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Autore: Pachiderma Anarchico    13/11/2018    1 recensioni
_Sequel di "Too frail too live, too alive to die."_
La pelle è bianca come la mia, ma più inconsistente, più rovinata, con le occhiaie che assediano le palpebre traslucide come presagi oscuri.
I capelli sono sporchi, di un rosso stinto, spezzati e disordinati.
Qualche riccio non ben definito le ricade sulle guance non più piene come una volta, non più da bambola.
"Nessuno spettacolo, Dominik. Solo la verità."
Non basta lasciare che la tinta sbiadisca e i ghirigori rosa dell'ombretto scompaiano per dire la verità, Sylwia.
Non basterebbe una vita intera per dire la nostra verità.
"E qual é la tua verità? Sentiamo."
Quando risponde sembra quasi una ragazza.
"L'unica possibile."
Genere: Dark, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Too frail to live, too alive to die.'
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//Ringrazio dal profondo delle mie viscere tutti i lettori silenziosi che hanno regalato tante visite al primo capitolo e Megara X a cui credevo di poter risparmiare il supplizio di tollerare i miei tempi inconstanti e senso del dovere inesistente. 
Have fun.





CAPITOLO 2
Petali di spine




 
Dominik_ Settembre

 
Decido che ne ho abbastanza non appena inizia a parlare.
Tutto ciò che qualunque altra persona con un briciolo di buonsenso avrebbe tenuto ben rinchiuso nella mente.
E io, che non riesco nemmeno a ricordare quand’è stata l'ultima volta che ho usato il buonsenso, l’ascolto comunque esporre concetti che agli infermieri probabilmente paiono come assurdi deliri di una ventiquattrenne mentalmente disturbata, mentre a me fanno venire l'orticaria.
"Non mi aspettavo che ti avrei rivisto qui dentro."
"Diciamo pure che non ti aspettavi che mi avresti rivisto vivo."
Accenna un sorriso, è tirato e le ferite sul labbro inferiore minacciano di riaprirsi.
Come qualsiasi altro taglio.
"Dominik... lo sai... non so neanch'io cos'è accaduto. Non ricordo niente di quella notte."
E allora facciamola finita Sylwia, arrotoliamoci le maniche fino al gomito e scortichiamo la pelle fino a vedere l’osso. Fino a gocciolare sul pavimento.
Mi disgusterebbe meno di questa farsa da giullare.
"Non ricordi, ah? Sai che me l’aspettavo? Non aspettavo altro che scoprire quale spettacolo avresti allestito questa volta."
Sylwia è tutto un programma, guardarla in faccia da le vertigini.
La pelle bianca come la mia ma più inconsistente, più rovinata, con le occhiaie che assediano le palpebre traslucide come presagi oscuri. 
I capelli sono sporchi, di un rosso stinto, spezzati e disordinati. 
Qualche riccio non ben definito le ricade sulle guance non più piene come una volta, non più da bambola. 
"Nessuno spettacolo, Dominik. Solo la verità." 
Non basta lasciare che la tinta sbiadisca e i ghirigori rosa dell'ombretto scompaiano per dire la verità, Sylwia. 
Non basterebbe una vita intera per dire la nostra di verità. 
"E qual é la tua verità? Sentiamo."
Quando risponde sembra quasi una ragazza. 
"L'unica possibile."
Non è una ragazza. 
È assenzio, è tossica, è il mio suicidio in carne e ossa. 
Nessuno degli infermieri infilati nei loro asettici camici bianchi, immersi nella loro quotidianità si accorge delle bombe che Sylwia sta piazzando sotto il tavolo con le sue parole. 
"Chi dice che sia l'unica possibile?" 
Sorride, e questa volta un taglio sul labbro si apre davvero. 
"Io." mormora dolcemente, mentre uno degli incisivi si colora di sangue. 
"Io non ricordo nulla, quindi, ogni verità è possibile." 
Inclina lievemente la testa, sfiorando con gli occhi color indaco le fasce che le bloccano i polsi. 
