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Autore: ColdBlood     16/11/2018    1 recensioni
[Suburra]
A volte doveva trovare degli obiettivi, piccoli obiettivi, per darsi forza, per tirare avanti. Da qualche tempo a quella parte, da quando tutta quella storia era iniziata, il suo obiettivo era aspettare la prossima volta in cui avrebbe visto Aureliano Adami e sarebbe stato così ancora un’ultima volta.
Aureliano/Spadino
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Aureliano e Spadino non si sentivano da qualche giorno quando arrivò la notizia.
Da quello che sapeva Spadino era ancora in Puglia a godersi la fine della stagione estiva, a leggere e a prendere il sole.
Se lo riusciva ad immaginare benissimo, bianco latte, in costume, su una sdraia a prendere il sole. Difficilmente riusciva ad immaginarselo con un libro in mano, ma la noia poteva fare brutti scherzi.
Non sapeva se fosse davvero al sicuro, ma l’ultima volta che lo aveva sentito al telefono sembrava felice.
Avrebbe mentito se avesse detto che non aveva provato gelosia al pensiero che Alberto potesse essere felice senza di lui. Quelle settimane passate insieme lo avevano convinto al cento per cento del sentimento che Alberto provava per lui, ma ora iniziava a dubitarne.
Forse Alberto si era innamorato di lui a causa della vita che facevano, ma ora aveva la possibilità di scegliere.
La sua vita sarebbe stata molto più facile se avesse trovato un bel ragazzo abbronzato con cui passare le serate estive. Un ragazzo con cui poter passeggiare, poter uscire, con cui poter costruire qualcosa.
Scosse la testa per scacciare via quei pensieri e tornò a dare attenzione a Romoletto che era lì davanti a lui.
«Va bene Romolè, poi annà.»
Aureliano era tornato alla sua vecchia vita, come se tutto quello che aveva passato non fosse successo.
Anche gli Anacleti si facevano gli affari propri, ma probabilmente da quel momento tutto sarebbe cambiato. La notizia del giorno era l’inizio di una nuova era: Manfredi Anacleti era morto in ospedale dopo mesi di coma.
Si passò una mano sui capelli biondi mentre pensava al da farsi.
Rocco Anacleti avrebbe sicuramente preso il posto che doveva essere di Spadino e non sapeva cosa aspettarsi da lui. Avrebbe continuato a cercarlo? Lo dava per morto? Cosa stava covando?
Alberto gli aveva chiesto di assicurarsi che Angelica stesse bene, aveva provato a chiedere in giro, a mandare qualche occhio a spiare, ma della ragazza nessuna traccia.
Più ci pensava più gli sembrava orribile la possibilità di dare la notizia ad Alberto per telefono. Non voleva farlo. Non sapeva come l’avrebbe presa ma sapeva che voleva esserci.
Voleva essere presente per leggere sul suo viso le espressioni che si sarebbe perso al telefono. Era stato lui a sparare a Manfredi, dopotutto, era colpa sua se era morto.

La sera stessa lo chiamò.
«Ehi.» rispose Alberto, sembrava allegro.
«Hai finito de abbrustolitte?» rispose Aureliano.
«Ho finito mo de magnà. Nun sai che te stai a perde!»
Aureliano sospirò e andò dritto al punto «Pensi de rimané lì ancora a lungo?»
«No, nun credo. Penso che mi sposterò verso su tra poco.»
«Io c’ho bisogno de parlatte. Che ne dici se se vedemo a metà strada?»

Il giorno dopo si misero entrambi in marcia. Spadino aveva molta più strada da fare in confronto a lui, quindi Aureliano arrivò prima al posto designato. Un hotel a tre stelle sulla Roma-L’Aquila.
Fece il check in e gli inviò un messaggio con il numero della stanza.
Si tolse le scarpe e le lanciò in un angolo della stanza, sdraiandosi sul letto piuttosto duro.
Non aveva mangiato nulla, ma il suo stomaco si era chiuso ancora prima di lasciarsi Roma alle spalle.
Era nervoso. Era nervoso perché era metà settembre e non vedeva Alberto da quasi cinque mesi, gli era mancato come l’aria e riusciva a fatica a formulare quel pensiero.
Inoltre non sapeva come Alberto avrebbe preso la notizia della morte del fratello. Erano sempre stati due mondi diversi, come lo erano Aureliano e Livia, ma lui non amava ugualmente sua sorella?
La amava anche dopo quello che aveva fatto ad Isabelle ed era una cosa che difficilmente riusciva a spiegarsi.
Si addormentò, senza neanche rendersene conto, per noia più che per vera stanchezza, ma fortunatamente sentì il bussare alla porta di qualche ora dopo.
Si alzò di fretta, con il cervello un po’ annebbiato, e andò ad aprire la porta.
Alberto era in corridoio e lo guardava. «Buongiorno, principessa.» gli disse, sorridendo, con la sua solita faccia di bronzo.
I suoi capelli erano quasi rasati a zero e Aureliano non avrebbe mai e poi mai pensato che gli sarebbe mancata la sua cresta da imbecille. La sua pelle era meravigliosamente abbronzata e si ritrovò a pensare a quanto fosse bello.
Era diverso. Non poteva non rendersene conto.
Quel sorriso? Quando lo aveva visto sorridere in quel modo?
E anche fuori, era diverso. Aveva indosso un paio di jeans aderenti, neri e una t-shirt bianca, molto semplice, ma un giacchetto di pelle appoggiato sul braccio destro.
Non lo aveva mai visto vestito così, semplicemente non era il suo stile.
Dov’erano i pantaloni larghi? Dov’era la cresta? Dov’erano le catene d’oro al collo e gli anelli?
«Vaffanculo. Sei in ritardo.» gli rispose Aureliano, che in fondo era sempre Aureliano.
Alberto rise e in un secondo gli fu addosso. Lanciò il suo borsone all’ingresso della stanza e gli prese il viso tra le mani per baciarlo, lasciando che la porta si chiudesse con un tonfo alle sue spalle.
«Me sei mancato pure tu.»
Aureliano gli strinse un braccio intorno alla vita e gli prese il mento in una mano per poterlo guardare, stringendo le sue dita sulle sue guance. Era diverso, ma era sempre lui.
«Che dice Roma?» gli chiese Alberto, con un sorriso.
«Sempre le stesse cose da dumila anni.» fu la risposta che ricevette prima di trovarsi sul letto schiacciato dal peso di Aureliano.

Non avrebbe dovuto farlo, forse. Una parte di Aureliano lo sapeva che non avrebbe dovuto portarselo a letto, non senza avergli detto tutto quello che stava accadendo a Roma.
Cosa diceva Roma? Che non c’erano tracce di Angelica, che suo fratello era morto e che il sesto senso di Aureliano diceva che non era ancora finita.
Ma non riuscì a pensarci.
La sua mente era vuota mentre lo baciava, e toccava la sua pelle abbronzata, a contrasto con il biancume della sua.
La sua mente era vuota mentre spingeva dentro di lui e si perdeva in quella sensazione familiare e nuova allo stesso tempo.
Guardare il suo viso mentre veniva era probabilmente la cosa più bella ed eccitante che avesse mai visto e una serie di emozioni e sentimenti che voleva evitare come la morte affiorarono nella sua testa.

Ma tutto tornò, quando Alberto, sdraiato lateralmente sul letto completamente nudo, appoggiò la testa sul suo fianco, guardando il soffitto.
Non diceva nulla, ma sembrava sereno. Poi girò la testa per guardarlo «Era questo che me dovevi dì?» rise, prendendolo in giro «Guarda che se c’hai voja de vedemme non te devi inventà niente.»
I lineamenti di Aureliano si indurirono immediatamente e lui se ne accorse immediatamente, smettendo di sorridere. «Ao, te sto a prenne in giro»
Aureliano alzò di scatto il busto, lasciando che la testa di Alberto cadesse sul materasso, si sedette al bordo del letto e si rinfilò i boxer.
«Te devo parlà sul serio.» disse, dandogli le spalle.
Il suo tono così serio lo terrorizzò in un modo che non poteva neanche spiegarsi.
«Hai trovato quarcuno?»
Aureliano si girò bruscamente per guardarlo. «Che?»
«Te sei messo co na ragazza?» Aureliano aveva capito benissimo la prima volta, lo sapeva, ma tanto valeva essere chiari.
L’altro sospirò e scosse la testa «No, Albé.»
«Nun ne abbiamo mica parlato. Se hai trovato qualcuna…» Aureliano non gli diede il tempo di finire di parlare.
«Devi sta zitto. Te devo dì ‘na cosa importante.» disse, infastidito.
«E allora parla, me stai a fa salì l’ansia.» Alberto lo guardava confuso e preoccupato.
Si passò una mano sugli occhi e sospirò «Tuo fratello, Albè. È morto ieri, in ospedale.»
Il viso di Alberto divenne una tela bianca. Non vi riuscì a leggere nulla, nessuna emozione, niente che potesse suggerirgli cosa avrebbe dovuto fare, o dire, in quel momento.
Solo dopo qualche secondo Alberto sospirò e si rese conto che aveva trattenuto il fiato per tutto quel tempo.
«Oh. » si prese un attimo, poi lo vide scuotere la testa. Si alzò e si rimise anche lui i boxer, rimanendo poi in piedi accanto al letto.
«Dovrai stà attento mo.» disse «Rocco prenderà il suo posto. È un figlio di puttana. Vorrà allargarsi, lo ha sempre detto.»
Aureliano certo non aspettava di vederlo piangere, ma neanche di surclassare così una tale notizia.
Si alzò e lo raggiunse dall’altra parte del letto, gli passò una mano sui capelli cortissimi e poi gli accarezzò il viso. «Stai bene?»
Alberto gli fece il sorriso più finto che l’altro avesse mai visto. «Si, certo. Non mi aspettavo certo che se riarzasse come se niente fosse.»
«E non me odi?» Aureliano odiò il tono patetico con cui gli uscì quella domanda.
«Odiatte?» Alberto scosse la testa «Mio fratello avrebbe fatto lo stesso a te. È guerra, Aurelià. Lo dovresti sapé mejo de me.»
«M’ha sempre disprezzato, mi fratello. L’aveva capito subito quello che ero, ma sai com’è, la famija nun te la poi sceje…» rimase un attimo in silenzio e prese la mano di Aureliano nella sua, distrattamente.
«Invece tu m’hai accettato pe quello che so. Non te posso odià…» si allontanò, improvvisamente imbarazzato e fece una leggera risata finta e nervosa.
«’o so che nun te lo voi sentì dì, quindi me sto zitto.» distolse lo sguardo da lui e fece per allontanarsi ma Aureliano lo fermò.
«Avevo detto la prossima volta.» disse, e si ritrovò perso nei suo occhi sorpresi.
Alberto lo guardò e si chiese se avesse capito bene, poi gli sorrise.
Gli strinse il mento in una mano, come faceva sempre con lui e lo guardò negli occhi.
«Nun te posso odià. Io so innamorato perso de te, Aurelià.»
Non si aspettava certo una risposta, sapeva benissimo che quelle parole non sarebbero mai uscite dalla bocca di Aureliano, ma già il fatto che fosse pronto a riceverle lo faceva ben sperare.
«La mia offerta è ancora valida.» disse poi.
Aureliano scosse la testa. «Lascia perde. Vestite, te porto a cena.»

La cena era nel ristorante dell’albergo, niente di particolarmente lussuoso, ma erano gli unici clienti della serata il che rendeva Aureliano piuttosto rilassato.
Alberto non la smetteva più di parlare, e gli raccontò i suoi mesi estivi in Puglia.
Quando aveva lasciato la casa di Sabaudia l’aria stava iniziando a scaldarsi e l’idea di essere stato a pochi minuti dal mare ma non aver avuto la possibilità di andarci lo infastidiva. Quindi aveva pensato di andare al sud, prendere l’autostrada e vedere dove andava a finire. Decise di andare in Puglia, sempre più giù, più giù.
Amava i viaggi in macchina, sarebbe stato molto meglio con Aureliano accanto ma aveva la radio, la musica e tutto era andato bene.
Aveva trovato un piccola pensione a due passi dal Mar Ionio e aveva contrattato un buon prezzo con la proprietaria per i tre mesi estivi. Aveva appena scalfito i soldi che Aureliano gli aveva dato.
Era andato al mare, aveva mangiato, aveva letto, anche se Aureliano lo aveva preso in giro quando glielo aveva detto.
Una sera la proprietaria della pensione gli aveva chiesto se fosse uno scrittore e lui lo aveva guardata con le sopracciglia sollevate. «Ste sempr a legg, ste»
Si era chiesto se sarebbe stato in grado di scrivere qualcosa, alla fine poteva dire di avere cose interessanti di cui parlare, ma la scrittura necessitava di un livello di concentrazione che lui non possedeva. Non ancora almeno.
Questa parte non la raccontò ad Aureliano.

«Te invece? Non me dici mai niente»
«Che te devo dì. È tutto come l’hai lasciato.» Aureliano, troppo impegnato con il suo piatto di pasta, non lo guardava.
«Me lo diresti se ce fosse robba che non va, si?»
Gli lanciò un’occhiata «Certo su, non t’accollà.»
«Hai avuto notizie di Angelica?»
«No, altrimenti te l’avrei detto.»
Alberto sospirò.
Era preoccupato, non poteva dire il contrario. E se avessero scoperto che lei lo aveva saputo fin dall’inizio? Angelica sapeva tutti i suoi segreti e questo rendeva anche lei vulnerabile.
«Le cose potrebbero cambiare ora.»
Non era sua intenzione costringere Aureliano a parlare, sarebbe stato estremamente controproducente conoscendolo.
«Lo so. Ho gli occhi aperti, sempre.» finalmente lasciò la forchetta e lo guardò.
«Tu devi pensà ad altro, va bene? Domani scegli dove andartene e poi me lo fai sapere. Al resto ce penso io…»
Era sempre quello che diceva al telefono.
Lascia sta.
Ce penso io.
Nun te preoccupà.
Divertite.
Quest’ultima era la risposta che più lo faceva infuriare.
Pensava che non volesse divertirsi? Pensava forse che non avesse sperato in un’opportunità del genere per tutta la vita?
Allora perché non riusciva a stare bene?
Annuì, senza dire nient’altro e continuò a mangiare.

Tornarono in camera abbastanza presto, Alberto era a pezzi dopo il lungo viaggio in macchina e il giorno dopo gliene aspettava un altro altrettanto lungo. Verso il Nord, questa volta.
Si era fatto dei programmi, quando era ancora in Puglia. Avrebbe trovato una casa, questa volta. Possibilmente da solo, anche se l’idea di condividere un appartamento con degli studenti in qualche modo lo divertiva.
Non aveva mai avuto la possibilità, né la voglia se doveva essere sincero, di studiare, andare all’università. Ma sarebbe stato divertente vivere di riflesso la vita di uno studente universitario fuorisede. Era quello che facevano i ragazzi normali, no?
Lavorare, andare all’università, bere qualcosa con gli amici il sabato sera.
Lui non aveva mai davvero lavorato, non aveva mai studiato e difficilmente poteva dire di avere o di aver mai avuto degli amici.

Si misero a letto. Alberto si mise sul lato destro, dando le spalle ad Aureliano. Era semplicemente troppo stanco ed era l’unica posizione in cui poteva davvero riposare.
Dopo qualche secondo però si sentì circondare la pancia dalle braccia di Aureliano.
Pensò che non si sarebbe mai abituato ai suoi momenti di tenerezza, ma non si lamentava.
Provò a chiudere gli occhi, ma il sonno faticò ad arrivare.

