Anime & Manga > Le bizzarre avventure di Jojo
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Autore: EuphemiaMorrigan    15/11/2018    2 recensioni
[La storia partecipa alla JosuYasu week 2018 con il prompt: ammalato/ferito.]
Sebbene gli anni passassero veloci, a fatica maturasse e accumulasse costantemente nuove esperienze di vita, spesso coinvolto in situazioni sovrumane, Josuke si sentiva bloccato all’interno di un limbo immutabile, nel quale si rendeva conto di tenere a qualcuno soltanto quando poi lo perdeva.
Genere: Fluff, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Josuke Higashikata, Okuyasu Nijimura
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Come un diamante nel carbone.

 

Sebbene gli anni passassero veloci, a fatica maturasse e accumulasse costantemente nuove esperienze di vita, spesso coinvolto in situazioni sovrumane, Josuke si sentiva bloccato all’interno di un limbo immutabile, nel quale si rendeva conto di tenere a qualcuno soltanto quando poi lo perdeva.
Era accaduto con il nonno: aveva capito la stima provata per lui e l’importanza nel momento della morte, quando era stato incapace di salvarlo persino usufruendo di Crazy Diamond. Aveva sempre voluto bene alla madre, eppure il terrore avvertito durante il rapimento avvenuto mesi prima, rinchiusa in un foglio stropicciato da uno Stand nemico, gli aveva fatto rivalutare il loro rapporto. Desiderando starle più vicino.

E si era degnato di chiamare papà il signor Joestar soltanto alla sua partenza, diretto verso un continente lontano. Cosciente che probabilmente non lo avrebbe mai rivisto, troppo anziano per affrontare un altro viaggio.
Josuke premette la faccia sopra il cuscino, gli auricolari alle orecchie e la voce di Prince riprodotta all’infinito dal lettore CD, quasi le note del suo cantante preferito potessero mitigare la tristezza. Alle volte si riteneva un completo idiota, non che potesse far qualcosa per il brutto carattere posseduto, egoisticamente avrebbe preferito una vita tranquilla, piuttosto di quella, carica di rimpianti.
Abbracciò il guanciale soffice e serrò le palpebre, imponendosi di dormire; sbuffò, si rigirò senza pace nel letto sfatto e alla fine, sconfitto, portò le braccia dietro la nuca, per osservare il soffitto scuro. L’indomani mattina sarebbe sembrato uno zombie.
Da qualche giorno aveva cominciato a rimuginare sul vicino passato più del solito, e gli sfuggiva il motivo. Di sicuro il rimorso dovuto ad alcune mancanze, o scelte sbagliate, pesava sulla sua coscienza, eppure a conti fatti per molte altre situazioni poteva ancora rimediare.
Nonostante, a malapena diciassettenne, vantasse già un’esperienza di quasi morte e conseguente lungo periodo di degenza in ospedale.
Accadde in un attimo. Appena i pensieri si soffermarono su ciò ch’era accaduto nello scontro con Kira Yoshikage, le mani percorse da tremiti andarono a coprirgli il viso sfigurato da improvvisa, quanto ingiusta, sofferenza.
Tornava ogni volta a tormentarlo. Gli bastava distarsi per un istante e il ricordo di Okuyasu, freddo fra le braccia impotenti, prendeva forma come un tarlo e lo consumava; il cuore cominciava a far male, un dolore sordo in mezzo al petto che finiva per portarlo addirittura alle lacrime.
Perché?
Okuyasu era vivo. Si era miracolosamente salvato, lui stesso aveva deciso di non lasciarlo, lasciarli… Rimanere insieme a loro, a Morio-cho.
Insieme avrebbero protetto la città da qualsiasi nuova minaccia. Josuke sarebbe diventato più forte, più abile, fatto qualsiasi cosa pur di impedire al migliore amico di abbandonarlo.
Non di nuovo. Non poteva permetterlo ancora. Lo avrebbe tenuto stretto, abbastanza vicino da respirare il suo profumo, notare le buffe espressioni del viso e sentirne il calore sulla pelle.
Arrossì, scacciando quelle strane fantasie.
Nacque un mesto sorriso sulle labbra carnose, frequentare Nijimura lo stava trasformando in un frignone; asciugò gli occhi umidi e poi s’imbronciò un poco al sentirli ancora pizzicare. L’adolescenza era veramente un periodo faticoso d’affrontare eppure, mentre permetteva alle lacrime di solcargli le guance, stanco di provare ad arginarle, immaginò l’indomani il braccio di Okuyasu circondare goffo le sue spalle e dopo chiedere con la solita faccia stralunata il motivo per cui, anche quel giorno, paresse uno straccio stropicciato.
