Parte Terza
"E cosa vuoi che mi
facciano, le
sofferenze? [...]
Vedo il sole, e se il sole non lo
vedo, so che c'è.
E sapere che c'è il sole, è già
tutta la vita."
Fëdor Dostoevskij, I Fratelli
Karamazov
43
Supernova
"You
got it tough, I've
seen the toughest around
And I know, baby, just how you feel
You got to roll with the
punches and get to what's real
Ah, might as well jump"
[Jump – Van Halen]
"If
I'm to fall would you be there to applaud?
Or would you hide
behind them all?
'Cause if I have to go
In my heart you'll
grow
And that's where you belong
Guess I'm outta time"
[Outta Time – Oasis]
24 Aprile, Flushing Meadows, New York, 19:45
Lo
sfavillante tappeto notturno di New York si srotolava sotto la pancia
dell'aereo, in un caotico snodarsi di strade brulicanti e grattacieli
slanciati nel buio. Il puntino luminoso dell'Unisfera si avvicinava,
un faro pulsante che emergeva dall'oceano di alberi scuri,
inframezzati dagli atolli luminosi dei futuristici padiglioni.
Tony
si sentiva completamente ebbro. Non aveva toccato un goccio d'alcol,
eppure gli sembrava di poter bere con lo sguardo ogni singola luce
notturna e di sentire la frizzante brezza d'alta quota dargli alla
testa come il più pregiato dei whiskey. Si stava ubriacando
di New
York, della sua skyline
inconfondibile, dei suoi colori caldi e
chiassosi, dell'aria fredda sulla propria pelle e della prospettiva
di potersi presto tuffare a capofitto in quel turbinio di sensazioni
a lungo agognate.
Rivolse
un'ultima occhiata a quel caleidoscopio di luci ammiccanti prima di
scostarsi dalla zona di lancio per affrettarsi verso quella di
carico. Sentì il proprio cuore accelerare i battiti e
scacciare il
velo d'intorpidimento che gli occludeva il petto non appena vide la
Mark IV, tirata a lucido e appesa a due bracci meccanici pronti a
saldarla su di lui. Si scoprì ancora una volta soddisfatto
del nuovo
design scelto da Pepper: era più affilato e snello della
vecchia
Mark, con linee più nette che ne accentuavano il taglio
dinamico.
Anche gli arti erano meno massicci e facilmente manovrabili anche con
l'ingombro aggiuntivo delle protesi. Tony diede una pacca affettuosa
alla piastra frontale, con la cavità circolare pronta ad
ospitare il
suo reattore. Sentì
un calore improvviso sbocciargli nel petto e irradiarsi nelle sue
vene.
Stava per indossare di nuovo l'armatura. Quel pensiero non
aveva ancora avuto modo di prendere forma nella sua mente, in tutti
quei mesi di frenetici preparativi; ma ora, con la Mark pronta
all'uso di fronte a lui, la pancia dell'aereo spalancata e la Expo
–
la sua Expo – che si avvicinava, si
sentì invadere da una
scarica di adrenalina, paura e aspettativa che andò a
confluire in
quella distinta ebbrezza che lo faceva fluttuare a un palmo da terra,
pronto al decollo.
«Signor
Stark, la torre di controllo ha dato l'OK per il lancio nei prossimi
dieci minuti.»
La
voce di Pepper lo raggiunse a malapena sopra il rombo dei motori, ma
bastò ad aumentare esponenzialmente quella sensazione. Si
voltò
verso di lei, senza attenuare il sorriso smagliante che gli
illuminava il volto. Lei gli si fece incontro, muovendosi in
scioltezza sui tacchi alti attraverso l'aereo in movimento come fosse
nella tranquillità del proprio ufficio, con le curve
eleganti
fasciate da un essenziale tubino nero e i capelli raccolti in uno
chignon leggermente scomposto dal vento. Sulle spalle aveva su sua
insistenza una sua felpa, a proteggersi dalle raffiche gelide che si
insinuavano nel
velivolo. Tony s'impegnò il più possibile a non
assumere
un'espressione eccessivamente ebete, ma la sua presenza, unita al
misto di ansia, eccitazione e felicità che lo pervadeva, lo
stava
rendendo un compito molto difficile.
Recepì
in ritardo l'informazione appena riferitagli, che implicava il dover
affrettare i preparativi per essere pronto al decollo quando
avrebbero sorvolato di nuovo la zona di lancio. Doveva e voleva
indossare l'armatura non un minuto di più, né uno
di meno. Percepì
l'aereo virare, invertendo la rotta e dirigendosi di nuovo verso la
Expo. Indirizzò un rapido cenno d'assenso a Pepper, per poi
comprimere il
bastone da passeggio telescopico e assicurarlo a un apposito aggancio
sulla coscia dell'armatura, pronto ad essere recuperato una volta sul
palco. Voltò le spalle a Pepper per misurare la percentuale
di
palladio, riscontrandola ancora fissa a un non troppo positivo
45%. Ripose il congegno e tamponò il pollice con un
fazzoletto, rivolgendo poi un sorriso rassicurante a Pepper, che pur
non avendo aperto bocca si era accigliata nell'osservare
quell'operazione. Tony
si raddrizzò il papillon, lisciò le pieghe del
doppiopetto gessato
e si assicurò che la benda adesiva sull'occhio fosse ben
fissata.
Prese
un respiro profondo che gli punse i polmoni: era pronto.
Esitò
ancora un breve istante prima di posizionarsi sulla piccola pedana
circolare e inserire le punte delle scarpe laccate negli stivali
metallici. Oscillò appena nel compiere quel movimento un
tempo così
familiare, e recuperò l'equilibrio aggrappandosi alle
maniglie
sospese, cosa che spronò i bracci meccanici ad attivarsi,
cominciando a saldare e incastrare le placche metalliche sul suo
corpo.