Qualche ora dopo Aureliano si svegliò, l’orologio digitale sul comodino diceva che erano le quattro del mattino. Non sapeva esattamente per quale motivo, ma si era svegliato con un pizzico di panico nello stomaco. In un attimo si rese conto che Alberto non era accanto a lui e che dalla porta socchiusa del bagno arrivava uno spiraglio di luce.
«Albè?»
Possibile che si fosse svegliato solo perché Alberto aveva lasciato il letto?
Nessuna risposta arrivò dal bagno quindi si alzò, i piedi nudi sul pavimento fresco e andò verso il bagno.
In una situazione diversa probabilmente, e giustamente, non avrebbe aperto la porta senza bussare, ma erano le quattro del mattino, si era appena svegliato e la sua mente era piuttosto annebbiata.
Quello che vide, comunque, la rischiarò in un secondo.
Alberto era seduto per terra, a gambe incrociate, con la schiena contro il bordo in muratura della vasca da bagno, al centro tra il bidet e il water. Aveva la testa bassa, le braccia abbandonate in grembo e stava piangendo. Non singhiozzando, ma poteva chiaramente vedere le guance rosse e rigate di lacrime.
«Ehi.» gli disse e Alberto ebbe un piccolo sobbalzò. Non aveva bisogno di alzare la testa per sapere chi lo aveva appena interrotto in quel momento di solitudine, quindi passò direttamente ad asciugarsi le guance con il polso. Tirò su il sorriso più finto che Aureliano avesse mai visto. E anche il più sofferente.
«Ehi. T’ho svejato?»
Aureliano non rispose. Perché non era necessario, perché non era importante.
Rimase in silenzio e andò verso di lui, si inginocchiò e fece per prendergli la mano.
Alberto evitò il contatto, tirando via la mano dal suo grembo e Aureliano non avrebbe saputo spiegare a parole la sensazione che provò. Si sentì così ferito da esserne imbarazzato.
«Stai bene?» gli chiese però, cercando di concentrarsi sul fatto che per una volta la vita di Alberto non girava intorno a lui.
«Si, certo. Tutto okay. Dai, tornatene a dormire.» gli disse, evitando il suo sguardo.
«Sto qua finché nun me parli»
«Non c’ho niente da ditte Aurelià» c’era nervosismo nella sua voce, gli occhi si fecero nuovamente umidi e Aureliano sentì un’ondata d’odio colpirlo in pieno viso.
Si trovò confuso e, avrebbe avuto qualche problema ad ammetterlo, leggermente spaventato. Alberto ce l’aveva con lui? Eccola la rabbia e la sofferenza che aveva evidentemente represso quel pomeriggio?
«Te capirei se fossi incazzato co me. È morto pe colpa mia.» si lasciò cadere indietro, sedendosi sul pavimento piastrellato e incrociò le gambe.
Alberto sbuffò e scosse la testa, frustrato perché voleva essere compreso ma non aveva le parole per spiegarsi.
«Te sei difeso. Credi che ce la potrei avè co te per esserti difeso? Ti avrebbero ucciso. E se tu fossi morto…io non sarei qui.» esclamò. Per la rabbia, la frustrazione e la sofferenza le lacrime ricominciarono a scendere, mentre il viso si contraeva dandogli l’aspetto di un bambino arrabbiato.
Aureliano avrebbe voluto toccarlo, ma non ne aveva più il coraggio.
«Io…so incazzato. Incazzato nero. Avrei dovuto essece, capisci? Avrei dovuto sta a Roma, co loro, con lui.»
L’intero corpo di Aureliano si attivò, stava per parlare quando Alberto tirò su una mano e lo bloccò «Nun c’è bisogno che dici niente. Lo so che m’avrebbero ammazzato, lo so che se vergognano de me, so anche che mi fratello avrebbe preferito vedemme morto piuttosto che frocio ma…» prese un attimo per respirare.
«Se a Livia succedesse qualcosa…tu non vorresti staje vicino?» concluse, guardandolo. Gli occhi si erano fatti nuovamente rossi e le lacrime scendevano troppo in fretta per dargli davvero la possibilità di asciugarle.
Aureliano lo guardò. Avrebbe potuto dargli la risposta migliore per farlo stare meglio, avrebbe potuto andare d’istinto, persino inventare. Ma non lo fece.
Si prese un attimo per riflettere, fissando i suoi occhi chiari in quelli scuri del ragazzo davanti a sé e venne colpito da una verità.
Scosse la testa. «No.» disse «Ho vissuto per tutta la vita in una casa che non m’apparteneva. Incolpato da quanno so venuto ar mondo de avè ammazzato mi madre. Livia m’ha cresciuto, ma quanno le cose non je so annate più bene s’è dimostrata pe quello che era in realtà.» fece un pausa, respirando profondamente. Non voleva piangere, non per Livia.
«Sei tu la mia famija, Albé. Nessun altro.»
Quella risposta arrivò come una folata di vento improvvisa dopo aver svoltato un angolo.
Lo guardò sorpreso, poi nascose il viso tra le mani e iniziò a singhiozzare.
Piangeva, è vero. Piangeva perché aveva perso un fratello, un padre in realtà. Piangeva perché era quello che accadeva sempre quando ripensava al fatto che sua madre era responsabile della cicatrice che aveva addosso.
Quella cicatrice che quel pomeriggio Aureliano Adami aveva baciato e accarezzato.
Aureliano gli stava dicendo che era okay lasciarsi tutto alle spalle.
Era okay non dimenticare quello che Anacleti gli aveva fatto passare.
Dopotutto, erano quello che erano.
Il perdono l’avrebbe lasciato a qualcun altro.
«Le dichiarazioni d’amore te fanno st’effetto?»
Aureliano voleva sdrammatizzare, perché non ne aveva la più pallida idea di cosa si facesse in quelle situazioni.
Avrebbe dovuto abbracciarlo, o lasciargli il suo spazio?
Alberto scoppiò a ridere tra le lacrime. Dentro di sé aveva un numero preoccupante di emozioni che si incastravano e scavalcavano una con l’altra.
Si asciugò le lacrime e lo guardò tra le ciglia bagnate.
«Pensavo de morì prima de sentitte dì ‘na cosa der genere.»
«Non di nuovo, per favore, mica te posso sempre sta a salvà la pelle» rise.
Non sapeva spiegare il sollievo di sapere che Alberto non lo incolpava della morte del fratello, anche se entrambi sapevano bene che era colpa sua.
Lo aiutò ad alzarsi dal pavimento, gli asciugò il viso dopo che Alberto se lo sciacquò con acqua gelata e lo riportò a letto.
Non chiuse occhio Aureliano, non prima di aver sentito il russare leggero di Alberto accanto a lui.


Il giorno dopo le loro strade si separarono ancora una volta.
Si salutarono, semplicemente, perché non era un addio. Appena Alberto avesse deciso dove fermarsi e trovato un posto dove stare Aureliano sarebbe andato a trovarlo.
Ancora una volta, comunque, non fecero programmi, non decisero delle regole.
Alberto avrebbe voluto tirare fuori il discorso dell’ “esclusività”.
Sapeva quello che Aureliano provava per lui e sicuramente lui si era espresso abbastanza chiaramente sui suoi sentimenti ma…stavano insieme? Potevano considerarsi una coppia?
Se Aureliano avesse conosciuto un’altra Isabelle? Se avesse iniziato a sentirsi solo, a Roma?
Aveva troppe domande, domande che avevano bisogno di una risposta ma che lui non ebbe il coraggio di porre.
Le avrebbe fatte la prossima volta.


Aureliano si rimise in viaggio solo dopo aver usufruito della camera d’albergo per un altro paio d’ore.
Voleva semplicemente rimanere un po’ tranquillo, per pensare.
Non aveva torto Alberto, le cose probabilmente sarebbero cambiate quando Rocco Anacleti avrebbe preso il suo posto di diritto a capo del clan.
La domanda che c’era da farsi era: cosa avrebbe fatto?
Stava ancora cercando Alberto, o la famiglia Anacleti era passata oltre, troppo impegnata a piangere Manfredi per preoccuparsi dell’altro figlio?
Era preoccupato, ovviamente. Aureliano era sempre preoccupato, da quando Alberto si era presentato sulla sua porta e aveva inondato di sangue il suo portico.
Anche se erano passati dei mesi quelle immagini erano ancora chiare e crude nella sua memoria, e non riusciva a ricordare l’ultima volta che era stato altrettanto spaventato.
Lo spaventava a morte avere accanto una persona di cui gli importava così tanto.
Lo aveva fatto con Isabelle, si era fatto avvicinare, si era permesso di provare qualcosa. Aveva provato affetto, istinto di protezione, felicità, amore…e lei era morta facendogli provare un dolore che non aveva sentito neanche per suo padre.
Non aveva imparato la lezione, ovviamente, perché altrimenti non si sarebbe trovato in quella situazione, avendo difficoltà a dormire la notte per paura che qualcosa accadesse ad Alberto.
Perché, sapeva benissimo, questa volta non l’avrebbe superata.


Le cose andarono avanti tranquillamente per un paio di settimane. Alberto si era fermato a Bologna, si era fissato che voleva una città universitaria e lui non ne aveva assolutamente capito il motivo. Gli disse che si sarebbe trovato un lavoro e lui gli chiese se avesse avuto bisogno di altro contante ma Alberto aveva detto di no, ne aveva più che abbastanza, voleva solo trovarsi da fare. E sembrava sinceramente eccitato all’idea di trovarsi un lavoro normale.
Ancora non aveva trovato una casa, per ora stava in un bed and breakfast. Bologna era un bel casino per le case, quasi come Roma.

 

 

Era una domenica mattina quando la tregua non dichiarata arrivò alla fine.
Uno degli spacciatori di Aureliano, che non si era allontanato da Ostia quel sabato sera, era stato aggredito e il suo orecchio tranciato di netto.
Gli avevano lasciato l’orecchio in mano e un messaggio per Aureliano Adami.

Era andato a casa del ragazzo e aveva trovato il Dottor De Rosa impegnato nella medicazione. Il suo collo era ancora macchiato da sangue secco, l’occhio destro era completamente chiuso, troppo gonfio e malconcio per poter essere utilizzato. L’orecchio era stato coperto con un grande cerotto bianco, già sporco di sangue al centro.
Il medico stava insistendo perché andasse in ospedale perché poteva avere un trauma cranico, per non parlare di una possibile infezione all’orecchio, ma il ragazzo, troppo giovane e dolorante, non ne voleva sapere.
Aureliano mise una mano sulla spalla del dottore che si gelò al solo contatto.
«Lo faccio portà subito in ospedale. Ma ce devo parlà prima. Dacce n’attimo.»
Il medico non disse una parola ma uscì dalla stanza.
Aureliano prese la sedia dalla scrivania e la mise accanto a letto.
Il ragazzo era davvero malconcio.
«Me devì dì chi t’ha conciato così, ragazzì» non aveva idea di quale fosse il suo nome, ne avevano così tanti, di nomi. Sapevano che lo chiamavano Paja. Forse perché era un fumatore accanito?
«So stati i zingari, Aurelià.» disse, la voce rotta dal dolore.
«Quei pezzi de merda m’hanno tajato n’orecchio!» era arrabbiato, dolorante, ma principalmente era stato ferito nell’onore.
«Erano in troppi, m’hanno beccato fori allo Schilling e stavo da solo.»
Aureliano gli mise una mano sull’avambraccio. «Nun te preoccupà. Sta cosa nun rimarrà impunita. M’hanno detto che t’hanno lasciato un messaggio pe me…» cercò di riportare il discorso dove era necessario che andasse.
«M’hanno detto che continueranno a taja recchie finché tu non je dici do sta Spadino. Ma…nun c’ho capito un cazzo. Parlano de Spadino Anacleti? Ma n’è zingaro pure lui? Che vojono da te?» disse allora il ragazzino.
Faceva pure troppi ragionamenti, in confronto agli altri spacciatori di cui si serviva. Per lo più scappati di casa, che non avevano manco finito il liceo.
«Tu non te sta a preoccupà. Te faccio portà in ospedale, te devi rimette presto.»

Uscì dalla stanza e diede il compito ai suoi uomini de portare Paja in ospedale, poi prese la sua jeep e tornò al ristorante.
Romoletto era lì ad aspettarlo.
«Quindi è vero che so stati i zingari?» gli chiese, quando lo vide entrare nella grande sala.
«A quanto pare.» Aureliano era scuro in viso e non aveva voglia di parlare, ma sapeva che non poteva tenere per sé quanto successo. Aveva bisogno di Romoletto e di tutti i suoi uomini.
«È per Spadino, non è vero? »
Aureliano sospirò e lo guardò. «Si, vojono sapè do sta.»
«E tu lo sai?»
«Sai, posso capì che c’avete dei trascorsi, ma qua se sta a parlà degli omini nostri, Aurelià.»
Capì che non poteva più fidarsi di Romoletto, almeno da quel punto di vista.
«No, nun so do sta. Non l’ho più visto da quando l’ho aiutato a scappà. Ed è così che doveva esse Romolè, dovevamo chiude.»
Romoletto annuì, gli aveva creduto apparentemente.
«In ogni caso nun me ne frega un cazzo. So venuti ner territorio nostro e hanno menato uno dei noi. Non possiamo fa passà er messaggio che se po’ fa quarcosa der genere a Ostia.»
«Che voi fa?»
«Ce devo pensà. Lasciame da solo, devo ragionà.»

C’era poco da ragionare, in realtà. Non ne aveva la più pallida idea di quello che avrebbe dovuto fare.
Beh, certo sapeva che avrebbe dovuto chiamare Alberto, tenerlo allo scuro di tutto era veramente una mossa da stronzi, ma non lo prese assolutamente in considerazione.
In ogni caso non avrebbe potuto fare nulla per sistemare quella situazione.
Aureliano non avrebbe mai detto dove si nascondeva, ma dall’altra parte non poteva lasciare che i propri uomini, quelli su cui si basava il suo “family business”, venissero mutilati uno dopo l’altro.
La prima cosa che fece fu quella di far uscire l’ordine di muoversi solo in coppia. Nessuno doveva rimanere solo, per non rendere il compito degli zingari particolarmente semplice.
Poi si ritirò sulla spiaggia per pensare.

 


Alberto scese dall’autobus e diede un’altra occhiata al proprio smartphone.
Se lo era comprato il giorno precedente. Non aveva mai avuto uno smartphone, troppo poco sicuro per la sua famiglia e per il suoi affari, ma ora non se ne doveva più preoccupare.
Controllò Maps per assicurarsi di essere sceso alla fermata giusta e proseguì per la strada indicata dalla freccia.
Bologna era estremamente diversa da Roma, non potevano essere più diverse, in realtà.
In quindici minuti, traffico permettendo, era arrivato praticamente da una parte all’altra del centro città e questo lo divertiva tantissimo.
In un quarto d’ora a Roma arrivavi da un semaforo all’altro.
Era la terza casa che vedeva in quella giornata e, arrivate le quattro del pomeriggio, era fisicamente distrutto. Faceva caldo, caldissimo e per un attimo sentì la nostalgia del mare e del caldo secco del sud.
Aveva fatto decisamente bene a tagliarsi i capelli a zero, anche se aveva avuto la sensazione che ad Aureliano non fossero piaciuti particolarmente.
Avrebbe dovuto lasciarli crescere?
Stava ancora pensando ai suoi capelli quando riconobbe il civico, mise in tasca il telefono e cercò il cognome sulla lunga serie di campanelli, poi suonò.
Prese l’ascensore, arrivò al quarto piano ed aspettarlo sul pianerottolo c’era una signora di mezz’età. Gli sorrise, gli strinse la mano e lo invitò verso la porta, facendo un commento sulla giornata e sul caldo terribile che stava facendo in quei giorni.
Non era abituato, Alberto. A volte doveva fisicamente costringersi a togliersi dalla faccia quell’espressione sorpresa.
Quando era andato via da Sabaudia aveva cambiato il suo look, completamente. Si era fermato ad un centro commerciale, era entrato in qualche negozio e aveva preso tutto quello che il solito Spadino non avrebbe mai acquistato.
Poi si era fatto tagliare i capelli.
Da quel giorno le persone avevano iniziato a vederlo in modo differente, i pregiudizi che lo avevano segnato per tutta la sua vita, di cui era stato ed era fiero non erano più per lui.
Si sentì triste e imbarazzato perché si era lasciato la sua cultura alle spalle, ma avrebbe mentito se avesse detto che non si era sentito anche sollevato.
La gente non lo fissava più in mezzo alla strada, le signore non si stringevano la borsa al petto quando lo vedevano, le persone non cambiavano posto quando si sedeva accanto a loro nella metro.
E la signora su quel pianerottolo non aveva cambiato espressione quando lo aveva visto, era rimasta un’apparente gentile signora con l’accento bolognese piuttosto accentuato.
Ecco, quello faceva ancora fatica a controllarlo Alberto, il suo accento romano.
Ma ci stava lavorando.
Gli fece vedere la casa, ed era più piccola di quello che si aspettava. Era vecchia, degli anni ’70 circa, ma Alberto l’adorò appena varcata la soglia.
L’arredamento, purtroppo, gli ricordava un po’ troppo quella della sua casa a Roma, quella che condivideva con la famiglia Anacleti, ma probabilmente l’avrebbe cambiato un po’.
Avrebbe comprato tutto quello che Alberto ‘Spadino’ Anacleti non avrebbe mai comprato.