Finalmente Morfeo andò a fargli visita. Con la riproduzione casuale del lettore CD che andava avanti senza sosta, Josuke si addormentò scomposto e distrutto.
Il desiderio di riposare sereno però parve non volersi realizzare visto che, imprecisato tempo dopo, i suoi sensi si risvegliarono, seppur fosse tremendamente stanco.
Inalò una boccata d’aria e si concentrò sul suono acuto proveniente dal piano inferiore; comprese solo diversi minuti più tardi, quando il chiacchiericcio della madre cominciò a ronzargli nelle orecchie, che si trattava del telefono. Voltò il collo verso la sveglia e schiuse le palpebre pesanti, a fatica mise a fuoco l’orario: le 4:15 del mattino.
Quale pazzo chiamava a quell’ora?
Sbuffò inacidito, deciso ad ignorare quel che stava accadendo. Ci avrebbe pensato la madre a spaventare così tanto il tizio dall’altra parte del ricevitore da non fargli più alzare una cornetta in vita sua.
Adorava il temperamento della donna, quando non lo sfogava su di lui.
Stava di nuovo per assopirsi, le membra rilassate fra le coperte, quando la porta della stanza si spalancò di scatto, colpendo la parete, e la luce si accese, ferendogli gli occhi appannati.
«Josuke! – lo richiamò Tomoko. – Svegliati un attimo, devo parlarti!» riferì agitata, mentre gli scuoteva le spalle.
Il ragazzo aggrottò la fronte. Conscio che ignorarla poteva rivelarsi un grande errore, sedette e si passò la mano fra i capelli spettinati. «Cosa c’è?».
La adocchiò: era già vestita, in piedi davanti allo specchio dell’armadio stava rapidamente finendo di sistemarsi.
«Devo andare in ospedale. – scorse incertezza nella voce della donna. – Okuyasu è stato ricoverato qualche ora fa e ha dato il nominativo della nostra famiglia. Non dovrebbe essere qualcosa di grave, ma preferisco raggiungerlo e parlare con i dottori di persona».
Josuke aveva smesso di ascoltarla alla frase: Okuyasu è stato ricoverato.
Faticò a respirare e il nodo alla gola tornò a soffocarlo, come se qualcuno gli stesse stringendo il collo; impallidito e incerto su cosa ribattere tentò di muovere la bocca e parlare, ne uscì solo un rantolo.
«Josuke!». Tomoko accorse vicino a lui.
Ritenne quasi ironica l’angustia della madre, per farla reagire a quel modo concitato doveva avere una cera tremenda. Malgrado le rassicurazioni il panico non diminuì, anzi aumentò e, a causa delle orecchie ovattate, gli risultò impossibile udire le sue parole.
«V-vengo… – tossì, ricercando compostezza. – Vengo con te».
Lei addolcì lo sguardo. «Va tutto bene, tesoro, non c’è bisogno».
«Devo venire con te, mamma» sembrò una supplica, e forse lo era.
Delicata, Tomoko gli sfiorò il braccio per cercare di rincuorarlo, dopodiché annuì. Ci impiegarono pochissimi minuti ad uscire di casa e salire silenziosi sull’automobile, diretti al policlinico della città di S.
«Potevi cambiarti» disse probabilmente cercando di spezzare la tensione.
Il ragazzo non fiatò. Aveva appoggiato la tempia al finestrino e gli occhi azzurri seguivano privi di qualsivoglia scintilla vitale l’asfalto che sembrava sfrecciare veloce sotto di lui.
La canottiera e i pantaloncini andavano benissimo, non aveva avuto tempo da perdere a cambiarsi o pettinarsi, per la prima volta in anni neanche i capelli lunghi che gli ricadevano sulle spalle e il viso cereo gli causavano disagio.
«Quanto manca?» chiese, impaziente.
«Siamo partiti dieci minuti fa».
Digrignò i denti, sibilando: «Vai troppo piano».
«Prova a calmarti. – cercò nuovamente di farlo ragionare. – Okuyasu starà bene».
Quelle poche parole furono la goccia che fece traboccare il vaso già incrinato.
