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Autore: ___MoonLight    18/11/2018    5 recensioni
«Tu sei riuscito a creare qualcosa di buono, non solo per te stesso. Qualcosa in cui credi.»
Tony gli riservò solo un ostinato silenzio, al che Bruce esitò.
«Ci credi ancora, vero?»
«Che importanza ha? Ho mandato tutto in fumo,» replicò piattamente lui.
«Sei già rinato dalle ceneri, Tony. Davvero non puoi farlo ancora?»

L'Afghanistan ha segnato Tony e gli ha donato l'opportunità di cambiare in meglio la sua vita. Ma il destino ha tutte le intenzioni di mettergli nuovamente i bastoni tra le ruote, e l'immagine corazzata che si è costruito e dietro la quale tenta di riparare i torti commessi e quelli subiti non è più abbastanza per proteggerlo. Cosa succede quando l'uomo diventa davvero di ferro, anche senza armatura?
[Storia completa e revisionata]
Genere: Commedia, Drammatico, Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Pepper Potts, Tony Stark/Iron Man
Note: What if? | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Parte Terza


REBIRTH

"E cosa vuoi che mi facciano, le sofferenze? [...]
Vedo il sole, e se il sole non lo vedo, so che c'è.
E sapere che c'è il sole, è già tutta la vita."
Fëdor Dostoevskij, I Fratelli Karamazov







43


Supernova




"You got it tough, I've seen the toughest around
And I know, baby, just how you feel
You got to roll with the punches and get to what's real

Ah, might as well jump"

[Jump – Van Halen]




"If I'm to fall would you be there to applaud?
Or would you hide behind them all?
'Cause if I have to go
In my heart you'll grow
And that's where you belong

Guess I'm outta time"

[Outta Time – Oasis]





24 Aprile, Flushing Meadows, New York, 19:45

Lo sfavillante tappeto notturno di New York si srotolava sotto la pancia dell'aereo, in un caotico snodarsi di strade brulicanti e grattacieli slanciati nel buio. Il puntino luminoso dell'Unisfera si avvicinava, un faro pulsante che emergeva dall'oceano di alberi scuri, inframezzati dagli atolli luminosi dei futuristici padiglioni.
Tony si sentiva completamente ebbro. Non aveva toccato un goccio d'alcol, eppure gli sembrava di poter bere con lo sguardo ogni singola luce notturna e di sentire la frizzante brezza d'alta quota dargli alla testa come il più pregiato dei whiskey. Si stava ubriacando di New York, della sua skyline inconfondibile, dei suoi colori caldi e chiassosi, dell'aria fredda sulla propria pelle e della prospettiva di potersi presto tuffare a capofitto in quel turbinio di sensazioni a lungo agognate.
Rivolse un'ultima occhiata a quel caleidoscopio di luci ammiccanti prima di scostarsi dalla zona di lancio per affrettarsi verso quella di carico. Sentì il proprio cuore accelerare i battiti e scacciare il velo d'intorpidimento che gli occludeva il petto non appena vide la Mark IV, tirata a lucido e appesa a due bracci meccanici pronti a saldarla su di lui. Si scoprì ancora una volta soddisfatto del nuovo design scelto da Pepper: era più affilato e snello della vecchia Mark, con linee più nette che ne accentuavano il taglio dinamico. Anche gli arti erano meno massicci e facilmente manovrabili anche con l'ingombro aggiuntivo delle protesi. Tony diede una pacca affettuosa alla piastra frontale, con la cavità circolare pronta ad ospitare il suo reattore. Sentì un calore improvviso sbocciargli nel petto e irradiarsi nelle sue vene.
Stava per indossare di nuovo l'armatura. Quel pensiero non aveva ancora avuto modo di prendere forma nella sua mente, in tutti quei mesi di frenetici preparativi; ma ora, con la Mark pronta all'uso di fronte a lui, la pancia dell'aereo spalancata e la Expo – la sua Expo – che si avvicinava, si sentì invadere da una scarica di adrenalina, paura e aspettativa che andò a confluire in quella distinta ebbrezza che lo faceva fluttuare a un palmo da terra, pronto al decollo.
«Signor Stark, la torre di controllo ha dato l'OK per il lancio nei prossimi dieci minuti.»
La voce di Pepper lo raggiunse a malapena sopra il rombo dei motori, ma bastò ad aumentare esponenzialmente quella sensazione. Si voltò verso di lei, senza attenuare il sorriso smagliante che gli illuminava il volto. Lei gli si fece incontro, muovendosi in scioltezza sui tacchi alti attraverso l'aereo in movimento come fosse nella tranquillità del proprio ufficio, con le curve eleganti fasciate da un essenziale tubino nero e i capelli raccolti in uno chignon leggermente scomposto dal vento. Sulle spalle aveva su sua insistenza una sua felpa, a proteggersi dalle raffiche gelide che si insinuavano nel velivolo. Tony s'impegnò il più possibile a non assumere un'espressione eccessivamente ebete, ma la sua presenza, unita al misto di ansia, eccitazione e felicità che lo pervadeva, lo stava rendendo un compito molto difficile.
Recepì in ritardo l'informazione appena riferitagli, che implicava il dover affrettare i preparativi per essere pronto al decollo quando avrebbero sorvolato di nuovo la zona di lancio. Doveva e voleva indossare l'armatura non un minuto di più, né uno di meno. Percepì l'aereo virare, invertendo la rotta e dirigendosi di nuovo verso la Expo. Indirizzò un rapido cenno d'assenso a Pepper, per poi comprimere il bastone da passeggio telescopico e assicurarlo a un apposito aggancio sulla coscia dell'armatura, pronto ad essere recuperato una volta sul palco. Voltò le spalle a Pepper per misurare la percentuale di palladio, riscontrandola ancora fissa a un non troppo positivo 45%. Ripose il congegno e tamponò il pollice con un fazzoletto, rivolgendo poi un sorriso rassicurante a Pepper, che pur non avendo aperto bocca si era accigliata nell'osservare quell'operazione. Tony si raddrizzò il papillon, lisciò le pieghe del doppiopetto gessato e si assicurò che la benda adesiva sull'occhio fosse ben fissata.
Prese un respiro profondo che gli punse i polmoni: era pronto.
Esitò ancora un breve istante prima di posizionarsi sulla piccola pedana circolare e inserire le punte delle scarpe laccate negli stivali metallici. Oscillò appena nel compiere quel movimento un tempo così familiare, e recuperò l'equilibrio aggrappandosi alle maniglie sospese, cosa che spronò i bracci meccanici ad attivarsi, cominciando a saldare e incastrare le placche metalliche sul suo corpo.
Pepper si fermò a qualche passo da lui, le braccia incrociate sotto il seno e un velo di malcelata preoccupazione calato sul volto mentre seguiva le sue manovre. Tony le scoccò un'occhiata sicura di sé, percependo sempre meno l'aria gelida dell'hangar man mano che veniva ricoperto dalla corazza e, di contro, registrando un chiaro e crescente cardiopalma ad ogni pezzo dell'armatura che trovava la propria collocazione. La placca frontale fu l'ultima ad aderire al suo corpo, e trattenne bruscamente il fiato nel sentire la lieve vibrazione del reattore propagarsi attraverso il rivestimento metallico, dando vita alla sua seconda pelle in un coro di giunture e cuscinetti sibilanti. Tentò un cauto passetto, prendendo atto della pesantezza dei suoi movimenti e del leggero ritardo di risposta delle protesi, ma quel piccolo inconveniente fu scacciato dalla pura, immensa gioia che provò nell'indossare di nuovo quel pezzo di sé, avvolto nell'abbraccio metallico che gli era mancato come l'aria per più di un anno. Solo allora si ricordò di respirare, e si voltò verso Pepper con lo stesso, immutato sorriso che non aveva abbandonato il suo volto da quella mattina. E nonostante la chiara inquietudine, una timida risposta si fece comunque strada sul volto della donna, che si avvicinò a lui con gli angoli delle labbra rivolti in modo esitante verso l'alto.