Pepper
si fermò a qualche passo da lui, le braccia incrociate sotto
il seno
e un velo di malcelata preoccupazione calato sul volto mentre seguiva
le sue manovre. Tony le scoccò un'occhiata sicura di
sé, percependo
sempre meno l'aria gelida dell'hangar man mano che veniva ricoperto
dalla corazza e, di contro, registrando un chiaro e crescente
cardiopalma ad ogni pezzo dell'armatura che trovava la propria
collocazione. La placca frontale fu l'ultima ad aderire al suo corpo,
e trattenne bruscamente il fiato nel sentire la lieve vibrazione del
reattore propagarsi attraverso il rivestimento metallico, dando vita
alla sua seconda pelle in un coro di giunture e cuscinetti sibilanti.
Tentò
un cauto passetto, prendendo atto della pesantezza dei suoi movimenti
e del leggero ritardo di risposta delle protesi, ma quel piccolo
inconveniente fu scacciato dalla pura, immensa gioia che
provò
nell'indossare di nuovo quel pezzo di sé, avvolto
nell'abbraccio
metallico che gli era mancato come l'aria per più di un
anno. Solo
allora si ricordò di respirare, e si voltò verso
Pepper con lo
stesso, immutato sorriso che non aveva abbandonato il suo volto da
quella mattina. E nonostante la chiara inquietudine, una timida
risposta si
fece comunque strada sul volto della donna, che si avvicinò
a lui
con gli angoli delle labbra rivolti in modo esitante verso l'alto.
«Come
sta?» s'informò, in un tono neutrale e chiaramente
frutto di un
notevole sforzo di autocontrollo.
Tony
in tutta risposta scese dalla pedana, azzardando un paio di passi
rigidi, ma stabili, e trattenendo la tentazione di attivare i
propulsori e prendere a saltare e svolazzare qua e là come
un
bambino. Percepiva una pressione al centro del petto, ma non ritenne
opportuno renderglielo noto, e neanche soffermarvisi troppo lui
stesso. Adesso non poteva comunque tirarsi indietro.
«Quello
dovrebbe dirmelo lei,» rispose infine con un sogghigno,
allargando
con fare vanitoso le braccia e ruotando goffamente su se stesso per
darle una visione completa della nuova armatura.
Pepper
tentennò per un istante, un chiaro rimbecco pronto a uscire
dalla
sua bocca, ma finì per sorridergli apertamente.
«Sta
bene,» concluse, avvicinandosi a lui e chinando appena il
capo così
che la frangetta andasse a celare il suo sguardo.
«Lo
so. Anche se il suo non è un parere oggettivo,»
aggiunse con fare
malizioso, e lei si limitò ad alzare giocosamente gli occhi
al
cielo.
Tony
trattenne un risolino e recuperò il casco dell'armatura; lo
indossò,
lasciando però la piastra frontale sollevata e aggiustandosi
per
l'ennesima
volta la benda, reso impacciato dagli spessi guanti metallici. Vide
Pepper frenare un gesto, come per aiutarlo, e non seppe se esserle
grato o meno. Si sentiva molto più incline nel venire in
contatto
con lei, e poteva ritenere un miglioramento il fatto di non provare
più un forte disagio ogni volta che si sfioravano
volutamente o
meno, ma il viso era ancora una zona decisamente tabù. Era
terribilmente consapevole di quanto la cicatrice lo deturpasse, e si
sentiva contrarre le viscere al solo pensiero che lei la vedesse o
toccasse, quindi fu ben lieto di sistemare da solo quella misera
pezzetta nera che celava il suo sfregio.
«Un
minuto al lancio!» gracchiò in quel momento il
pilota
dall'altoparlante, facendo sobbalzare entrambi.
Tony
dovette sforzarsi di non precipitarsi di corsa al portellone, cosa
che anche senza l'impaccio dell'armatura sarebbe stata decisamente
rischiosa, e riuscì a portarsi con calma all'uscita senza
inciampare
nei suoi stessi piedi. Pepper lo tallonò prontamente e si
ritrovarono entrambi a fissare la metropoli sfavillante sotto di loro.
«Ci
siamo,» constatò lui con la bocca secca, per
rompere quel silenzio
fattosi d'un tratto insostenibile.
Intravide
Pepper annuire rigidamente accanto a lui, altrettanto tesa. Tony
avanzò di un passo lungo la pedana; il vento lo
investì in piena
faccia e, di nuovo, gli girò la testa. Il suo stomaco, il
suo cuore,
i suoi polmoni: sembrava che ogni singolo organo avesse fatto una
capriola di gioia al solo pensiero dell'imminente decollo,
anticipando le elettrizzanti vertigini che l'avrebbero avvolto da
lì
a poco.
«Trenta
secondi!»
Si
voltò verso Pepper, la cui espressione sembrava incapace di
stabilizzarsi e continuava a oscillare da un sorriso stentato a un
cipiglio corrucciato, e da un'aria determinata a una assolutamente
spaesata, mentre spostava incessantemente il peso da un tacco
all'altro e si rifugiava infreddolita nella sua felpa, stringendola
con troppa forza tra le dita. Tony percepiva la sua paura e allo
stesso tempo la volontà di non esternarla, e se da una parte
ciò lo
fece sentire in colpa, dall'altra non poté che ammirarla per
la sua
risolutezza.
«Ehi, cos'è quel muso lungo? È
uno dei giorni più belli della mia vita anche grazie a
lei,» riuscì a dire,
sfoggiando un sorriso spavaldo. «Andrà bene,
Pep,» aggiunse subito,
con con più serietà.
«Lo
so,» replicò lei, con un sospiro frettoloso e
agitato e un sorriso
sottile che le illuminò gli occhi, senza però
scacciarne del tutto le ombre
di paura.
Il
suo colorito già solitamente pallido era diventato quasi
spettrale: le lentiggini risaltavano più che mai sulle sue
guance
diafane.
«Venti
secondi!»
Tony
si accostò a lei, senza più idee su come
rassicurarla, se non
ostentare un atteggiamento impavido e del tutto sicuro di sé
–
cosa vera solo per metà, perché alla sua
esaltazione si mischiava
un ben percepibile e contorto filo di angoscia che sembrava annodato
direttamente al suo reattore, pronto a tendersi e ad estrarlo dal suo
corpo come il tappo di un lavandino. Era
del tutto cosciente che qualcosa poteva andare storto. Quel volo
poteva trasformarsi in uno schianto per colpa delle interferenze.