Josuke esplose. I pugni posati sopra le cosce si strinsero, fin quasi a sbiancare le nocche, e la voce rauca divenne una lama tagliente. «Bene? No, non starà bene. Non starò bene. Okuyasu è un idiota, uno di quegli idioti pericolosi per loro stessi, capace di mettersi sempre nei guai e rischiare di farsi ammazzare! – esclamò veloce, senza neppure riprendere fiato. – Ed è così ottuso da non rendersi conto del male che mi fa!» sputò fuori, la vista ottenebrata da altre lacrime che scacciò con rabbia e un gesto piccato della mano.
«Tutte le volte non sono lì, o non arrivo in tempo. – inumidì le labbra aride, poi continuò. – E lui rimane da solo: a combattere, soffrire, ferirsi, e allontanarsi da me. Io… Non voglio vivere senza Okuyasu. Non ce la farei» sussurrò alla fine, quasi colpevolizzandosi dei propri sentimenti, di averli esposti, e confessati perfino a se stesso, in un momento di instabilità.
Il sospiro sfuggito alla donna catturò la sua attenzione. «Okuyasu lo sa?».
«È un idiota, non lo capirà mai» provò ad abbozzare un sorriso, poi nascose il viso paonazzo fra le mani.
Cosa gli era saltato in mente?
«Fossi in te non lo sottovaluterei così tanto. – Tomoko gli strinse il ginocchio per qualche secondo, tornando poco dopo a concentrarsi sulla guida. Allora Josuke la guardò di sottecchi e notò il profilo serioso sciogliersi pian piano. – Grazie di avermelo detto».
Il ragazzo sgranò gli occhi e si voltò ancora verso la strada.
Il breve viaggio proseguì senza intoppi o altre imbarazzanti confessioni, una strana quiete regnava all’interno dell’abitacolo. Josuke avvertiva la testa pesante, le emozioni confonderlo e, soltanto quando scese dall’automobile, l’aria fredda che gli colpì le gambe nude riuscì a schiarirgli le idee.
«Te lo avevo detto di cambiarti» lo sgridò la madre, il tono stranamente più affettuoso del solito.
Senza replicare la afferrò piano per il polso e iniziò a marciare in direzione dell’entrata dell’ospedale, ricercando con sguardo frenetico un’infermiera a cui chiedere informazioni.
Disdegnava quel luogo, gli provocava angoscia e una fastidiosa sensazione d’impotenza dato che, spesso, neanche lui e Crazy Diamond potevano intervenire, far scomparire le sofferenze dei malati, aggiustarli.
Josuke frizionò la fronte, pulsava fastidiosa e l’odore di disinfettante non lo stava aiutando; prestò attenzione a Tomoko che, libera dalla stretta delle sue dita, a passo marziale s’era avvicinata ad un giovane medico.
«Nijimura dice… – il dottore aveva pigramente aperto la cartellina. – Sì, ho presente, il ragazzo caduto dal tetto. È arrivato qualche ora fa...».
«Dov’è?» Josuke s’era inserito nella conversazione con prepotenza, interrompendolo.
Ricevette in risposta un’occhiata infastidita e, dopo, tornò ad essere ignorato. «Ha subito una frattura alle costole e un trauma cranico. – li informò, parlando addirittura più lento e svogliato che in precedenza. – I vicini, a causa del fracasso, si sono accertati immediatamente delle condizioni del signor Nijimura e hanno chiamato l’ambulanza. Dovrà rimanere qualche giorno ricoverato, ma...».
«Ho chiesto: dov’è la sua stanza?» intervenne e ribadì la domanda precedente.
Tomoko lo riprese aspra, prima potesse farlo il giovane medico, «Aspettami in fondo al corridoio, niente storie».
Praticamente obbligato ad ascoltarla, contrasse in disappunto la mascella, digrignando i denti; incrociò le braccia al torace e provò a tenere sotto controllo il tremore alle mani, intanto che, con la schiena riversa alla parete, seguiva la conversazione dei due adulti.
A malapena distingueva le parole, la mente fissa su Okuyasu.
Voleva vederlo, accertarsi di persona delle sue condizioni, voleva….
Cazzo.
Si lasciò scivolare verso il basso, una marionetta a cui avevano tagliato i fili, le dita immerse fra i capelli e il labbro ormai sanguinante per tutte le volte in cui lo aveva morso.
Doveva riuscire a calmarsi. Avevano detto che le condizioni del suo amico non erano gravi, razionalmente quindi sapeva di star esagerando. C’era qualcosa dentro di lui… Qualcosa di spezzato, oscuro, si estendeva a macchia d’olio sino a diventare un artiglio affilato, che si divertiva a pungolargli il cuore e ricordargli, quasi ogni giorno, la sensazione nauseante del corpo morto di Okuyasu stretto a sé.