Si accordarono per l’affitto, e per il contratto, e poté vedere la sorpresa sul volto della signora quando non fece particolare resistenza sul prezzo. Era tanto? Sicuramente. Ma per il momento non erano i soldi il problema.
Quando tornarono fuori sul pianerottolo Alberto sentì dei rumori dall’appartamento accanto.
«Ci vivono dei ragazzi accanto. Probabilmente della tua età.» lo informò la proprietaria di casa e lui sorrise.
Dopo pochi secondi sentì un tintinnio di chiavi e la porta che si apriva. Dall’appartamento uscirono i suoi nuovi vicini di casa, due ragazze ed un ragazzo.
«Buongiorno!» dissero, più o meno all’unisono, vedendo loro due sulle scale.
«Buongiorno!» rispose prontamente la signora, poi la vide indicarlo «Vi presento il vostro nuovo vicino di casa.»
Non se lo aspettava, ma tirò fuori il sorriso più sincero che poteva. «Ciao» rispose semplicemente.
«Ciao!»
«Benvenuto!»
«Ci vediamo presto, allora!»
I ragazzi erano felici. In fondo era sabato pomeriggio e chi non è felice di sabato pomeriggio? Per lui non aveva mai fatto differenza il giorno della settimana, quelle regole per lui non valevano.
Tornò al bed and breakfast, sudato e distrutto, con la voglia di mettersi sul letto e chiamare Aureliano.


Erano circa le nove e mezza di sera quando Aureliano sentì il telefono suonare e vibrare sul tavolo.
Si era ritirato al mare per pensare sulla questione e rientrò dal portico per vedere chi lo stava chiamando.
Non aveva salvato il numero di Alberto sul telefono, per evitare qualsiasi rischio, ma ricordava perfettamente il suo numero.
Rimase a guardare il telefono, fino a quando non smise di suonare.
Restò in piedi davanti al tavolo ancora per qualche secondo, perché sapeva che Alberto avrebbe fatto un secondo tentativo, infatti tornò a squillare poco dopo.
Anche questa volta lasciò che entrasse la segreteria.
Si sentì una merda e sapeva benissimo di meritarselo, ma non poteva parlare con Alberto, non adesso che aveva a che fare con questa storia.
Lui era quello che doveva evitare l’inizio di una nuova guerra, evitare vittime e non tradire il suo ragazzo.
Gli faceva ancora un po’ strano pensarlo, ma era inutile girarci intorno, ormai.
Non ne avevano parlato ancora, quello era vero, ma sta cosa che bisogna sempre parlà de tutto ad Aureliano non gli era mai andata giù. Qualsiasi cosa doveva essere messa sul tavolo, detta a parole, scritta. Certe volte bisogna solo sta zitti.


Aureliano non prese una decisione, quella notte. Rimase sveglio a pensare a cosa fare, vagliò nella sua testa tutta una serie di soluzioni.
L’unica che gli sembrava quella più sicura era quella che odiava di più.
Doveva chiedere aiuto al terzo partito: Il Samurai.
Sapeva benissimo che solo lui sarebbe riuscito a mettere in riga il nuovo arrivato Rocco Anacleti, tutti avevano paura di Samurai, tutti lo rispettavano e lo ascoltavano.
Probabilmente perché era l’uomo più potente di Roma, a metà tra la gente di strada come lui e i pezzi grossi delle istituzioni. Lui poteva tutto, ma questo aveva un prezzo.
Non sapeva ancora quale fosse, ma certamente non sarebbe stato gratis.

Era appena rientrato da un bagno al mare, in boxer perché non aveva mai acquistato un costume, ed era ancora fradicio quando sentì il telefono squillare nuovamente.
Non era il telefono di Alberto, ma l’altro.
Rispose e dall’altra parte sentì un Romoletto particolarmente nervoso.
«Devi venì al ristorante, Aurelià. Hanno fatto ‘na cazzata. Stamo nella merda.»
«Che cazzo è successo?» disse, mentre si infilava già i jeans neri.
«Qualcuno de noi ha menato ‘no zingaro stanotte. L’hanno trovato sur litorale. È morto, Aurelià. J’hanno pure tajato le recchie!»
«Arrivo subito!»
Aureliano non commentò, ma appena mise giù il telefono si prese la testa fra le mani.
La questione si era complicata ulteriormente, ed era l’ultima cosa di cui aveva bisogno.
Dio, i giornalisti avrebbe invaso Ostia ancora una volta e le guardie si sarebbero svegliate dal loro torpore e avrebbe ricominciato i controlli serrati. Tutto questo rendeva il suo lavoro dannatamente più difficile.

Dopo un quarto d’ora varcò le soglie del suo ristorante e trovò tutti ad aspettarlo.
«Chi cazzo è stato?» urlò, preso dall’ira.
«Non lo sappiamo, Aurelià» rispose Romoletto, mentre altri sei dei suoi uomini si nascondevano dietro di lui.
«Allora scopritelo e fatejela pagà a sto ritardato!»
«So incazzati pe sta cosa dei zingari, pensano che te stai a pija troppo tempo prima de reagì. Questo è n’affronto Aurelià!»
Gli occhi di Aureliano si fecero chiari come l’alba, mentre il suo viso pallido si fece rosso di rabbia. «Pensi che non lo so questo Romolè? Pensi che me sto a grattà le palle?»
«L’ultima cosa che ce serviva però è avè Ostia piena de giornalisti e guardie! Che volemo qualche artro mese de Striscia La Notizia che fa i suoi servizietti del cazzo mentre cercamo de lavorà?» esclamò.
Nessuno disse niente, perché tutti sapevano che aveva ragione.
«Trovateme chi ha fatto sta cazzata e dateje ‘na lezione. Mo me tocca a me sistemà sto casino.»

Come Aureliano aveva previsto la notizia era già su tutti i telegiornali e le pagine online delle testate prima delle otto della mattina.
Tutto si stava muovendo così velocemente, erano sull’orlo di una guerra, ma Aureliano sapeva benissimo che Alberto lo sarebbe venuto a sapere nel giro di qualche ora.
“Ragazzo sinti trovato morto e mutilato ad Ostia. Odio o regolazione di conti?”
Dio, avrebbe fatto due più due in un attimo. Ed una cosa era certa, non poteva certo evitare di rispondere al telefono questa volta.

La prima cosa che fece fu quella di dire a quelli che lavoravano per lui di star buoni per qualche giorno, in modo da far calmare le acque.
Poi cercò un modo di comunicare con Rocco Anacleti.
Forse sarebbe dovuto andare dal Samurai immediatamente, prima che le cose sfuggissero di mano, ma parlare direttamente con la fonte forse avrebbe evitato altri morti o aggressioni.
Attraverso un giro di passaparola, riuscirono a mettersi d’accordo.
Si diedero appuntamento fuori Roma, lontano da Ostia e da Roma Est e dal territorio del Samurai. Anche se, probabilmente, era troppo tardi per preoccuparsi di tenere allo scuro il Samurai dell’intera questione. Lui era sempre un passo davanti a loro.
L’accordo era nessun’arma e un solo uomo a testa.

Aureliano era fuori dalla sua jeep con Romoletto quando vide avvicinarsi una Mercedes nera. Dovevano sempre attirare l’attenzione quei zingari de merda.
Si fermò al centro del parcheggio vuoto del supermercato che avevano scelto come luogo di incontro, e subito dopo ne uscì Rocco Anacleti in giacca e cravatta e l’uomo che guidava.
Si guardarono, ma non dissero una parola fino a quando non furono a tre metri di distanza.
«Oh, Aureliano Adami. Spero che tu abbia buone notizie per me.»
Aureliano fece un passo avanti e lasciò dietro di sé Romoletto.
«Notizie? Lo sa de che vojo parlà. Avete tajato n’orecchio a n’omo mio. Ho ammazzato per molto meno.» gli disse, mettendo le mani nelle tasche del giacchetto di pelle.
L’uomo insieme a Rocco si mosse, dando particolare attenzione alla tasca della sua giacca, cercando di capire se i termini del patto erano stati infranti.
Rocco non sembrava preoccupato «Avevi bisogno di un incoraggiamento.» sorrise, in modo viscido e falsamente gentile.
«Voglio sapere dov’è mio cugino. E io so che tu lo sai.»
«E perché dovrei saperlo? Te l’ho già detto quanno sei entrato ner territorio mio senza permesso…io non c’ho idea de dove se trova tu cugino.»
Rocco sorrise e abbassò lo sguardo.
«E sinceramente ora non è più divertente. Hai visto cosa è successo stamattina? Ai miei uomini non è piaciuto pe gnente sta cosa delle recchie. E sai…stavo pensando di lasciarli divertì un pochetto. Magari venì a menà a un po’ de zingaracci come te.»
Si avvicinò ancora. Una cosa che Aureliano Adami sapeva fare bene, era essere terribilmente minaccioso.
«Delle vostre stronzate famigliari a noi nun ce ne frega un cazzo. Quindi, spero de esse chiaro…non dovete più venicce dalle parti mia, ce semo capiti?»
Rocco aveva smesso di sorridere, e lo guardava severo.
In un attimo Aureliano tirò fuori un piccolo coltellino svizzero dalla sua tasca e, coordinati come lo erano sempre, Romoletto tirò fuori una pistola dal retro del suo jeans e la puntò contro l’uomo che accompagnava Rocco.
«Movi un muscolo e te faccio saltà er cervello, pezzo de merda.»
Rocco fece un passo indietro, allarmato, e la sua guardia del corpo alzò le mani al cielo. Erano così vicini che Romoletto avrebbe potuto ucciderlo ancor prima che riuscisse a fare qualcosa. Ovviamente, anche loro non erano venuti impreparati.
Aureliano fece spallucce «Lo sappiamo tutti che nun ce se po’ fidà dei zingari.»
Si avvicinò ancora a lui, finché non furono a pochi centimetri di distanza. Rocco non indietreggiò, guardandolo con sfida e senza paura. Aureliano gli appoggiò la lama fredda sotto l’orecchio, toccando appena il suo lobo.
«Nun m’è piaciuto pe gnente quello che hai fatto. E te lo meriteresti de annà in giro con a recchia in meno per tutta la tua vita. Ma siamo ancora in tempo per lasciarci tutta ‘sta storia alle spalle. Che dici?»
Rocco non rispose, ora però aveva smesso di ridere. L’idea di perdere un orecchio non lo divertiva. Era evidente che non avrebbe ottenuto niente da quella situazione, erano ad un impasse, quindi indietreggiò ma non prima di aver avuto l’ultima parola.
«Dì a Spadino che deve tornare a casa. Deve stare con la sua famiglia. È il posto per lui.»
«Mamma Anacleti ha perso già un figlio, quest’anno. Vorrebbe indietro l’altro.»
Aureliano sentì una vampata di rabbia offuscargli la vista, dovette costringersi a star calmo, anche se avrebbe voluto tagliarli la gola da orecchio ad orecchio.
Avevano provato ad ucciderlo e ora perché Manfredi era morto lo rivolevano indietro?
Respirò profondamente e abbassò lo sguardo, quando tornò a guardarlo aveva un sorriso in faccia.
«Beh, se fossi in te non mi darei tanta pena pe trovallo. Lo sai vero che sei solo un sostituto? Se ‘na riserva! Se Spadino torna…tu torni in panchina.» gli sorrise e chiuse con uno scatto il coltellino. «Ma, ripeto, nun so cazzi miei questi. Non c’ho più voja de avè a che fa co voi zingari. È importante che capisci che nun stamo sullo stesso livello io e te.»
Indietreggiò, senza dargli le spalle, continuando a sorridere.
«Spero de esse stato chiaro, eh capo!» disse, prendendolo in giro. Poi si fece mortalmente serio.
«Se vedo n’artra volta uno dei tuoi uomini, o succede n’artra situazione come questa…è guerra. E fidate quanno te dico che nun poi vince. Pensi che er Samurai sia contento de sta cosa? Pensace Rocchè, pensace.»

Non diede la possibilità a Rocco Anacleti di dire un’altra parole, ma dal suo viso capì di aver scalfito almeno la superficie della sua sicurezza.
Era sempre incravattato, ma con gli anelli d’oro alle dita e i lineamenti del viso che tradivano la sua appartenenza, ma aveva un’eleganza, un portamento e un’attenzione al linguaggio che Manfredi non aveva mai avuto.
Ma non era il diretto erede, e questo lo sapeva bene, quindi pensò di averlo scalfito un po’ con la questione della panchina.
Gli uomini e il loro orgoglio.
In ogni caso, avrebbe detto qualsiasi cosa per togliersi da quella situazione.
Rientrò velocemente in macchina, mentre Romoletto gli proteggeva le spalle con la pistola puntata e quando furono entrambi in macchina, partirono sgommando.


Dovettero fare delle strade secondarie perché, come previsto, Ostia si era riempita di posti di blocco e giornalisti che intervistavano persone prese a caso tra le strade principali della città.
Tornò allo stabilimento, dopo aver lasciato Romoletto a casa sua, e si chiuse la porta alle spalle.
Si sdraiò sul letto e, per la prima volta in quella lunga giornata, guardò il telefono.
C’erano nove chiamate perse, tutte dallo stesso numero non salvato.
Si strofinò gli occhi, sospirando e prese coraggio. Fece partire la chiamata.
Non arrivò neanche al terzo squillo.
«Aurelià! Finalmente cazzo! Che è successo? Stai bene?» un’ondata di parole lo travolse.
«Si, sto bene. Scusame…sto bene. È stata una giornata de merda.»
Ci fu un attimo di silenzio dall’altra parte.
«Che è successo? Ho visto il telegiornale. Lo zingaro morto a Ostia.» sospirò «Che cazzo sta succedendo?»
«Ma niente, Albè. Non c’ha niente a che fa co noi. Questo voleva fa il lupo solitario e a qualcuno dei miei n’è piaciuto. Tutto qui. Stamo pieni de guardie e giornalisti, pe quello non ho avuto tempo.»
Alberto si prese un attimo prima di rispondere.
«Manco ieri sera hai risposto ar telefono? Me so preoccupato. Sei sicuro che è tutto apposto, si?»
«Dio che palle Albè. T’ho detto de si. Qua c’ho da fa, nun te ce mette pure tu pe favore.»
Non voleva rispondergli in quel modo, ma forse così avrebbe spesso di fare domande. Funzionò, ma si sentì una merda. Da quando stavano insieme non aveva fatto altro che mentirgli.
«Va bene, nun te preoccupà non te rompo più i cojoni. Nun famo arrabbià er principino.»
Alberto stava sdrammatizzando, ma poteva sentire dalla sua voce quanto fosse terribilmente insospettito da quello scatto di nervosismo.
Per ora, almeno, aveva smesso di fare domande.


