, aveva giocato sul tappeto proprio accanto a loro. Adesso invece si era letteralmente buttata addosso a Mackenzie che, ridendo, la sollevò e la mise sul divano. Sedute l’una accanto all’altra, le due bambine si presero per mano e rimasero così, lanciandosi dolci sguardi e sorridendosi a vicenda fino a quando la mamma tornò.
“Siete sempre bellissime, insieme” commentò.
Mackenzie abbracciò forte Hope e la bambina ricambiò ridendo, cosa che fece sciogliere il cuore della madre. Si amavano con tutto il cuore.
Dopo aver bevuto la tisana Mackenzie si sdraiò di nuovo e, anche se non l’avrebbe voluto, si addormentò un’altra volta. Quella bevanda l’aveva aiutata a rilassarsi e le paure di poco prima erano svanite.
 
 
 
Dianna era seduta sul divano a guardare la televisione per rilassarsi. In fondo aveva appena passato un bel weekend, nonostante le cattive notizie che Demi le aveva dato pochi giorni prima e il suo precedente incidente nel lago. A volte, la sera, quando a letto chiudeva gli occhi, non riusciva ad addormentarsi per ore intere perché pensava a quanto era successo e sentiva brividi di freddo correrle lungo la spina dorsale. Anche se non era stata lì il giorno dell’incidente, se lo figurava nella mente ogni volta ed era come vederlo davvero. Sembrava così spaventosamente reale! Di solito Eddie se ne accorgeva sempre - ma come diavolo faceva? - e la convinceva a parlarne e a sfogarsi.
“Ho avuto paura di perderle entrambe e se così fosse stato non l’avrei sopportato” ripeteva spesso.
Il marito la abbracciava e cercava di tranquillizzarla con un:
“Ma non è successo”,
anche se sapeva che questo non sarebbe stato molto d’aiuto alla moglie. In fin dei conti, anche lui a volte ci pensava ma cercava di non farsi condizionare troppo da quello che era accaduto, facendosi forza nel dirsi che alla fine non era successo praticamente nulla.
La donna sospirò. Cercò di svuotare la mente e di rilassarsi. Non lavorava più da alcuni mesi ma la cosa non le pesava. Si godeva la tranquillità delle sue giornate, sapendo di poter dormire di più la mattina, alzarsi, fare qualche lavoro in casa o in giardino e riposarsi quando ne sentiva la necessità. Era sempre stata una donna molto attiva, avvezza a viaggiare per accompagnare le figlie alle varie audizioni, per cui a volte non era facile per lei abituarsi a quella vita un po’ diversa e più calma che ora conduceva, ma non poteva nemmeno dire che farlo le dispiacesse.
Dianna rilasciò il fiato che per un po', senza nemmeno rendersene conto, aveva trattenuto.
"No," mormorò, "non è successo."
“Che cos’hai detto, cara?” le domandò Eddie, apprensivo.
Stava guardando la televisione con lei, ma al contrario della moglie sembrava prestare molta attenzione al documentario sui leoni. Lei cercò la sua mano e gliela strinse.
“Niente, ripetevo ciò che mi dici spesso quando la sera sto male.”
“Brava!”
“Già, non ci sono state conseguenze gravi ma avrebbero potuto” si disse.
Tuttavia non diede voce a quella frase. La tenne per sé, nel chiuso dei suoi pensieri. Non proferì parola perché sapeva che la risposta di Eddie sarebbe stata:
"Con i ma non si arriva da nessuna parte, mia cara"
e allora lei avrebbe sofferto e avrebbero discusso, com’era già accaduto. Non voleva litigare. Era già successo nei giorni precedenti ma anche molto tempo prima quando Demi era stata male, la donna si era addossata tutte le colpe e, quando la situazione si era calmata un pochino, Eddie le aveva fatto quel discorso e lei si era arrabbiata. Avevano chiarito dopo un po'. Dianna sapeva benissimo che il marito aveva provato le sue stesse cose ma aveva voluto dimostrarsi più sicuro di sé di quanto fosse in realtà. Ed ora era altrettanto consapevole del fatto che anche lui pensava a quello che sarebbe potuto succedere.
"Non pensiamoci più, o almeno proviamoci" si disse Dianna.