«Come sta?» s'informò, in un tono neutrale e chiaramente frutto di un notevole sforzo di autocontrollo.
Tony in tutta risposta scese dalla pedana, azzardando un paio di passi rigidi, ma stabili, e trattenendo la tentazione di attivare i propulsori e prendere a saltare e svolazzare qua e là come un bambino. Percepiva una pressione al centro del petto, ma non ritenne opportuno renderglielo noto, e neanche soffermarvisi troppo lui stesso. Adesso non poteva comunque tirarsi indietro.
«Quello dovrebbe dirmelo lei,» rispose infine con un sogghigno, allargando con fare vanitoso le braccia e ruotando goffamente su se stesso per darle una visione completa della nuova armatura.
Pepper tentennò per un istante, un chiaro rimbecco pronto a uscire dalla sua bocca, ma finì per sorridergli apertamente.
«Sta bene,» concluse, avvicinandosi a lui e chinando appena il capo così che la frangetta andasse a celare il suo sguardo.
«Lo so. Anche se il suo non è un parere oggettivo,» aggiunse con fare malizioso, e lei si limitò ad alzare giocosamente gli occhi al cielo.
Tony trattenne un risolino e recuperò il casco dell'armatura; lo indossò, lasciando però la piastra frontale sollevata e aggiustandosi per l'ennesima volta la benda, reso impacciato dagli spessi guanti metallici. Vide Pepper frenare un gesto, come per aiutarlo, e non seppe se esserle grato o meno. Si sentiva molto più incline nel venire in contatto con lei, e poteva ritenere un miglioramento il fatto di non provare più un forte disagio ogni volta che si sfioravano volutamente o meno, ma il viso era ancora una zona decisamente tabù. Era terribilmente consapevole di quanto la cicatrice lo deturpasse, e si sentiva contrarre le viscere al solo pensiero che lei la vedesse o toccasse, quindi fu ben lieto di sistemare da solo quella misera pezzetta nera che celava il suo sfregio.
«Un minuto al lancio!» gracchiò in quel momento il pilota dall'altoparlante, facendo sobbalzare entrambi.
Tony dovette sforzarsi di non precipitarsi di corsa al portellone, cosa che anche senza l'impaccio dell'armatura sarebbe stata decisamente rischiosa, e riuscì a portarsi con calma all'uscita senza inciampare nei suoi stessi piedi. Pepper lo tallonò prontamente e si ritrovarono entrambi a fissare la metropoli sfavillante sotto di loro.
«Ci siamo,» constatò lui con la bocca secca, per rompere quel silenzio fattosi d'un tratto insostenibile.
Intravide Pepper annuire rigidamente accanto a lui, altrettanto tesa. Tony avanzò di un passo lungo la pedana; il vento lo investì in piena faccia e, di nuovo, gli girò la testa. Il suo stomaco, il suo cuore, i suoi polmoni: sembrava che ogni singolo organo avesse fatto una capriola di gioia al solo pensiero dell'imminente decollo, anticipando le elettrizzanti vertigini che l'avrebbero avvolto da lì a poco.
«Trenta secondi!»
Si voltò verso Pepper, la cui espressione sembrava incapace di stabilizzarsi e continuava a oscillare da un sorriso stentato a un cipiglio corrucciato, e da un'aria determinata a una assolutamente spaesata, mentre spostava incessantemente il peso da un tacco all'altro e si rifugiava infreddolita nella sua felpa, stringendola con troppa forza tra le dita. Tony percepiva la sua paura e allo stesso tempo la volontà di non esternarla, e se da una parte ciò lo fece sentire in colpa, dall'altra non poté che ammirarla per la sua risolutezza.
«Ehi, cos'è quel muso lungo? È uno dei giorni più belli della mia vita anche grazie a lei,» riuscì a dire, sfoggiando un sorriso spavaldo. «Andrà bene, Pep,» aggiunse subito, con con più serietà.
«Lo so,» replicò lei, con un sospiro frettoloso e agitato e un sorriso sottile che le illuminò gli occhi, senza però scacciarne del tutto le ombre di paura.
Il suo colorito già solitamente pallido era diventato quasi spettrale: le lentiggini risaltavano più che mai sulle sue guance diafane.
«Venti secondi!»
Tony si accostò a lei, senza più idee su come rassicurarla, se non ostentare un atteggiamento impavido e del tutto sicuro di sé – cosa vera solo per metà, perché alla sua esaltazione si mischiava un ben percepibile e contorto filo di angoscia che sembrava annodato direttamente al suo reattore, pronto a tendersi e ad estrarlo dal suo corpo come il tappo di un lavandino. Era del tutto cosciente che qualcosa poteva andare storto. Quel volo poteva trasformarsi in uno schianto per colpa delle interferenze. Poteva aver commesso un errore di calcolo e trovarsi a fronteggiare un 80% di intossicazione irreversibile. Poteva arrivare sul palco ed avere un infarto o semplicemente sfigurare di fronte a migliaia di persone.
«Dieci secondi!»
No, le preoccupazioni di Pepper non erano affatto infondate, ma per quanto avrebbe voluto essere rassicurato da lei, si sentì in dovere di non fomentarle. Così si stampò in faccia un sorrisetto impertinente e alzò appena un sopracciglio con fare malizioso, con l'intento di usare l'ultima tattica che gli era rimasta, ovvero la sua solita, spudorata ironia:
«Su, mi dia un bacetto d'incoraggiamento, o di questo passo toccherà a lei presentare l'Expo,» sparò con un ghigno sfacciato, già pronto a lasciarsi cadere lestamente nel vuoto per sfuggire alla sua reazione indignata.
Prevedibilmente, le guance della donna si incendiarono, virando sul colore dei suoi capelli e preannunciando il suo rimprovero scandalizzato.
Anche se...
«Cinque!»
Il sorriso di Tony scemò e lasciò il posto alla confusione nel rendersi conto che l'espressione di Pepper si era fatta fin troppo seria, per una battuta intesa con leggerezza. Prima che potesse rettificare, e prima ancora che avesse modo di capire ciò che stava accadendo, Pepper si sporse verso di lui, gli poggiò le mani sulle spalle e premette le labbra sulle sue, troncandogli le successive parole in bocca.
Il suo cervello si inceppò. Si sentì piombare in uno stato di paralisi che gli impedì di convertire quel sovraccarico di sensazioni in stimoli di senso compiuto; registrò appieno il calore delle sue labbra solo quando svanì, sostituito dalla brezza gelida. Si trovò a sprofondare nei suoi occhi chiari e ancora troppo vicini. Lo fissavano in modo indecifrabile, mentre lui era ancora intento a ristabilire la connessione tra pensieri e parole, soffocati entrambi dall'impellente tentazione di cercare di nuovo quel contatto, di cui era rimasta solo un'ombra tiepida.
«Tre!»
Si riscosse appena nel realizzare di non avere tempo per fare nulla di ciò che avrebbe voluto, se non slanciarsi fuori dall'aereo secondo i piani, verso un qualcosa di incerto e imprevedibile.
«Due!»
Non aveva tempo, e magari anche lei aveva pensato di non averne, perché qualcosa poteva andare storto. Glielo lesse negli occhi, nel fuggevole guizzo di colpevolezza che attraversò le sue iridi cerulee: quello poteva essere un addio.
Sentì un vuoto gelido allargarsi nel suo petto, in contrasto con il magma ribollente che gli scaldava lo stomaco in subbuglio e già in preda alle vertigini.
«Uno!»
Le lanciò un'ultima occhiata combattuta prima di chiudere l'elmo con un secondo di ritardo, lasciando che la patina dorata celasse il suo sguardo.
Poi si lasciò cadere nel cielo buio di New York.