Rimase tutta la notte sveglio, cercando di pensare alle parole che avrebbe dovuto dire. Sapeva bene che le parole erano importanti per il Samurai e lui non era mai stato particolarmente bravo a comunicare.
Era inutile stare lì a rimuginare e a perdere tempo. Considerava l’incontro con Rocco Anacleti un successo, ma Alberto non era al sicuro, non ancora.
Quindi c’era ancora la necessità di parlare con il Samurai.
Prese la sua jeep e andò verso Roma, che era sempre il solito casino.
Si trovava esattamente come tutti gli altri fermi sul raccordo di lunedì mattina, anche se probabilmente aveva preoccupazioni differenti dalle persone che erano nelle macchina che lo circondavano.
Qualcuno era in ritardo al lavoro, qualcuno aveva avuto un litigio di prima mattina, qualcun altro canticchiava la musica alla radio e si godeva un meravigliosa giornata di fine settembre.
Lui invece pensava alla telefonata che aveva avuto con Alberto.
Era così nervoso che non si era neanche preoccupato di chiedere aggiornamenti sulla sua sistemazione a Bologna, non gli aveva chiesto assolutamente nulla, ma forse al momento attuale era meglio che lui non sapesse troppi dettagli.
Dopo più di venti minuti di traffico sul raccordo decise di provare la strada interna a Roma, sperando che non fosse una decisione sbagliata, e prese l’Aurelia, direzione Ponte Milvio.
Non era facile contattare il Samurai, ma ormai si era creata una certa routine per riuscire ad arrivare al lui.
Mise la freccia ed entrò nel parcheggio del benzinaio sulla Via Flaminia. Non si diresse verso le pompe di benzina, ma spense la macchina davanti al gabbiotto.
Ci mise poco ad attirare l’attenzione, infatti dopo circa dieci minuti di attesa un ragazzo si avvicinò alla macchina e si affacciò al finestrino.
«Te serve qualcosa?» chiese. Era un ragazzetto giovane. Il Samurai si circondava sempre di ragazzi giovanissimi che si bevevano le sue cazzate sull’ordine del mondo.
«Devo parlà col Samurai. So Aureliano Adami.» disse, guardandolo da sopra gli occhiali da sole.
«’O so chi sei. Damme n’attimo, faccio na telefonata.»
Il ragazzo tornò indietro qualche minuto dopo e gli porse un pezzo di carta «Ti aspetta qui.» disse «Anche lui deve parlarti.»
Guardò il biglietto e pensò alla strada da percorrere, quindi lo gettò sul sedile del passeggero e mise in moto la macchina.

Arrivò a destinazione circa venti minuti dopo, era rimasto incastrato nuovamente nel traffico davanti al Palazzo di Giustizia, ma dopodichè era riuscito a viaggiare a velocità sostenuta.
Il palazzo che portava il numero civico che cercava era meraviglioso. Non se ne intendeva particolarmente di architettura, o arte, ma aveva vissuto abbastanza tempo a Roma per riuscire a riconoscere le cose belle che si nascondevano in ogni piccola o grande strada della città.
Lasciò la macchina, non prima di aver pagato il parcheggio. L’ultima cosa di cui aveva bisogno era una multa, o che gli portassero via la macchina.
Suonò al campanello a cui gli era stato detto di suonare e il portone si aprì pochi secondi dopo. Prese l’ascensore, un vecchio modello anni ’70, direzione quarto piano.
Quando uscì dall’ascensore una donna asiatica di mezz’età lo aspettava già sull’uscio della porta.
«Buongiorno» disse, in un italiano perfetto «Prego, entri.»
Aureliano entrò nell’appartamento e si guardò intorno.
Sembrava la cas di una vecchia nonna, con la fissa di collezionare cimeli della sua vita. Era pulito, ma sembrava davvero eccessivamente arredato.
C’erano quadri ai muri, specchi con cornici pesanti stile barocco, pesati cassettoni in legno massello e tappeti orientali ovunque.
La donna, vestita con una gonna grigia e una camicetta rosa, estremamente minuta, lo attendeva sotto un arco per mostrargli la strada verso la stanza centrale.
Finalmente lo vide, il Samurai. Era seduto a terra, a gambe incrociate, su un grande cuscino rosso, c’era un piccolo tavolino davanti a sé, proprio come quelli che si vedevano nei film di Jackie Chan.
Evidentemente c’era un motivo per cui si faceva chiamare il Samurai. Sinceramente non gli era mai interessato abbastanza da chiedersi il significato dietro quel soprannome.
«Aureliano, che piacere vederti! Vieni, accomodati!» il Samurai gli sorrise, nel modo inquietante che aveva avuto la possibilità di conoscere.
Era gentile il Samurai, finché non voleva più esserlo.
Aureliano sembrava un po’ dubbioso del cuscino libero che il padrone di casa gli stava indicando, ma non disse nulla a riguardo. Si chinò, in modo piuttosto goffo, e si mise a sedere su quel cuscino. I suoi jeans erano troppo stretti per quella posizione, e i suoi stivali neri erano troppo sporchi per stare vicino a quei tappeti e quei cuscini che sembravano così costosi.
«Xian, il tè, per favore.»
«Ho appena ricevuto una tipologia di thè molto particolare dalla Cina, sono sicuro che ti piacerà.» disse poi, rivolto ad Aureliano.
Aureliano non aveva mai bevuto tè nella sua vita.
«Non sono venuto per bere tè.» disse Aureliano, estremamente a disagio.
Era bravo a reagire a situazioni potenzialmente minacciose, molto meno quando si trattava di essere seduti ad un tavolo esageratamente basso a bere thè con uno degli uomini più potenti di Roma.
«Oh, lo so bene, ma sono un buon padrone di casa e voglio offrirti da bere.»
Il Samurai sorrise e si sistemò il colletto della camicia a righe che indossava.
Dopo pochi minuti Xian tornò indietro con vassoio, con due piccole tazze di porcellana, con dei fiori di ciliegio dipinti sopra, una teiera dello stesso set e una zuccheriera.
Si mise in ginocchio al lato del tavolo, sistemò le tazze davanti a loro e le riempì di un chiaro tè verde fumante.
Il Samurai annusò l’aria con gli occhi chiusi dal piacere «Non è meraviglioso?»
«Certo…» disse Aureliano, sperando che quella messa in scena finisse presto.
«Grazie Xian, puoi andare.»
La donna fece un leggero inchino con la testa, ma non disse una parola, quindi si alzò e li lasciò finalmente soli.
«Aureliano…sono sicuro di sapere già perché sei venuto da me.» gli disse poi, senza guardarlo, troppo occupato a prendere una zolletta di zucchero dalla contenitore e facendola cadere nel liquido.
«Beh, ‘emo arzato un certo polverone.» Anche Aureliano guardava la sua tazza, senza sapere bene cosa farci. Quindi decise di imitare i suoi step e prese anche lui una zolletta.
«Lo avete fatto, è vero. Ma non sei stato tu ad iniziare.»
«Rocco Anacleti. Speravo sinceramente che fosse diverso da quell’idiota di suo cugino.»
Aureliano non aveva sentito spesso il Samurai usare parolacce o elargire insulti ma quando lo faceva era perché lo pensava davvero.
«Ho parlato con il nuovo capo proprio ieri. Ho reso abbastanza chiaro er messaggio, ma nun so sicuro che abbia recepito.» Aureliano girava il suo tè con il cucchiaino, guardando lo zucchero disciogliersi nel liquido caldo.
Il Samurai, invece, si prese un secondo per prendere il primo sorso.
Non commentò, ma potè vedere sul suo viso che apprezzava.
«E vuoi che me ne assicuri?»
Aureliano annuì «Se c’è qualcuno che po’ tenè testa agli zingari de merda quello sei te.»
«Sono sempre stato piuttosto bravo con gli animali» sorrise, nel suo modo più spietato.
Non aveva mai fatto segreto delle sue preferenze, il Samurai, soprattutto da un punto di vista ideologico. Lo dicevano a gran voce i libri sulla storia del fascismo nella sua libreria, e la bandiera della Repubblica di Salò che aveva appesa in camera quando era un ragazzino e che si portava dietro sin da allora.
«Una cosa però non mi è chiara. Cosa vuole da te Rocco Anacleti?» il suo sguardo lo infilzò da sopra gli occhiali.
Lo vide mentre si portava, finalmente, la tazza alle labbra e studiò la sua espressione quando il liquido scese per la sua gola. Aureliano ne fu sorpreso, ma il sapore di quel tè gli piacque. Vide un veloce sorriso compiaciuto andare e venire sul volto del Samurai, prima di rispondere alla sua domanda.
«Vole delle informazioni che non c’ho.»
«Informazioni? Che genere di informazioni?»
Aureliano esitò. Voleva davvero tirare in ballo Alberto nel discorso? Il suo cervello ci ragionò velocemente e arrivò alla conclusione che il Samurai non si era mai fatto prendere alla sprovvista e che probabilmente stava già qualche passo davanti a lui.
Decise di rimanere sul vago finché poteva. «Roba loro de famija. Voleva avè informazioni su Spadino.»
«Oh, Spadino. Il fuggiasco.»
Come volevasi dimostrare.
«E tu non sai dove si trova?» continuò il Samurai, sorseggiando ancora il suo tè.
Aureliano scosse la testa, lasciando invece la sua tazza sul tavolino.
«Non ne so niente e non vojo avè a che fare più co loro.»
Il Samurai annuì e prese un respiro profondo.
«Ti capisco. Venerano la famiglia ma sono i primi traditori del sangue.» lasciò la sua tazzina «Non fanno altro che figliare, ma poi non hanno abbastanza amore per tutti.»
Era strano sentire Samurai parlare di quegli argomenti e l’ultima cosa che voleva fare era stare li a parlare d’amore.
«Sapevo che Spadino sarebbe scappato prima o poi. O sarebbe morto molto presto.»
Aureliano aggrottò le sopracciglia e lo guardò confuso.
«Sai…» iniziò l’uomo, vedendo la sua reazione «per la questione dei maschi. Essere omosessuale in casa Anacleti non deve essere una passeggiata.»
Quella frase arrivò ad Aureliano tra capo e collo. Il suo intero corpo prese fuoco, per il panico, la rabbia e l’imbarazzo. Era imbarazzato perché, ancora una volta, si era fatto prendere alla sprovvista.
Bevve un altro po’ di tè, cercando di non far tremare le proprie mani e scosse la testa.
«Non lo sapevo.» disse soltanto.
Il Samurai sorrise e lui capì immediatamente che sapeva tutto.
«Oh beh. Non penso che andasse in giro a sbandierlarlo, no?» rise ancora.
Aureliano sentì il suo corpo rilassarsi, grazie a Dio il Samurai aveva deciso di non esporlo e gli andava bene così. Ma sapeva che questa cosa avrebbe avuto un prezzo.
«In ogni caso ha fatto bene ad andarsene, a lasciare Roma. Ed è giusto che lasciamo questa persona nel passato, non credi?»
Aureliano lo studiò, non avendo ben chiaro quello che aveva voluto dire.
«Preoccupiamoci ora di mettere fine a questa faida ridicola. Parlerò io con Rocco Anacleti e lo metterò sulla strada giusta.»
Aureliano annuì «Bene. E cosa vuoi in cambio per questo?»
Il Samurai, a quel punto, prese la teiera e riempì nuovamente la tua tazzina. Poi lo guardò con il suo solito sorriso.
«Credo che potremmo tranquillamente arrivare ad un accordo.» si prese un attimo per sorseggiare nuovamente il suo tè.
«Hai già i terreni del Vaticano e il mio sostegno. Che voi de più?»
Il Samurai si lasciò andare ad una breve risata.
«Io non lavoro in piccolo Aureliano. I terreni di Ostia sono solo un piccolo tassello al progetto che ho per Roma. E tu sarai importante. Non voglio niente di più di quello che mi stai già dando.»
«Ho dovuto rallentare un po’. Le cose non sono andate esattamente come avevo previsto, e questo lo devo anche a te e allo zingaro. Ho dovuto aspettare, per far calmare le acque. Ma ora sono pronto.»
Aureliano lo guardò per capire se ci fosse risentimento nelle parole del Samurai, ma lui era semplicemente lì a parlare dei suoi progetti per Roma come se stesse parlando del tempo.
«E quale sarebbe sto grande progetto?» chiese.
Il Samurai gli sorrise benevolo «Non è ancora tempo. Ma saprai le parti che ti competono presto.»
«E ora? Che voi in cambio per il tuo favore?»
«Voglio che rimani a Roma.» gli disse, a bruciapelo.
«Io…non vorrei che ti venisse voglia anche a te di darti alla macchia. Di cambiare vita.»
Ancora una volta, durante quella conversazione, rimase a bocca aperta.
Lo stomaco gli si attorcigliò nella consapevolezza che il Samurai sapeva più di quanto avesse detto e se ne stava approfittando.
Cercò di riprendere il controllo su se stesso.
«E dove dovrei andare?» disse, con un sorriso «Qui è casa mia.»
Il Samurai gli sorrise «È vero. Il tuo posto è qui.»


Non realizzò quanto quella conversazione lo avesse fisicamente e mentalmente debilitato fino a quando non entrò in macchina.
Non riuscì a mettere in moto, rimase solo seduto a guardare la strada davanti a sé e le persone che passeggiavano sul marciapiede.
Dove dovrei andare? Qui è casa mia.
Sapeva che non aveva avuto altra scelta, ma sapeva anche che significato avevano quelle parole.
Non aveva mai pensato, in tutta la sua vita, di lasciare Roma e lasciarsi tutto alle spalle. Perché non c’era niente per lui, lì fuori, o almeno così pensava.
Ma ora non era più così.
C’era Alberto lì fuori ad aspettarlo. E ora che una parte di lui avrebbe voluto andar via, avrebbe voluto mollare tutto…non poteva.
Non si era mai sentito costretto a Roma, ora invece non sentiva altro.

Andò direttamente allo stabilimento e camminò con passo deciso fino alla riva.
Il mare era calmo e c’erano delle coppiette sedute sulla spiaggia. Poteva vedere la loro ombra che si stagliava nel cielo chiaro del primo pomeriggio.
Il tempo era ancora clemente, non faceva caldo ma alla gente di Ostia non era mai importante. Il mare era sempre lì, con il freddo e con il caldo.
Si sfilò la giacca di pelle, poi la maglietta e si tolse jeans, stivali e calzini.
Appena i suoi piedi toccarono l’acqua si sentì rinvigorito. L’acqua era fresca, piacevole.
Il mare aveva il potere di rischiarargli la mente, di rilassarlo, di portargli consiglio.
Quella volta cercava solo conforto.