"Guardale. Sono bianche come le pareti e i camici degli infermieri e la normalità, come il colore delle spose…" mi afferra le mani con le sue e qualcuno è già pronto a sospingerla indietro, a trattenerla con la forza. Ma faccio un cenno con la testa, e lei ha negli occhi la vittoria, "... come le rose già colte, prive di spine, a cui sono stati strappati i petali difettosi, i petali anneriti. 
Noi siamo quei petali, noi siamo quelli difettosi e anneriti. Credi che il tuo... ragazzo -è nauseata- "sia fra i petali che vengono recisi o in quelli buoni che rimangono?" 
Alzo gli occhi al cielo, cercando di reprimere l'istinto di stringere le sue mani tra le mie. 
"Lui sa che sei qua?" 
Sfilo le dita dalle sue. 
Povero illuso. 
Mi artiglia con le unghie, mi trattiene con una brama che non credevo le fosse rimasta. 
Non mi muovo, fingo che sia tutto calcolato, che la conosca meglio di tutti loro. 
Ma forse, non è così. 
"No… non lo sa." cinguetta, e mi scruta con attenzione, mi guarda come se mi vedesse oggi per la prima volta.
"Lui non capirà mai fino in fondo... ma questo gliel'hai già detto." 
Mi lascia, finalmente; ma questa volta sono io che voglio giocare a chi toglie la maschera e inizia a ringhiere per primo. 
Le stringo i polsi, s’irrigidisce, si fa male. 
Come pensavo. 
Probabilmente sta facendo tutto il possibile prima del processo, urlando e ferendosi e parlando di strane camere; come se non avesse un piano, come se non calcolasse la lunghezza di ogni taglio in centimetri
"Non fingere di essere pazza." si dimena. "Non sei pazza. E non importa a quanti riuscirai a fare il lavaggio del cervello, io so esattamente chi sei, cosa vuoi e cosa sei disposta a fare per averlo." 
Potrebbe ringhiarmi addosso e invece si calma, la mia morsa si allenta e lei allontana le mani dalle mie, senza fretta. 
"Non giocare con me Sylwia. Io non sono Asher, non mi prostro ai tuoi piedi non appena sbatti le ciglia. Arriva un'altra volta ad Aleksander e ti giuro che il prossimo taglio sarà anche l'ultimo."
Ride, ride di pura gioia, sguaiatamente e a bocca spalancata con quel suo singhiozzo euforico come tutti i campanelli del mondo.
"Credevo che non potessi essere più sexy di quando ti punti coltelli alla gola o ti piazzi davanti alle pistole ma… porca puttana, il minacciare di uccidermi le batte tutte." 
 
 
***
 
 
Neanche l'aver portato a termine ciò che mi ero prefissato e il look più diverso possono impedire agli occhi di Aleksander di impalarmi lì, da parte a parte lì, dove mi trovo, sul primo scalino, sull’uscio della clinica. 
E no, non c'è più nulla di malizioso in questo, mi sento come se avessi appena ingoiato un gomitolo di filo. Spinato. 
Tamburella con le dita sull'auto, gli occhi celati da un paio di lenti scure. 
Ma è palese che mi sta guardando, cercando di appiccarmi fuoco con la sola forza dello sguardo. 
"Sali."
Sarà un lungo viaggio. 
Per i primi due chilometri nessuno apre bocca, entrambi consapevoli che se cominciamo a far piovere diluvierá su ogni cosa.
Aleks alza il volume della radio, io mi passo una mano sulla bocca. 
Techno. 
Maledizione.
Ha alzato il volume perché alla radio c'è una canzone techno.
E sa benissimo che io odio la Techno. 
E fino a quando vedo la velocità dell'auto divorare il tragitto fino a casa sua me ne sto zitto perché forse, in fin dei conti, ho più buonsenso di quel che credo, ma alla fine il destino (o la sfiga) vuole che ci incolonniamo dietro una carovana di macchine immobili nel traffico del centro città e allora me ne esco con un neutro, credetemi, assolutamente neutro, incolore, innocuo: "Abbassa."
E lui porta il volume a 70.
Prima era a 30.