***


Caduta libera.
La sua testa diventò una centrifuga di luci, New York una cartina notturna sotto di lui, sempre più grande e dettagliata man mano che piombava a propulsori spenti verso la Expo.
Il suo corpo era rimasto da qualche parte sull'aereo, e gli sembrava che un cordone invisibile si tendesse tra esso e la sua armatura, pronto a farlo scattare di nuovo verso l'alto a un passo da terra. Stava precipitando, e non sapeva dire se l'atterraggio sarebbe stato dolce quanto quell'istante ormai cristallizzato nella sua memoria, ma dotato di più di uno spigolo acuminato che si incuneava nel suo cervello.
Boccheggiò sorpreso quando si rese conto di aver deviato troppo dal percorso stabilito, complice il secondo di ritardo nel decollo. Impattò con uno dei razzi pirotecnici sparati dalla Expo, che si aprì in un ventaglio di accecanti scintille dorate attorno a lui. Fu poco più doloroso di una leggera testata e percepì a malapena l'esplosione oltre la solida corazza in oro e titanio, ma fu abbastanza per far sobbalzare il reattore, inviargli una stilettata ai moncherini e riportarlo di schianto alla realtà.
Aveva una Expo da presentare. Avrebbe pensato dopo al resto, alle labbra morbide di Pepper e al brivido che l'aveva scosso da capo a piedi mozzandogli il fiato...
Spiegò bruscamente i flap posteriori, seguendo l'avviso sull'interfaccia azzurrina; frenò la propria discesa e corresse la rotta, per poi attivare i propulsori con dieci secondi d'anticipo rispetto ai suoi calcoli. Imprecò tra sé, ma si godette la sensazione di velocità che soppiantò la marea di confusione ed emozioni che si era impossessata in lui. Diede ancora potenza, lanciando un'esclamazione esilarata nel sentirsi leggero come una corrente d'aria, di nuovo in possesso del proprio corpo e totalmente inebriato da ciò che più amava fare al mondo. Avrebbe voluto prolungare quell'attimo, puntare verso l'orizzonte e volare per ore sfiorando le onde dell'Atlantico, ma nel vedere la Expo illuminata sotto di lui e la folla accalcata nel padiglione, sentì comunque un largo sorriso aprirsi sul suo volto. Si diresse a testa bassa verso l'arena scoperta sempre più vicina, assaporando quegli ultimi istanti di libertà. Oltre il rombo e il fischio del vento distinse le note inconfondibili di Shoot To Thrill, e si concesse una virata leggermente più ampia del dovuto, che lasciò una spettacolare scia di fiamme dietro di sé, dando l'impressione che una freccia infuocata attraversasse il cielo.
Il propulsore posteriore destro singhiozzò proprio mentre iniziava a modificare la parabola per l'atterraggio, facendolo sbandare e interrompendo la manovra; anche senza il supporto delle schermate di JARVIS, capì che non sarebbe mai riuscito ad atterrare elegantemente in piedi come aveva pianificato. A volte odiava dover improvvisare.
Il palco si avvicinava, con l'area circolare designata per l'atterraggio evidenziata da neon lampeggianti, contro i quali stava per schiantarsi di testa. Improvvisò: s'impennò bruscamente a pochi metri dal palco e spense di colpo i propulsori, lasciandosi cadere di peso nel cerchio luminoso. Atterrò su un ginocchio in un clangore di metallo e attenuò l'impatto col pugno, camuffando il gesto come una posa ostentatamente plastica.
Espirò un'unica volta, rapidamente, con la palpebra socchiusa nell'ombra azzurrina del casco. Il mondo festante e pronto ad accoglierlo era un ronzio ovattato oltre la calotta metallica, e solo l'eco del proprio respiro gli assordò le orecchie.
Un istante, un respiro secco, un singolo attimo di silenzio in cui tutto ciò che percepì furono il suo cuore che martellava contro la corazza e il peso rassicurante dell'armatura sulle spalle, con lui congelato in quel momento di stasi.
Una parte di lui stava continuando a cadere. Ma lui era lì, su quel palco, sotto gli occhi di chi l'aveva aspettato per un anno.
Inspirò nel buio.
Poi si rialzò con sicurezza in un unico, fluido movimento, e sollevò le braccia, mentre dietro di sé sprizzavano dozzine di fontane dorate, con la musica irruente degli AC/DC che riprendeva a dettare il ritmo del suo cuore. Il suo sguardo abbracciò tutto ciò che aveva davanti, dalla marea di gente in visibilio accalcata sotto al palco ai fuochi d'artificio multicolore che esplodevano nel cielo stellato, dalle sfarzose luminarie che addobbavano gli alberi del parco ai neon pulsanti del padiglione inondato di lustrini e coriandoli rosso-oro. Il suo petto si gonfiò d'orgoglio, scacciando il senso d'occlusione e l'immagine del reticolo plumbeo.
In quel momento esisteva solo lui: Tony Stark, Iron Man, in piedi per la sua Expo.
Non ebbe alcun bisogno di imbastire il ghigno compiaciuto ed esaltato che rivelò al pubblico non appena i bracci meccanici emersi dalla pedana rimossero l'armatura. Libero dal metallo, recuperò il bastone da passeggio e lo aprì con naturalezza, facendo qualche passo svogliato per portarsi al bordo del palco. Per un solo momento fu drasticamente cosciente di ogni singolo sguardo appuntato su di lui, o meglio, sulla sua mano meccanica, sul bastone e sulla benda che celava il suo sfregio, ma gli applausi e il clamore non cessarono e, anzi, aumentarono d'intensità fin quasi a coprire la musica. Alzò in bella vista la protesi in un cenno di saluto al pubblico mentre l'assolo di chitarra elettrica cresceva d'intensità, e abbassò di scatto la mano proprio quando l'ultimo accordo segnò la fine della canzone, in un gesto frivolo e puramente scenografico che ampliò il suo sorriso.
Accennò un mezzo inchino, accompagnandolo con uno svolazzo del bastone, e attivò il microfono appuntato sul bavero, sentendosi di nuovo saldo sulle sue gambe e perfettamente a suo agio nel suo ambiente naturale, ovvero al centro di un palco e al centro dell'attenzione, con le vertigini dello spericolato volo appena concluso che gli facevano tremare piacevolmente le gambe.
«Ah, è bello essere di nuovo qui!» esordì con rara sincerità, e il pubblicò si quietò appena nell'udire la sua voce stentorea, che rimbombò nell'arena illuminata dallo sfarfallio dei flash e dai proiettori. «Vi sono mancato,» affermò poi in tono ovvio, e una sostenuta ovazione di risposta corroborò le sue parole.
Ciò suscitò un ampio sogghigno sul suo volto, impostatosi di nuovo sulla sua classica faccia da schiaffi degna del genio, miliardario e playboy che tutti ricordavano. Si ricompose un poco, unendo a quell'espressione così conosciuta il gesto di picchiettare svagatamente per terra col bastone, per lui ormai abituale, ma estraneo al resto del mondo. Colse più di uno spettatore indicarlo apertamente, e concentrò ogni fibra di sé nel non allungare la mano a toccarsi la benda, che percepiva essersi scollata appena dalla sua pelle.
«Anche voi mi siete mancati,» continuò poi, con una disinvoltura che celava una vena di serietà. «Mi sono mancate un sacco di cose, incluso poter passeggiare su un palco, indossare l'armatura ed essere acclamato. Siete assolutamente autorizzati a compensare quest'ultima mancanza,» li invitò con un gesto rivolto a sé, scatenando un clamore assordante che coprì le sue ultime parole.
Sogghignò, appagato di quella reazione: la maggior parte delle volte, amava improvvisare. Ristabilì poi l'ordine con un pacato gesto delle mani, prendendo di nuovo la parola.
«Le voci sulla mia presunta morte sono state enormemente esagerate,» asserì con un'alzata di spalle. «Come vedete, non sono morto, non sono infermo e non sono impazzito, come molti dei miei detrattori hanno simpaticamente sostenuto in questo mio periodo di assenza,» continuò con una punta di durezza, che sperò andasse a trafiggere quella schiera di giornalisti che aveva fatto del diffamarlo il suo nuovo hobby.
«Ma non sono qui per parlare di chi non ha creduto che potessi tornare. Se proprio dovessi parlare di qualcuno, sarebbe di chi invece ha creduto in me, ha sostenuto le mie idee e mi ha permesso di essere qui oggi,» continuò, con voce ferma.
Se non l'avesse piantata d'improvvisare, quel groppo in gola avrebbe finito per strozzarlo, si rimproverò mentalmente; ma il pensiero che Pepper, Ian e Kyle potessero sentire quelle parole era stato più forte del suo buonsenso. Quello era rimasto sull'aereo ad annegare in una pozza di endorfine, e dubitava di poterlo recuperare in tempi brevi.
«Non sono qui neanche per raccontarvi come dalle ceneri di una barbara prigionia e di un tradimento non si sia mai personificata metafora più grande della Fenice nella storia dell'uomo!»
A quel punto fece un altro mezzo inchino, godendosi ancora una volta l'applauso scrosciante che gli si riversò addosso, facendo aumentare i suoi battiti.
«Non sono qui per dire di aver ideato, sviluppato e testato completamente da solo una tecnologia ritenuta impensabile per almeno altri dieci anni, nonostante tutti gli ostacoli che mi si sono parati davanti, e che ho intenzione di renderla accessibile e fruibile a tutti!» nel pronunciare tutto ciò, tirò leggermente su la manica del completo, scoprendo una porzione della protesi e agitando le dita per mostrarne il perfetto funzionamento, almeno ai loro occhi, e fu accolto da un'altra ovazione che stemperò il suo timore per quel gesto ardito.
«E non sono qui per dirvi che Iron Man è tornato, e il mondo potrà quindi riprendere a vivere il suo più lungo periodo di pace ininterrotta!» continuò ancora, sperando che il sottotono di amaro rammarico di quella frase fosse percepibile solo a lui.
Inspirò a fondo e sentì il reattore premere al centro della sua gabbia toracica, onnipresente. Ignorò la sensazione, riprendendo a parlare con nuovo vigore, spronato dalle acclamazioni che stava ricevendo e che soffocò schermendosi di nuovo con le mani e incrociandole poi dietro la schiena:
«Vi prego, non si tratta di me,» annunciò. «Non si tratta di voi, e nemmeno di noi.»
Il pubblico si fece d'un tratto più silenzioso, colpito dalla sua improvvisa serietà e compostezza.
«Si tratta del retaggio
Quella parola pesò sulla sua lingua e sembrò sprofondare nell'aria tiepida di fine aprile come una corrente gelida. 
«Si tratta di quel che vogliamo lasciare alle generazioni future,» affermò, e dovette domare l'istinto di portare una mano al reattore, le protesi fattesi improvvisamente più pesanti.
Il suo sguardo sorvolò il pubblico, andando ad appuntarsi sull'Unisfera illuminata di una luce azzurrina. Un'ombra della Città del Futuro di suo padre gli offuscò la vista. Quello che stava per lasciarsi dietro sarebbe stato abbastanza? Oppure si stava lasciando dietro troppo? Si umettò le labbra, ancora lambite da un calore che non accennava a dissiparsi, e riprese a parlare prima che quella pausa prolungata destasse sospetti.
«Ed è per questo che per il prossimo anno, per la prima volta dal 1974, gli uomini e le donne più in gamba di società e nazioni di tutto il mondo metteranno insieme le loro risorse, e condivideranno la loro visione per gettare le basi di un futuro più roseo,» spiegò con ritrovata sicurezza, scandendo le proprie parole con ampi gesti. «Perciò, non si tratta di noi,» concluse con ovvietà.
Si fermò esattamente al centro del palco, poggiandosi al bastone e scrutando con intensità il suo pubblico.
«Se c'è una cosa che voglio dire, se proprio devo dire qualcosa...» allargò le braccia, includendo con quel gesto tutti i suoi spettatori e l'intera fiera, «È “bentornati alla Stark Expo!”» esclamò a piena voce, con un sorriso caloroso e trionfante.
Una cascata di lustrini eruttò dalle fontane pirotecniche alle sue spalle, e una nuova serie di fuochi d'artificio rosso-oro illuminò a giorno il cielo di New York.
Tony allargò le braccia e lasciò che quella pioggia dorata lo investisse, calando il sipario su di lui.