Poteva aver commesso un errore di calcolo e trovarsi a fronteggiare
un 80% di intossicazione irreversibile. Poteva arrivare sul palco ed
avere un infarto o semplicemente sfigurare di fronte a migliaia di
persone.
«Dieci
secondi!»
No,
le preoccupazioni di Pepper non erano affatto infondate, ma per quanto
avrebbe voluto essere rassicurato da lei, si sentì in dovere
di non
fomentarle. Così si stampò in faccia un
sorrisetto impertinente e
alzò appena un sopracciglio con fare malizioso, con
l'intento di
usare l'ultima tattica che gli era rimasta, ovvero la sua solita,
spudorata ironia:
«Su,
mi dia un bacetto d'incoraggiamento, o di questo passo
toccherà a
lei presentare l'Expo,» sparò con un ghigno
sfacciato, già pronto a lasciarsi cadere lestamente nel
vuoto per sfuggire alla sua reazione indignata.
Prevedibilmente, le guance della donna si incendiarono, virando sul
colore dei suoi capelli e
preannunciando il suo rimprovero scandalizzato.
Anche
se...
«Cinque!»
Il
sorriso di Tony scemò e lasciò il posto alla
confusione nel
rendersi conto che l'espressione di Pepper si era fatta fin troppo
seria, per una battuta intesa con leggerezza. Prima che potesse
rettificare, e prima ancora che avesse modo di capire ciò
che stava
accadendo, Pepper si sporse verso di lui, gli poggiò le mani
sulle
spalle e premette le labbra sulle sue, troncandogli le successive
parole in bocca.
Il
suo cervello si inceppò. Si sentì piombare in uno
stato di paralisi che gli
impedì di convertire quel sovraccarico di sensazioni in
stimoli di
senso compiuto; registrò appieno il calore delle sue labbra
solo quando
svanì, sostituito dalla brezza gelida. Si trovò a
sprofondare nei
suoi occhi chiari e ancora troppo vicini. Lo fissavano in modo
indecifrabile, mentre lui era ancora intento a ristabilire la
connessione tra pensieri e parole, soffocati entrambi dall'impellente
tentazione di cercare di nuovo quel contatto, di cui era rimasta solo
un'ombra tiepida.
«Tre!»
Si
riscosse appena nel realizzare di non avere tempo per fare nulla di
ciò che avrebbe voluto, se non slanciarsi fuori dall'aereo
secondo i
piani, verso un qualcosa di incerto e imprevedibile.
«Due!»
Non
aveva tempo, e magari anche lei aveva pensato di non averne,
perché
qualcosa poteva andare storto. Glielo lesse negli
occhi, nel
fuggevole guizzo di colpevolezza che attraversò le sue iridi
cerulee: quello poteva essere un addio.
Sentì
un vuoto gelido allargarsi nel suo petto, in contrasto con il magma
ribollente che gli scaldava lo stomaco in subbuglio e già in
preda
alle vertigini.
«Uno!»
Le
lanciò un'ultima occhiata combattuta prima di chiudere
l'elmo con un
secondo di ritardo, lasciando che la patina dorata celasse il suo
sguardo.
Poi si lasciò cadere nel cielo buio di New York.
***
Caduta
libera.
La
sua testa diventò una centrifuga di luci, New York una
cartina
notturna sotto di lui, sempre più grande e dettagliata man
mano che
piombava a propulsori spenti verso la Expo.
Il
suo corpo era rimasto da qualche parte sull'aereo, e gli sembrava che
un cordone invisibile si tendesse tra esso e la sua armatura, pronto
a farlo scattare di nuovo verso l'alto a un passo da terra. Stava
precipitando, e non sapeva dire se l'atterraggio sarebbe stato dolce
quanto quell'istante ormai cristallizzato nella sua memoria, ma dotato
di più di uno spigolo acuminato che si incuneava nel suo
cervello.
Boccheggiò
sorpreso quando si rese conto di aver deviato troppo dal percorso
stabilito, complice il secondo di ritardo nel decollo.
Impattò con uno dei razzi pirotecnici sparati dalla
Expo, che si aprì in un ventaglio di accecanti scintille
dorate
attorno a lui. Fu poco più doloroso di una leggera testata e
percepì
a malapena l'esplosione oltre la solida corazza in oro e titanio, ma
fu abbastanza per far sobbalzare il reattore, inviargli una
stilettata ai moncherini e riportarlo di schianto alla
realtà.
Aveva
una Expo da presentare. Avrebbe pensato dopo al resto, alle labbra
morbide di Pepper e al brivido che l'aveva scosso da capo a piedi
mozzandogli il fiato...
Spiegò
bruscamente i flap posteriori, seguendo l'avviso sull'interfaccia
azzurrina; frenò la propria discesa e corresse la
rotta, per poi attivare i propulsori con dieci secondi d'anticipo
rispetto ai suoi calcoli. Imprecò tra sé, ma si
godette la
sensazione di velocità che soppiantò la marea di
confusione ed
emozioni che si era impossessata in lui. Diede ancora potenza,
lanciando un'esclamazione esilarata nel sentirsi leggero come una
corrente d'aria, di nuovo in possesso del proprio corpo e totalmente
inebriato da ciò che più amava fare al mondo.
Avrebbe voluto
prolungare quell'attimo, puntare verso l'orizzonte e volare per ore
sfiorando le onde dell'Atlantico, ma nel vedere la Expo illuminata
sotto di lui e la folla accalcata nel padiglione, sentì
comunque un
largo sorriso aprirsi sul suo volto. Si diresse a testa bassa verso
l'arena scoperta sempre più vicina, assaporando quegli
ultimi
istanti
di libertà. Oltre il rombo e il fischio del vento distinse
le note
inconfondibili di Shoot To Thrill, e si concesse una
virata
leggermente più ampia del dovuto, che lasciò una
spettacolare
scia di fiamme dietro di sé, dando l'impressione che una
freccia
infuocata attraversasse il cielo.