Appoggiò il capo al poggiatesta del divano e chiuse gli occhi tentando di ritrovare un po' di calma. Prese qualche respiro profondo e subito sentì che i suoi muscoli iniziavano a rilassarsi. Proprio quando le parve di star meglio le squillò il cellulare e spiccò letteralmente un salto.
“Tesoro, è solo il tuo telefonino” disse Eddie.
Gli venne da ridere, ma cercò di trattenersi anche se la moglie lo vide e gli lanciò un’occhiataccia.
“È Demi. Sapevo che era successo qualcosa” sospirò poi, rispondendo. “Pronto, amore?”
“P-pronto, ciao mamma.”
Era una voce stanca quella che udì. Ma non solo. Demi respirava a fatica, come se…
“Piccola, stai piangendo?”
“Cerco di trattenermi, ho Hope qui con me.”
Dianna si sentì stringere il cuore.
“Aspettami, arrivo subito.”
Le venne spontaneo dirlo, perché non poteva rimanere a casa quando sua figlia stava soffrendo. Non sapeva ancora in motivo anche se poteva intuirlo, ed era decisa a fare di tutto per aiutarla.
“Stavo proprio per chiedertelo. Ho bisogno di qualcuno!” esclamò la ragazza, con il tono di chi non cerca aiuto, lo implora.
La signora sorrise: era sempre felice quando Demi le chiedeva una mano e soprattutto quando si confidava con lei. In passato non l’aveva fatto e la colpa era stata anche di Dianna che aveva creduto, stupidamente, che parlare poco con i propri genitori fosse normale. Del resto, lei era stata cresciuta così e non si era praticamente mai sfogata con i suoi, ma capiva di aver sbagliato. Beh, da quando se n’era accorta aveva cercato di rimediare e non solo con lei, anche con Dallas e Madison, con la quale però aveva sempre parlato di più.
“Faccio più in fretta che posso. Pensi di resistere?”
“S-sì, ci provo.”
Respirava male, era sicuramente ansiosa. Dianna mise giù il telefono a malincuore.
Signore, fa’ che non le accada niente. Ti prego!
Dopo aver spiegato in fretta la situazione al marito si precipitò fuori. Le sarebbe piaciuto farsi accompagnare da un familiare, se non altro per tenere sotto controllo la sua, di ansia, ma Dallas e Madison erano al lavoro e Eddie  stava per andarci e sarebbe tornato tardi. Aprì la portiera dell’auto, gettò con malagrazia la borsa sul sedile del passeggero e poi provò a mettere in moto senza riuscirci.
“Muoviti, idiota!” sbottò.
Tentò varie volte, poi per l’esasperazione batté un pugno sul volante. Fece un respiro profondo e ritentò, pensando che la fretta era una cattiva consigliera e, in quel momento, l’auto partì.
Mentre guidava, sperò che non fosse accaduto niente di grave.
 
 
 
Quel pomeriggio Andrew rientrò prima del solito.
“Meno male” si disse mentre girava la chiave nella toppa.
Era stanco. Gli antidepressivi non gli davano più effetti collaterali, ma un po’ di stanchezza ce l’aveva sempre a causa dello stress per il lavoro che diminuiva non appena rientrava facendolo sentire debole. Ma aveva una sorta di antidoto. No, non erano solo Demi e le bambine - sarebbe passato a trovarle più tardi -, ma anche due batuffoli pelosi che gli illuminavano le giornate. A proposito, dov’erano?
“Jack, Chloe!” li chiamò.
Il maschio arrivò subito, miagolando e strusciandosi contro le sue gambe.
“Ciao, piccolino.” Andrew sorrise e lo prese in braccio. “Dov’è tua sorella?”
Sulla poltrona non c’era ed era strano, di solito amava dormire lì, sul divano nemmeno e neanche in camera o in cucina. Jack saltò giù con uno scatto repentino che spaventò appena il padrone.
“Ehi, calmo. Puoi fare anche più piano” gli fece notare.
Glielo ripeteva ogni volta da anni, ma Jack non avrebbe mai imparato. Il gatto si diresse verso il piccolo terrazzo dove l’uomo li faceva uscire quando era a casa e cominciò a grattare sulla portafinestra.
“Sì,  ora ti… oh merda!” Si diede una manata in fronte e poi aprì subito. “Chloe, come cavolo ho fatto a chiuderti fuori?”