Si addormentò in mutande sul letto, ancora bagnato. Il sonno lo colse impreparato, forse era più stanco di quanto immaginasse.
Dormì per tutto il pomeriggio e buona parte della notte, svegliandosi alle cinque con le prime luci dell’alba.
Avrebbe dovuto sentirsi riposato e rinvigorito, invece si sentiva come se fosse stato appena preso sotto da un autobus.
Sapeva di voler parlare con Alberto, aveva bisogno di sentirlo. Ma per dirgli cosa?
Non poteva dirgli niente di quello che era successo, non poteva raccontagli della nuova palla di piombo attaccata alla sua caviglia.
Rimase steso a letto, a guardare il soffitto malandato che avrebbe dovuto far sistemare, con un’emicrania come non ne aveva da anni.
Pensò e pensò ancora. Voleva solo sentire Alberto, non doveva per forza parlare. Poteva solo stare zitto e sentirlo parlare. Bastava dargli il via e lo avrebbe ricoperto di chiacchiere. Non si preoccupò particolarmente dell’orario e avviò la telefonata.
Alberto gli rispose con voce assonnata dopo qualche squillo.
«Aurelià…»
«Ehi…t’ho svegliato?»
«Si. Ma non fa niente. Dimmi.»
Aureliano si sistemò meglio sul letto, appoggiando la testa al cuscino e guardando il soffitto.
«Me so reso conto che non t’ho chiesto niente. Sai, de che stai a combinà su.»
«È vero.» rispose soltanto Alberto.
«Me dispiace de esse scattato l’altro giorno. So un po’ de malumore.»
«Me ne voi parlà?» gli chiese Alberto. Lo sentì muoversi e, chiudendo gli occhi poteva quasi sentire il fruscio delle coperte.
«No. Voglio che me racconti. Voglio sentitte parlà.» disse, ed era sincero.
Non aveva mai detto una cosa del genere e fu così che Alberto si rese definitivamente conto che c’era qualcosa che non andava. Aureliano, semplicemente, non diceva quelle cose.
Ma non disse nulla. Aveva paura che se avesse ricominciato a fare domande Aureliano si sarebbe nuovamente ritirato nel silenzio.
«Va bene. Che voi sapè?»
«Raccontame un po’ com’è Bologna.»
Alberto iniziò a raccontare. Gli descrisse quel che sapeva e che aveva vissuto della città in quel poco tempo. Gli disse che era una città universitaria, che era piena di ragazzi. Gli disse che il parcheggio costava un botto, ma che aveva iniziato a prendere i mezzi pubblici.
Gli raccontò che era andato a vedere delle case e ne aveva trovata una, ma ancora non aveva la possibilità di entrarci. Forse entro la settimana prossima avrebbe avuto tutto in regola per occuparla. Non vedeva l’ora che Aureliano venisse a vederla.
Poi gli raccontò che stava cercando un lavoro, ma non aveva ancora avuto successo dato il suo scarnissimo curriculum. Certamente non poteva scrivere le capacità che aveva acquisito per il business familiare. Ma era fiducioso.
Era vero, Aureliano poteva sentirla, la sua fiducia, la sua speranza.
A volte si rendeva conto di non volerlo sentire, di faticare a chiamarlo semplicemente perché Alberto sembrava così…felice.
Era una cosa che lo rendeva orgoglioso, felice e triste allo stesso tempo.
«So contento, Albè.» disse soltanto, ma Alberto capì che lo pensava davvero.
«Quando pensi de potè venì?»
«Non lo so. Sai, co sta cosa dello zingaro morto…devo sta qui, tenè un po’ de gente sotto controllo. Te faccio sapè, va bene?»
«Se potemo vedè a metà strada se voi, come l’ultima volta.»
«No, meglio de no. Vengo io da te, appena posso, t'o giuro.»
Sentì Alberto sospirare.
«Qui va tutto bene, solo che pare che se manco io fanno le cazzate. Quindi aspetto n’altro po’ che se calmano le acque e poi parto.» quella frase gli venne particolarmente bene, per un attimo ci credette anche lui.
«Va bene, certo. Fatte sentì però.»


Ancora una volta, non fu bravo a mantenere la parola data.
Le cose iniziarono a muoversi in modo più veloce dopo la sua conversazione con il Samurai e lui aveva sempre evitato di parlare troppo con Alberto.
Cercava di sentirlo almeno una volta o due a settimana, per assicurarsi che stesse bene, se avesse bisogno di soldi o semplicemente per farsi aggiornare sulla sua vita.
Aveva trovato un lavoretto, in un bar. Il barista lo aveva preso sotto la sua ala e gli stava insegnando a fare i cocktail, o qualcosa del genere.
Lui invece, non aveva mai nulla da dire.
Il Samurai aveva iniziato a farsi vedere più spesso a Ostia, nei terreni che ora erano suoi. Gli operai avevano iniziato ad arrivare, i cantieri venivano aperti.
Aveva voluto parlare con lui ancora una volta. Gli aveva comunicato che la questione con Rocco Anacleti sembrava sistemata, anche se aveva dovuto usare il pugno duro. Non sapeva cosa volesse dire e non voleva saperlo. Infine il Samurai, con un sorriso, gli disse: «Puoi dire a Spadino di stare tranquillo.»
Aureliano vide sulla sua pelle che al Samurai non si poteva nascondere nulla, quell’uomo aveva occhi ovunque, o spie ovunque per meglio dire.
Non sapeva quando il Samurai sapesse, ma non voleva saperlo.
I suoi uomini iniziavano a farsi domande, a sentirsi attaccati in casa loro e lui aveva dovuto fare il grande annuncio, almeno a quei pochi che gli stavano vicino e lo aiutavano.
Romoletto non sembrava contento e lui, di solito, rappresentava il pensiero degli altri.
Ma non poteva farci nulla e neanche gli interessava. Lui era il capo e tutti avrebbero seguito lui.
Quindi era andato avanti per la sua strada, nascondendo tutta questa storia ad Alberto che, quando aveva la possibilità di sentirlo, non incalzava mai troppo per paura che lui si ritirasse nel silenzio ed evitasse quelle poche situazioni di confronto che avevano. Non gli comunicò neanche le notizie di Angelica, perché altrimenti avrebbe dovuto trovargli un contesto. Si sentì malissimo per questo.
La notte non riusciva a dormire. Non ricordava l’ultima volta che aveva dormito davvero bene o che, semplicemente, avesse dormito più di tre ore.
Per quel motivo, seduto sulle scale dello stabilimento, osservando una meravigliosa notte di inizio novembre, decise di partire.
Lo chiamò il giorno dopo e gli rispose un Alberto molto assonnato.
«Aurelià.»
«Domani parto» disse soltanto.
«E do vai?»
«A fanculo. Do credi che vado? Vengo da te, imbecille.»
Alberto esitò, quando rispose la sua voce sembrava improvvisamente più sveglia.
«Oh…nun ce speravo quasi più»
«Nun fa lo stronzo. Dimme l’indirizzo.»

Mantenne la parola data, quella volta, e si mise in viaggio nel tardo pomeriggio.
Romoletto non ne fu contento, di quel viaggio inaspettato, ma non fece troppe domande, semplicemente fece quello che aveva sempre fatto. Obbedire. E venir pagato profumatamente per farlo.
Partì di pomeriggio in modo da arrivare in tempo per l’orario in cui, di solito, Alberto staccava da lavoro.
Doveva essere sincero, non aveva mai avuto problemi del genere, ma queste erano le considerazioni che facevano le persone normali che gestivano la loro vita in base agli orari di lavoro.
Ci mise circa quattro ore e mezza, andando molto tranquillamente sulla E35, ma la maggior parte del tempo lo perse una volta entrato in città. Dovette stare attento alle ZTL (era sicura di averne presa qualcuna) e, come consigliato da Alberto, si recò subito ad un parcheggio a pagamento sottointerrato. Gli lasciò le chiavi della macchina e si mosse a piedi, portandosi dietro il suo borsone nero.
Era stato qualche volta fuori Roma. Non quanto avrebbe voluto ma, da come gliel’avevano descritta, quella a cui piaceva viaggiare era sua madre non certo quell’ubriacone puttaniere che gli era rimasto come padre.
Quindi era sempre nuovo, per lui, vedere una città diversa da Roma. Beh, erano tutte diverse da Roma e dalla sua Ostia, per questo se la godè particolarmente.
Aveva la sensazione che se avesse continuato a camminare l’avrebbe vista tutta, avrebbe visto tutti i bar, i punti di raccolta degli studenti, le piazze, i negozi, i locali notturni.
Nonostante la grande differenza dalla sua città, ne sentiva quasi la stessa atmosfera.
I ragazzi, il traffico, le luci e la puzza di urina nelle stradine.
Dopo poco tempo, grazie all’aggeggio infernale che aveva nel telefono, Google Maps, riuscì ad arrivare all’indirizzo che gli aveva dato Alberto.
Lo vide immediatamente perché era l’unico pub in quella via. Era un Irish Pub, ma più mondano. Di Irish gli erano rimasti i tavoli in legno e la Guinness alla spina.
Quando entrò fu accolto da un’aria pesante e dal caldo, tanto che si tolse presto la giacca di pelle rimanendo in t-shirt.
«Buonasera!» lo salutò un ragazzo al bancone, davanti a lui. Gentile, ma che non gli dedicò attenzione a lungo, un secondo dopo stava già servendo qualcun altro.
Il pub non era strapieno come il Trinity College vicino a Via del Corso il sabato sera, o come lo Shilling d’estate, ma c’era un numero di gente di tutto rispetto.
La musica era piuttosto alta e si ritrovò un po’ confuso da tutto quel movimento che lo circondava.
Si guardò intorno e si trovò impaziente. Si aspettava di vedere subito Alberto, o semplicemente non vedeva l’ora di vederlo?
Si avvicinò al bancone e vide che c’era la postazione per i cocktail ma c’era un altro ragazzo. Si sedette su uno dei pochi sgabelli liberi e lasciò cadere il borsone sotto le sue gambe.
«Che ti porto?» gli chiese allora il ragazzo che gli aveva dato il benvenuto.
«Senti…cerco un ragazzo. Alberto. Lavora qui.» disse. Aveva finalmente la sua attenzione e il ragazzo gli sorrise «È dietro» indicò con il pollice la porta che divideva il locale dal magazzino. «Te lo chiamo subito. Nel frattempo bevi qualcosa?»
«Una birra, grazie.»
Era nervoso. Perché era nervoso?
Perché non vedeva Alberto da troppo tempo ed una parte di lui aveva paura che non lo avrebbe riconosciuto come il suo Alberto, aveva paura di trovarlo troppo cambiato.
Ma dopo pochi secondi Alberto varcò la soglia con una cassa di Heineken in mano e vide che era sempre lui, forse un po’ più felice.
I capelli non erano più rasati, ma li aveva fatti crescere in un taglio moderno ma socialmente accettabile.
Il barista con cui aveva parlato attirò la sua attenzione. «Albé, c’è un ragazzo che ti cerca.»
Alberto lo intercettò immediatamente tra tutte le persone e gli sorrise.
Sembrava sinceramente felice di vederlo.
«Servi tu? Ha chiesto una birra.» il suo collega di lavoro interruppe i loro giochi di sguardi.
«Si si. Prendi questa.» gli passò la casa di birra e lui prese il suo posto alla postazione delle birre alla spina. Prese un bicchiere, lo posò accanto all’erogatrice e allungò una mano sul bancone. Gli toccò l’avambraccio e gli strinse il polso.
Alberto sperò di riuscire a passare, attraverso quel tocco, tutto quello che provava. Sperò che lui capisse al volo quanto gli fosse mancato e quanto fosse felice di vederlo.
Dal modo in cui Aureliano lo guardava e gli sorrideva sembrava anche lui felice, anche se poteva vedere un’ombra sul suo viso. La stessa ombra che aveva sentito nella sua voce.
«’Sto aspettà la mia birra» gli disse poi.
Alberto scoppiò a ridere «Agli ordini»

Il pub chiuse verso le tre.
Non avevano avuto modo di parlare, Alberto stava lavorando, ma lo aveva osservato per tutta la sera e ogni tanto lui gli portava birra e stuzzichini per intrattenersi.
C’era una partita in tv, e si spiegava così il motivo di quel numero di clienti in un mercoledì sera. In ogni caso Bologna, come Roma, gli sembrava una città che difficilmente potevi vedere vuota.
Lo attese fuori quando arrivò il momento della pulizia e rimase appoggiato al muro mentre salutava i colleghi fuori dalla porta, mentre la saracinesca del pub andava giù.
Alberto, vestito con un jeans aderente, una felpa bordeux e un giacchetto di pelle si mise davanti a lui, con le mani in tasca, e gli sorrise.
Non disse nulla perché era troppo impegnato a guardarlo. Non sapeva ancora come Aureliano riuscisse ad essere così normalmente e terribilmente attraente. Era sempre stato attratto, fin dalla prima volta che l’aveva visto, da quell’aria minacciosa e pericolosa che emanava, completamente in contrasto con la dolcezza e il dolore di quegli occhi.
«Che c’hai da guardà?»
«Me sto a ricordà che faccia c’hai. Nun te vedo da n’secolo.» gli rispose.
Aureliano sbuffò. «Daje su, annamo a casa.»

Per arrivare a casa presero un bus notturno e Aureliano non ricordava l’ultima volta che era salito su un Autobus del servizio pubblico. Alberto sorrise vedendolo un po’ spiazzato.
Seduti uno accanto all’altro nell’autobus semi vuoto Aureliano, seduto nel sedile accanto al finestrino, guardando fuori, allungò una mano e strinse quella di Alberto, abbandonata sulla coscia. Alberto ne fu un attimo sorpreso, ma fece un sospiro di sollievo.
Il mese che avevano vissuto a Sabaudia, la notte che avevano passato insieme su quell’hotel sull’autostrada sembravano lontani anni luce. In quei mesi che erano stati lontani si erano sentiti così poco e, sinceramente, aveva avuto paura di sapere cosa Aureliano avrebbe provato quando lo avesse visto ancora una volta.
Quel gesto fu una conferma che poi non erano cambiati così tanto.
Gli strinse la mano a sua volta e lo guardò fare il vago e guardare fuori dal finestrino.
Fecero così il resto del viaggio, in silenzio.

Aureliano lo seguiva, guardandosi intorno, quando raggiunsero il palazzo. Non diceva una parola e sembrava distratto. Le cose cambiarono appena misero piede nell’ascensore.
Aureliano gli piantò gli occhi addosso e aveva fame, tanta fame.
In un attimo gli fù addosso. Lo baciava, lo spingeva contro le pareti e l’ascensore dondolava terribilmente.
Aureliano, a tratti, lo tirava fisicamente su da terra e Alberto pensò che non avrebbe retto.
Lo sapeva, lo sapeva benissimo quanto gli fosse mancato, non era una segreto che teneva da se stesso, e aveva immaginato il loro incontro più volte di quanto fosse disposto ad ammettere. Ma avere le sue mani addosso, toccarlo a sua volta, baciarlo. Non era paragonabile alla fantasia.
Il bip dell’arrivo al piano indicato li fece allontanare ansimanti. «Vieni» gli disse soltanto Alberto, armeggiando per uscire da quella scatola il prima possibile.
Sentiva le mani di Aureliano sullo stomaco mentre cercava di aprire la porta d’ingresso.
Quando furono dentro Aureliano lo sbattè contro la porta, che si chiuse con un tonfo sotto il peso di Alberto.
Se li avessero visti da fuori probabilmente sarebbero sembrati due uomini che si aggredivano, piuttosto che due uomini che facevano l’amore. Ma alla fine, questo era quello che erano.
Aureliano era su di lui e lo baciava e le sue mani erano ovunque e per un attimo, entrmabi avevano la mente completamente vuota.
Aureliano non pensava a quello che sarebbe successo. Alberto non pensava ai dubbi che per quei mesi lo avevano logorato dall’interno.
Ad un certo punto, Aureliano si mise in ginocchio davanti a lui e iniziò ad armeggiare con i suoi pantaloni, la maglia era venuta via molto presto. E lui si ritrovò senza fiato.
«No!» esclamò, nel panico. Aureliano lo guardò dal basso, confuso. «Che hai?»
«Non devi farlo»
Aureliano scosse la testa e un angolo della bocca si alzò in un mezzo sorriso. «Lo so, testa di cazzo.»
Non disse nient’altro e gli tirò giù pantaloni e boxer in un colpo solo.
Alberto pensò di morire e il suo cervello aprì le dighe.
Non aveva mai visto Aureliano così, non era mai stato così sicuro di quello che voleva quelle poche volte che avevano fatto sesso. Lo aveva sempre visto preso, ma esitante, avido ma profondamente terrorizzato.
Quando Aureliano lo prese tra le labbra tutto si spense e si trovò a fissare il soffitto buio sopra di lui per controllare le sue sensazioni. Non c’erano pensieri profondi nella sua testa, cercava solo di non venire troppo presto come un ragazzino del liceo.
Il pericolo diventava ogni secondo più realistico e per quanto avrebbe voluto provare quella sensazione per tutta la vita, gli toccò la spalla e lo allontanò da sé.
Aureliano era confuso, doveva ammetterlo, era come se stesse guardando quella scena da fuori, come se non fosse davvero lui quello in ginocchio davanti ad Alberto, ma non aveva pensieri a riguardo. Non ancora almeno.
«Vieni con me.»
Alberto lo tirò su, scalciò via i pantaloni raccolti alle caviglie e portò Aureliano in camera da letto.
Gli prese la mano e gliela strinse, perché era l’unico modo che aveva per fargli passare quello che provava, perché loro non parlavano, non erano bravi a parlare.
Accese solo l’abat-jour sul comodino e lo fece sedere sul bordo del letto. Gli sfilò la felpa e gli salì a cavalcioni, poggiando le mani sulla sua schiena. Era bollente, sudato. Persino le sue labbra erano roventi.
Lo fece stendere, ma in un secondo Aureliano prese il sopravvento e lo portò sotto di sé. Riuscì solo a slacciargli la cinta prima che gli fermasse le mani contro il materasso.
Lo guardava con quello sguardo che gli avrebbe fatto fare qualsiasi cosa, avrebbe ucciso per lui, lo sapeva benissimo e uno po’ si odiava per questo.
Era stato cresciuto in mezzo ai lupi, era sempre stato abituato a fare affidamento solo su stesso, soprattutto quando aveva capito che c’era qualcosa di diverso in lui. Qualcosa che, tristemente, lo rendeva un animale solitario. Ma ora non lo era più ed era stato così facile abituarcisi.
E sembra che anche Aureliano, finalmente, si fosse abituato a toccarlo, a farsi toccare, a stare con lui in quel modo. E i suoi baci, le sue carezza, il suo tocco…c’era qualcosa di diverso dalle altre volte.
«Me sei mancato da morì.» gli sussurrò Aureliano, col fiatone. Sentì un brivido perché era ancora strano sentirgli dire cose del genere.
«Sul serio?» si vergognò il secondo dopo che quelle parole lasciarono la sua bocca. Si sentiva il volto in fiamme.
Aureliano rise, non rispose, ma tornò a baciarlo.

