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Autore: EmilyWord    16/11/2018    1 recensioni
Un trauma si impossessa prepotentemente, rompendo quel sottile vetro che divide la realtà dalle proiezioni mentali. Salva davvero da quella sensazione o fa sprofondare ancor più la mente nella follia e nello sconforto?
[Il trauma non è specificato, sta a voi trovarlo: nulla è sbagliato. E' un esperimento, spero possa piacervi.]
Genere: Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Aspetto, mentre la luna risplende tenue tra le fronde degli alberi. Frammenti luminosi, come schegge di vetro giallo, si stagliano sull’asfalto, ancora caldo per il pomeriggio appena trascorso. Un cicalio assordante si sente in lontananza, rimarcando la stagione con una cantilena stonata. Il mio respiro pesa, opprime il mio piccolo petto che a malapena si solleva ritmicamente, e ciò scuote questo corpo freddo, che suda a causa dell’afa notturna. Continuo a pensare al mio respiro, mentre l’abbandono prende il sopravvento tra le diverse sensazioni contrastanti che statiche affollano i miei pensieri. Provo a ricordare, ma forse non lo faccio veramente. Abbandono? Ripeto più volte quella parola, sussurrandola come attirata da un qualche incanto, ma più le mie labbra si muovono, più tutto sembra perdere significato, fino a farmi trascurare quella sensazione.
Attendo, mentre un senso di vuoto inonda il mio piccolo stomaco contratto. La realtà scivola via, diventando una piccola linea quasi invisibile: l’orizzonte, buio e remoto. Non mi attrae, mi ricorda il futuro di qualcosa che non avverrà mai. Lì le deboli luci del cielo notturno nemmeno osano avvicinarsi, come avvertite della futura venuta di raggi più splendenti, più solari. Schegge fredde, che contrastano con il caldo cemento. Perché mi ricordano? La mia mente, più compatta che mai, sente dei frammenti che vagano nel mio corpo: vetri rotti, che vorticano leggiadri troppo vicini a ciò che è importante. Tagliuzzano, sminuzzano, fino a smembrare anche i ricordi più felici. Li sento così estranei, così lontani: sono frammenti di me o di qualcun altro?
Una domanda echeggia dal profondo, mentre le carni raggelano all’udirla. Ma non la comprendo, come se anch’essa avesse perso ogni significato. Qualcosa di importante dovrei ricordare, ma la stanchezza impedisce ogni pensiero troppo complicato. Le cicale diventano sempre più piacevoli, infondendomi sicurezza nella quale rintanarmi. Eppure lo so che non posso fuggire, che le catene ai miei polsi sono tutto ciò che sto evitando in questo momento, ricordi che si radicano nel profondo senza lasciare spazio. Allora quel vuoto cos’era?
Immobile, sento come il mio pensiero violi quel limite che mi proteggeva. Quel corpo non mi appartiene. Non è mio. Quel sudore freddo, quel respiro frenetico, il petto che sembra sul punto di scoppiare… Le mie membra ricordano, lacerate da quel che non voglio realizzare. Ma la testa vaga senza meta, abbandonando tutto ciò che sono su una strada.
È come galleggiare in mare, fingendosi morti. Derivo placidamente senza nemmeno rendermene conto. In balia degli eventi e ormai incapace di agire, attendo qualcosa di cui non ricordo né forma né odore. Perdo costantemente qualcosa, sento piccoli frammenti che, come foglie, vengono strappati dal vento, disperdendosi sull’asfalto ancora illuminato da quelle schegge.
Non voglio ricordare perché significherebbe soffrire, ma ormai non posso più ignorare i miei frenetici singhiozzi, le lacrime che disperate scivolano o le mani tremanti che si stringono al petto. Ciò che aspetto non tornerà più. Tanti piccoli frammenti volano via. Le aspettative scompaiono: dove ho sepolto la mia speranza?
   
 
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