Tempo prima era sparita ed era stata solo colpa sua, e adesso l’aveva anche lasciata lì tutta la mattina e buona parte del pomeriggio? Doveva essere proprio deficiente e tanto, anche. Si apostrofò in modi orribili mentre si avvicinava alla gattina che se ne stava sdraiata a prendere il sole. Non sembrava spaventata o infastidita, ma Andrew si disse che doveva aver pianto molto. “Piccolina, stai bene?” le chiese preoccupato, mentre la sua voce si spezzava.
Lei gli si avvicinò, lo guardò e pianse come a dire:
“Allora non ti sei dimenticato di me!”
Lui la prese subito in braccio per coccolarla, ma la micia saltò giù velocemente come aveva fatto il fratello, mentre entrambi correvano in un angolo del terrazzo. Ma che avevano quel giorno? Okay, aveva dimenticato fuori una dei due e si sentiva un perfetto coglione, grazie al cielo la gatta non era saltata giù e sparita di nuovo. Andrew era al pianoterra, comunque, quindi anche se avesse fato un salto non le sarebbe successo niente… o magari era scesa e lui non l’avrebbe mai saputo. Ad ogni modo sì, aveva combinato un disastro e i gatti glielo stavano facendo capire visto che prima sembravano volersi far coccolare e poi scappavano, ma perché proprio in quel punto? Stavano osservando e toccando qualcosa con le zampe: forse si trattava di una lucertola. Volendo tentare di salvarla, Andrew si avvicinò loro e li fece spostare battendo le mani e fu allora che lo vide.
“Oh no!”
Lì, sul pavimento freddo del terrazzo, c’era un uccellino morto. Probabilmente era un passerotto, ma non era un cucciolo. Con una piccola speranza che fosse ancora vivo Andrew lo prese in mano, ma l’uccellino era immobile. E freddo, molto freddo. Il suo cuore perse un battito. Sapeva che per i gatti era normale cacciare, che anche se i suoi stavano dentro casa, in quel caso Chloe aveva semplicemente seguito l’istinto e non poteva fargliene una colpa. Tuttavia, rimproverarla fu più forte di tutto. Non seppe perché, in realtà, forse era l’istinto a parlare per lui, quella parte di sé a cui si stringeva il cuore in una morsa di sofferenza all’idea che un animale fosse morto.
“Vai dentro!” ordinò alla micia in tono perentorio e battendo un piede per terra. “Andateci entrambi.”
Entrò anche lui, chiuse la porta e si diresse  in cucina mentre i gatti lo seguivano e miagolavano forte. Rivolevano la loro preda per giocarci, era brutto da dire, era orribile, per un umano questo faceva schifo ma di sicuro era così.
“Col cavolo che ve lo do ancora.”
La voce di Andrew risuonò forte e chiara. Non parlava mai così ai suoi mici e si sentiva in colpa nel farlo. Buttò l’uccellino nell’immondizia e poi andò subito a gettare tutto via, fuori nella spazzatura per non doverlo vedere più. Gli aveva fatto male tenere in mano un animaletto morto, si sentiva ancora da schifo per non averlo potuto salvare, un peso gli gravava sul petto come un macigno. E quel peso aumentava, impedendogli quasi di respirare, se pensava di aver letteralmente buttato via quella povera bestiola, ma che altro poteva fare? Era morta, purtroppo. Una volta finito, respirò a pieni polmoni l’aria fresca e fu un toccasana per lui, anche se certo quel venticello novembrino non era puro, anzi il contrario, ma pazienza. Rimase sul ciglio della strada per alcuni secondi, si massaggiò le tempie due o tre volte e poi cercò di dimenticare quanto successo, anche se non era facile. Tremava ancora quando ritornò in casa. Mise un’altra borsetta di nilon nel secchio dell’immondizia e chiuse l’anta dove lo teneva, poi si diresse in camera. Jack e Chloe erano sul suo letto, con gli occhi semi-chiusi. Fece loro una veloce carezza e si scusò con la gattina.
“Perdonami, piccola, so che non è colpa tua.”
Le diede un bacio e la micia lo leccò come per dirgli che era tutto a posto e lo guardò - ad Andrew parve che avesse sorriso, ma sapeva che non era possibile -, poi Jack strofinò il muso contro la sua mano e fece lo stesso.