***

24 Aprile, Manhattan, 22:00

L'ago affondò con facilità nel suo deltoide, strappandogli una smorfia infastidita quando una sensazione di gelo gli avvolse il muscolo.
Distolse lo sguardo dallo stantuffo della siringa per puntarlo sul volto corrucciato di Ian, impegnato a manovrarla con accortezza. Dopo pochi secondi, sfilò l'ago con un gesto delicato ma fermo, premendogli subito una garza sul foro d'ingresso e facendogli cenno di mantenere la pressione. Tony eseguì con cautela, sforzandosi di dosare la forza delle dita metalliche sul quadratino di stoffa e fissando con sguardo vacuo il puntino rosso che lo aveva macchiato.
Erano in silenzio da interi minuti, entrambi presi dalla tensione per motivi diversi, ma congrui ai loro opposti ruoli di medico e paziente. Oltre la porta della sua camera anche Pepper era in tensione, ne era certo, ma non si pentiva della scelta di averle risparmiato le sue procedure mediche ignorando le sue proteste. Non erano ancora rimasti faccia a faccia da quando l'aveva lasciata sull'aereo, e non era certo quello il momento giusto.
Non che dopo l'inaugurazione avesse avuto alcuna intenzione di affrontare l'argomento in sospeso – se poteva definirsi tale – ma il 67% di palladio nel sangue era stato un altro ottimo motivo per ritardare quel confronto. Già nel lasciare il palco aveva avuto un forte capogiro; nel leggere la cifra sul rilevatore aveva sentito il sangue defluire a cascata dal suo volto, lasciandolo ghiacciato e pallido. I sintomi sino ad allora tenuti a bada dall'adrenalina e dall'esaltazione del momento appena trascorso gli si erano rovesciati addosso in un colpo solo, minacciando di farlo svenire dietro le quinte della Expo che aveva appena presentato.
Happy l'aveva prontamente riacciuffato per la collottola e accompagnato per vie traverse all'auto, schivando la maggior parte delle forche caudine di giornalisti e fan in delirio appena oltre la porta principale. Tony non gli era mai stato così grato come mentre veniva passivamente sballottato qua e là per corridoi secondari e vialetti non illuminati, nonostante le serie difficoltà a mettere a fuoco cosa stesse accadendo attorno a lui oltre il rombo tonante che aveva preso a scuotergli i timpani. 
Oltre il velo d'intontimento, aveva accolto i morbidi sedili in pelle della Rolls Royce come un paradiso terrestre. L'impressione di beatitudine si era prima accentuata e poi incrinata nel realizzare che Pepper era seduta accanto a lui su quegli stessi sedili, e che la situazione poteva quindi molto rapidamente tramutarsi nel suo inferno privato. Fortunatamente – oppure no – si sentiva troppo male anche solo per pensare di intavolare una discussione coerente, così aveva passato la mezz'ora di macchina che separava Flushing Meadows dal suo attico a Manhattan in silenzio, con il volto spalmato sul finestrino e consapevole, tra un sobbalzo dell'auto e l'altro, degli occhi angosciati della donna che gli trafiggevano la schiena.
Era stato intercettato da Ian non appena aveva messo piede sul pianerottolo dell' appartamento a Park Avenue. Si era lasciato trascinare in camera sua quasi di peso da lui e Happy prima di crollare seduto sul letto, a malapena consapevole del medico che si affaccendava attorno a lui borbottando tra i denti qualcosa riguardo alla sua incoscienza e sconsideratezza – il solito disco rotto che conosceva a memoria, indegno di alcuna attenzione da parte sua. Era stato piuttosto occupato a rimanere vigile e a non farsi sopraffare dal magma di sensazioni, fisiche e non, che aveva preso a sconquassare la sua mente. Il senso d'occlusione che gli stritolava i polmoni gli aveva ricordato il momento terrorizzante in cui si era tolto il reattore– e l'incubo in cui affondava e annegava– e il barile in cui gli ficcavano la testa nella grotta...
Gli era mancato il fiato quasi fosse davvero sott'acqua.
Aveva presagito in tempo l'approssimarsi di un attacco di panico ed era riuscito a gestirlo abbastanza bene da non collassare ai piedi di Ian. Non era sicuro che quello stato di calma indotta a forza avrebbe retto sino alla fine della sua visita, ma concentrarsi sul mantenere stabile il proprio respiro affaticato e contare all'indietro erano ottimi modi per ignorare i pensieri imbizzarriti che crepitavano in sottofondo. Al momento si sentiva decisamente più padrone di sé, ed era intento a captare qualsiasi segnale anomalo proveniente dal suo corpo stremato. Strizzò il pugno sano un paio di volte, avvertendo un leggero intorpidimento al braccio, come se dell'acqua gelata avesse preso a scorrergli nelle vene.
Ian si era seduto a gambe accavallate sulla poltroncina nell'angolo, tenendolo sotto stretta osservazione mentre annotava dati e valori sulla sua voluminosa cartella clinica.
«Novità?» chiese dopo una buona decina di minuti in tono inusualmente sommesso, posandosi infine penna e scartoffie in grembo.
Tony si inumidì le labbra, senza distogliere lo sguardo dalla garza che teneva premuta contro il braccio. Riusciva a respirare, ma si sentiva ancora un macigno sul petto e si stava sforzando di reprimere i lievi brividi che gli scuotevano le spalle; la nausea subì un'impennata tale che ebbe timore di parlare e si prese qualche secondo per assicurarsi che dalla sua bocca uscissero unicamente le proprie parole.
«Non mi sono ancora liquefatto,» asserì, con un'ombra d'ironia un po' incerta che non si manifestò sul suo volto contratto.
«Riscontra effetti spiacevoli?»
«Sì, ma non so se è il palladio o l'anti-palladio... la mia solita fortuna,» sospirò appena, con un sorrisetto più simile a una smorfia, procedendo poi a recuperare il rilevatore dalla tasca.
Lanciò uno sguardo a Ian, che annuì in risposta, in evidente tensione. Tony premette il pollice sull'ago con più forza del necessario, impedendosi di esitare ancora e strizzando l'occhio per la puntura.
«64%» esalò in un respiro, senza nascondere il sollievo che gli stava sciogliendo i muscoli; adocchiò Ian che si abbandonava allo schienale, rilassandosi a sua volta.
«È in diminuzione. Bene,» commentò il medico, per poi alzarsi e farglisi incontro corrucciato. «Cioè, non è esattamente “bene”, ma...»
«Potrebbe essere peggio,» completò Tony, senza risentirsi e col pollice ancora posato sul rilevatore, che tremava leggermente tra le sue mani malferme.
Ian prese un breve respiro nel fermarsi davanti a lui, tirando con fare indeciso i lembi della giacca e sistemandosi gli occhiali sulla punta del naso.
«So che non cambierà nulla, Doc,» lo anticipò piattamente, vedendolo aprir bocca per parlare.
L'altro non rispose, ma si adombrò ulteriormente. Gli tolse con gentilezza il rilevatore dalle mani, ripulendogli poi la piccola ferita sul polpastrello con una garza e applicandovi un cerotto. Tony lo lasciò fare, di nuovo assente e sempre più intorpidito. Guardò il piccolo congegno poggiato sul materasso, con le cifre rosse e luminose che sembravano imprimersi sulla sua retina.
Non sarebbe cambiato nulla, si ripeté meccanicamente. L'intossicazione sarebbe scesa ancora di qualche tacca, magari anche sotto al 60%, con un po' di fortuna e un'indigestione di clorofilla. Poi avrebbe ripreso a salire inesorabile, fino a far fermare il suo cuore.
Le parole che aveva pronunciato Ian qualche tempo prima risuonarono nelle sue orecchie, inconfutabili: il dilitio non era una soluzione.
Avvertì delle lievi vertigini, di fatto solo l'ennesimo capogiro, ma si sentì catapultato ancora una volta in caduta libera e poi su quell'aereo. Per un singolo istante si trovò a desiderare che quello con Pepper fosse stato davvero un addio. Lle vertigini si trasformarono in una stretta ferrea che quasi gli mozzò il fiato. Era stato uno sprazzo fugace, più un tentativo di pensiero destinato a spegnersi prima di essere completato che una considerazione fatta e finita, ma bastò a risvegliare quella vergogna rimasta sopita per quasi un anno. Non poteva concedersi quelle debolezze meschine, neanche nella propria testa.
Strinse il quadratino di garza nel pugno metallico, facendo stridere appena le giunture.
«Doc?» chiamò piano, in un tono molto meno vivace di quanto avrebbe voluto.
Sentiva di non avere neanche più la forza di mostrarsi sicuro di sé e indifferente a quel che stava accadendo; almeno, non costantemente. E adesso che l'inaugurazione era passata e l'aura dorata che gli aveva lasciato addosso iniziava a sbiadire, sentiva la sua facciata sgretolarsi ad ogni battito.
«Qual è la sua prognosi?» chiese, incapace di esprimere quella domanda in termini più diretti, quasi che farlo la potesse rendere ancor più reale.
«Quattro o cinque mesi,» rispose il medico in modo altrettanto sommesso, continuando a riordinare i suoi strumenti nella ventiquattr'ore.
Tony alzò la testa verso di lui, un po' sorpreso, e il medico intercettò il suo sguardo.
«È una previsione ottimistica,» confessò, di nuovo a occhi bassi.
«Non è da lei essere ottimista, mi sento quasi onorato,» commentò con un sorrisetto obliquo, ben presto soppiantato da una linea tesa. «E se le chiedessi di essere realista?»
Ian scosse la testa un paio di volte, chiaramente riluttante, per poi liberare un sospiro e rispondere col consueto distacco:
«Tre mesi.»
Tony incassò il colpo in silenzio, rivolgendo al medico un unico cenno d'assenso, quasi a suggellare il modo definitivo quel fatto.
Tre mesi. Lo sapeva, non era una novità. Quelle due parole si depositarono alla base della sua nuca, appesantendogli la testa con un monito funesto che parve imprimersi a fondo nel suo cervello.
«Ne vuole parlare?» la voce di Ian arrivò inaspettata, riscuotendolo.
«Di cosa?» replicò, sinceramente confuso.
«Di ciò che vuole,» Ian fece un gesto vago con la mano che esplicitò anche il suo insolito disagio. «Non necessariamente con me,» puntualizzò poi, prendendo a pulirsi gli occhiali in modo così forzatamente disinvolto da risultare quasi caricaturale.
Tony capì l'antifona e lo scrutò assorto per qualche istante, assurdamente convinto che il medico lo stesse prendendo in giro in qualche modo che non riusciva a comprendere, complice il proprio stato non del tutto lucido. Come unica linea di difesa trovò quella di arroccarsi sui consumati bastioni del proprio sarcasmo, sperando che il medico desistesse o scoprisse le sue carte:
«Ammetto che è estremamente gradito sentirsi chiedere se si vuole uno strizzacervelli invece di ritrovarsene uno in salotto senza preavviso, ma mi sembra un tantino...» esitò, poi allargò le mani con fare spaesato. «Fuori tempo?» abbandonò i gomiti sulle ginocchia, con le mani ora strette tra loro a cercare un appiglio solido.
Aveva l'impressione che quell'intera giornata fosse un inno al pessimo tempismo.
«Signor Stark, non voglio forzarla,» si ritrasse quindi Ian, inforcando di nuovo gli occhiali. «Era un'offerta amichevole, ma se non vuole accettarla me ne farò una ragione,» concluse, modulando le sue parole con insolito tatto.