Il
propulsore posteriore destro singhiozzò proprio mentre
iniziava a
modificare la parabola per l'atterraggio, facendolo sbandare e
interrompendo la manovra; anche senza il supporto delle schermate di
JARVIS, capì che non sarebbe mai riuscito ad atterrare
elegantemente
in piedi come aveva pianificato. A volte odiava dover
improvvisare.
Il
palco si avvicinava, con l'area circolare designata per l'atterraggio
evidenziata da neon lampeggianti, contro i quali stava per
schiantarsi di testa. Improvvisò: s'impennò
bruscamente a pochi metri
dal palco
e spense di colpo i propulsori, lasciandosi cadere di peso nel cerchio
luminoso. Atterrò
su un ginocchio in un clangore di metallo e attenuò
l'impatto col
pugno, camuffando il gesto come una posa ostentatamente plastica.
Espirò
un'unica volta, rapidamente, con la palpebra socchiusa nell'ombra
azzurrina del casco. Il mondo festante e pronto ad accoglierlo era un
ronzio ovattato oltre la calotta metallica, e solo l'eco del proprio
respiro gli assordò le orecchie.
Un
istante, un respiro secco, un singolo attimo di silenzio in cui tutto
ciò che percepì furono il suo cuore che
martellava contro la
corazza e il peso rassicurante dell'armatura sulle spalle, con lui
congelato in quel momento di stasi.
Una parte di lui stava
continuando a cadere. Ma lui era lì, su quel palco, sotto
gli occhi
di chi l'aveva aspettato per un anno.
Inspirò
nel buio.
Poi
si rialzò con sicurezza in un unico, fluido movimento, e
sollevò le
braccia, mentre dietro di sé sprizzavano dozzine di fontane
dorate, con
la musica irruente degli AC/DC che riprendeva a dettare il ritmo del
suo
cuore. Il suo sguardo abbracciò tutto ciò che
aveva davanti, dalla
marea di gente in visibilio accalcata sotto al palco ai fuochi
d'artificio multicolore che esplodevano nel cielo stellato, dalle
sfarzose
luminarie che addobbavano gli alberi del parco ai neon pulsanti del
padiglione inondato di lustrini e coriandoli rosso-oro. Il suo petto
si gonfiò d'orgoglio, scacciando il senso d'occlusione e
l'immagine
del reticolo plumbeo.
In
quel momento esisteva solo lui: Tony Stark, Iron Man, in piedi per la
sua Expo.
Non
ebbe alcun bisogno di imbastire il ghigno compiaciuto ed esaltato che
rivelò al pubblico non appena i bracci meccanici emersi
dalla pedana rimossero l'armatura. Libero
dal metallo, recuperò il bastone da passeggio e lo
aprì con
naturalezza, facendo qualche passo svogliato per portarsi al bordo
del palco. Per un solo momento fu drasticamente cosciente di ogni
singolo sguardo appuntato su di lui, o meglio, sulla sua mano
meccanica, sul bastone e sulla benda che celava il suo sfregio, ma
gli applausi e il clamore non cessarono e, anzi, aumentarono
d'intensità fin quasi a coprire la musica. Alzò
in bella vista la
protesi in un cenno di saluto al pubblico mentre l'assolo di chitarra
elettrica cresceva d'intensità, e abbassò di
scatto
la mano proprio
quando l'ultimo accordo segnò la fine della canzone, in un
gesto
frivolo e puramente scenografico che ampliò il suo sorriso.
Accennò
un mezzo inchino, accompagnandolo con uno svolazzo del bastone, e
attivò il microfono appuntato sul bavero, sentendosi di
nuovo saldo
sulle sue gambe e perfettamente a suo agio nel suo ambiente naturale,
ovvero al centro di un palco e al centro dell'attenzione, con le
vertigini dello spericolato volo appena concluso che gli facevano
tremare piacevolmente le gambe.
«Ah,
è bello essere di nuovo qui!» esordì
con rara sincerità, e il
pubblicò si quietò appena nell'udire la sua voce
stentorea, che
rimbombò nell'arena illuminata dallo sfarfallio dei flash e
dai
proiettori. «Vi sono mancato,» affermò
poi in tono ovvio, e una
sostenuta ovazione di risposta corroborò le sue parole.
Ciò
suscitò un ampio sogghigno sul suo volto, impostatosi di
nuovo sulla
sua classica faccia da schiaffi degna del genio, miliardario e
playboy che tutti ricordavano. Si ricompose un poco, unendo a
quell'espressione così conosciuta il gesto di picchiettare
svagatamente per terra col bastone, per lui ormai abituale, ma
estraneo al resto del mondo. Colse più di uno spettatore
indicarlo
apertamente, e concentrò ogni fibra di sé nel non
allungare la mano
a toccarsi la benda, che percepiva essersi scollata appena dalla sua
pelle.
«Anche
voi mi siete mancati,» continuò poi, con una
disinvoltura che
celava una vena di serietà. «Mi sono mancate un
sacco di cose,
incluso poter passeggiare su un palco, indossare l'armatura ed essere
acclamato. Siete assolutamente autorizzati a compensare quest'ultima
mancanza,» li invitò con un gesto rivolto a
sé, scatenando un clamore assordante che coprì
le sue ultime parole.
Sogghignò,
appagato di quella reazione: la maggior parte delle volte, amava
improvvisare. Ristabilì poi
l'ordine con un pacato gesto delle mani, prendendo di nuovo la
parola.
«Le
voci sulla mia presunta morte sono state enormemente
esagerate,»
asserì con
un'alzata di spalle. «Come vedete, non sono morto, non sono
infermo
e non sono impazzito, come molti dei miei detrattori hanno
simpaticamente sostenuto in questo mio periodo di assenza,»
continuò
con una punta di durezza, che sperò andasse a trafiggere
quella
schiera di giornalisti che aveva fatto del diffamarlo il suo nuovo
hobby.
«Ma
non sono qui per parlare di chi non ha creduto che potessi tornare.
Se proprio dovessi parlare di qualcuno, sarebbe di chi invece ha
creduto in me, ha sostenuto le mie idee e mi ha permesso di essere
qui oggi,» continuò, con voce ferma.