“Vediamo se riesco a scrivere un po’.”
Accese il computer, aprì la cartella dove teneva le sue poesie e un diario che da qualche giorno aveva iniziato a scrivere alla sorella. Lo faceva per lui, perché si sentiva meglio quando le scriveva. Gli mancava ogni istante di ciascun singolo giorno, ma quando apriva quel diario aveva un contatto più forte con lei e ricordava i momenti belli che avevano passato senza provare sofferenza. Stava per aprire il diario ma gli arrivò un messaggio di Jennifer che gli chiedeva se il giorno dopo avrebbe potuto fermarsi un po’ di più. C’era un gruppo WhatsApp del lavoro e il capo scriveva lì alcune comunicazioni ai dipendenti.
Va bene, domani rimango fino alle 17:00, nessun problema.
Digitò in fretta la risposta e dopo che lei ebbe scritto:
Ok,
si dimenticò di documenti, arringhe, processi, clienti e ti tutto quel che riguardava il suo mestiere. Stava per schiacciare il tasto Invio, ma chiuse la cartella. Era così stanco che aveva sbagliato tasti. Avrebbe voluto riaprirla, ma fece un errore e premette Delete.
“Ma cosa…”
Non si rese subito conto di quello che aveva fatto, ma dopo qualche secondo vide che la cartella era sparita. Conteneva molti dati perché c’erano anche alcuni libri che aveva letto dopo averli scaricati in PDF e molti audiolibri, oltre ai suoi scritti. Controllò nel cestino, ma della cartella nessuna traccia. Era troppo grande, sicuramente il PC l’aveva eliminata. Non era un informatico esperto, quindi sapeva che da solo non avrebbe potuto recuperarla.  Si mise il viso tra le mani e, con un singulto, iniziò a piangere. Aveva perso tutto: libri, poesie, racconti e soprattutto il diario che aveva dedicato a Carlie. Aveva perduto dei pezzi di sé e questo faceva ancora più male di quanto accaduto prima. Gli venne da vomitare e corse in bagno ma non riuscì a buttare fuori niente, poi tornò in camera con il petto e lo stomaco che gli dolevano da morire.
“Perdonami, sorellina, ho fatto un casino come al solito!” esclamò.
Aveva scritto una sessantina di pagine in pochi giorni raccontando quanto successo da dopo la morte della sorella, la depressione che a volte migliorava e altre peggiorava, aveva detto che era grato a Demetria per averlo salvato, che era la donna che avrebbe voluto sposare. E poi aveva scritto ciò che era successo con lei pochi giorni prima e detto che fare l’amorecon lei l’aveva aiutato a sentirsi davvero vivo, una sensazione che prima non aveva mai provato con nessun’altra donna. E poi aveva parlato delle bambine, di quanto le amava, di Bill e della sua amicizia con lui e di tante, tantissime altre cose. Ora, in un secondo, tutto questo era scomparso. All’improvviso ricordò di aver fatto una copia di una parte di quel materiale e iniziò a cercarla. Quando la trovò esultò e gli si stampò un bel sorriso sulle labbra. Era riuscito a ritrovare alcuni libri in PDF, tutti gli audiolibri e le poesie e i racconti che aveva scritto, ma il fatto di aver perso il diario dedicato a Carlie, che non aveva ancora copiato, era una ferita che bruciava da morire. Era accaduto tutto per un errore, un altro sbaglio fatto solo ed esclusivamente da lui. Avrebbe potuto iniziarne un altro, ma in quel momento non ce l’avrebbe fatta. Sentendosi ancora più stanco e sconfitto spense tutto, si sdraiò sul letto con i gatti e restò lì a piangere sul cuscino.
 
 
 
Hope quel giorno era particolarmente vivace. Era una bambina, era normale che lo fosse soprattutto a quell’età. Di solito era tranquilla ma ogni tanto aveva qualche momento nel quale si trasformava in un piccolo terremoto. Quel giorno, però, da quando si era svegliata non aveva smesso un attimo. Continuava a camminare, correre, toccare tutto ciò a cui poteva arrivare - grazie a Dio non c’erano oggetti pericolosi alla sua altezza perché la mamma li aveva tolti già quando aveva imparato a gattonare - e Demi non sapeva più cosa fare per intrattenerla. Mac dormiva ancora sul divano e la ragazza aveva chiuso la porta della cucina perché non fosse disturbata, ma presto il gatto e il cane avevano cominciato a grattare per poter entrare.
