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Autore: naisia    16/11/2018    2 recensioni
Ho sempre sentito dire che l'amore materno è uno dei legami più forti che esista. La mia vita è la testimonianza che questo non è vero. I miei vent'anni passati sotto il tacco di una matriarca ne sono la prova. Quattro lustri raccontati in quattro pagine. divertitevi, perchè io non mi sono divertita affatto.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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Io ti odio.

Ti odio così tanto che a volte vorrei semplicemente andarmene, un passo dopo l’altro, metro dopo metro, fino a vederti sparire oltre la linea dell’orizzonte.

Eri la mia guida, il mio esempio, il mio faro.

E ti amavo così tanto.

E adoravo quando riuscivo a destare in te una scintilla di meraviglia, di orgoglio.

Si sono fatte così rade negli anni.

Senza un padre che mi considerasse nulla più che una bambina (ancora adesso lo fa, parlandomi sempre con quel suo fare paternalistico che mi fa saltare i nervi come corde di violino) senza quasi nessuno che capisse quello che dicevo o quello che facevo, tu, che sapevi comprendermi all’istante, eri il mio salvagente.

Andava tutto bene finché i miei rapporti con gli altri erano limitati a te, alla famiglia e a pochi bambini.

I guai sono cominciati con la scuola.

Ci sono bambini che si adattano subito, che diventano il cuore di un gruppo di amici, e ce ne sono altri che diventano quegli amici, persone normali.

Ma io non avevo il carisma di un capo né l’accondiscendenza di un sottoposto.

Io facevo quello che volevo, senza mai curarmi delle conseguenze.

E i problemi arrivarono ovviamente, inesorabili come un sasso che cade nel vuoto.

Troppo irruenta per le bambine, troppo strana per i maschi.

Inciampavo, correvo, ridevo. Quasi sempre sola. E quando tornavo in seno al branco, il branco non me la poteva di certo far passare liscia.

Me le ricordo tutte, una ad una le angherie dell’infanzia. Il barattolo di maggiolini rovesciato nei capelli quando avevo cercato di impedire che li bruciassero vivi, la lucertola decapitata nonostante le mie urla. E poi le pallonate, le spinte, i cori, gli inseguimenti dieci contro uno, le risate.

“Pericolo pubblico, pericolo pubblico” così mi canticchiavano dietro alle elementari.

Io piangevo ma in verità avrei solo voluto rompergli la testa sul banco, non ho mai detto di essere una bambina buona.

Ma quella non era la cosa peggiore.

La cosa peggiore era quando loro ti accerchiavano. E loro erano tanti e tu eri sola. Non era necessario che ti picchiassero o ti urlassero addosso, bastava quella sensazione di soffocamento, di panico asmatico a rendere il tutto terribile.

Ma questo non sarebbe stato un gran problema.

Il problema era che avevo le spalle scoperte.

Perché quando reagivo, e reagivo da pazza, spesso portata all’esasperazione da quelle torture, gli altri avevano subito i genitori a soccorrerli.

Io ero da sola.

Devi prenderti la responsabilità delle tue azioni.

Se gli altri ti provocano tu non devi reagire così.

Sbagliano gli altri genitori ad essere così protettivi.

Tutto giusto.

Tutto vero.

Ma non lo rendeva migliore.

La giustizia quando non agisce ma sputa solo aforismi non salva nessuno.

Mi hai protetta una sola manciata di volte e ancora me le rinfacci.

Quando mi hai difesa? Quando il vicino del terzo piano mi ha molestata a sette anni? L’hai fatto finire in prigione, wow grazie tante, so che deve esserti costato un sacco di fatica ma, hei mi hai fatto un favore ad evitarmi di reincontrarlo sulle scale un giorno si e l’altro no.

Ma sai? Non si può neanche chiamare difesa, credo che il termine più corretto sia “stupida vendetta inutile che non ha cambiato praticamente un cazzo”.

Perché i ricordi del porco che mi fa sdraiare sul letto e mi toglie le mutande e mi lecca la figa e mi struscia il suo cazzo moscio contro la vagina ce li avrò io per tutta la vita, non tu.

Gli anni passati a pensare che non mi sarei mai lasciata toccare da un uomo ce li ho avuti io non tu.

Ma nonostante tutto, in qualche modo, sono cresciuta anch’io.

E le cose sono andate solo peggio.

Non bastava che il mondo mi considerasse un cesso, dovevi farlo anche tu.

Dovresti smetterla di ingozzarti.