E ora i suoni metallici di questo maledetto motivetto mi sputano in testa la loro ripetitività insulsa. 
"Quanti anni hai, cinque?" 
85.
Non so bene neanche io come faccio ad arrivare a destinazione senza cercare di uccidermi neanche una volta, ma finalmente scendo da questa fottutissima macchina di merda e mi stringo le tempie con i pollici; dovrà pur esistere un pulsante per resettare gli ultimi trenta minuti. 
Busso. 
Mi pare qualcuno mi avesse detto che oggi Samuel sarebbe stato da Leks, perché come previsto la porta si apre su una testa giallo evidenziatore. 
"Ciao Samuel." 
"Ehi Nik, ciao... Leks."
Andiamo in cucina e il biondo scambia uno sguardo preoccupato -o terrorizzato- con la ragazza ginger in felpa XXL impadronitasi della macchinetta automatica del caffè. 
Perché poi? Va tutto bene, Aleks si è solo tramutato nella fotocopia incazzata di suo padre, cosa potrebbe andare storto? 
Eruttare materiale lavico come un vulcano?
Esplodere come una testata nucleare?
Mordere come una tartaruga caretta caretta? 
"Sandra anche io vorrei il caffè, per favore." 
"Certo, se riesco a far.. funzionare.. questo aggeggio super tecnologico." 
Alza un braccio, pronta a farlo funzionare a suon di pugni e Samuel la blocca. 
Aleks si avvicina alla macchinetta dandoci le spalle e preme qualche tasto. 
L'aroma del caffè si diffonde come per magia nell'aria. 
Ma nessuno sembra notarlo. 
Perché Aleks ha detto qualcosa, e la sua voce è come rastrelli sull'asfalto. 
"Dominik, che valore ha per te una promessa?" 
Samuel segue con la testa il cauto movimento di me che scollo silenziosamente il sedere dalla sedia e con la nonchalance di un criminale me ne vado dall'altro lato del tavolo. 
Il tavolo dove ci siamo baciati e dove adesso sembra che voglia lasciarci l’impronta del mio naso. 
"Sapete... credo che lo prenderò al bar il caffè..." dico.
Samuel solleva i pollici all'insù annuendo forsennatamente; Sandra, con le vissute gambe da skateboarder, si mette in posizione centrale, pronta a fare lo sgambetto nel caso (non irrealistico) che uno dei due tenti di strangolare l'altro. 
E quando Aleksander si volta, la possibilità di un omicidio diventa certezza.
"Quella ragazza, quella... psicopatica ti ha riempito la testa con i suoi vaneggiamenti sul suicidio, ha lasciato che quell'altro sociopatico con cadute di bipolarismo paranoico cercasse di ucciderti e poi lei stessa, premendo un cazzo di grilletto, ti ha polverizzato due costole e quasi sfiorato il cuore e tu dove vai? A farle una visita di piacere."
Alzo un dito come se fossi a scuola, e sembrerei Samuel se non fosse che i miei capelli sono di venti tonalità più scure e la mia voce raggiunge picchi di sarcasmo che farebbero perdere la pazienza anche a Ghandi. 
"Tecnicamente... una costola era solo incrinata."
Se adesso mi prendesse a schiaffi non potrei dargli torto. 
Mi si lancia addosso veramente e no, scherzavo, se mi prendi davvero a schiaffi ti do torto eccom-
"LEKS!" 
"Non gli faccio niente Sandra, non gli faccio proprio niente voglio solo che questo stronzo di merda mi guardi in faccia, porca troia."
In effetti non sento dolore, non ancora almeno. 
Solo il pollice e l'indice che scavano nelle mie guance e il frigorifero freddo dietro la schiena. 
"Spiegami perché l'hai fatto comunque nonostante ti avessi espressamente chiesto di non farlo, per una. volta. Una, Dominik. Quindi adesso dammi una spiegazione e spera che sia credibile."
L’ultima volta che mi è stato così vicino voleva baciarmi.
Adesso penso che voglia staccarmi la faccia a morsi.
Ma non è abbastanza per zittire lo sciagurato orgoglio che mi balla in pancia.