“Dovete proprio venire sempre dappertutto?” aveva chiesto loro  i quali, in risposta, l’avevano guardata come per dire che era ovvio. “Vieni qui.” Prese in braccio la figlia che aveva preso in mano il telefono e stava per comporre chissà che numero. “Mettilo giù.”
Hope si lamentò ma lo fece, la mamma le guidò la manina altrimenti l’avrebbe lanciato.
“Ecco, brava.”
Stava per andare con lei in cucina ma pensava di uscire un po’ in giardino, quando Mackenzie aprì gli occhi. Non erano passati nemmeno cinque minuti dal momento in cui si era riaddormentata, ma evidentemente non aveva più sonno.
“Amore!”
Demi corse subito da lei e la baciò su una guancia; la bambina ricambiò.
“Come ti senti?”
Mac si alzò e, dopo aver preso un foglio e una penna, scrisse:
Un po’ meglio, grazie.
“Ne sono felice.”
In quel momento suonò il campanello. Demi andò ad aprire e fu sorpresa di vedere oltre alla mamma anche Andrew. Li salutò e li abbracciò entrambi, poi li invitò ad entrare.
“Nonna, papà!”
Hope si gettò addosso ai due stringendo le loro gambe con tutta la forza che aveva, mentre entrambi ridevano ed Andrew la prendeva in braccio.
“Ciao, bella principessina” le disse dandole un bacio.
La donna invece andò ad abbracciare la nipote più grande, ma non le chiese come stava perché riusciva solo ad immaginarlo.
“Mi occupo io di loro, se voi volete parlare” si propose l’uomo.
Avrebbe voluto stare anche lui solo con Demi, ma capiva che prima madre e figlia avevano bisogno di passare un po’ di tempo insieme.
“Grazie” risposero le due donne all’unisono e poi la ragazza guidò Dianna in camera sua, un posto ancora più tranquillo dove le bambine non avrebbero potuto sentire. Fu la più anziana a chiudere la porta e nella stanza piombò un silenzio di tomba. Le due si guardarono a lungo senza dire nulla.
“Demi, tesoro… mi hai fatta preoccupare tantissimo prima” disse Dianna, avvicinandosi e stringendole una mano.
Non voleva farla stare male, ma farle capire ciò che provava. Le pareva giusto.
“Mi disp…”
“No, aspetta. Non mi devi chiedere scusa, non ne hai alcun motivo. È solo che vorrei capire cos’è successo e non sentirti parlare mi fa agitare. Capisco tu sia molto scossa, lo vedo e noto anche che hai pianto tanto, ma ti prego, parlami. Io sono la tua mamma, a me puoi dire tutto!”
Demi fece un sorriso forzato.
“Lo so” mormorò sedendosi sul letto.
Dianna le si mise accanto.
“Vieni da me, qui” la incitò, toccandosi le gambe.
“Vuoi che venga in braccio?” Demi era stupita. “Non sono un po’ troppo grande per queste cose?”
“Non lo sarai mai e nemmeno le tue sorelle. Su, forza!”
L’altra sorrise e fu un sorriso vero, stavolta, poi i alzò e si sedette sulle gambe della madre. Sentirsi circondare dalle sue braccia fu una sensazione meravigliosa, non c’erano altre parole per descriverla. Gli abbracci della mamma sono speciali, nessuno è come i suoi. Demi si appoggiò  contro il suo petto e piegò la testa all’indietro fino a toccare la spalla della madre. Chiuse gli occhi e rimase lì, mentre qualche lacrima le sfuggiva e Dianna la asciugava con il pollice mentre le sussurrava parole dolci.
“Parlami solo quando ci riesci, tesoro. Si sistemerà ogni cosa.”
Dopo diversi minuti Demi si sedette di nuovo accanto alla mamma e si sentì pronta a raccontare.
“Mackenzie ha avuto una brutta giornata. E intendo molto brutta.”
 
Disse più forte quella parola per darle maggior enfasi e Dianna annuì.