Se
non l'avesse piantata d'improvvisare, quel groppo in gola avrebbe
finito per strozzarlo, si rimproverò mentalmente; ma il
pensiero che
Pepper, Ian e Kyle potessero sentire quelle parole era stato
più
forte del suo buonsenso. Quello era rimasto sull'aereo ad annegare in
una pozza di endorfine, e dubitava di
poterlo recuperare in tempi brevi.
«Non
sono qui neanche per raccontarvi come dalle ceneri di una barbara
prigionia e di un tradimento non si sia mai personificata metafora
più grande della Fenice nella storia dell'uomo!»
A
quel punto fece un altro mezzo inchino, godendosi ancora una volta
l'applauso scrosciante che gli si riversò addosso, facendo
aumentare
i suoi battiti.
«Non
sono qui per dire di aver ideato, sviluppato e testato completamente
da solo una tecnologia ritenuta impensabile per almeno altri dieci
anni, nonostante tutti gli ostacoli che mi si sono parati davanti, e
che ho intenzione di renderla accessibile e fruibile a
tutti!» nel
pronunciare tutto ciò, tirò leggermente su la
manica del completo,
scoprendo una porzione della protesi e agitando le dita per mostrarne
il perfetto funzionamento, almeno ai loro occhi, e fu accolto da
un'altra ovazione che stemperò il suo timore per quel gesto
ardito.
«E
non sono qui per dirvi che Iron Man è tornato, e il mondo
potrà
quindi riprendere a vivere il suo più lungo periodo di pace
ininterrotta!» continuò ancora, sperando che il
sottotono di amaro
rammarico di quella frase fosse percepibile solo a lui.
Inspirò
a fondo e sentì il reattore premere al centro della sua
gabbia
toracica, onnipresente. Ignorò la sensazione, riprendendo a
parlare
con nuovo vigore, spronato dalle acclamazioni che stava ricevendo e
che soffocò schermendosi di nuovo con le mani e
incrociandole poi dietro la
schiena:
«Vi
prego, non si tratta di me,» annunciò.
«Non si tratta di voi, e
nemmeno di noi.»
Il
pubblico si fece d'un tratto più silenzioso, colpito dalla
sua
improvvisa serietà e compostezza.
«Si
tratta del retaggio.»
Quella parola pesò sulla sua
lingua e sembrò
sprofondare nell'aria tiepida di fine aprile come una corrente
gelida.
«Si tratta di quel che vogliamo lasciare alle
generazioni
future,» affermò, e dovette domare l'istinto di
portare una mano al
reattore, le protesi fattesi improvvisamente più pesanti.
Il
suo sguardo sorvolò il pubblico, andando ad appuntarsi
sull'Unisfera
illuminata di una luce azzurrina. Un'ombra della Città del
Futuro di
suo padre gli offuscò la vista. Quello che stava per
lasciarsi
dietro sarebbe stato abbastanza? Oppure si stava lasciando dietro
troppo? Si
umettò le labbra, ancora lambite da un calore che non
accennava a
dissiparsi, e riprese a parlare prima che quella pausa prolungata
destasse sospetti.
«Ed
è per questo che per il prossimo anno, per la prima volta
dal 1974,
gli uomini e le donne più in gamba di società e
nazioni di tutto il
mondo metteranno insieme le loro risorse, e condivideranno la loro
visione per gettare le basi di un futuro più
roseo,» spiegò con
ritrovata sicurezza, scandendo le proprie parole con ampi gesti.
«Perciò, non si tratta di noi,» concluse
con ovvietà.
Si
fermò esattamente al centro del palco, poggiandosi al
bastone e
scrutando con intensità il suo pubblico.
«Se
c'è una cosa che voglio dire, se proprio devo dire
qualcosa...»
allargò le braccia, includendo con quel gesto tutti i suoi
spettatori e l'intera fiera, «È
“bentornati alla Stark Expo!”»
esclamò a piena voce, con un sorriso caloroso e trionfante.
Una
cascata di lustrini eruttò dalle fontane pirotecniche alle
sue
spalle, e una nuova serie di fuochi d'artificio rosso-oro
illuminò a
giorno il cielo di New York.
Tony
allargò le braccia e lasciò che quella pioggia
dorata lo
investisse, calando il sipario su di lui.
24 Aprile, Manhattan, 22:00
L'ago
affondò con facilità nel suo deltoide,
strappandogli una smorfia
infastidita quando una sensazione di gelo gli avvolse il muscolo.
Distolse
lo sguardo dallo stantuffo della siringa per puntarlo sul volto
corrucciato di Ian, impegnato a manovrarla con accortezza. Dopo pochi
secondi, sfilò l'ago con un gesto delicato ma fermo,
premendogli
subito una garza sul foro d'ingresso e facendogli cenno di mantenere
la pressione. Tony eseguì con cautela, sforzandosi di dosare
la
forza delle dita metalliche sul quadratino di stoffa e fissando con
sguardo vacuo il puntino rosso che lo aveva macchiato.
Erano
in silenzio da interi minuti, entrambi presi dalla tensione per
motivi diversi, ma congrui ai loro opposti ruoli di medico e paziente.
Oltre la porta della sua camera anche Pepper era in tensione, ne era
certo, ma non si pentiva della scelta di averle risparmiato le sue
procedure mediche ignorando le sue proteste. Non
erano ancora rimasti faccia a faccia da quando l'aveva lasciata
sull'aereo, e non era certo quello il momento giusto.
Non che dopo
l'inaugurazione avesse avuto alcuna intenzione di affrontare
l'argomento in sospeso – se poteva definirsi tale –
ma il 67% di
palladio nel sangue era stato un altro ottimo motivo per ritardare
quel confronto. Già
nel lasciare il palco aveva avuto un forte capogiro; nel leggere la
cifra sul rilevatore aveva sentito il sangue defluire a cascata dal
suo volto, lasciandolo ghiacciato e pallido. I sintomi sino ad allora
tenuti a bada dall'adrenalina e dall'esaltazione del momento appena
trascorso gli si
erano rovesciati addosso in un colpo solo, minacciando di farlo
svenire dietro le quinte della Expo che aveva appena presentato.