Tony si strofinò con aria assente il pizzetto, chiedendosi se stesse davvero rifiutando. Aveva ancora molte difficoltà a riconoscere una mano amica quando la vedeva, eppure non era difficile capire che Ian fosse preoccupato per lui al di là del suo ruolo professionale.
«Semplicemente, non credo avrebbe molto senso a questo punto,» alzò le spalle, senza turbarsi più di tanto. «Ho modi più costruttivi per passare il tempo che mi rimane, piuttosto che starmene in panciolle su un lettino a parlare di cose a cui non voglio nemmeno pensare,» concluse, tradendosi suo malgrado con quell'ultima esternazione.
Sperò che Ian non gliela ritorcesse contro, ma per fortuna accolse in silenzio il suo rifiuto. Si chiese involontariamente se fosse già troppo tardi per tornare sui propri passi, ma mise a tacere quell'interrogativo.
«Non posso obbligarla. Però mi deve promettere una cosa,» esordì di nuovo il medico, e Tony si mise d'istinto sulla difensiva:
«Uh, non so se gliel'hanno mai detto, ma il campo delle promesse non è mai stato il mio forte e ho svariati testimoni a confermarlo,» replicò con fare disincantato.
«Vorrei che provasse lo stesso a mantenere questa,» insistette Ian, con più fermezza del solito.
«Spari, Doc,» sospirò, incrociando rassegnato le braccia ma anche incuriosito da tutta quella serietà.
E preoccupato, e intimorito, perché ormai aveva la sensazione che ovunque si voltasse spuntassero nuove minacce e problemi nonostante tutti i suoi sforzi per evitarli e condurre pacificamente la propria vita.
«Quando starà bene...» Ian alzò una mano a frenare quel “se” che gli era salito in automatico alle labbra, quella particella di dubbio che metteva tutto in discussione e poteva ribaltare la sua stessa sorte. «Non voglio parlare per ipotesi, ma per certezze. Me lo concede?»
Tony rimase interdetto per qualche istante, poi annuì, decidendo di lasciar correre e di accettare quell'incredibile dose di ottimismo da parte del medico più scettico, cinico e realista della Terra.
«Quando starà bene, mi promette che si rivolgerà a un professionista?»
Tony non trattenne un sonoro sbuffo, irritandosi lievemente.
«Ci tiene così tanto a farmi psicanalizzare?»
«Vorrei semplicemente che andasse in terapia, prima o poi,» riformulò lui.
«Pensavo che titoli del tipo “Tony Stark il Futurista Folle” fossero passati di moda da un pezzo, e non pensavo lei fosse un loro fan,» scandì caustico, sentendo la propria fronte aggrottarsi al pensiero.
«Non sto dicendo questo, e lo sa perfettamente,» replicò rigido Ian, perdendo un poco del suo aplomb.
Tony si stropicciò l'occhio stanco, trattenendo un'altra risposta impulsiva e indelicata.
«Doc, andare in terapia non è in cima alla “lista di cose che farò quando starò bene”,» sospirò comunque, sperando che la questione finisse lì. «E mi creda, il mio problema principale è qui,» batté le nocche sul reattore, «Non qui,» concluse, portando l'indice alla tempia con fare esplicativo.
«Tony.»
Lui quasi boccheggiò nel sentirsi chiamare per nome, e squadrò Ian come se gli fosse improvvisamente spuntata una seconda testa.
«Lo sto dicendo nel suo interesse. Se non vuole farlo per lei stesso, lo faccia almeno per chi le sta intorno,» continuò il medico, una volta accertatosi di avere la sua completa attenzione.
«Non credo che cambierebbe...»
«Cambia tutto,» lo interruppe Ian, con fare perentorio. «È più intelligente di così. Si è sicuramente meritato il titolo di "Iron Man" per dei motivi che esulano da quanto metallo abbia addosso,» continuò con voce ferma e priva di qualunque esitazione.
Tony abbassò lo sguardo, preso alla sprovvista da quel riconoscimento inaspettato, che gli fece dimenticare per un istante il fatto che fosse in procinto di perdere per sempre quel titolo.
«... ma per quanto possa sempre farcela da solo, non credo che voglia anche rimanerlo,» terminò, lanciandogli un'unica occhiata eloquente per poi distogliere lo sguardo, quasi a lasciargli il suo spazio mentre rifletteva su quell'affermazione.
Tony tacque brevemente, prendendo atto delle rughe profonde che si erano accentuate attorno agli occhi del medico, e di quanto questi sembrassero inquieti, nonostante si mantenessero cristallini come sempre.
«Parla per sentito dire, per luoghi comuni o per esperienza personale?» indagò infine, scrutandolo di sottecchi.
Il medico affondò le mani nelle tasche della giacca e ricambiò distaccato il suo sguardo, lasciandosi però sfuggire un sospiro appena percettibile.
«Ha importanza?» borbottò, riprendendo il suo consueto atteggiamento burbero.
«Suppongo di no e suppongo che la sua sia in un certo senso una risposta esaustiva,» considerò Tony, frenando a stento la sua curiosità. «Quindi pensa che... parlarne, qualunque cosa voglia dire, possa farmi bene anche ora?» cambiò argomento, con evidente sollievo del medico.
Avrebbe voluto porla come una domanda sincera e interessata, ma finì per suonare involontariamente sarcastico.
«Penso che possa aiutarla ad affrontare il tutto,» non si sbilanciò lui, ma una scintilla illuminò il suo volto a quella domanda.
«Non mi ritiene in grado? Che novità.»
Il fastidio che aveva represso fino ad allora trapelò inequivocabile dalla sua voce.
«Conosce qualcuno che lo è?» rimpallò Ian, senza scomporsi.
Tony raddrizzò la schiena con un movimento brusco, quasi a sfuggire dall'angolo in cui si sentiva spinto ad ogni parola, di nuovo senza via d'uscita.
«Doc, so quello che sto facendo...» ripeté per la centesima volta nella sua vita, ma s'interruppe, quasi sussultando.
Il suo sguardo si fece distante, perso sul panorama notturno di New York oltre la vetrata della sua stanza.
«E non lo so,» aggiunse, volgendo entrambi i palmi verso l'alto in un gesto confuso.
La sua mente tornò all'inaugurazione, all'aereo, a Pepper, e si sentì spalancare il petto. Si prese la mano meccanica, seguendo la scanalatura del palmo col pollice sensibile. Continuò a ripetere quel gesto, quasi si aspettasse di trovare una risposta nel metallo.
«Non lo so,» ripeté, sentendosi sconfitto e vulnerabile di fronte agli occhi penetranti di Ian.
La percezione del proprio corpo si acuì, come tutte le volte in cui si soffermava sugli sguardi altrui che vi si posavano; volse verso il medico la parte intatta del volto e coprì la mano meccanica con quella sana, prendendo un respiro profondo che non attenuò la sua vergogna.
«Non c'è nulla di male ad accettare un aiuto, ormai dovrebbe averlo capito,» buttò lì Ian, in tono perfettamente neutrale ma con un'ombra di rassegnazione annidata nel suo volto.
Tony si mordicchiò nervosamente le labbra, provando un insensato bisogno di dire tutto ciò che gli passava per la testa. Le sue parole si arrestarono a un passo dalle sue corde vocali, rimanendo mute. Continuò a sfregarsi il palmo metallico, concentrandosi su quella sensazione concreta che faceva da àncora nella realtà.
Sarebbe stato così semplice parlare, liberarsi da quei pesi che aveva scelto di tenere per sé e per sé soltanto. Aveva giurato di non mentire mai più a Pepper, ma non riusciva comunque a spingere i suoi pensieri più cupi oltre quel freno che si imponeva. Non riusciva a dirle che erano mesi che evitava di guardarsi allo specchio, né che le uniche volte in cui ci riusciva era nei suoi sogni, che si tramutavano ben presto in incubi. Non riusciva a dirle che a volte, nella solitudine del suo laboratorio, si toglieva entrambe le protesi per ricordarsi quale fosse il suo vero corpo e scacciare la sensazione di essere stato fagocitato dalle sue stesse macchine – e allora lo sguardo gli cadeva inevitabilmente sul reattore, l'unico vincolo artificiale che lo ancorava alla vita e che era ormai sul punto di recidersi.
Non riusciva neanche a rispondere in modo del tutto veritiero alla banale domanda "come stai?"
"Come sempre", "meglio del solito", "peggio del solito”. Ma mai "male".
Si svegliava la mattina con la sensazione che qualcosa gli stritolasse il petto e i polmoni, coi moncherini in fiamme e la testa che sembrava essere passata per un frullatore tanto gli doleva e girava, ma nessuno di quei sintomi raggiungeva la consapevolezza di Pepper tramite la sua voce. Lei forse – sicuramente – li intuiva dal suo respiro sempre più affaticato, dai suoi movimenti un po' instabili e traballanti, dai momenti in cui serrava brevemente l'occhio a una fitta più acuta, dal suo sforzarsi di mangiare più di qualche boccone dal suo piatto quando la nausea gli chiudeva lo stomaco o dal numero di volte in cui si chiudeva in bagno subito dopo, assalito dai conati.
Fermò il pollice al centro del palmo metallico, rievocando il calore illusorio di quando Pepper lo aveva stretto molto tempo prima, conscio che non avrebbe mai potuto sentirlo davvero. Sentì il suo abbraccio cingerlo come in quella stessa sera di gennaio, e allora era stato così facile ricambiarlo e lasciarsi cadere a pezzi, nella sicurezza che lei li avrebbe raccolti. E poi era stato facile pronunciare parole vuote che strattonavano inutilmente le catene che lo inchiodavano a terra, a ricordargli che poteva decollare tutte le volte che voleva, ma il suo corpo sarebbe sempre rimasto laggiù, stritolato dal metallo e troppo pesante per spiccare il volo.
Di nuovo l'inaugurazione, l'aereo, Pepper.
Avrebbe voluto strapparsi quel brandello di memoria che mandava in tilt ogni suo senso, con lo stomaco che galleggiava in una piacevole bolla d'estasi mentre il reticolo sul suo petto si stringeva e stringeva ancora, acuendo ogni stilettata di dolore. E allo stesso tempo avrebbe voluto perdercisi, fingere che quel singolo istante potesse annullare tutto il resto, dimenticandosi che quella non era una fiaba, ma la vita reale – e nella vita reale stava morendo in un corpo non suo.
Sollevò lo sguardo verso Ian.
«Pepper si starà preoccupando,» replicò, con voce fioca.
Il medico trattenne un lieve sospiro, ma annuì senza commentare. Non sembrava risentito, forse solo un po' deluso.
«Allora sarà meglio rassicurarla,» concluse con un'alzata di spalle.
L'inaugurazione, l'aereo, Pepper. Le sue labbra, il calore delle sue mani bloccato dal metallo.
Un flipper impazzito che rimbalzava nella sua testa.
Tilt. Game over.
«In settimana ha un paio d'ore libere?» proruppe, prima che Ian potesse raggiungere la porta.
Il medico si voltò a guardarlo, sorpreso e momentaneamente senza parole.
«Insomma, certo che potrebbe avere un paio d'ore libere; mi chiedevo solo se volesse averle per...» rettificò Tony, già pentendosi di aver parlato, ma si interruppe nel vedere il sorriso rassicurante che si dipinse sul volto di Ian.
«Sono sicuro che saprò convincere il mio datore di lavoro a concedermele.»
Tony sfoderò un debole ghigno in risposta.
«Credo proprio di sì. Ultimamente, ha imparato a non fare troppe stronzate.»