Un leggero bussare alla porta le distrasse.
“Scusate.” Andrew fece capolino e poi  entrò. “Mackenzie ha voluto andare in camera a fare i compiti, così ho pensato di venire ma se disturbo…”
“No, entra pure” lo interruppe Demi. “Come fai a sapere che non sono stata bene?”
“Tua mamma mi ha chiamato mentre era in macchina.”
“E tu che cos’hai? Sembri strano.”
Teneva in braccio Hope, guardava prima lei e poi la fidanzata ma non sorrideva. Era pallido e i suoi occhi erano un po’ spenti. Che la sua depressione fosse peggiorata? Demi si allarmò subito.
“Mi sono successe delle cose ma non importa amore, ne parliamo dopo.”
Demi gli lanciò uno sguardo preoccupato.
“Come vuoi” disse incerta, poi riprese a raccontare ogni cosa: da quel che era successo al lavoro a quanto Mac aveva subito. “Mercoledì devo andare a parlare con la maestra e ho il terrore che dopo non cambierà niente, come  è successo nel mio caso.”
Rammentava ancora bene quel giorno: lei che si nascondeva in bagno mentre i bulli la cercavano, che chiamava sua mamma e le diceva che aveva paura e Dianna che la incitava a correre il più veloce possibile nell’ufficio del Preside. Era stata una delle corse più lunghe e spaventose della sua vita. E nessuno era stato punito per ciò che aveva fatto. Quando l’aveva scoperto, mesi dopo essersi ritirata, si era sentita ancora peggio e si era tagliata più profondamente di quanto avesse mai fatto. Tremò e Dianna le circondò le spalle con un braccio.
“È tutto finito, piccola mia!” esclamò per darle coraggio.
“Sì, ma non per lei.” Aveva pregato ogni sera che le sue figlie non passassero mai ciò che aveva vissuto lei, e invece ora con Mac stava accadendo, almeno per quanto riguardava il bullismo. Uno dei suoi più grandi incubi era diventato realtà. “Non posso permettere che vada come nel mio caso!” concluse, sentendo un groppo in gola.
Si sfregò le mani sui pantaloni e cercò per l’ennesima volta di calmarsi, senza successo.
“Verrò anche io mercoledì, chiederò un permesso” disse Andrew. “Lotteremo insieme perché a quei bambini venga spiegato che fanno delle cose sbagliate.”
“Sì.”
Demi non pretendeva di più. Non voleva che venissero bocciati, ma che capissero. Sperava di non essere costretta a cambiare la figlia di classe o di scuola e che gli insegnanti e il Preside sarebbero stati intelligenti, anche se la realtà era che poche scuole, almeno secondo lei, trattavano la piaga del bullismo in modo corretto.
“Se posso fare qualcosa anch’io fatemelo sapere.”
Dianna era emozionata tanto quanto la figlia perché sapeva quanto lei avesse sofferto a causa dei bulli, anche se non l’aveva capito subito altrimenti si sarebbe accorta dell’autolesionismo molto tempo prima.
“Grazie, mamma.”
“Vado a fare qualcosa da mangiare o da bere, posso? Così ci mettiamo tutti intorno ad un tavolo, stemperiamo un po’ l’aria e ci rilassiamo, eh?” propose.
I due adulti sorrisero e la ringraziarono. Forse ce n’era proprio bisogno.
“Non me la sento di lasciarla da sola” sospirò Demi, le mani strette a pugno sui fianchi.
“Tesoro, ascoltami.” Andrew le si sedette vicino. “Sono sicuro che sa che, se avrà bisogno, potrà venire a parlare con te. Magari adesso necessita solo di qualche tempo per stare da sola; e poi al momento tu sei molto agitata, devi cercare di rilassarti un attimo.”
“Maledizione, non ci riesco! Nostra figlia sta male, l’hai dimenticato?” sbottò lei, mentre le lacrime minacciavano di scendere ancora.
“No, affatto. Credimi, non è facile nemmeno per me, non lo è per nessuno. Ma per quanto sia difficile non dobbiamo perdere la calma, soprattutto adesso. Siamo insieme e affronteremo questa cosa insieme, appunto, d’accordo?”