"La visita di piacere -come la chiami tu- mi è servita a mettere in chiaro con la psicopatica -come la chiami tu- che se dovesse uscirsene con strane idee in testa su di te non me ne starò di certo nell'angolino a guardare."
Aleksander mi spalma la colonna vertebrale contro il frigo come marmellata su una fetta biscottata.
"Però pretendi che io me ne stia buono buono nell'angolino a guardare mentre tu
t’incarichi di fare le missioni diplomatiche con una sottospecie di terrorista che, ripeto, perché forse non si è capito," ruota su se stesso, alzando le braccia al cielo, "ti ha già sparato una volta."
È più teatrale di me quando si ci mette, il che è tutto dire. 
Ma sono ancora io il re del dramma, e la corona voglio tenermela stretta. 
"E levati!"
Lo spingo e faccio un passo avanti.  "Di' un po', come sapevi che ero lì? Mister 'è solo di lei che non mi fido'? Ti sei fidato così di me così tanto da farmi pedinare?" 
"Hahahaha, spiritoso, mi è bastato fare una telefonata. Non sei l'unico figlio di papà di Varsavia e ci tengo a ricordartelo."
Spalanco la bocca.
Ci potrebbe tranquillamente entrare dentro uno sciame di mosche per quanto la mandibola mi è caduta in basso. 
"Mi hai fatto spiare?" 
Samuel si guarda bene dall'oltrepassare i bordi della sua mattonella, lo vedo con la coda dell'occhio come vedo Sandra sorseggiare il caffè senza il rumoroso risucchio che fa con la bocca. 
Io caricherei un fucile. 
"È così che ti fidi di me?" 
Ma Aleksander non ci scherza nemmeno a furia distruttiva.
Ed è davvero, davvero furioso. 
Sbatte una sedia a terra e avanza nuovamente verso di me, con l'indice della mano destra al centro dei miei occhi. 
Non so cosa mi tenga bene ancorato al suolo.
"Non osare proclamarti vittima anche stavolta! Ci manca solo che tu dica che è colpa mia." 
"È colpa tua!"
Percepisco distintamente il plop dello schiaffo che Sandra si è data in fronte. 
Ma Aleksander si è messo a tracciare la mappa di casa sua con i piedi quasi fosse un dipendente di Google Maps: con quattro falcate è già entrato nella sua stanza, ne è uscito e si sta dirigendo in soggiorno rimuginando a testa bassa. 
"…ho fatto bene a non fidarmi di te…" 
E io gli vado dietro. 
"Ah è questo... è questo che pensi?!" 
"Sei un irresponsabile testa di cazzo, inaffidabile figlio di-"
"Sono morto? Di', sono morto?" 
Si volta di scatto ed io faccio davvero un salto indietro.
Ha l’acredine negli occhi e il fumo che gli esce dalle orecchie. 
Come una grossa, muscolosa, vagamente inquietante teiera in ebollizione. 
"Dimmi tu cosa provi per lei. Eh?!
"Non ci posso credere..." mi massaggio la fronte con due dita.
Tutto questo è davvero troppo. 
Romek vuole la guerra, Sylwia vuole la guerra, Aleksander vuole la guerra, e va bene!
Guerra sia, maledetti bastardi. Che nessuno si azzardi a dire che non ci ho provato.
Signor Santorski, se ne vada gentilmente a fanculo.
Ora Dominik prende la parola. 
Mi fiondo su di lui come un falco in picchiata, lanciando anatemi con gli occhi che spero lo inceneriscano.
"C'è un problema di fondo, non è vero Leks? Te ne accorgi anche tu che se non sei sicuro di quello che provo per te abbiamo un grosso problema."
Ma Aleksander al posto delle tonsille ha una tigre che ringhia e se ne torna in cucina.
"Ti ho chiesto cosa provi per lei e non cosa provi per me. Non rigirare la frittata come sempre."
"Una cosa esclude l'altra."  ribatto.
"Davvero Nik, davvero?" 
La testa del silenzio capitola sul tavolo, appena ghigliottinato. 