Basta!
Stava diventando un’ossessione ridondante.
Josuke s’accorse del ritorno della madre soltanto quando gli parlò, attirando la sua attenzione, «Devo sistemare alcune questioni assicurative, immagino tu non abbia alcuna intenzione di accompagnarmi, giusto?».
Lui aveva risollevato il mento e incontrato il sorriso incerto, che voleva apparire rincuorante, e sul viso spossato disegnata un’espressione compassionevole. Era ridotto così male da far pietà.
Ma poco gli interessò. Rimase muto, in attesa.
Tomoko arricciò le labbra in una smorfia. «Stanza 108, al quinto piano».
Immediatamente s’alzò in piedi, dandole le spalle. Venne afferrato per il gomito, la voce risoluta della donna gli ferì le orecchie: «Non è ancora orario di visita, aspetta».
«Voglio vederlo adesso, ne ho bisogno» confessò.
«Potete risolvere i vostri problemi anche fra qualche ora».
Josuke si districò dalla presa, il capo chino. «Scusami, mamma».
Impensierito com’era neanche si girò per guardarla e veloce raggiunse gli ascensori ma, resosi conto della lentezza con la quale stava arrivando al piano terra, optò per le scale. Qualche minuto dopo, si ritrovò a percorrere il corridoio stretto e scarsamente illuminato del reparto; erano a malapena le sei del mattino e il silenzio irreale di quel luogo cominciava ad accentuare l’ansia che già provava, lo innervosiva.
Giunto dinnanzi alla camera 108, impetuoso spalancò la porta e accese le luci, senza perdersi in inutili cerimonie; avrebbe voluto prendere a male parole Okuyasu, urlargli contro tutta l’apprensione patita, però…
Però quando lo vide addormentato, la testa fasciata sorretta dal cuscino, non ebbe il cuore di realizzare nessuno dei suoi propositi.
Josuke si lasciò pesantemente cadere sulla sedia accanto al letto, la mano poggiata sulla fonte, martellava tanto da fargli credere presto si sarebbe spaccata a metà, e il fatto che di nuovo gli venisse da piangere non migliorava la situazione.
Distese il braccio e sfiorò gentile i capelli scarmigliati di Okuyasu, li pettinò fra le dita per qualche secondo, poi scese a carezzare il viso assopito e permise a Crazy Diamond di curarlo. Anche dopo averlo guarito continuò a sostare sulla pelle tiepida delle guance, assillato dal timore di non vederlo più svegliarsi, com’era già capitato.
Le palpebre del ragazzo vibrarono, lo udì mugolare e osservò attento il suo lento riprendersi; si era voltato verso di lui, ed ora lo guardava frastornato.
Josuke affondò i denti nel labbro tremolante, dopodiché si gettò istintivamente fra le sue braccia; lo soffocò e si nascose nell’incavo del collo.
«Jo… Jos’kè? – gracchiò dubbioso. – Cosa succede?».
«Ti sei quasi ammazzato, ecco cosa!». La voce era a pezzi, un vetro rotto e tagliente.
Le lacrime bagnarono il colletto del pigiama di Okuyasu. Si sentiva patetico, mentre stringeva il migliore amico e lo stomaco si contorceva in subbuglio ad ogni goffa carezza ricevuta per tentare di calmarlo.
«Sto bene, non fare così».
Higashikata sciolse l’abbraccio, quel tanto che bastava per guardarlo negli occhi; afferrò la maglia e s’avvicinò al suo viso, ignorando l’improvviso rossore espandersi sugli zigomi dell’altro.
«A cosa stavi pensando? Sei un portatore di Stand e rischi di morire saltando giù dal tetto di casa tua? E cosa cazzo ci facevi sul tetto a quell’ora di notte?».
Lesse un barlume di colpa nello sguardo del ragazzo. «Non stavo pensando… Ero preoccupato per mio padre. Si è spaventato per colpa di Stray Cat, ancora non vanno molto d’accordo, mi ha svegliato e per inseguirlo non so neanche come ci siamo finiti sul tetto e… Sono inciampato. In quel momento, forse perché ero ancora mezzo addormentato, non mi sono ricordato di The Hand…».
«Sei veramente un idiota».