Ingozzarti: ho sempre odiato quella parola, mi faceva venire in mente l’immagine di una me che si ficcava in bocca senza contegno tutto quello su cui riusciva a mettere le mani.

Ma fosse stato solo quello sarebbe anche andato bene.

Io avevo una passione, sin da quando ti avevo visto fare gli schizzi di delle palline di albero di natale su un foglietto. Volevo essere un’artista.

E credendo che il tuo giudizio fosse il più importante del mondo ti mostravo ogni mia opera. E la tua reazione era sempre la stessa “cosa vuoi che ti dica, è carino...” mi è bastato rifare questo errore poche volte, dopo non ti ho mostrato quasi più nulla.

Volevo essere un artista.

Ma tu alla mia età avresti voluto fare lo scientifico e ti eri dovuta accontentare di un misero liceo artistico, quindi io dovevo fare lo scientifico.

E ti ho creduto quando hai detto che potevo farlo.

E ci ho creduto così tanto che anche quando arrivò la prima bocciatura non demorsi, nonostante tu stessa mi dicessi di smettere.

Perché ero troppo orgogliosa per mollare.

Perché non volevo deluderti.

E anche dopo la seconda bocciatura non ho rinunciato.

Anche se quella scuola mi faceva schifo, anche se odiavo a morte il latino, la matematica e la fisica.

E intanto ogni mio disegno doveva essere accuratamente nascosto.

Se li trovavi mi accusavi di “stare lì a fare i disegnetti al posto di studiare”.

E quando scoprii i manga, che periodo che fu! Ci fu un’altra cosa su cui potevi massacrarmi e farmi sentire stupida, spalleggiata dalla sorellona Marta molto spesso.

Ma quanto ti piaceva però farti bella con gli amici di famiglia parlando dei film di Miyazaki, di cui però manco riuscivi a ricordarti il nome.

Che anni sono stati eh? Anni in cui la mia opinione nelle discussioni valeva sempre meno di zero, anni in cui non avevi fatto altro che farmi sentire inadeguata prediligendo mia sorella.

Me la ricordo, quella sera.

Il panico asmatico.

Ti accusai infantilmente di preferire Marta a me.

Volevo che mi dessi della stupida cretina come al solito, e che dicessi che non era vero.

Tu hai risposto di si.

E la mia cara sorella ha rincarato la dose rispondendo “una volta eri tu la sua preferita, chiediti cos’hai fatto per farle cambiare idea”.

Pensi che siano state solo discussioni stupide vero?

Io però me le ricordo tutte.

Mi ricordo la prima volta in cui mi hai dato della troia, e non avevo mai baciato neanche un ragazzo.

Mi ricordo quando mi hai detto “vorrei che non fossi mai nata

Mi ricordo quando mi prendevi in giro perché piangevo accusandomi con Marta di avere la sindrome della “bambina perseguitata”.

Ho la lacrima facile? Forse, ma perché tu non hai mai considerato che forse le tue per me erano davvero delle pugnalate? Perché non hai mai provato solo per un secondo a metterti nei miei panni.

Forse perché ti sentiresti morire.

Mi ricordo ogni cosa.

E non voglio dimenticare neanche una sillaba.

Alla fine sono arrivati i diciotto anni, e ho deciso che tutto sarebbe cambiato.

A partire dal mio aspetto.

Mi ci sono voluti tre mesi in cui ho vomitato tutto quello che mi davi da mangiare per dimagrire, ma alla fine ci sono riuscita.

Visto? Te l’avevo detto che crescendo il fisico si asciuga

Avrei voluto scoppiarti a ridere in faccia.

Perché tu lo sapevi.

Quando cominci a rigettare i tuoi pasti all’inizio stai attenta a pulire, ma poi diventa un’abitudine e non ci fai più caso.

C’è un problema però.

Anche se tiri lo sciacquone rimane una sorta di patina sull’acqua. Non importa quanto fai andare il flusso, quella resta sempre lì. E dopo un paio di giorni comincia a marcire, proprio ai lati del cesso, si forma una muffa nera che puzza di succhi gastrici andati a male.

E tu lo notavi, tu noti ogni cazzo di cosa, ma non hai detto niente perché pensavi che fosse solo un altro dei miei modi infantili per attirare l’attenzione.

Lo so che lo sapevi, me l’hai pure fatto capire un giorno dicendomi di piantarla con queste stronzate.

Ma al tempo stesso le cose hanno iniziato ad andare meglio.

Ricevetti i miei primi riconoscimenti in campo artistico e filosofico.

E tu li cannibalizzavi.