Happy
l'aveva prontamente riacciuffato per la collottola e accompagnato per
vie traverse all'auto, schivando la maggior parte delle forche
caudine di giornalisti e fan in delirio appena oltre la porta
principale. Tony non gli era mai stato così grato come
mentre veniva
passivamente sballottato qua e là per corridoi secondari e
vialetti
non illuminati, nonostante le serie difficoltà a mettere a
fuoco
cosa stesse accadendo attorno a lui oltre il rombo tonante che aveva
preso
a scuotergli i timpani.
Oltre il velo d'intontimento, aveva accolto i
morbidi sedili in pelle della Rolls Royce come un paradiso terrestre.
L'impressione
di beatitudine si era prima accentuata e poi incrinata nel realizzare
che Pepper era seduta accanto a lui su quegli stessi sedili, e che la
situazione poteva quindi molto rapidamente tramutarsi nel suo inferno
privato. Fortunatamente – oppure no – si sentiva
troppo male
anche solo per pensare di intavolare una discussione coerente,
così
aveva passato la mezz'ora di macchina che separava Flushing Meadows
dal suo attico a Manhattan in silenzio, con il volto spalmato sul
finestrino e
consapevole, tra un sobbalzo dell'auto e l'altro, degli occhi
angosciati della donna che gli trafiggevano la schiena.
Era
stato intercettato da Ian non appena aveva messo piede sul
pianerottolo dell' appartamento a Park Avenue. Si era lasciato
trascinare in camera sua quasi di peso da lui
e Happy prima di crollare seduto sul letto, a malapena
consapevole del medico che si affaccendava attorno a lui borbottando
tra i denti qualcosa riguardo alla sua incoscienza e sconsideratezza
– il solito
disco rotto che conosceva a memoria, indegno di alcuna attenzione da
parte sua. Era
stato piuttosto occupato a rimanere vigile e a non farsi sopraffare
dal magma di sensazioni, fisiche e non, che aveva preso a sconquassare
la sua mente. Il
senso d'occlusione che gli stritolava i polmoni gli aveva ricordato
il momento terrorizzante in cui si era tolto il reattore– e
l'incubo in cui affondava e annegava– e il barile in cui gli
ficcavano la testa nella grotta...
Gli era mancato il fiato quasi fosse
davvero sott'acqua.
Aveva
presagito in tempo l'approssimarsi di un attacco di panico ed era
riuscito a gestirlo abbastanza bene da non collassare ai piedi di
Ian. Non era sicuro che quello stato di calma indotta a forza avrebbe
retto sino alla fine della sua visita, ma concentrarsi sul mantenere
stabile il proprio respiro affaticato e contare all'indietro
erano ottimi modi per ignorare
i pensieri imbizzarriti che crepitavano in sottofondo. Al
momento si sentiva decisamente più padrone di sé,
ed era intento a
captare qualsiasi segnale anomalo proveniente dal suo corpo stremato.
Strizzò il pugno sano un paio di volte, avvertendo un
leggero
intorpidimento al braccio, come se dell'acqua gelata avesse preso a
scorrergli nelle vene.
Ian
si era seduto a gambe accavallate sulla poltroncina nell'angolo,
tenendolo sotto stretta osservazione mentre annotava dati e valori
sulla sua voluminosa cartella clinica.
«Novità?»
chiese dopo una buona decina di minuti in tono inusualmente sommesso,
posandosi infine penna e scartoffie in grembo.
Tony
si inumidì le labbra, senza distogliere lo sguardo dalla
garza che
teneva premuta contro il braccio. Riusciva a respirare, ma si sentiva
ancora un macigno sul petto e si stava sforzando di reprimere i lievi
brividi che gli scuotevano le spalle; la nausea subì
un'impennata
tale che ebbe timore di parlare e si prese qualche secondo per
assicurarsi che dalla sua bocca uscissero unicamente le proprie
parole.
«Non
mi sono ancora liquefatto,» asserì, con un'ombra
d'ironia un po'
incerta che non si manifestò sul suo volto contratto.
«Riscontra
effetti spiacevoli?»
«Sì,
ma non so se è il palladio o l'anti-palladio... la mia
solita
fortuna,» sospirò appena, con un sorrisetto
più simile a una
smorfia, procedendo poi a recuperare il rilevatore dalla tasca.
Lanciò
uno sguardo a Ian, che annuì in risposta, in evidente
tensione. Tony
premette il pollice sull'ago con più forza del necessario,
impedendosi di esitare ancora e strizzando l'occhio per la puntura.
«64%»
esalò in un respiro, senza nascondere il sollievo che gli
stava
sciogliendo i muscoli; adocchiò Ian che si abbandonava allo
schienale, rilassandosi a sua volta.
«È
in diminuzione. Bene,» commentò il medico, per poi
alzarsi e
farglisi incontro corrucciato. «Cioè, non
è esattamente “bene”,
ma...»
«Potrebbe
essere peggio,» completò Tony, senza risentirsi e
col pollice
ancora posato sul rilevatore, che tremava leggermente tra le sue mani
malferme.
Ian
prese un breve respiro nel fermarsi davanti a lui, tirando con fare
indeciso i lembi della giacca e sistemandosi gli occhiali sulla punta
del naso.
«So
che non cambierà nulla, Doc,» lo
anticipò piattamente, vedendolo
aprir bocca per parlare.
L'altro
non rispose, ma si adombrò ulteriormente. Gli tolse con
gentilezza
il rilevatore dalle mani, ripulendogli poi la piccola ferita sul
polpastrello con una garza e applicandovi un cerotto. Tony lo
lasciò fare, di nuovo
assente e sempre più intorpidito. Guardò il
piccolo congegno
poggiato sul materasso, con le cifre rosse e luminose che sembravano
imprimersi sulla sua retina.
Non
sarebbe cambiato nulla, si ripeté meccanicamente.
L'intossicazione
sarebbe scesa ancora di qualche tacca, magari anche sotto al 60%, con
un
po' di fortuna e un'indigestione di clorofilla. Poi avrebbe ripreso a
salire inesorabile, fino a far fermare il suo cuore.