***


24 Aprile, Manhattan, 23:00

«Ma chi ha inventato questi aggeggi infernali?»
«Vuole una forchetta?»
«Neanche per sogno,» ribatté Tony, continuando ad armeggiare vivacemente con le bacchette e i noodles cinesi, neanche fosse nel pieno di una partita di shangai.
Pepper si limitò a lanciargli un'occhiata a metà tra l'esasperato e il rassegnato, con un pizzico di divertimento un po' colpevole nel vedere la sua biotecnologia sconfitta da un paio di bastoncini di legno.
«Può ridere, sa? Non mi offendo,» mentì platealmente lui intercettando il suo sguardo, con la faccia di chi è già pronto a immusonirsi al primo commento fuori luogo.
«La prossima volta scelgo io il menù,» replicò lei, evitando la trappola in scioltezza.
«Così mi fa sperare in una prossima volta,» ammiccò lui, riuscendo infine ad acciuffare un boccone di noodles e a mangiarlo senza troppi danni, per poi rinunciare ad usare la protesi e passare alla mancina.
Lei non commentò, fingendosi intenta a spiluccare le sue verdure come se ciò richiedesse la sua più totale concentrazione. Tony sembrava a sua volta piuttosto preso dalla cena, e non riusciva a ricordare l'ultima volta che l'aveva visto mangiare con così tanto gusto. Il dilitio sembrava aver fatto miracoli sul suo appetito e sul suo umore; a colpo d'occhio era ancora provato, ma aveva un colorito decisamente più sano. Le vene scure a cui aveva ormai fatto l'abitudine si erano ritirate appena sotto il colletto, nascondendole il costante memento dell'intossicazione.
Non volle soffermarsi su quando l'aveva visto subito dopo la Expo, e su come avesse pensato di averlo perso davvero per una bravata a cui lei stessa aveva acconsentito. Di rimando, si soffermò su ciò che era successo prima. Non che fosse davvero in grado di ignorarlo completamente, quando si sentiva avvitare e contrarre lo stomaco ogni volta che gli posava gli occhi addosso, con un misto di senso di colpa, confusione e paura che non riusciva a soffocare, neanche rifugiandosi discretamente nella stoffa della sua felpa che ancora – stupidamente – indossava e che conservava il suo profumo. L'impressione delle sue labbra era ancora vivida sulle proprie, così come il suo sguardo smarrito subito dopo.
Aveva l'impressione di muoversi in una bolla di tempo distorto, in cui ogni secondo che passava sembrava prolungarsi all'infinito, moltiplicando il suo disagio e i suoi pensieri alla deriva.
«Vogliamo ignorarlo ancora per molto?» proruppe infine, posando la sua scatoletta di take-away quasi intatta.
«Cosa?» bofonchiò lui, senza alzare lo sguardo dal cibo, ma con una nota d'allarme nella voce.
«L'elefante nella stanza.»
«È una metafora riferita alla mia mancanza di grazia?» 
Tony le rivolse un sorrisetto sghembo che non raggiunse il suo sguardo. Pepper si mise a braccia conserte, prendendo tempo. Arrivò rapidamente alla conclusione che quella fosse l'ultima occasione per lasciar cadere l'argomento, ma si trovò a ignorare le direttive del suo cervello, esattamente come poche ore prima sull'aereo.
«Mi riferivo all'inaugurazione.»
Lo sguardo di Tony stavolta scattò in alto, verso di lei, poi fu dirottato all'istante verso la parete di vetro affacciata sulla città in un movimento affatto naturale. Si pulì con calma la bocca col tovagliolo, e Pepper notò distintamente le sue mani fremere appena, inquiete. Tamburellò brevemente con le dita sul tavolo con un ticchettio, prima di scuotere quasi tra sé la testa.
«Mi sembra che non sia successo nulla.»
Quella constatazione parve impattare tra di loro come un blocco di granito.
Pepper impietrì. Non poté che fissarlo per lunghi secondi, la bocca semiaperta, gli occhi sgranati e increduli che non riuscivano a distogliersi dal suo viso apparentemente tranquillo. Si rese conto che avrebbe forse dovuto provare qualcosa. Magari rabbia, o delusione, o dolore, o un misto variopinto delle loro diverse sfumature, ma il collegamento tra cuore, bocca e cervello sembrava essere stato reciso di netto, lasciandola muta e inerte.
Tony continuò a guardare da tutt'altra parte, con aria distante.
«E questo cosa dovrebbe significare?» riuscì ad articolare infine lei, suscitando un brillio colpevole nell'iride sfuggente dell'uomo.
«Che non è la sola a poter decidere quando è successo qualcosa o meno,» replicò serafico, rievocando l'eco di parole che avevano voluto dimenticare entrambi.
«
Peccato che stavolta sia successo qualcosa,» insistette lei, mentre la rabbia prendeva a poco a poco il sopravvento sul suo raziocinio, inframmezzata da punture di spillo dolorose che s'impegnò ad ignorare.
Tony non rispose e prese a rigirarsi una delle bacchette tra le dita, seguendone i movimenti con la massima concentrazione pur di non alzare lo sguardo verso di lei.
«Ti stavo offrendo una via d'uscita,» borbottò infine, e un lieve, inaspettato sorriso sfiorò le sue labbra. «Ma tu non ti tiri mai indietro,» completò con quella che sembrava tristezza, lasciandosi sfuggire la bacchetta con un toc sordo.
Pepper si passò una mano sul volto teso e affondò le dita sulle palpebre, rifugiandosi per un attimo dietro quella cortina. La voce di Tony era rimasta piatta, apatica, come se tutta la vitalità che l'aveva pervaso fino a poco prima dell'inaugurazione fosse stata risucchiata da un gorgo invisibile.
«Mi spieghi che ti prende?» chiese, in un tono parzialmente aggressivo che non riuscì a stemperare e che doveva servire a mascherare la sua paura per quelle parole così gelide.
Era sempre schermata dalla propria mano e temeva di soffermare troppo lo sguardo sull'uomo che le stava di fronte per timore di annebbiare la poca lucidità che le era rimasta. Perché doveva sempre ritorcersi tutto contro uno dei due?
Sapeva di aver compiuto un gesto impulsivo, forse affrettato, ma la reazione di Tony le sembrava completamente sconclusionata, e le faceva temere di aver ferito delle corde più sensibili di quanto avesse creduto.
Sentiva il proprio cuore arrancare a singhiozzo, mentre l'attesa per una risposta si prolungava, con lui ancora determinato a non offrire alcun appiglio su cosa stesse realmente provando o pensando. L'unico segno che non fosse così imperturbabile come voleva dare a vedere era il fatto che continuasse a tenere la mano meccanica celata sotto al tavolo, e che quella sana si assicurasse con insistenza che la benda sul volto fosse ben aderente alla cicatrice.
«Ti sembra così strano che voglia fare finta di nulla?» proferì infine, e non riuscì a cogliere alcun intento sarcastico in quella domanda.
A spiazzarla fu ancora la volta la sua voce, ancora spenta e più bassa del solito, come se parlare gli costasse più fatica di quanto potesse permettersi.
«Non riesco a capirne il perché.» 
Pepper riuscì a far calare la propria voce di qualche decibel, ma sentiva l'inderogabile urgenza di lasciarla esplodere, così da liberarsi almeno parte di quella insostenibile pressione interna che le stava rendendo il corpo di gelatina.
«Neanch'io riesco a capire perché tu l'abbia fatto proprio in quel momento,» ribatté pronto lui, ancora con quella pacatezza fuori luogo. «Cos'è, volevi farmi un regalo d'addio?» stavolta una traccia di pungente risentimento adombrò le sue parole taglienti e il suo sopracciglio scattò appena vero l'alto.
Una scintilla di comprensione scaturì nei pensieri di Pepper, riuscendo finalmente a illuminarli in modo coerente.
«Non l'ho fatto per pietà,» scandì, adesso tenendo a malapena sotto controllo l'indignazione per quell'accusa indiretta. «Se avessi davvero provato solo pietà e compassione per te, saresti rimasto da solo un mese dopo l'incidente,» aggiunse, senza frenarsi.
Tony scosse la testa, come a scacciare quelle parole, per poi arricciare le dita che stringevano con troppa forza i bicipiti e reclinare il capo all'indietro, incontrando il muro di mattoni a vista. Lo vede deglutire con difficoltà prima di aprire di nuovo bocca:
«Non volevo mettere in dubbio niente di... di quanto ci siamo detti,» proferì infine, facendo un notevole sforzo nel selezionare le parole giuste e appaiandole poi con uno sguardo diretto ed eloquente. «Quello che hai fatto tu è quello che vorrei fare anch'io, se non avessi uno stramaledetto reattore che mi sta uccidendo ficcato nel petto,» sbottò poi tra i denti, serrando improvvisamente il pugno e perdendo la patina di compostezza che era riuscito a mantenere fino ad allora. «O se non fossi un robot per metà o se non fossi sfigurato,» aggiunse più piano, con quello che assomigliava molto a disgusto e che causò una rapida, pungente stretta al cuore a Pepper.