Il mio trofeo lo esponevi nel tuo salotto.

La mia opera, che mentre era tra le quattro finaliste avevi chiaramente detto che probabilmente non avrebbe vinto, la incorniciavi.

E io ero felice.

Perché finalmente mi vedevi.

Quanto Cristo mi sbagliavo.

Ricominciai a farti vedere i miei disegni.

Giudizi tiepidi, come prima.

Cominciai ad andare meglio a scuola a non avere bisogno di quelle ripetizioni che mi offrivi tu di fare e dopo un mese già cominciavi a rinfacciarmi i soldi spesi.

Non era comunque abbastanza ma andava bene così, c’era un equilibrio.

E questo idillio durò fino alla primavera dei miei vent’anni.

Fino a Federico.

Lo amavo? Lo amo? Non lo so. Adoro stare con lui, è intelligente, gentile e mi ama. Dio sentirsi amati appieno dopo una vita in cui si raschia ogni briciola di affetto con le unghie e coi denti è come bere acqua fresca dopo una traversata nel deserto.

E io gli do tutto quello che posso in cambio.

Anche il mio corpo.

Anche se non mi piace fare sesso con lui.

Non mi dà fastidio, non mi fa schifo, semplicemente mi lascia abbastanza indifferente e sono perfettamente conscia di quanto sia orribile il fatto che gli menta, ma il terrore di restare di nuovo sola è troppo forte.

Più vado avanti con la mia vita e più mi ritrovo ad ammirare i corpi delle donne e meno quelli degli uomini.

È da quando avevo quindici anni che sospetto che possa avere certe preferenze, ma quando ho cercato di parlarne con te l’hai liquidata come la mia ennesima ricerca d’attenzione.

So già che se avessi portato a casa una fidanzata non l’avresti presa sul serio.

Mi hai fottuto anche la possibilità di avere una sessualità.

Ma Federico portò anche alla rottura di quell’equilibrio precario.

Abbiamo tante cose in comune io e te.

Tra queste c’è una sfrenata passione per l’intelligenza.

E Federico è intelligente, oh se lo è, un maledetto geniaccio.

E al primo pranzo a casa nostra con lui presente il tuo affetto cadde come un castello di carte.

I tuoi tentativi di tagliarmi fuori dalle conversazioni, il tuo trattarmi con sufficienza erano normali per me.

Ma non per lui.

Non potevi intuire che anche se le tue frecciatine e i tuoi commenti velenosi non mi tangevano quasi, ferivano lui, cresciuto in una famiglia normale in cui cose del genere non accadevano.

Federico iniziò a disertare i tuoi inviti, proponendomi di stare insieme in posti che non fossero casa mia.

E io accettai.

Ma tu non potevi rinunciare al tuo giocattolo nuovo vero?

Hai iniziato ad accusarmi di tenere il mio fidanzato il più possibile lontano da questa casa, hai inasprito i tuoi commenti, le tue schermaglie.

Fino a stasera.

È ormai da molto tempo che sono cosciente che non c’è un’alternativa, ma ora, con questo flusso di coscienza patetico di ricordi e acredine spero di poter segnare un punto di svolta nella mia vita.

Trasformare tutti i sentimenti che provo per te in indifferenza.

Non voglio più odiarti, ne tantomeno amarti.

Non voglio più avere nulla a che fare con te dal punto di vista affettivo.

Non scrivo questa lettera per te, anche perché se te la mostrassi la tratteresti con la solita aria di sufficienza.

Non sono perfetta, anzi, la mia lista di peccati è lunga quanto il mio braccio. In vita mia ho rubato senza provare rimorso, ho mentito e non mi sono pentita, ho insultato, giudicato e fatto cose che nessuna persona normale farebbe e solo per poche di esse mi sento in colpa.

Ma nonostante tutto questo so di non meritare il tuo odio, ho visto figli fare ben di peggio, e genitori continuare ad amarli nonostante tutto.

Ho riletto questo testo mentre lo scrivevo e porca puttana quasi non sembra vero con tutta la merda dei miei vent’anni concentrata in quattro pagine. C’è da stupirsi che non mi sia buttata da un tetto.

Potrei continuare a lottare, a farmi il culo cercando di conquistare un’oncia del tuo amore nonostante ogni ferita che si rimargina renda il mio cuore sempre più duro, sempre più calloso.

Ma non voglio più stare male per colpa tua, voglio solo che ogni tuo giudizio mi scivoli addosso come acqua limpida di fonte.

Ti ho amato da morire.

Ma stasera finisce qui.

Mamma.

   
 
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