Okuyasu gli sorrise amareggiato. «Mi dispiace, Josuke, vi ripagherò le spese».
Le dita fremettero e si strinsero energiche sulla stoffa, lo strattonò in avanti e ringhiò: «Cosa vuoi che me ne importi dei soldi? Ho rischiato di perderti di nuovo! Smettila di fuggire da me!».
«Non sto fuggendo. – afferrò i suoi polsi. Le sopracciglia corrugate, lo sguardo fosco, pareva stesse provando a capire il profondo turbamento di Josuke. – Che idee strane ti vengono, bro? Non ti lascerò mai» carezzò la pelle fredda con i pollici, mentre cercava di calmarlo.
Gli occhi azzurri e languidi si sgranarono, dentro di sé udì il disperato desiderio di accorciare le distanze.
«Mai?» soffiò, a pochi centimetri dal suo viso. Sotto i polpastrelli percepì la pelle bollente delle guance; l’anima s’infiammò e la voglia si espanse violenta: una miccia gettata in un campo di granturco.
Era stanco di vivere impaurito di perderlo.
Prima che Okuyasu potesse rispondergli, lo baciò. Ormai messo a nudo non si limitò ad un timido scambio di labbra, anzi, lo divorò passionale. Si mosse affannato sulla sua bocca, sfregando le mani, ancora percorse da brividi, sulla veste ospedaliera.
La lingua lo stuzzicò, sorpreso sentì Nijimura ricambiare il contatto, approfondirlo e cercare di intrecciare i muscoli umidi e caldi. Josuke gemette quando venne stretto dalla vita e aiutato a sedersi sopra di lui.
«O-okuyasu… – mormorò e s’accorse della sfumatura diversa assunta dalla propria voce, dolce e bisognosa. Lo ripeté. – Okuyasu» anelò accaldato.
«Sono qui» disse rincuorante.
Higashikata sfregò le labbra sullo zigomo marcato, e seguì lentamente le sottili cicatrici del suo viso. Aveva socchiuso le palpebre, stregato dalle nuove sensazioni provate fra le braccia del migliore amico.
Il motivo per cui la notte non riusciva a riposare, per il quale si perdeva ad osservare sognante Okuyasu ed il suo volto gli veniva in mente ogni volta che ascoltava stupide canzoni d’amore, era talmente palese da farlo sentire quasi patetico.
Ridacchiò, dopo gli sussurrò: «Mi piaci, se non si fosse notato dal bacio».
Lui abbassò lo sguardo, a disagio. «Sei sicuro?».
«Perché non dovrei?».
«Perché sono stupido e anche bruttino» alzò le spalle.
Josuke s’avvinghiò di più al suo corpo, scoccandogli l’ennesimo bacio. «Non dirmi che adesso dovrò cantare una canzoncina per rassicurarti, come si fa con le principesse Disney».
«Sarebbe gradita» mise un broncio giocoso.
Josuke venne scosso da un brivido quando le dita dell’altro scivolarono dal collo ai fianchi, superando fin troppo facilmente la canottiera sottile, di solito usata per dormire.
«Sei mezzo nudo, bro» mormorò al suo orecchio. Raggiunse il fondoschiena generoso e, da sopra i pantaloncini, gli afferrò le natiche, attirandolo in avanti.
«Cosa stai facendo?» domandò, il respiro divenne pesante.
Nijimura poggiò la fronte sul suo petto. «Tu… Tu mi piaci da un pezzo, Jos’ké. L’ho capito quando sono quasi morto e, alla domanda di mio fratello su quale fosse la mia decisione, riuscivo a pensare soltanto a te. All’inizio credevo fosse perché sei il mio migliore amico… – lo guardò di sottecchi. – E lo sei anche adesso, proprio per questo mi sembra giusto dirtelo: bro, mi sono innamorato di un ragazzo» la voce scemò, dolcemente.
L’entusiasmo che travolse Josuke dopo la confessione lo fece quasi svenire di felicità; sollevò il suo viso un’altra volta e lo minacciò, allegro: «Oh, anch’io, che strana coincidenza. E, proprio perché ti amo, la prossima volta che oserai farmi preoccupare così prima ti curo, dopo ti ri-spezzo tutte le ossa. Una per una».
«Buddy! – si lagnò, le lacrimucce spuntate agli angoli delle ciglia. – Papà si era spaventato».
«Tu hai fatto spaventare me!».