Stava cercando di seguire i suoi ragionamenti, più intricati e contraddittori che mai, ma riusciva a malapena a tenere il passo coi propri e non faceva che ritrovarsi in apparenti vicoli ciechi. Tony nel parlare si era scostato dal tavolo ed era evidente che si stesse sforzando di respirare normalmente, ma non sembrava sul punto di un attacco di panico. La guardava a scatti, senza riuscire a sostenere il suo sguardo e continuando a rivolgerle la parte sana del viso e a nascondere la protesi sotto il tavolo. Sembrava che tutto il suo corpo fosse sul punto di accartocciarsi su se stesso per scomparire alla sua vista mentre cercava di mantenere la sua solita posa spavalda.
«Tony,» fece il gesto di alzarsi, ma a quel movimento inaspettato lui si ritrasse ancor di più, stavolta con un lampo di riconoscibile panico nello sguardo, al che lei si fermò spiazzata, rimanendo seduta. «Pensi davvero che il tuo aspetto o il tuo corpo siano un problema per me?» si arrischiò a chiedere con più calma, scegliendo di ignorare quel che le aveva detto subito prima.
Non voleva pensare al reattore, né a quello che stava infliggendo a Tony, né all'orologio invisibile che continuava a ticchettare in sottofondo. E allo stesso tempo, temeva di affacciarsi su quella nuova porta che Tony aveva appena schiuso.
Lui la fissò per la prima volta direttamente e tentennò, le sopracciglia corrugate in un'espressione combattuta. Era ancora seduto in modo da offrire la minor superficie possibile ai suoi occhi, quasi si trovasse in un duello in cui poteva essere ferito da un momento all'altro.
«Tu mi guardi e vedi questo,» asserì poi, puntando il pollice sul reattore. «L'hai detto tu,» aggiunse, con un'alzata di spalle noncurante, ma rigida.
«Non c'entra nulla, adesso,» lo rimbeccò, accigliandosi a sua volta spaesata, ma sentendosi mancare nel sentirsi ritorcere contro le sue stesse parole.
«Ma non l'hai negato,» osservò lui, con mesto trionfo e un sorriso amaro, evitando ancora una volta l'argomento.
«Tony, è così difficile accettare che io tenga a te, così come sei?» sospirò Pepper, poggiando i gomiti sul tavolo che li separava e inspirando poi di nuovo a fondo.
Lui le fece eco, flebilmente, e abbassò ancora lo sguardo. Pepper non riuscì a leggere la sua espressione apatica: era come tentare di decifrare un astratto senza conoscere l'intenzione dell'artista.
«Sì,» mormorò soltanto, dopo un lungo silenzio.
A quel punto sembrò sgonfiarsi come un palloncino e il suo sguardo assunse una sfumatura vacua. Pepper sentì quella risposta sprofondare nel suo petto come un ferro rovente e si trovò a socchiudere gli occhi, come se ciò potesse attutire il colpo.
«Non è quello che vorrei dire, ma è così,» continuò Tony, ora più concitato. «E non so come...» fece un gesto di scoramento con la mano e a Pepper non sfuggì il tremito che scosse la sua voce in quel singolo istante. «Non so cosa fare,» confessò, passandosi la mano sul volto e confondendo le proprie parole.
Quella semplice affermazione risuonò molto più densa di quanto avrebbe dovuto, carica di tutto ciò che Tony aveva sempre taciuto e continuava a tacerle, simile a un minuscolo e innocuo atomo pronto a scindersi e a liberare la sua energia.
«E immagino che anche tu...»
«Tony.» Pepper lo interruppe con fermezza prima che potesse completare la frase. «Io so quello che vorrei fare dal momento in cui sei tornato dall'Afghanistan.»
Lo vide trasecolare e chiudere di scatto la bocca già pronta a ribattere.
«Capisco che per te possa essere difficile da credere, ma è la verità, e non so più come dirtelo,» concluse, senza più nascondere la tristezza che aveva continuato ad accumularsi durante tutta la discussione.
Tony sembrava aver dimenticato come si parlasse, perché se ne stava semplicemente seduto davanti a lei, fissando la mano meccanica ancora celata oltre il bordo del tavolo mentre il suo volto continuava ad essere una lastra piatta e inespressiva. Portò una mano al reattore nel suo solito gesto inquietantemente abituale.
Pepper avrebbe voluto alzarsi e stringerlo a sé, come già aveva fatto altre volte, ma sapeva che in quel momento non sarebbe stata la scelta giusta, non dopo che si era ritratto così inequivocabilmente da lei e averle mostrato delle ferite fino ad allora nascoste. Soppresse l'impulso, nonostante potesse percepire i suoi piedi che scalpitavano per seguirlo e l'orma del suo profumo che le sfiorava il naso, impressa sulla felpa. Stava giusto per aggiungere qualcosa e dare sfogo a uno qualsiasi dei pensieri che si affollavano nella sua testa, ma Tony ruppe di colpo il silenzio, con una voce roca e sforzata che le ricordò spiacevolmente quella che aveva avuto dopo un'ora di pianto ininterrotto:
«Non posso chiederti di raccogliere anche i miei pezzi,» nel dirlo rialzò appena lo sguardo, ora fattosi di nuovo liquido e profondo, anche se ancora distante.
«Dovevamo raccoglierli insieme. Pensavo che fossimo d'accordo,» gli fece notare lei, sollevata per aver infine intravisto un'apertura nello strato di apatia e scoraggiamento di Tony, ma lui scosse la testa in risposta.
«Non risolverebbe nulla di tutto questo,» replicò lapidario, con un gesto quasi stizzito verso di sé, e Pepper riuscì a percepire in quella breve, semplice frase tutta la rabbia e frustrazione che Tony stava reprimendo.
In quel mentre lui si alzò di scatto, facendo leva sullo schienale della sedia quando un'evidente fitta lo colpì, costringendolo a fermarsi sul posto con una mano a coprirsi la bocca.
«Tony? Stai...»
«No, non sto “bene”,» sbottò lui a denti stretti, facendola ammutolire.
Le rivolse un'occhiata colpevole.
«Sono... sono solo sfinito e non mi sembra che stiamo risolvendo nulla,» continuò, con voce sforzata.
«E chiudermi la porta in faccia come hai fatto con Rhodes ti sembra una soluzione?» osservò lei, con freddezza.
Lui sobbalzò a quell'attacco, ma non si scompose:
«Rhodey è un caso a parte... Questa è una decisione ponderata. E soprattutto momentanea,» replicò lui, senza che una sola traccia di turbamento scuotesse la sua voce. «Non sei tu il problema, e credo solo che sia meglio indire un time-out, prima che io finisca per rovinare tutto come al solito,» finì perentorio, avviandosi già verso la propria camera con passi cauti e pesanti.
Pepper non provò a fermarlo né a contraddirlo, ma si portò entrambe le mani al volto accaldato, con la testa sul punto di scoppiare. Si chiese se dovesse dire ancora qualcosa, e se avrebbe avuto alcun senso. Si trovò solo a concordare con lui per quella brusca interruzione. Lo vide bloccarsi sul primo gradino della rampa che conduceva al piano rialzato, stringendo il corrimano e con fare esitante.
«Pepper?»
Lei rivolse stancamente la testa verso di lui, sentendo però un sobbalzo al cuore nel notare il modo in cui la stava guardando – quel modo – e l'accenno di sorriso che si era fatto largo sul suo volto.
«Per quel che vale, oggi è stato davvero uno dei giorni più belli della mia vita,» s'interruppe brevemente. «Inclusi i “fuori programma”,» aggiunse in fretta e in quello che assomigliava molto a una via di mezzo tra uno “scusa” e un “grazie”, prima di salire più rapido che poteva le scale senza guardarsi indietro.
Pepper rimase seduta compostamente finché non sentì lo scatto della sua porta che si chiudeva, poi si lasciò scivolare a braccia conserte sul tavolo, il mento sulle mani e gli occhi che vagavano irrequieti per il loft ora vuoto e fin troppo silenzioso. Iniziava ad essere stanca di permettere agli eventi di seguire il proprio corso e lasciare che fosse il tempo a “risolvere” ogni cosa, quando era quello stesso tempo ad inghiottire ogni sguardo al futuro e a soffocare ogni sentimento che tentava di scaturire tra loro.
Rimase a lungo lì, sola con le sue riflessioni e con gli occhi che cercavano inconsciamente una porta chiusa, con quella tenue fiammella a scaldarla appena, ostinandosi a danzarle nel petto.