L'odore di putrefazione è quasi tangibile fra noi, il boia si aggira tra i nostri corpi in attesa di un’altra testa da far cadere.
Sandra si schiarisce la voce. "Se posso inserirmi nel discor-" 
"Pensi che provi qualcosa per lei, e allora che stiamo facendo Leks? Vuoi davvero continuare così?"
"No, infatti, fino a quando ti comporterai da sfigato come lei." 
"Leks."
Sa di aver oltrepassato il limite prima che io sollevi la testa come se dovessi reggere una corona. 
Una corona nera, di sangue e lacrime, dissestata e consunta ma è la mia, e non permetterò a nessuno di farla cadere. 
A nessuno.
"Tranquillo Samuel.” annuisco. “Leks se lo teneva dentro da troppo tempo."
Faccio un passo indietro.
"Già. Siamo sfigati 'noi altri.' Sai che c'è? Quello sfigato ha avuto troppe emozioni per oggi, potrebbe non reggerle e chiudersi in una camera buia a togliersi la vita per qualche sfigata ragione. Ti chiamo io."
Non serve a niente che Aleksander trattenga il respiro, in lotta con il suo cipiglio da capobranco e la sensazione di avermi assestato un colpo basso, e che infine provi a seguirmi.
Quando capisce che non mi volterò anche lui si impunta, alza il mento e tutto ciò che riesce a dire è un: "Non farlo." 
D’accordo. 
 
 
***
 
 
 
Le malinconiche luci di Settembre colorano la strada di periferia dove mio padre ha deciso di trasferirsi con la sua nuova compagna per sfuggire ai riflettori durante la campagna elettorale, afferma lui.
Per sfuggire da mia madre, dico io.
La nuova casa è una villa a tre piani di medie dimensioni, con tutti i comfort che due esponenti di spicco della scena politica polacca come loro possano desiderare.
La donna con cui fa pan-dan ora, infatti, è in corsa per la carica di Primo Ministro contro, fra gli altri, Romek Lubomirski. E con buone probabilità di vittoria, per giunta.
Quarant’anni, un faccino a forma di cuore frizzante ed entusiasta, una boccolosa massa di capelli biondo cenere, un paio di schietti occhi marroni e una parlantina pronta e spumeggiante.
E, ovviamente, ambiziosa e promettente nei suoi tailleur grigio perla.
E l’assistente con cui mio padre faceva i propri comodi una sera sì e l’altra pure credeva davvero che, alla fine del matrimonio con la temuta stilista di moda Agata Nowak, ex Santorski, che mio padre volesse stare con lei.
Andrej Santorski non ti guarda in faccia se prima non ha appurato che esiste un conto bancario intestato a tuo nome con almeno cinque zeri dopo la prima cifra utile.
Perché sono qui?
Beh, perché non c’è niente di meglio da vedere, durante una campagna elettorale che lo riguarda personalmente, di mio padre che sbattacchia di qua e di la per le stanze di casa, mentre urla al telefono con mezzo mondo perché non riesce a centrare la porta.
In disaccordo sempre e comunque con tutti e tutto, dal prezzo dei carciofi alla lunghezza delle autostrade, dalla sfumatura di arancione delle carote allo spessore dei computer ultrapiatti.
Ed ecco, proprio mentre uno degli uomini di servizio mi fa entrare, la voce di mio padre giunge dal terzo piano, chiuso nel suo studio, come se fosse qui davanti a me.
“No! No ti dico. Non possiamo andare a zonzo come un branco di beduini, dobbiamo agire adesso. La gente deve sentirci vicini, vicini!”
Che ti sentano è poco ma sicuro.
“Dominik ciao, che piacere vederti.”
Dorota Bronislawa, la più recente fiamma di mio padre, emerge dall’ampio soggiorno.
Il rosato del tramonto rendono le sue guance più spigolose di quanto non siano in realtà.
“Ti stavamo aspettando.”
“Dubito che mio padre aspetti qualsiasi cosa tranne una sua imminente vittoria, ma apprezzo lo sforzo.”