 

Quando Alberto si svegliò erano da poco passate le undici di mattina. Aureliano dormiva ancora nudo accanto a lui quindi, silenziosamente, si alzò, prese i vestiti e uscì in punta di piedi dalla stanza. Andò in cucina e preparò la macchinetta del caffè, tirò fuori biscotti e fette biscottate dalla dispensa, prese la marmellata. Non aveva mai avuto marmellata in casa nella sua vita, e ora ne andava matto. Non sapeva se fosse dovuto davvero ai suoi gusti o solo perché era tutto così nuovo per lui.
Mentre aspettava che il caffè uscisse, si appoggiò al tavolo in plastica ma decorato in modo da ricordare un po’ il disegno del marmo, e si preparò una fetta biscottata. Prese un morso e si concentrò su quel sapore.
Tutto quello che era successo quella notte gli tornò in testa come un’onda.
Era stata, senza ombra di dubbio, la notte più bella da quando, quell’estate, aveva dormito in spiaggia sotto il cielo stellato.
I rumori provenienti dalla cucina svegliarono Aureliano. Il rumore della fiamma della cucina, quello della macchinetta del caffè, il tintinnare delle posate e sentiva anche, di sottofondo, il masticare rumoroso di Alberto.
Non si alzò subito, rimase a guardare il soffitto a cassettoni così terribilmente barocco, ma allo stesso tempo evidentemente finto.
Strinse forte gli occhi quando ripensò a quello che era successo quella notte. Perché si sentiva così imbarazzato? Perché aveva paura che Alberto avrebbe fatto riferimento a quello che era successo?
Aveva semplicemente fatto quello che il suo stomaco gli diceva di fare, si era lasciato andare e non lo faceva da molto tempo. Forse, probabilmente, dall’ultima volta che avevano fatto sesso.
Perché, allora, si sentiva così in ansia all’idea di parlare con Alberto?
Forse tutto questo non aveva niente a che fare con del sesso orale, o con una notte di sesso arrabbiato.
Recitando un mantra nella testa, qualsiasi cosa che lo avesse fatto calmare, si alzò e si rimise i boxer. Si mise su una felpa nera trovata sulla poltrona all’angolo della stanza, una felpa di Alberto, a contatto diretto con la pelle e andò in cucina.
«Appena in tempo. » disse Alberto con un sorriso, quando lo vide «È uscito il caffè.» stava versando un po’ di caffè in una tazza larga, e subito dopo ci aggiunge un po’ di latte freddo.
«Lo vuoi?»
Aureliano non parlò, ma annuì. Alberto gli preparò una tazzina e gliela porse.
Si poggiò alla cucina con la sua tazzona in mano e gli sorrise «Allora…che ne dici de casa?»
Aureliano assaggiò il caffè, ma era troppo caldo e lo lasciò a raffreddare sul tavolo. Si guardò intorno.
«Un po’ vecchiotta, ma nun penso che qua trovi qualcosa de più novo.»
Alberto sbuffò «Si, lo so che è vecchia. Ma è figa, è vintage.»
«Sembra casa de mi nonna, Albè. Ma l’hai visto quer soffitto?» si mise a ridere e Alberto non poté fare a meno di seguirlo.
«Beh, ci vorrebbero un po’ di lavori. Ma la posizione è favolosa. Qui n’è come Roma, poi movete a piedi!» disse, sorridente. «Forse la proprietaria accetterebbe ‘na bella offerta per fammela comprà. Potremmo sistemalla come ce piace. Lo spazio nun manca.» si guardava intorno, non guardava Aureliano, perché era assolutamente consapevole di quello che aveva appena detto.
Aureliano aveva sentito perfettamente e sentì un crampo allo stomaco, come se qualcuno gli avesse appena stretto le viscere in un pugno.
«Albé, noi dobbiamo parlà.»
Alberto non si allarmò, prese un sorso di caffè e latte dalla tazza. «Se non ti piace possiamo cercà altrove. Pure n’altra città, nun c’ho problemi.»
«Albè, ascoltame.»
Finalmente lo guardò. L’espressione sul suo viso lo terrorizzò, doveva essere sincero.
Non era semplicemente serio, neanche dubbioso sulla proposta velata che gli aveva appena avanzato, era spaventato. Come quando una persona deve dirti una cosa e sa già che le cose andranno male.
«T’ascolto.»
Aureliano prese un profondo respiro, si alzò e si appoggiò al tavolo. Erano più vicini ora, faccia a faccia, ma c’era una ragionevole distanza personale tra di loro.
«C’è ‘na cosa che nun t’ho detto.»
Alberto lo guardò, ora finalmente serio in volto.
«Io…quando hanno dato i terreni de Ostia ar Samurai, lui è venuto da me. » non era sua intenzione mantenere Alberto sulle spine quindi abbassò lo sguardo e sputò tutto fuori. «M’ha offerto n’accordo. Migliore de quello che c’aveva co mi padre e co mi sorella. E io ho accettato.»
Non c’erano espressioni sul volto di Alberto, neanche sorpresa.
«In questi mesi non c’erano ancora i permessi per inizià sto cazzo de progetto der Samurai ma…se semo visti sto mese. Io so incastrato Albé. Non posso annà da nessuna parte, non adesso.»
Alberto lasciò la tazza sul piano di lavoro della cucina e abbassò gli occhi. Stava pensando, stava ragionando.
«Lui ha solo ‘na parte del litorale. Vole pure l’altra. Vole te.»
Aureliano annuì «Ostia è mia. Anche coi terreni se nun c’ha il sostegno der popolo, se nun c’ha un sostegno mio nun c’ha niente.» si interruppe «L’accordo è bono. Faremo un sacco de sordi.» si sentì stupido per aver detto quell’ultima frase. Si sentiva come un marito che cerca di convincere la moglie a comprare una nuova macchina.
«E chi te dice che te poi fidà? Chi te dice che quando je starai sul cazzo non te tojerà de mezzo? »
«Me prendi per stupido? Sto prendendo tutte le precauzioni der caso. È un lavoro come n’altro, Albè.»
Alberto scosse la testa, sconsolato. Non sapeva neanche che parole usare per dirgli che no, non era un lavoro come un altro, e che non si sarebbe mai dovuto fidare del Samurai.
«Quanto durerà?»
Aureliano allargò le braccia «Nun lo posso sapè.»
Alberto sbuffò e gli diede le spalle, poggiandosi con tutto il peso sul piano della cucina, guardò davanti a sé il paraschizzi beige.
«Io nun ce credo. C’hai avuto mesi pe dimme qualcosa. Semo stati un cazzo de mese rinchiusi in una casa e tu te ne esci mo.»
«Beh, me dispiace, ma c’avevo n’attimo artra robba per la testa se non te ne sei reso conto.» il tono di Aureliano era sarcastico.
«Si, a sentimme chiacchierà de partì insieme, de vive insieme da qualche parte, quanno sapevi benissimo che non c’avevo possibilità de vince. Beh, na cosa è certa, mo me sento proprio un cojone.» Alberto si mise a ridere, ma dentro si sentiva morire.
Sentì l’uomo dietro di sé sospirare. «Stai a esagerà. N’è vero niente, e lo sai. Non cambia un cazzo tra de noi, dobbiamo solo avè un po’ più de pazienza.» Alberto si girò e fissò gli occhi in quelli di Aureliano, giusto in tempo per scoppiargli a ridere in faccia.
Iniziò a respirare a fatica, aveva bisogno di aria, di più spazio, di stare lontano da Aureliano.
Uscì dalla stanza e si fermò in mezzo al corridoio
«Albè, per favore.» Aureliano lo seguì e lo fronteggiò. «Andrà tutto bene, te devi fidà de me.»
«Me devo fidà de te?» Alberto rise ancora, ma Aureliano poteva vedere la sua rabbia e il suo dolore.
Si sentiva tradito.
«Lo voi sapè come andrà a finì ‘sta storia, Aurelià? Te lo dico io!» esclamò.
«Per i primi mesi se sentiremo spesso, forse. Insomma, st’ultimo mese era come parlà cor Papa!» iniziò. «Verrai pure spesso a trovamme, ne so sicuro. Ad un certo punto, verremo tutti e due presi dai cazzi nostri, se limiteremo a qualche messaggio e telefonate da du minuti a parlà der tempo. Poi, ner mijore dei casi te trovi ‘na bella ragazza, da scopatte o da sposatte, e io lo vengo a sapè pe telefono. Ner peggiore dei casi te prendi na pallottola in testa e io lo vengo a sapè dar telegiornale.»
Aureliano sentì un’ondata di rabbia. Era una sensazione a cui, purtroppo, era abituato. Ma questa volta non si fece assoggettare. Fece un profondo respiro perché vedeva Alberto davanti a sé e per quanto sembrasse furioso con lui, in realtà si vedeva chiaramente che era ferito.
Sapeva di non avergli fatto promesse, era stato attento, ma sapeva anche di non aver fatto tutto quello che poteva per essere chiaro e diretto con lui. Maledizione, aveva evitato le sue chiamate per giorni.
«Te devi fidà de me. Non incontrerò nessuno, nun vojo incontrà nessuno!» allungò le braccia e strinse le mani sulle sue spalle. Alberto le scrollò via. «E non finirò ammazzato. C’ho tutto sotto controllo.»
«Funzionerà.» disse, alla fine. Lo farò funzionare.
Alberto incrociò le braccia al petto, per tenerlo lontano e per darsi conforto «Io…» non ti credo, voleva dirgli, ma non ce la fece. Si sentiva completamente vuoto e non poteva crederci che solo cinque minuti prima si sentiva la persona più felice sulla faccia della terra.
«Io…non ne posso parlà ora. Io c’ho bisogno de n’attimo.» si allontanò e entrò nella sua stanza da letto, aprì il primo cassetto del comodino e prese una sigaretta, dell’erba e l’accendino.
Aureliano lo seguì e lo guardò mentre si preparava lo spinello. Era evidentemente distratto, chiuso nella sua testa e anche se si trovava a pochi centimetri da lui sembrava lontano chilometri.
Si sedette per terra, ai piedi del letto, accanto alle gambe di Alberto seduto sul materasso.
«Io aspetto qua.»
Quando fu pronta Alberto si alzò e andò alla finestra, aprì le orribili tapparelle marroni, le imposte e il rumore della città lo investì. Si appoggiò al bordo della finestra e guardò fuori.
Faceva freddo e lui era in t-shirt. I brividi gli attraversarono la schiena e le braccia ma amò la sensazione.
La sua strada non era particolarmente trafficata, ma c’erano persone, tante persone, che camminavano a piedi. Bologna era piena di stradine per accorciare e arrivare prima al centro città, quella strada era una di quelle scorciatoie.
Guardò le persone passeggiare, camminare velocemente e correre sotto la sua finestra; motorini e biciclette. Sentì odore di cucinato nell’aria, sembrava mattina presto ma in realtà era quasi ora di pranzo.
Si pranzava presto qui, non come a Roma.
Si accese lo spinello e rimase a guardare fuori, sempre assolutamente consapevole della presenza di Aureliano seduto a terra dietro di lui.
Avrebbe voluto fare voto di silenzio, ignorarlo, come era stato ignorato lui nell’ultimo mese, ma non ce la faceva. Una cosa era certa però, non sarebbe stato in grado di pensare con la presenza di Aureliano dietro di lui.
«Hai intenzione de sta la ancora pe molto?» girò il collo il minimo necessario per vederlo, sputando fuori il fumo.
«Tutto er tempo che serve.» Aureliano si abbracciava le ginocchia, guardando Alberto e rimanendo in silenzio.
«Ho bisogno de sta da solo.»
Aureliano lo guardò interdetto, e stava per scoppiare, lo sentiva. Stava per scoppiare, rischiando di dire qualcosa di cui si sarebbe pentito. Tipo, cosa so ste fregnacce da ragazzine del liceo? Dio, Alberto lo avrebbe appeso al muro, se solo ci fosse riuscito.
Fece un profondo respiro «Va bene. Vado dellà, vedo se riesco a preparare qualcosa da mangià.» si alzò e uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle. Alberto non lo seguì con lo sguardo, rimase girato guardando fuori dalla finestra e fumando.
Pensò agli ultimi mesi, pensò al dubbio che lo aveva eroso.
Era stato convinto che Aureliano avesse un’altra persona a casa fino a quando non gli aveva detto che sarebbe salito a trovarlo. Doveva essere sincero, non c’avrebbe scommeso na lira.
Lo aveva sentito subito che c’era qualcosa che non andava. Fin dalla questione dello zingaro morto al Lido di Ostia. Da quel momento in poi Aureliano era diventato sempre più sfuggente, aveva smesso per un periodo di rispondere alle sue telefonate.
Ora capiva che probabilmente non voleva parlargli al telefono per non dovergli dare spiegazioni, per non mentire, per evitarlo.
Mentre buttava fuori il fumo si rese conto di una cosa. La realtà lo colpì in faccia come un pugno ben assestato.
Aveva lasciato la sua vita alle spalle da pochi mesi e già era lì a fare il fidanzato ferito, a giudicare Aureliano per le sue azioni.
Probabilmente se non fosse successo nulla di quello che era successo anche lui si troverebbe lì, intrappolato nello stesso affare. O forse si sarebbe trovato a fare molto, molto di peggio.
Gettò il mozzicone fuori dalla finestra come l’incivile che era e si gettò sul letto a guardare quell’orribile soffitto.
Era questo l’effetto che ti faceva, andare completamente fuori di testa per una persona?
Aveva pensato davvero che lui e Aureliano sarebbero andati a vivere da qualche parte insieme?
Si, era vero.
E sentiva un crampo in fondo allo stomaco perché una parte di sé sapeva che non sarebbe mai successo?
Si, assolutamente si.
C’erano stati tanti cambiamenti in lui negli ultimi mesi, uno di questi era stato quello di parlare al futuro.
Quando viveva con la sua famiglia, in quella vecchia vita che ora sembrava quella di qualcun altro, non aveva mai pensato al futuro. Sapeva benissimo che la sua fine poteva essere il giorno dopo. Ma da quando Aureliano gli aveva salvato la vita, da quando avevano iniziato la loro storia il futuro era l’unica cosa a cui riusciva a pensare.
Anche quando erano rinchiusi in quella casa di Sabaudia riusciva a pensare solo a quando avrebbero fatto sesso, e dopo a quando sarebbe dovuto andar via, e poi a quando si sarebbero visti la volta successiva.
Tutto questo era così sbagliato.
Era lì rinchiuso in camera quando la persona che aveva voluto avere accanto per mesi era nella stanza accanto a fare un casino d’inferno aprendo e chiudendo i cassetti e le dispense.
Si passò le mani tra i capelli, poi si coprì gli occhi e sospirò pesantemente.
Rimase altri dieci minuti steso a guardare il soffitto, cercando di capire cosa avrebbe dovuto dirgli. La realtà è che non lo sapeva, sapeva soltanto che voleva vivere il qui e ora perché dentro di sé sapeva che non ci sarebbe stato molto altro. Questo lo riempiva di tristezza.
Si era già sentito disperato nella sua vita, molte volte, ma mai aveva provato quello che stava provando in quel momento. Riusciva a vedere la fine di tutto e invidiava Aureliano che, nonostante tutto quello che gli era successo, aveva ancora speranza. Pensava davvero che le cose si sarebbero risolte, che le cose tra di loro avrebbero funzionato, che non correva alcun rischio perché lui era Aureliano Adami ed era il più forte di tutti.
Non aveva modo di fermare tutto questo? Non aveva modo di modificare il futuro?
Eccolo lì, un’altra volta a pensare al futuro.
Si sentiva bloccato in una via senza uscita, voleva parlare ad Aureliano anche se non sapeva cosa dirgli e allo stesso tempo voleva rimanere chiuso in quella stanza.
Poteva sentire chiaramente il suo respiro farsi più pesante anche se era assolutamente immobile sul letto. Il suo cuore stava iniziando ad aumentare il battito senza motivo e lui riconobbe immediatamente i segnali.
Si alzò a scatto a sedere sul letto e chiuse forte gli occhi. Si concentrò sul suo respiro, come aveva imparato a fare quei mesi al mare e riuscì, dopo qualche minuto, a far tornare tutto nella norma.
Non funzionava sempre, doveva essere sincero, ma l’ultima cosa che voleva era avere un altro attacco davanti ad Aureliano.
Non voleva che lui sapesse quanto stava male, aveva altro di cui preoccuparsi al momento.
Quando sentì di essersi calmato abbastanza si alzò e si infilò un pantalone della tuta. Era dei tempi di Sabaudia, era di Aureliano e gli andava grande ma non aveva mai smesso di indossarli.
Aprì la porta silenziosamente, fece i pochi passi che lo distanziavano dalla cucina e si appoggiò allo stipite della porta a braccia conserte.
Aureliano stava guardando con attenzione l’interno del suo frigorifero pieno, fresco di spesa, ma dalla sua espressione sembrava che lo stesse guardando da ore. Fermo immobile con in mano un pacco di spaghetti.
«Aurelià»
Quando sentì il suo nome il ragazzo si girò di scatto, come svegliato in mezzo ad un sogno ad occhi aperti. Mollò gli spaghetti sul tavolo e gli andò in contro, come uno studente in attesa del voto dell’esame.
«Dimme.» era pronto a tutto. Alberto, però, non fu in grado di capire cosa gli passava per la testa. Era spaventato? Era arrabbiato? Cosa stava provando Aureliano Adami era sempre la domanda da un milione di euro.
«Me devi scusà.» iniziò Alberto, stringendosi le braccia al corpo. «Ho dato de matto come un ragazzino, me dispiace.»
«No Albè, aspe…» il ragazzo alzò la mano per fermarlo.
«Zitto, famme parlà.»
Sospirò per ricominciare, quando capì che Aureliano sarebbe rimasto in silenzio.
«Me so quasi dimenticato che vordì fa la vità che facevo prima. Non sai quanto te cambia stanne fuori, Aurelià. Non sai quanto velocemente te abitui alla vita che sto a fa adesso.»
«Ho iniziato a pensà ar futuro. Come la gente normale. T’ho fatto praticamente le previsioni prima e nun me piace. Ma tu non sei na persona normale.»
«Poi…pensà troppo ar futuro non te fa pensà al qui e ora. Quindi molla tutto, te porto a pranzo fori e se famo un giro per la città. E famo shopping.» gli sorrise e sciolse le braccia.
Aureliano credeva al suo sceneggiato?
Aureliano lo guardò per un secondo, in silenzio. Non sembrava particolarmente convinto.
«E poi?»
Alberto fece spallucce «E poi se vedrà. Quello che succede succede, non se potemo preoccupà mo, no? Se vive giorno per giorno, ora pe ora se è necessario.»
Aureliano, dopo un attimo, gli sorrise. «Sei diventato pure filosofo.»