***


25 Aprile, Manhattan

Erano le tre di notte passate, quando l'insofferenza superò la stanchezza e Tony si alzò di colpo dal letto, sul quale era crollato senza neanche infilarsi sotto le coperte.
Uscì silenziosamente dalla sua camera, sostando poi sulla soglia nel buio del ballatoio per qualche minuto. Assorbì la quiete che regnava nel loft sottostante e lasciò che placasse a poco a poco i suoi pensieri mentre fissava il salone affacciato sui grattacieli illuminati. Sembravano semplici addobbi appesi alla vetrata, da lì, o delle sagome fittizie e intangibili fissate sullo sfondo di un teatrino. Più fissava quelle luci, più desiderava raggiungerle e immergervisi come qualche ora prima, inebriandosi del vento sferzante e delle vertigini.
Scese le scale e raggiunse la vetrata senza neanche accorgersi che i suoi piedi zoppicanti l'avessero portato fin là. Oltre il vetro, in basso, scorgeva la strada deserta, delimitata dalle luci calde dei lampioni e striata dai fanalini di qualche sporadico taxi di passaggio. Poggiò la fronte sul vetro freddo, cogliendo un fugace riflesso del suo volto, ma spinse lo sguardo oltre la superficie lucida, verso l'orizzonte rischiarato dal riverbero arancio della città. Rimase lì per un tempo che non seppe quantificare, respirando appena e fissando i contorni dei palazzi che venivano offuscati ritmicamente dalla nebbia di condensa sul vetro.
Quasi sperò che quella parete trasparente si dissolvesse di colpo, spinto da un anelito che non avrebbe saputo definire, ma che aveva lo stesso sapore della frizzante aria notturna di New York.




 
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Supernova: *inserire nuovamente musica di Super Quark* Evento che si verifica alla morte di determinati tipi di stelle, che liberano un'enorme quantità di luce ed energia prima di spegnersi, collassare completamente e, in alcuni casi, formare un buco nero.

Note Dell'Autrice:

Salve a tutti!
Spero che abbasserete torce e forconi il tempo necessario per la filippica in mia difesa, perché mi rendo conto che ptorei aver risvegliato più di un istinto omicida in voi poveri lettori con questo capitolo... *para le mani avanti; quelle sue, quelle spaiate di Tony e quelle dei malcapitati di turno*

Vi ricordate la mia insistenza sulle fisime fisiche di Tony? Ecco, puntava tutto a questo, e mi auguro di aver costruito bene le premesse, visto che ho preferito concentrarmi sulle reazioni "a caldo" dei due sciagurati piuttosto che su elucubrazioni mentali troppo elaborate. Ah, il modo "sospeso" in cui discutono è voluto, proprio per contrastare coi vari altri faccia-a-faccia che hanno avuto nel corso della storia. Spero che la scelta di gestire così la scena risulti chiara :)
Un qualcosa che mi premeva molto affrontare ormai da un po' è la questione della salute mentale di Tony, di qui la discussione con Ian. Tony, in modo più o meno esplicito, in Phoenix soffre di depressione, oltre che di disturbo d'ansia. Non sono problemi che solitamente si risolvono con la semplice forza di volontà o con metodi fai-da-te: pur volendo mantenermi IC non mi sono sentita di propagandare un "se ne esce anche da soli" incarnato da un Tony perfettamente equilibrato dopo quello che ha subito (e che si è inflitto). Non potevo farlo andare spontaneamente in terapia, né fargli accettare un aiuto esterno vista la sua sfiducia, ma Ian mi è sembrato un buon compromesso, soprattutto legato alla richiesta di cercare poi aiuto in una figura più specializzata di lui in quel campo.

Termino qui il mio papiro di chiarimenti e rovesciatemi pure addosso insulti dubbi e perplessità, sto qui apposta :) Posso solo dirvi che il prossimo capitolo è risolutivo in molti aspetti finora lasciati in sospeso e che potrete finalmente tirare un sospiro di sollievo. Forse.

Ringrazio infinitamente _Atlas_, che dopo avermi sopportato per anni su EFP ha avuto l'onore di farlo di persona ed è riuscita a non uccidermi per quanto l'ho fatta penare; T612, con la quale è sempre un piacere scambiarsi aggiornamenti e informazioni nerd; Emyclarinet, che con le sue recensioni mi istiga ad essere ancor più cattiva con Tony e spero quindi apprezzerà il capitolo. Un grazie speciale va ad Enigmista96, che ha ripreso a seguire Phoenix dopo anni di assenza e mi ha resa felicissima nel leggere la sua inaspettata e graditissima recensione <3
Grazie di cuore, sapere che seguite sempre e vedere vecchi e nuovi lettori avvicinarsi alla storia mi spinge a dare del mio meglio per concluderla :') <3

E dopo 'sta parentesi melensa, au revoir e a presto! (stavolta davvero)

-Light-

P.S. In tutto ciò, sono ovviamente ancora in shock per Stan Lee :'( Avrei potuto dedicargli il capitolo, ma poi ho avuto un'idea migliore... 'Nuff said!
P.P.S. Il design per la nuova Mark coincide con quello della Mark 33 (Silver Centurion), ovviamente in versione rosso-oro.

 

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