Le
parole che aveva pronunciato Ian qualche tempo prima risuonarono
nelle sue orecchie, inconfutabili: il dilitio non era una
soluzione.
Avvertì
delle lievi vertigini, di fatto solo l'ennesimo capogiro, ma si
sentì
catapultato ancora una volta in caduta libera e poi su quell'aereo.
Per un singolo istante si trovò a desiderare che quello con
Pepper
fosse stato davvero un addio. Lle vertigini si
trasformarono
in una stretta ferrea che quasi gli mozzò il fiato. Era
stato uno
sprazzo fugace, più un tentativo di pensiero destinato a
spegnersi
prima di essere completato che una considerazione fatta e finita, ma
bastò a risvegliare quella vergogna rimasta sopita per quasi
un
anno. Non poteva concedersi quelle debolezze meschine, neanche nella
propria testa.
Strinse
il quadratino di garza nel pugno metallico, facendo stridere appena
le giunture.
«Doc?»
chiamò piano, in un tono molto meno vivace di quanto avrebbe
voluto.
Sentiva
di non avere neanche più la forza di mostrarsi sicuro di
sé e
indifferente a quel che stava accadendo; almeno, non costantemente. E
adesso che l'inaugurazione era passata e l'aura dorata che gli aveva
lasciato addosso iniziava a sbiadire, sentiva la sua facciata
sgretolarsi ad ogni battito.
«Qual
è la sua prognosi?» chiese, incapace di esprimere
quella domanda in
termini più diretti, quasi che farlo la potesse rendere
ancor più
reale.
«Quattro
o cinque mesi,» rispose il medico in modo altrettanto
sommesso,
continuando a riordinare i suoi strumenti nella ventiquattr'ore.
Tony
alzò la testa verso di lui, un po' sorpreso, e il medico
intercettò il suo sguardo.
«È
una previsione ottimistica,» confessò, di nuovo a
occhi bassi.
«Non
è da lei essere ottimista, mi sento quasi
onorato,» commentò con
un sorrisetto obliquo, ben presto soppiantato da una linea tesa.
«E
se le chiedessi di essere realista?»
Ian
scosse la testa un paio di volte, chiaramente riluttante, per poi
liberare un sospiro e rispondere col consueto distacco:
«Tre
mesi.»
Tony
incassò il colpo in silenzio, rivolgendo al medico un unico
cenno
d'assenso, quasi a suggellare il modo definitivo quel fatto.
Tre
mesi. Lo sapeva, non era una novità. Quelle due parole si
depositarono alla base della sua nuca, appesantendogli la testa con
un monito funesto che parve imprimersi a fondo nel suo cervello.
«Ne
vuole parlare?» la voce di Ian arrivò inaspettata,
riscuotendolo.
«Di
cosa?» replicò, sinceramente confuso.
«Di
ciò che vuole,» Ian fece un gesto vago con la mano
che esplicitò
anche il suo insolito disagio. «Non necessariamente con
me,»
puntualizzò poi, prendendo a pulirsi gli occhiali in modo
così
forzatamente disinvolto da risultare quasi caricaturale.
Tony
capì l'antifona e lo scrutò assorto per qualche
istante, assurdamente convinto che il
medico lo stesse prendendo in giro in qualche modo che non riusciva a
comprendere, complice il proprio stato non del tutto lucido. Come unica
linea di difesa trovò quella di arroccarsi sui consumati
bastioni
del proprio sarcasmo, sperando che il medico desistesse o scoprisse
le sue carte:
«Ammetto
che è estremamente gradito sentirsi chiedere
se si vuole
uno strizzacervelli invece di ritrovarsene uno in salotto senza
preavviso, ma mi sembra un tantino...» esitò, poi
allargò le mani
con fare spaesato. «Fuori tempo?»
abbandonò i gomiti sulle
ginocchia, con le mani ora strette tra loro a cercare un appiglio
solido.
Aveva
l'impressione che quell'intera giornata fosse un inno al pessimo
tempismo.
«Signor
Stark, non voglio forzarla,» si ritrasse quindi Ian,
inforcando di
nuovo gli occhiali. «Era un'offerta amichevole, ma se non
vuole
accettarla me ne farò una ragione,» concluse,
modulando le sue
parole con insolito tatto.
Tony
si strofinò con aria assente il pizzetto, chiedendosi se
stesse
davvero rifiutando. Aveva ancora molte difficoltà a
riconoscere una
mano amica quando la vedeva, eppure non era difficile capire che Ian
fosse preoccupato per lui al di là del suo ruolo
professionale.
«Semplicemente, non credo avrebbe molto senso a questo
punto,» alzò le
spalle, senza turbarsi più di tanto. «Ho modi
più costruttivi per
passare il tempo che mi rimane, piuttosto che starmene in panciolle
su un lettino a parlare di cose a cui non voglio nemmeno
pensare,»
concluse, tradendosi suo malgrado con quell'ultima esternazione.
Sperò
che Ian non gliela ritorcesse contro, ma per fortuna accolse in
silenzio il suo rifiuto. Si chiese involontariamente se fosse
già troppo
tardi per tornare sui propri passi, ma mise a tacere
quell'interrogativo.
«Non posso obbligarla. Però
mi deve promettere una cosa,» esordì di nuovo il
medico, e Tony si
mise d'istinto sulla difensiva:
«Uh,
non so se gliel'hanno mai detto, ma il campo delle promesse non
è
mai stato il mio forte e ho svariati testimoni a
confermarlo,»
replicò con fare disincantato.
«Vorrei
che provasse lo stesso a mantenere questa,» insistette Ian,
con più
fermezza del solito.
«Spari,
Doc,» sospirò, incrociando rassegnato le braccia
ma anche
incuriosito da tutta quella serietà.
E preoccupato, e
intimorito,
perché ormai aveva la sensazione che ovunque si voltasse
spuntassero
nuove minacce e problemi nonostante tutti i suoi sforzi per evitarli e
condurre pacificamente la propria vita.
«Quando
starà bene...» Ian alzò una mano a
frenare quel “se” che gli
era salito in automatico alle labbra, quella particella di dubbio che
metteva tutto in discussione e poteva ribaltare la sua stessa sorte.