“Se posso consolarti, Andrej non sta prestando molte attenzioni neanche a me ultimamente.” mi informa con uno dei suoi sorrisi caldi, e io sono lì lì per dirle che mio padre non presta attenzione e basta, ma desisto.
I panni sporchi si lavano in famiglia, e i miei sono nella candeggina da un pezzo.
Che mio padre se la sbrighi con il suo nuovo amore, se durano fino alla prossima candidatura.
Mi siedo su uno dei due divani in pelle nera della stanza. Sull’altro è stravaccata per metà la figlia sedicenne, con il cellulare in mano.
La madre le da un colpetto sulla schiena per farla raddrizzare e la ragazza si siede in modo composto, abbandona per un secondo lo screen del cellulare e fa un sorriso di circostanza.
“Ciao Dominik.”
“Ciao Cecylia.”
E la conversazione finisce così com’è iniziata, senza trovare null’altro da aggiungere.
Ma la madre ci riprova, guarda la figlia e le dice: “Andiamo Cecy, chiediglielo, non farlo dire a me. Vedrai che Dominik farà il possibile per accontentarti.”
Uno, a giudicare dall’occhio vacuo come una sardina lasciata troppo tempo fuori dal freezer della ragazzina, l’unica che sembra voglia essere accontentata è lei.
Due, Dominik non è un’associazione di beneficenza e dovrà colpirlo un asteroide in testa prima che faccia il possibile per accontentare qualcuno.
“E va bene.” Cecylia poggia il cellulare sul tavolino, mi guarda e prorompe, tutto d’un fiato.
“La prossima settimana c’è una cena importante all’ InterContinental Hotel e dovrei andare con mia madre, non è che potresti parlare con la tua e chiederle un appuntamento per confezionare due abiti entro lunedì prossimo?”
Se mi avesse chiesto di penetrare nella Casa Bianca e uccidere il presidente degli Stati Uniti d’America avrei avuto più possibilità di riuscita.
“Ehm… con il lancio della nuova collezione anche in Russia mia madre non ha proprio tutti questi spazi liberi...”
Cerco di non sembrare sgarbato, ma voglio anche che capiscano che chiedere a mia madre qualsiasi favore che cozzi con la sua fitta agenda lavorativa è come lanciare missili sulla Korea del Nord e aspettarsi di non ricevere una bomba atomica in risposta.
Ma anche questa volta, Dorota Bronislawa non si arrende.
“Non potrebbe trovare uno spazio piccolino per me e mia figlia? So bene che… vista la questione fra lei e suo padre… Ma Agata è un’esperta nel settore, e ora che il suo marchio sta prendendo piede in tutta l’Europa Orientale non farebbe male neanche a lei che i suoi abiti vengano indossati da persone con un alto grado di visibilità.”
Ora capisco come ha fatto ad arrivare dov’è arrivata.
Caparbietà, vocaboli adatti e questo suo riferirsi a se stessa come una verità universale e inequivocabile.
Ma non ha ancora conosciuto mia madre.
“Parlerò con lei e vi farò sapere, va bene?”
“Grazie Dominik. Posso darti del tu? Sei un tesoro.”
Io e Cecylia ci guardiamo di striscio, complici dello stesso istinto.
D'altronde lei ha sedici anni, non sei e io ne ho diciannove, non sessantanove.
Gli occhi le schizzano sul soffitto mentre i miei si abbassano a seguire le venature del parquet.
“Faccio fare del the, ne volete?”
Proprio quando arriva il the arriva anche mio padre, rosso e ansante come dopo una maratona, ed è in procinto di salutatarmi ma, per un fortuito tempismo del destino, alla tv trasmettono di colpo la campagna elettorale del più acerrimo rivale della sua signora e si dimentica di me. O di chiunque altro nella stanza.
Poco male, anch’io mi posiziono difronte al televisore di ultima generazione, giro il cucchiaino nel the allo zenzero e mi godo lo spettacolo di mio padre che sbatte il palmo della mano sul tavolino cercando a tentoni la tazza per non perdersi neanche una parola che esce dalla bocca risoluta di Romek.