Andrew rimase tranquillo, cosa che servì a calmare un po’ i nervi della ragazza. Il fidanzato aveva ragione e con la ripetizione della parola “insieme” le aveva fatto capire ancora meglio che lui c’era, che ci sarebbe sempre stato.
Demi rilasciò il fiato che senza rendersene conto aveva trattenuto e aprì piano le mani. Le nocche erano diventate bianche e le dita le facevano male. Accarezzò Hope sulla testa e la bambina le sorrise.
 
“Mmm, mmm” fece, come quando era più piccola.
Avrebbe voluto dire qualcosa ma non sapeva cosa, vedeva che mamma e papà erano tristi e le dispiaceva però non riusciva ad esprimerlo.
“Va tutto bene, amore” cercò di rassicurarla il papà. “Vuoi andare dalla mamma?”
La piccola allungò le braccia verso di lei lanciando gridolini di gioia.
“Vieni, tesoro.”
“Quando abbiamo il primo incontro per il corso per il battesimo?” le domandò Andrew.
“Domani sera. E dobbiamo cominciare ad organizzarci: trovare un fotografo, se ne vogliamo uno ma pensavo di sì, poi decidere se fare qui a casa o al ristorante, scegliere le letture, andare a comprare vestiti per noi e per le bambine, tutto! Mancano tre settimane.”
“Già, stasera ne parliamo meglio e cominciamo.”
“Okay.”
 
Già che c’erano, l’uomo raccontò a Demetria quello che gli era successo.
“Insomma, è stato davvero troppo anche per te, oggi” disse dopo averlo ascoltato con attenzione.
“Già.”
Andrew era ancora molto giù, soprattutto per la storia del diario e la sua ragazza lo baciò su una guancia.
“Per l’uccelllino è la natura, non potevi farci niente. Ma dev’essere stato brutto.”
Cos’avrebbe provato, lei, il giorno in cui Danny sarebbe entrato in casa con un passerotto morto? Le stesse cose, probabilmente.
“Molto.”
“Per il diario…”
Al solo sentire quella parola Andrew sospirò e si passò una mano sugli occhi. Era tristissimo  e si vedeva che cercava di non piangere e che stava  facendo uno sforzo non indifferente.
“Se vuoi non ne parliamo.”
“No, dimmi pure.”
“In chiesa una volta ho sentito dire dal Parroco:
If you lose a journal, angels may quote from it.
Quindi, il fatto che tu l’abbia perduto non significa che Carlie non potrà leggerlo, o non l’abbbia già fatto.”
Andrew la accarezzò e le sorrise.
“Grazie.”
Stava meglio ora che aveva ascoltato quelle parole: il senso di colpa che provava era meno intenso. Avrebbe voluto baciare la sua ragazza, ma era meglio non farlo in presenza di Hope, così si limitò a darle anche lui un bacio su una guancia che lei ricambiò con affetto.
 
 
 
Perché i compiti di inglese, quel giorno, le parevano tanto difficili? Probabilmente perché non era concentrata, si disse Mackenzie mentre ricopiava sul quaderno i nomi dei cibi e di alcuni contenitori come sacchetto, cartone e così via. Avrebbe dovuto essere una stupidaggine, in effetti, soprattutto per lei che - lo pensò senza vantarsi - aveva un vocabolario piuttosto ampio, ma le pareva un’impresa titanica. Dopo un po’ ci rinunciò: avrebbe chiesto alla mamma di giustificarla per tutte le materie. Si domandava come avrebbe fatto ad affrontare la scuola il giorno dopo e si rispondeva che non ne aveva proprio idea. Avrebbe preferito di gran lunga stare a casa ma non voleva nemmeno scappare dai problemi, perché quella non era una soluzione. James quel giorno era passato alle mani, non con lei ma con Elizabeth e la cosa era piuttosto grave. Mackenzie era preoccupata per lei. L’amica aveva i suoi stessi pensieri in quel momento? Mary era riuscita a farsi raccontare tutto? Se solo avesse potuto parlare l’avrebbe chiamata. Scagliò il quaderno contro il muro, poi lo raccolse e lo rimise nello zaino assieme all’astuccio e al diario. Si alzò in piedi e batté i piedi per terra a ripetizione e con foga, per tentare di sfogarsi. Nel frattempo tirava pugni in aria. Non avrebbe fatto del male nemmeno ad una mosca, era semplicemente un modo per scaricare la tensione che ancora la attanagliava.