Passarono insieme tre giorni, prima che Aureliano fosse richiamato a casa da una telefonata di Romoletto. Le cose si stavano smuovendo e doveva tornare a Roma il prima possibile.
Alberto fu bravissimo a nascondere quello che aveva dentro, o forse Aureliano non era ancora particolarmente bravo a capire quello che gli passava per la testa.
Comunque lo accompagnò alla macchina, prima di andare a lavoro e rimasero per un attimo davanti alla porta del garage interrato, a venti centimetri di distanza l’uno dall’altro.
«Salutame Roma» gli disse Alberto, sorridendo.
«Chiamame quanno stacchi. Te vojo sentì prima che vai a dormì.» gli disse.
Aureliano non sorrideva.
«Va bene.»
«E me chiami se c’hai bisogno de sordi, e de qualsiasi cosa.»
«Si papà.» lo prese in giro. Aureliano non rideva ancora.
«E se qualcosa non va me lo devi fa sapè, perché io nun te leggo nel cervello. Hai capito, Albè?» Alberto si fece serio. Forse aveva sottovalutato le capacità di Aureliano?

 

Quando Aureliano tornò a Roma le cose cambiarono molto velocemente.
Nel giro di un paio di settimane, infatti, gli ultimi permessi erano stati concessi. Il Samurai si era impegnato moltissimo nel giro di mazzette che c’erano volute per velocizzare il processo.
E nel giro di un mese arrivarono i primi camion con materiali edili per la costruzione del grande progetto del Samurai: il Waterfront.
Un resort nascosto in piena vista sul litorale di Ostia, con palestra, spa, bar, ristoranti, tutto quello che un riccone romano potesse volere. Ovviamente tutto questo solo una copertura per lo spaccio di droga e prostituzione.
La droga arrivava al porto di Fiumicino, nascosta nei materiali edili, protetti da tutti i permessi concessi dal Comune di Roma e poi venivano caricati in camion di medie dimensioni che in meno di un’ora arrivavano a Ostia.
Aureliano doveva ammetterlo, il Samurai sapeva quel che faceva.
Questo, però, voleva dire che nel giro di un paio di mesi iniziarono ad entrare dei bei soldoni.
Aureliano, per pulire il denaro, fece rimodernare il suo ristorante sulla spiaggia e da una terribile sala da cerimonie con i fiocchi in tessuto dietro le sedie, come l’aveva voluta suo padre, si era trasformata in un locale fusion estremamente alla moda.
Il Samurai era stato molto contento di quella scelta, ma Aureliano non centrava niente, aveva assunto una donna che aveva preso tutte le decisioni del caso.
I lavori furono velocissimi, giusto in tempo per il cenone di Natale e quello di Capodanno.
Non era mai stato un appassionato di quelle feste familiari, anzi, le aveva sempre disprezzate profondamente. Ma, per la prima volta in vita sua, avrebbe voluto passarle con Alberto.
Si sentiva soddisfatto di come stava gestendo la situazione. Si sentivano molto spesso, aveva anche imparato a mandare i messaggi, anche se lo aveva sempre odiato.
Alberto sembrava che se la stesse cavando bene, o almeno questo era quello che gli faceva credere.
Aveva lasciato Bologna con una terribile sensazione, come se Alberto gli avesse solo dato un contentino perché non voleva perderlo, o perché non aveva avuto le palle di mettere fine alla loro relazione.
Ma non aveva tempo di pensarci, perché, da un momento all’altro, si trovò a dover gestire una seconda attività di successo.
Il Samurai aveva iniziato, contro la sua volontà, a portare ricconi di Roma a cena al “Fiore di Ciliegio” e aveva dovuto assumere un cuoco di originale Thailandese ma che sapeva cucinare la robaccia asiatica che piaceva a loro.
Ma iniziarono a venire ragazzi e famiglie di Ostia, gente per bene, che non centrava niente con l’altra attività e non ci credeva che adesso era più impegnato a seguire il ristorante che a fare altro.
Dovette assumere nuove persone che si occupassero esclusivamente del locale, ma che fossero abbastanza fidate da chiudere un occhio e farsi gli affari propri quando venivano battuti degli scontrini a clienti fantasma, o se vedevano dei movimenti strani nella dispensa. Non era stato troppo difficile.
La crisi si sentiva parecchio e aveva preso padri e madri di famiglia a cui pagava uno stipendio da aiuto-cuoco, addetto delle pulizie o da cameriere che la gente si sognava di notte. Era tutti estremamente fedeli e grati per l’opportunità di non arrivare con il fiatone a fine mese. Poi c’era sempre qualche ragazzino sbarbatello a cui piaceva avere soldi in tasca per l’ultimo modello di I-Phone, acquisto che mai sarebbe riuscito a spiegare ai propri genitori.

In ogni caso passarono mesi prima che Aureliano potè lasciare Roma tranquillamente.
Alberto aveva proposto qualche volta di venire lui, magari prendere un hotel in provincia, magari sui Castelli, ma Aureliano era sempre stato piuttosto categorico a riguardo. Non se ne parlava.
Le cose stavano andando bene, Alberto era al sicuro ed era riuscito ad avere anche notizie su Angelica. Gli Anacleti stavano finalmente al loro posto, anche se non sapeva esattamente cosa il Samurai gli avesse offerto. Non era neanche sicuro di volerlo sapere, l’importante è che stava lontano da lui e che Alberto fosse al sicuro.
Quindi era quasi marzo quando ritornò a Bologna. Le giornate non accennavano a riscaldarsi, anzi, era prevista neve al nord, ma lui prese la macchina, si premurò di mettere nel bagagliaio le catene e partì.
Lasciò il ristorante in mani fidate, che non erano di Romoletto che ci sapeva fare ancora meno di lui con la gente, e prese del contante. Alberto non gli aveva più chiesto soldi dopo che gli aveva dato l’ultimo borsone nell’hotel sulla Roma-L’Aquila e sapeva che era solo per il suo orgoglio. Quindi avrebbe bypassato il passaggio della richiesta e glieli avrebbe portati.


Non era stato particolarmente reattivo Alberto quando Aureliano gli aveva detto che stava salendo, che si stava mettendo in macchina proprio in quel momento.
Era contento, sicuramente, ma non funzionavano più così le cose. Aureliano non poteva semplicemente dirgli da un momento all’altro che stava arrivando, lui aveva una vita, una vita normale, con degli orari e…
Dovette chiamare il suo responsabile, al magazzino, e dirgli che stava male, che si sarebbe preso qualche giorno di malattia, questo maledetto virus influenzale era davvero tosto quest’anno. Era sicuro che un paio di giorni a letto lo avrebbero rimesso al mondo.
Non sapeva perché non aveva detto ad Aureliano del cambio di lavoro. Al pub, purtroppo, era durato poco. Alla fine dei tre mesi di contratto era stato mandato a casa e, anche se aveva abbastanza denaro per starsene tranquillo per un bel po’ di tempo, alla seconda settimana a casa, da solo, sentiva che stava per uscire di testa.
Quindi aveva ricominciato a cercare lavoro e l’aveva trovato in un magazzino alimentare. Era un lavoro di fatica, e i colleghi lo chiamavano folletto perché era piccolo e mingherlino, ma non era male, e pagava abbastanza bene. Aveva provato a farsi crescere la barba per sembrare più grande, ma no, non era per lui. Sembrava ancora di più un adolescente con i primi, orribili, viscidi peletti sul viso.
Si era comprato un cellulare nuovo, con lo stipendio, e anche un portatile piuttosto buono. Cioè, pensava lo fosse, si era fatto consigliare dal commesso di Mediaworld. E poi aveva preso una PS4, ma non avendo nessuno con cui giocare fisicamente, aveva iniziato a giocare online. Anche questo era diventato un buon passatempo.
Aveva aggiunto una libreria Ikea nel salone. Non centrava assolutamente nulla con l’arredamento preesistente ma non gliene poteva fregare di meno. Aveva smesso di dare attenzione alla casa e di fantasticare su come potesse essere sistemata dopo l’ultima visita di Aureliano.

Aureliano, questa volta, riuscì a trovare un parcheggio vicino a casa di Alberto e aveva anche trovato velocemente il palazzo giusto. Quando gli aprì la porta e lo vide per un attimo quei mesi di merda che aveva passato erano stati cancellati. Non gli importava più perché Aureliano era li davanti a lui ed era sempre diverso da come se lo immaginava quando parlavano al telefono.
Era facile provare rancore nei suoi confronti quando non si vedevano spesso, quando lui era solo una voce o un messaggio sul telefono.
Quando lo vedeva davvero Aureliano era bellissimo, ed era l’uomo che gli aveva salvato la vita, e quello che quando lo vedeva sorrideva come lo aveva visto fare così poche volte.
Aureliano gli sorrise soltanto e lo prese tra le braccia, quasi alzandolo dal pavimento.
«Ehi.» lo salutò e la sua voce la sentì fin dentro le ossa.

Non mangiarono neanche, non ce n’era bisogno, rimasero a letto per tutto il pomeriggio e Alberto odiò con tutto il suo cuore il fatto che quello era, sicuramente, il giorno più bello degli ultimi mesi.
Come si era ridotto in quelle condizioni? Com’era possibile che Alberto ‘Spadino’ Anacleti non riuscisse a vivere bene senza quell’uomo accanto a lui?
Questo lo rendeva furioso e sempre più arrabbiato.

Aureliano aveva appoggiato il mento sul suo petto, senza spingere, e glielo baciava, cercando di convincerlo ad intraprendere un nuovo round.
«Non mi dici niente?» Alberto voleva parlare, invece. Si, come la femminuccia della situazione.
Aureliano gli aveva raccontato qualcosa di quello che faceva, gli aveva raccontato del ristorante, ma sapeva anche che aveva appositamente lasciato fuori qualsiasi cosa che potesse sembrare lontamanete pericoloso.
Come se Alberto non lo sapesse che il loro “lavoro” era pericoloso per definizione.
«Nah, niente de importante» baciò il suo petto per l’ultima volta e mise la mano sotto il mento per non fargli male.
«Sei sicuro?»
«T’ho detto tutto. Le cose stanno annà a gonfie vele.»
Alberto lo guardò per un attimo, poi accennò un sorriso. Con la luce dell’abat-jour gli occhi di Aureliano sembravano scintillare.
«Statte zitto mo. Nun so se te ne sei accorto, ma sto a cercà de attirà la tua attenzione.»