Si sorrisero. In quell’attimo notò nello sguardo di Okuyasu un’emozione mai scorta prima, un misto fra l’imbarazzato e l’ammaliato; silenzioso non gli aveva staccato gli occhi di dosso, mentre riprendeva a lusingarlo con carezze languide e profonde.
Josuke gli permise di scambiare le loro posizioni e sovrastarlo. Lo osservò interessato alzargli la canottiera e stritolò il lenzuolo della brandina fra le dita contratte quando posò un bacio adorante sulla pelle chiara del ventre, risalendo piano a lambire l’aureola rosata.
Boccheggiò in cerca d’aria, il palato fattosi improvvisamente secco, la deglutizione difficoltosa; i fianchi si sollevarono d’istinto e sfregò l’inguine contro quello dell’altro. Percepì con soddisfazione Okuyasu ricambiare quel gesto, la forma dell’eccitazione dura e bisognosa contro la propria.
«Ti ricordo che… Siamo in ospedale» disse, aggrappato all’ultimo brandello di lucidità.
«Allora? – la voce di Nijimura era più rauca del solito, ansimò sui pettorali gonfi, guardandolo con occhi languidi e incandescenti. – Voglio sentirti, non se ne accorgerà nessuno» morse il capezzolo turgido e la mano immersa fra i loro corpi strinse il pene di Josuke da sopra i pantaloncini, muovendosi dall’alto verso il basso abbastanza rapidamente.
Il gemito lussurioso che gli uscì dalla bocca stupì perfino se stesso.
«A-aspetta...».
«Stai godendo, no?».
«Sì, ma… Dannazione! – arcuò la schiena, una serie di suoni indecenti provennero dalla sua gola, non pensava fosse in grado di emetterli. – M-mi sentiranno. Sembro il protagonista di un film porno! Smettila!».
«Adoro il suono della tua voce».
«Non penso piacerà alle infermiere, o a mia madre, se ci scoprono».
Okuyasu latrò una risata, raggiunse la voglia a forma di stella che spiccava sulla spalla sinistra e ci posò sopra le labbra, più dolce.
«Siamo un duo. – sussurrò inaspettato, le mani tornate a stringergli i fianchi. – Io proteggo, tu curi, questa è la nostra forza e vicino a te mi sento finalmente parte di qualcosa, dovrei ringraziarti…».
Josuke gli annodò le braccia al collo, si risollevò e premette il naso contro la guancia, sfregandolo un pochino lì. «Stai cercando di distrarmi e intenerirmi per fare sesso in ospedale? Dude, sei un manipolatore!».
Aveva intuito perfettamente le sue intenzioni.
«N-no, ma, ma cosa dici?» balbettò Okuyasu, per nulla convincente.
«Non pensavo fossi un poco di buono, chissà chi hai preso come esempio» sospirò drammatico.
«Il mio migliore amico estorce soldi ai ragazzini delle medie».
«Bugiardo, non rubo soldi ai bambini! – gli lanciò un’occhiata piccata. – E poi cos’ha a che fare con il tuo essere pervertito?».
«Ti chiedevi quale fosse il mio cattivo esempio, sei tu».
Josuke voltò il viso dall’altra parte, poi borbottò: «Ora mi accuserai anche di averti fatto diventare gay».
«Questo non puoi proprio negarlo» rispose, le labbra premute sulla sua guancia.
Abbassò le palpebre, beandosi del tocco caldo e affettuoso; gli afferrò i polsi e lo tenne ben fermo, rivolgendogli un sorriso furbo, per nulla indulgente. Malgrado Okuyasu continuasse a fargli gli occhioni languidi e molestare il collo con morsi e carezze, non avrebbe ceduto, non quella sera.
Mica voleva rischiare di essere ucciso dalla madre proprio il giorno in cui s’era confessato, ricambiato, al suo migliore amico. Sarebbe stato un cliché abbastanza avvilente.

Angolo autrice:
Hola! Questa One-shot partecipa alla JosuYasu week e il prompt utilizzato è Ammalato/ferito.
Secondo me Josuke, dopo quanto accaduto con Kira, ha faticato un bel po’ per riprendersi; la paura di rivedere Okuyasu in quelle condizioni lo avrà tormentato per un bel pezzo, e in questa OS ho voluto provare a trattare quel timore.
Come al solito ringrazio la mia beta, Kyuukai, per la sua pignoleria ahahaha <3
Mi auguro vi sia piaciuta, grazie a chi leggerà e deciderà di lasciarmi un piccolo parere!
Alla prossima!

   
 
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