Provo una punta di fierezza -o è soddisfazione- nel constatare che ad ogni domanda Lubomirski risponde con assoluta prontezza e mio padre affonda sempre di più nel divano.
Dorota dovrà impegnarsi se vorrà persuadere i lettori che la mascella squadrata firmata Lubomirski e la dialettica senza fronzoli non siano la scelta giusta.
Per quanto io e Romek possiamo cordialmente detestarci, devo ammettere che non c’è stata occasione in cui non abbia fatto esattamente ciò che aveva detto, con grande disappunto del fratello (simpatico) Ruben.
Nella logica del Signor Lubomirski i fatti vanno a braccetto con le parole, senza via di fuga o scorciatoia alcuna.
Come Hitler, ma senza baffi, con un bel po’ di centimetri in più e principi morali un tantino più ragionevoli.
“Dominik.” Cecylia si volta verso di me. “Tu stai con il figlio… vero? Il campione di Judo.”
“Aleksander.” annuisco, chiedendomi se è ancora vero che sto con lui.
“Potresti chiedergli di passare... dalla mia scuola a… prendermi… sì… un giorno di questi? Sai… tutte le ragazze impazziscono per lui e anche io… beh -in modo molto più dignitoso- ma ecco, è parecchio… insomma Dom, è un figo illegale e voglio farle schiattare tutte d’invidia.”
La seguo così attentamente che inzuppo sette biscotti nel the, uno dietro l’altro; poi accenno un sorriso, mio malgrado.
“E’ questo lo sa anche lui, purtroppo.”
“Ci manca solo che quelle oche fondino il fun club. Se succede ti avviso.”
“Siete a questi livelli? Anche nella mia scuola aveva il suo immenso stuolo di ammiratrici, ma non credo siano mai arrivate a tanto… almeno spero.”
Recupero il cadavere di qualche biscotto col cucchiaino.
“Allora? Glielo dici?”
Appena mi sarà passata la voglia di ucciderlo.
“Dammi il tuo numero, questo non c’è bisogno di farlo sapere a tua madre.” bisbiglio, con il suono della voce di Romek in sottofondo.
“Grazie, grazie, grazie.”
Scrive qualcosa sul cellulare a velocità supersonica, tutta compiaciuta, i sedici anni che le sprizzano da tutti i pori, poi, accorgendosi probabilmente che mi conosce da un mese, che nel giro di un’ora mi ha chiesto più favori lei di mia madre in quasi vent’anni di vita e che è bene darsi un tono, ricompone il sorriso in una smorfia soddisfatta e aggiunge: “Se non è un disturbo.”
“Ma quale disturbo, consideralo già fatto. Non si è mai visto che Aleksander abbia perso l’occasione di pavoneggiarsi.”
 
 
***
 
 
Attraverso la strada alzando il cappuccio della felpa sulla testa.
Ho lasciato l’auto da qualche parte alla fine della strada residenziale, vicino a un SUV del valore di una casa.
Le villette a schiera mi guardano negli occhi mentre gli anfibi raschiano qualche pietra sull’asfalto.
Nell’aria della sera alcune folate di aria gelida sembrano sussurrare che l’inverno non si farà attendere.
E’ lì che accadde, sotto il cielo di Settembre.
In uno dei quartieri più tranquilli di Varsavia.
In una delle strade più dritte, rettilinea come una freccia.
Dov’è facile accelerare un po’ di più e distrarsi per rischiare di investire qualcuno.
Ma l’auto che accelera non è distratta, il suo conducente non vuole rischiare di investire qualcuno, vuole averne la certezza.
Vuole il corpo sull’asfalto, vuole il tonfo contro la carrozzeria, altrimenti non si spiega perché non abbia ancora rallentato, perché i fanali mi entrino nelle pupille, perché scarto di lato quando capisco che è troppo tardi, ma è troppo tardi.
La botta mi fa rotolare a terra per diversi metri, finisco in un cespuglio, le spine dei fiori mi graffiano la faccia e il dolore esplode come un antro di fuoco rosso, ma non ho voce per urlare.
Respiro ancora, ma ho negli occhi le luci dei fari a coprir le stelle.
  
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