Quando Aureliano si svegliò, il giorno dopo, Alberto dormiva ancora al suo fianco. Durante la notte gli aveva dato le spalle e si era messo nella sua posizione preferita, su un fianco, con il cuscino in mezzo alle gambe.
Soprattutto in quelle situazioni, in cui vedeva Alberto così fragile, sentiva una serie confusa di emozioni agitarsi nel petto. Lo faceva sempre sentire a disagio.
Si alzò e si vestì con roba comoda che tirò fuori dal suo borsone nero, e uscì dalla stanza chiudendosi la porta alle spalle.
Andò in cucina e cercò di rinfrescarsi la memoria riguardo la posizione di tutto il necessario per fare il caffè, aprendo tutto quello che gli capitava davanti.
Trovò facilmente la moka, il barattolo del caffè in polvere e lo zucchero.
Alberto era particolarmente ordinato e non l’avrebbe mai detto.
Mentre aspettava che il caffè uscisse, si sedette al tavolo e controllò il suo cellulare, per vedere se qualcuno l’aveva cercato. Il giorno precedente era stato tutto per Alberto, in tutti i modi che aveva potuto aveva concentrato tutta la sua attenzione su di lui.
Perché gli era mancato, era vero, e perché aveva avuto paura di sentirlo lontano e aveva dovuto esorcizzare quella paura.
Fu in quel momento, mentre metteva da parte il suo telefono silenzioso, che vide, abbandonato vicino al portatovaglioli , lo smartphone di Alberto.
Lo prese, anche se non sapeva bene il perché, e tornò a sedersi. Se lo girò tra le mani e cercò di accenderlo.
Il telefono era in blocco, c’era bisogno di un codice numerico per avervi accesso, ma c’era, in bella vista, l’anteprima di un messaggio WhatsApp.
«Oi, sei sparito. Aperitivo?» diceva soltanto. Il numero era salvato in rubrica come Aleksandr.
Che cazzo di nome era Aleksandr? E chi cazzo era, soprattutto?
Solo dopo aver ragionato su quel messaggio più di quanto fosse necessario e poco prima che lo schermo del cellulare tornasse ad oscurarsi vide il minuscolo cerchietto sul telefono in cui era contenuta la foto di questo Aleksandr.
Come aveva fatto a non arrivarci prima?
Avrebbe riconosciuto quella faccia ovunque, anche se ora non era più biondo ma castano…quello nella foto era sicuramente Alex.
Alex, l’Alex di Roma, la puttana di Alberto, quello a cui aveva dato dei soldi per farlo uscire dalle loro vite.
Ed eccolo di nuovo lì.

In altri casi, in altri momenti, la rabbia se lo sarebbe mangiato vivo. In altri casi avrebbe spaccato tutto.
In altri casi avrebbe appeso Alberto al muro.
Invece lanciò il telefono sul tavolo e si prese la testa tra le mani.
Non riusciva neanche a formulare un pensiero, non riusciva a pensare a nulla perché non aveva mai provato nulla del genere, non aveva mai avuto precedenti. Come si sentiva la gente, in quei casi?


«Ma perché fai sempre così casino?»
Non aveva neanche sentito la porta della camera che si apriva, né i passi di Alberto per raggiungere la cucina. Alzò lo sguardo e lo vide sulla porta, gli occhi ancora mezzi chiusi, la maglia spiegazzata, i capelli in disordine e i piedi nudi.
Aureliano non rispose. Per un attimo si chiese cosa sarebbe successo se avesse provato a parlare.
«Sei bianco come n’cadavere. Che c’hai?»
Aureliano fece un sospiro, e appoggiò le spalle alla parete dietro di lui.
«T’è arrivato un messaggio.» disse soltanto.
Alberto, guardando ancora il suo viso, con le sopracciglia corrugate, allungò la mano e prese il telefono a schermo sotto sul tavolo.
Lo accese, inserì il codice d’accesso e un rumore del telefono fece capire ad Aureliano che era all’interno.
«Oh…» disse Alberto dopo un attimo.
Alzò lo sguardo, ma non aveva l’espressione di una persona che era stato beccato con le mani nel sacco.
Aureliano lo guardava, e quando vide quell’espressione quasi disinteressata sul suo volto, gli venne voglia di spaccargli la faccia.
«Guarda, prima che te ne esci co qualche stronzata, ascoltami.» in un attimo lo sguardo di Alberto si intenerì, sorrise quasi, e si mise proprio davanti ad Aureliano.
Lo sapeva che gli sarebbe potuto arrivare un pugno da un momento all’altro?
«Ascoltami, okay?» si chinò davanti ad Aureliano e gli mise le mani sulle ginocchia. Dio, l’espressione di Aureliano era terrificante.
«Nun è assolutamente come pensi te» gli disse, cercando ogni minimo cambiamento di espressione sul suo viso.
«Sta qua?» gli chiese a bruciapelo.
«No, abita a Milano. Ce semo visti qualche volta, ho preso il treno per andarlo a trovare. Solo per chiacchierà.»
Aureliano scoppiò a ridere, una risata senza un minimo di vera allegria «E ce dovrei crede?»
«Avete scopato?» chiese ancora, e Alberto si passò una mano tra i capelli, si alzò e si appoggiò alla cucina.
«No. Alex non fa più quel lavoro, grazie a te.»
«Che fai? Me prendi pure per il culo?» Aureliano si alzò di scatto e lo fronteggiò, l’espressione strafottente sul suo viso lo stava mandando fuori di testa.
Alberto si fece improvvisamente mortalmente serio.
«No. Tu m’hai chiesto de fidamme de te, mo so io che te lo chiedo.»
Aureliano si strinse le tempie con i palmi delle mani. «Voi sete stati insieme.»
«No, io lo pagavo perché me sentivo solo come un cane.»
Lo guardò di sottecchi, Alberto non avrebbe ceduto di un millimetro. Forse perché davvero non aveva niente da nascondere?
«E famme sentì, de che parlate?»
«De tutto e de gnente.»
«J’hai detto de noi?»
«Si. Beh, lo aveva già capito da quando j’hai dato n’capitale pe uscì dalla vita mia.»
Aureliano sputò fuori l’aria e scosse la testa «Ma che te dice la capoccia? Ma non t’è passato pe la testa la possibilità che ce potrebbe ricattà? E se va da tu cugino e se fa pagà per dije do stai? Ma tu davero sei diventato così ingenuo? Che è, qualche mese in un’altra città e me diventi un rincoglionito?»
Ci aveva pensato Alberto?
Doveva essere sincero, lo aveva fatto, ma si era rifiutato di dar retta a quella voce perché non era la sua voce, bensì quella di Aureliano fissa nelle sue orecchie.
Alex aveva cambiato vita davvero, con i soldi di Aureliano. Aveva iniziato a fare quei corsi di preparazione al lavoro, aveva un appartamento tutto suo ed era così riconoscente ad Alberto.
Non perché avesse fatto niente di particolarmente importante per lui (forse la riconoscenza la doveva alla gelosia di Aureliano) ma solo perché era stato gentile con lui.
Incrociò le braccia al petto. Non voleva spostarsi anche se la figura di Aureliano stava diventando sempre più imponente su di lui.
«Beh, io penso che fa affari cor Samurai sia ‘na cosa da ingenuotti. Quindi stamo sulla stessa barca, no?»
Non sapeva quell’atteggiamento passivo/aggressivo dove lo avrebbe portato. Probabilmente a niente. Ma non sarebbe stato un altro secondo lì a dare spiegazioni a quell’idiota.
Fece per andarsene, ma Aureliano lo intercetto molto velocemente, afferrandolo per il braccio
«Lasciami o giuro che te spacco la faccia.»
La rabbia si stava mangiando Alberto vivo ed era davvero pronto a mettergli le mani addosso, non importava se Aureliano avesse avuto, alla fine, la meglio.
È vero, faceva un’altra vita adesso, era diverso, era Alberto. Ma una parte di lui era ancora Spadino.
Aureliano esitò, ma non lo lasciò andare, alleggerì solo un po’ la presa.
«Non vojo che lo vedi più.»
«Non è ‘na cosa che poi decide tu.»
«Albè, nun me fa rosicà.»
Alberto lo guardò in silenzio, severo, arrabbiato, senza parole.
«Tu non me fa rosicà. Non te devo dà spiegazioni. T’ho detto che non è successo nulla, se me voi crede bene, se no vattene a fanculo a Roma.»
Aureliano gli strinse di nuovo il braccio, quando sentì che voleva andar via.
«È per questo? È perché non posso lascià Roma? Per questo te vedi co la puttana?»
Alberto scoppiò a ridere, ma senza un briciolo di allegria.
«Me so visto du volte con Alex perché ho passato le vacanze de Natale solo come un cane. E anche lui qui nun c’ha nessuno. Si, semo usciti insieme a capodanno e tu non c’entri un cazzo. Non tutto gira intorno a te, Aurelià.»
Si chiese se dalla sua espressione Aureliano era in grado di capire che non era vero, che si, tutto girava intorno a lui sfortunatamente.
Quella risposta colpì Aureliano in pieno stomaco. Perché non ci aveva pensato?
Era stato così preso da quello che stava accadendo a Roma, da come era cambiata la sua vita in pochi mesi, che non aveva dato ad Alberto l’attenzione di cui aveva bisogno.
Si, gli chiedeva come stava, si, si faceva raccontare la sua giornata, ma si rese conto di non aver mai davvero cercato le vere risposte.
Le parole mi dispiace, volevano uscire, le sentiva sulla punta della lingua, ma il suo orgoglio le frenò.
«Non c’ho pensato.» disse soltanto.
«Tu non pensi mai a n’cazzo.»
C’era una parte di lui che voleva ancora che Alberto non vedesse mai più Alex, voleva una promessa, ma non poteva farlo, non con il ragazzo che lo guardava in quel modo.
L’aria era pesante, più di quanto riuscisse a sopportare. Non riusciva a sopportare che Alberto ce l’avesse con lui e che tutto fosse in bilico in quel momento, lo riusciva a sentire nello stomaco
«Dimme che posso fa. So un cojone, ma lo sai che nun ce so fa co te. Non c’ho mai saputo fa co te»
Alberto chiuse gli occhi e respirò.
«Non c’è sta niente che poi fa. Le cose nun so destinate a cambià, almeno per un po’ de tempo. Io…famo le cose con calma. T’ho detto, no? Un giorno alla volta.»
Aureliano annuì. Meno male, diceva il suo cervello, perché lui non aveva idea di come uscire da quella situazione.
«Senti…» disse, dopo qualche secondo di silenzio.
«Lo so che non ce semo detti granché a riguardo…ma vojo che sia chiaro che nun sto a vedè nessuno.» disse. Non è che avesse davvero bisogno di dirglielo, non voleva dimostrare nulla, era solo un patetico sotterfugio per incastrare Alberto, per fargli promettere che non avrebbe visto nessuno, che non avrebbe fatto sesso con nessuno, e nel “nessun” era compreso Alex.
«Manco io, te l’ho detto. Io e Alex…semo amici. Tutto qua.»
Aureliano scosse la testa. Avrebbe voluto farlo sparire nuovamente dalla loro vita? Assolutamente si.
L’avrebbe fatto ancora? No, Alberto non gliel’avrebbe mai perdonato, non questa volta. E l’ultima cosa che voleva era fargli del male più di quanto non avesse già fatto.
Si passò una mano tra i capelli, sospirando. Era un sospiro di sollievo perché, nonostante il dubbio, che era parte integrante della sua vita, si fidava di Alberto. Sapeva che non gli avrebbe mentito.
Era lui…lui era quello che mentiva, che era sempre stato abituato a farlo, per sopravvivenza, per rabbia, per vendetta.


Ma le cose non tornarono mai apposto. In quei giorni che rimase da Alberto non rivide più l’espressione felice che gli aveva visto quando aveva aperto la porta.
C’era un’aurea di tristezza su di lui, e provò più volte, forzandosi in un modo che non riusciva neanche a gestire, a parlare con lui.
Ma lui non ci sapeva fare davvero con Alberto, non ci sapeva fare con i sentimenti.
Alberto lo cercava, lo teneva stretto, gli aveva cucinato i suoi spaghetti, ma c’era qualcosa che non andava.
E Aureliano aveva riconosciuto tutti i segnali. Perché li aveva vissuti, perché gli aveva provati sulla sua pelle per tutta la sua vita.
Era risentimento.
Alberto cercava il suo affetto, la sua vicinanza, ma lui stesso non era presente. Era lì, abbracciato a lui sul divano mentre guardavano la tv, ma era lontano chilometri con la testa. Lo voleva vicino, lo voleva dentro di sé, ma non c’erano parole dopo, solo il costante toccarsi della loro pelle.
E Aureliano sentiva Alberto allontanarsi inesorabilmente da lui, come lui si era allontanato inesorabilmente da suo padre quando, uscito dalle nebbie della giovinezza, aveva capito che c’era un motivo per il quale Tullio non voleva passare tempo con lui o, più tardi, prender seriamente le sue proposte.
E poteva fare una scelta: allontanarsi da lui o continuare ad aspettare qualcosa che probabilmente non sarebbe mai arrivato
Lui si era allontanato.
Alberto stava decidendo in quel momento?
Stava decidendo se allontanarsi una volta per tutte da quell’uomo che voleva con tutto se stesso, ma che non era più disposto a condividere; o avrebbe continuato ad aspettarlo a casa, per vederlo una volta ogni quattro mesi?
Aureliano lo osservava, seduti sul divano, mentre Alberto guardava distrattamente la televisione.
Avrebbe voluto dire così tante cose, avrebbe voluto aprirsi del tutto, con la forza se fosse stato necessario, ma non ce la faceva.
Era così che capì, una volta per tutte, quanto fosse danneggiato.
Non riusciva neanche a parlare con la persona che amava, perché la sua testa glielo impediva.
«Che c’è?» disse ad un certo punto Alberto, scoprendolo a fissarlo.
«Niente.»
Passarono insieme circa dieci giorni prima che Aureliano venisse richiamato urgentemente a Roma.
Iniziò a sistemarsi la borsa che erano appena scoccate le otto di sera e Alberto era nel bel mezzo della preparazione della cena.
« Devi tornare?» Alberto aveva sentito movimento in camera da letto ed era andato a vedere cosa stesse succedendo. Aureliano stava facendo il bagaglio.
« Si, me dispiace. Devo annà via de corsa »
Alberto lo guardò affannarsi per trovare la sua roba sparsa in giro e fare la spola dal bagno.
Sapeva che il momento sarebbe arrivato, ma Alberto aveva sperato di prenderla meglio. Quindi si allontanò, torno in cucina e lasciò cadere la padella, in cui stava facendo scaldare dell'olio, nel lavandino.
Aureliano, dalla camera da letto sentì chiaramente il rumore di metallo contro metallo. Tutto il corpo gli diceva di correre da lui, di andare da Alberto e assicurarsi che stesse bene. Ma non lo fece. Rimase li con una t-shirt in mano a guardare la porta della stanza davanti a sé.
Quando ebbe finito di preparare la borsa si presentò sull'uscio della cucina. Alberto era ancora lì, appoggiato al bordo del lavandino, guardando il vuoto.
«Sono pronto » disse
Alberto si girò e gli sorrise, sembrava quasi un sorriso vero.
«Bene»
«Me dispiace Albè»
«È tutt’apposto.» gli sorrise ancora.
Aureliano vide qualcosa sul suo viso, una luce diversa nei suoi occhi, solo per un attimo, ma quello che vide gli fece capire che lo stava perdendo.
«Lo sai che ti amo, vero?»
Non ci aveva pensato, non quella volta, anche se sapeva che lo stava manipolando. Lo amava, era vero, ma era anche vero che avrebbe detto qualsiasi cosa per tenerlo vicino a sé, avrebbe detto e fatto qualsiasi cosa.
Alberto ne fu sorpreso. Non perché pensava che Aureliano non lo amasse, ma non pensava che glielo avrebbe mai detto.
«Lo so. Anche io.» annuì e gli sorrise ancora, un sorriso di una tristezza disarmante.
C’era almeno un metro di distanza che li separava, ma sembravano chilometri.
«M’accompagni?»
Alberto annuì e si avvicinò a lui. Lo accompagnò alla porta e gli diede un bacio, prima di lasciarlo uscire.
Mentre vedeva le porte dell’ascensore chiudersi Aureliano gli sorrise e disse: «Alla prossima.»
Mentre le porte dell’ascensore si chiudevano Alberto si chiese se ci sarebbe stata una prossima volta.

 

  
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