“È pronto!”
La voce della nonna la riscosse e, non appena aprì la porta, un buonissimo profumo di cioccolato la investì facendo brontolare il suo stomaco. Una volta in cucina si sedette al solito posto, tra i genitori.
“Come ti senti?” le chiese il papà e lei lo tranquillizzò, poi i due si strinsero forte.
Mac chiese alla mamma di farle la giustificazione.
“D’accordo, nessun problema” rispose la ragazza. “Ci credo che non sei riuscita a fare niente.”
Fu sollevata perché pensava che Demi non sarebbe stata d’accordo, che l’avrebbe sgridata o obbligata a fare i compiti, invece era stata comprensiva.
“Do io il budino a Hope, Demi, tu rilassati” le disse la madre.
“Grazie.”
Il cibo caldo che scendeva lungo la sua gola diede a Mackenzie una nuova sensazione di benessere, come aveva fatto la tisana poco tempo prima.
È ottimo, nonna! si congratulò la piccola.
Non era troppo dolce, ma nemmeno tanto amaro.
“Ti ringrazio, tesoro.”
Quel budino al cioccolato era ancora un po’ liquido, quindi la bambina ci mise dentro qualche biscotto che, anche se non si inzuppò poi tanto, contribuì ancora di più a farla star meglio e a darle forza.
Nessuno parlò durante quella merenda, ma tutti si lanciarono sguardi e sorrisi dolci.
“Io vado, vi lascio soli” disse Dianna dopo aver insistito per lavare la pentola e le tazze, “ma se avete bisogno chiamatemi pure.”
Mac notò che la mamma non sapeva come ringraziare la nonna per la sua gentilezza e anche lei le disse mentalmente grazie per essere riuscita a rendere l’atmosfera più rilassata.
Per il resto del pomeriggio e della serata i quattro non fecero nulla di che. Guardarono i cartoni in modo che soprattutto le bambine si distraessero e, dopo cena, restarono sul divano a farsi un po’ di coccole, abbracciandosi e accarezzandosi. Erano tutti così stanchi che andarono a letto molto presto. Mac fu felice di constatare che il papà sarebbe rimasto a dormire da loro e, dopo essersi stesa sotto le coperte, scoprì che sul suo letto c’era non solo Danny, ma anche Batman. E fu così che, in compagnia dei suoi due amichetti pelosi, si addormentò subito sentendosi finalmente bene. Anche i suoi genitori provarono la stessa sensazione, ma rimasero svegli più a lungo per parlare dell’organizzazione del battesimo. Nessuno di loro sapeva quanto quella pace sarebbe durata, ma avevano intenzione di godersela fin quando avrebbero potuto. Nel prendere sonno, Demi pensò che quelle ultime ore erano state scandite da due cose in contrapposizione: i loro problemi, alcuni piccoli e altri più grandi, che li avevano fatti preoccupare, e il calore umano di tutti che con sorrisi, risate, abbracci, baci e piccoli gesti erano riusciti ad aiutarsi e a strapparsi l’un l’altro un sorriso.
 
 
 
NOTE:
1. Mackenzie fa pensieri un po’ strani e tutti in sequenza (il fatto di essere diversa perché scrive, perché il colore della sua pelle è differente, la questione di far male all’ambiente) perché è molto scossa, e a volte quando si sta così la testa va dove vuole.
2. È vero: Dianna ha detto in un’intervista che lei e Madison parlano molto e, nel suo libro, che non aveva abituato Demi e Dallas a fare lo stesso a causa della sua educazione.
3. A me sono successe entrambe le cose: la morte dell’uccellino con tutte le emozioni che ho scritto e anche la perdita del diario e di poesie e racconti. I secondi li ho recuperati, il primo purtroppo no. Era dedicato alla mia migliore amica, Vittoria e ci sono stata malissimo. Non sono ancora riuscita ad iniziarne un altro.
4. La traduzione della frase che ho citato è:
Se perdi un diario, gli angeli lo citeranno.
Ma non è mia, me l’ha scritta una mia amica californiana che mi ha detto di averla sentita nella chiesa della sua parrocchia (da lei è una sorta di detto o di proverbio). Grazie, cara!
   
 
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