«Non voglio parlare per ipotesi, ma per certezze. Me lo
concede?»
Tony
rimase interdetto per qualche istante, poi annuì, decidendo
di
lasciar correre e di accettare quell'incredibile dose di ottimismo da
parte del medico più scettico, cinico e realista della Terra.
«Quando
starà bene, mi promette che si rivolgerà a un
professionista?»
Tony
non trattenne un sonoro sbuffo, irritandosi lievemente.
«Ci
tiene così tanto a farmi psicanalizzare?»
«Vorrei
semplicemente che andasse in terapia, prima o poi,»
riformulò lui.
«Pensavo
che titoli del tipo “Tony Stark il Futurista Folle”
fossero
passati di moda da un pezzo, e non pensavo lei fosse un loro
fan,»
scandì caustico, sentendo la propria fronte aggrottarsi al
pensiero.
«Non
sto dicendo questo, e lo sa perfettamente,»
replicò rigido Ian, perdendo
un poco del suo aplomb.
Tony
si stropicciò l'occhio stanco, trattenendo un'altra risposta
impulsiva e indelicata.
«Doc, andare in terapia non è in cima
alla “lista di cose che farò
quando starò bene”,» sospirò
comunque, sperando che la questione
finisse lì. «E mi creda, il mio problema
principale è qui,»
batté le nocche sul reattore, «Non qui,»
concluse, portando
l'indice alla tempia con fare esplicativo.
«Tony.»
Lui
quasi boccheggiò nel sentirsi chiamare per nome, e
squadrò Ian come
se gli fosse improvvisamente spuntata una seconda testa.
«Lo
sto dicendo nel suo interesse. Se non vuole farlo per lei stesso, lo
faccia almeno per chi le sta intorno,» continuò il
medico, una
volta accertatosi di avere la sua completa attenzione.
«Non
credo che cambierebbe...»
«Cambia
tutto,» lo interruppe Ian, con fare perentorio.
«È più
intelligente di così. Si è sicuramente meritato
il titolo di "Iron
Man" per dei motivi che esulano da quanto metallo abbia
addosso,» continuò con voce ferma e priva di
qualunque esitazione.
Tony
abbassò lo sguardo, preso alla sprovvista da quel
riconoscimento
inaspettato, che gli fece dimenticare per un istante il fatto che
fosse in procinto di perdere per sempre quel titolo.
«...
ma per quanto possa sempre farcela da solo, non credo che voglia
anche rimanerlo,» terminò, lanciandogli un'unica
occhiata eloquente
per poi distogliere lo sguardo, quasi a lasciargli il suo spazio
mentre rifletteva su quell'affermazione.
Tony
tacque brevemente, prendendo atto delle rughe profonde che si erano
accentuate attorno agli occhi del medico, e di quanto questi
sembrassero
inquieti, nonostante si mantenessero cristallini come sempre.
«Parla
per sentito dire, per luoghi comuni o per esperienza
personale?»
indagò infine, scrutandolo di sottecchi.
Il
medico affondò le mani nelle tasche della giacca e
ricambiò
distaccato il suo sguardo, lasciandosi però sfuggire un
sospiro
appena percettibile.
«Ha
importanza?» borbottò, riprendendo il suo consueto
atteggiamento
burbero.
«Suppongo
di no e suppongo che la sua sia in un certo senso una risposta
esaustiva,» considerò Tony, frenando a stento la
sua curiosità.
«Quindi pensa che... parlarne, qualunque
cosa voglia dire,
possa farmi bene anche ora?» cambiò argomento, con
evidente
sollievo del medico.
Avrebbe
voluto porla come una domanda sincera e interessata, ma finì
per
suonare involontariamente sarcastico.
«Penso
che possa aiutarla ad affrontare il tutto,» non si
sbilanciò lui,
ma una scintilla illuminò il suo volto a quella domanda.
«Non
mi ritiene in grado? Che novità.»
Il fastidio che aveva represso fino ad allora trapelò
inequivocabile
dalla sua voce.
«Conosce
qualcuno che lo è?» rimpallò Ian, senza
scomporsi.
Tony
raddrizzò la schiena con un movimento brusco, quasi a
sfuggire
dall'angolo in cui si sentiva spinto ad ogni parola, di nuovo senza
via d'uscita.
«Doc,
so quello che sto facendo...»
ripeté per la centesima volta
nella sua vita, ma s'interruppe, quasi sussultando.
Il
suo sguardo si fece distante, perso sul panorama notturno di New York
oltre la vetrata della sua stanza.
«E
non lo so,» aggiunse, volgendo entrambi i
palmi verso l'alto
in un gesto confuso.
La
sua mente tornò all'inaugurazione, all'aereo, a Pepper, e si
sentì
spalancare il petto. Si prese la mano meccanica, seguendo la
scanalatura del palmo col pollice sensibile. Continuò a
ripetere
quel gesto, quasi si aspettasse di trovare una risposta nel metallo.
«Non
lo so,» ripeté, sentendosi sconfitto e vulnerabile
di fronte agli
occhi penetranti di Ian.
La
percezione del proprio corpo si acuì, come tutte le volte in
cui si
soffermava sugli sguardi altrui che vi si posavano; volse verso il
medico la parte intatta del volto e coprì la mano meccanica
con
quella sana, prendendo un respiro profondo che non attenuò
la sua
vergogna.
«Non
c'è nulla di male ad accettare un aiuto, ormai dovrebbe
averlo capito,» buttò lì Ian, in tono
perfettamente neutrale ma con un'ombra di rassegnazione annidata nel
suo volto.
Tony
si mordicchiò nervosamente le labbra, provando un insensato
bisogno
di dire tutto ciò che gli passava per la testa. Le sue
parole si
arrestarono a un passo dalle sue corde vocali, rimanendo mute.
Continuò
a sfregarsi il palmo metallico, concentrandosi su quella sensazione
concreta che faceva da àncora nella realtà.
Sarebbe
stato così semplice parlare, liberarsi da quei pesi che
aveva scelto
di tenere per sé e per sé soltanto. Aveva giurato
di non mentire
mai più a Pepper, ma non riusciva comunque a spingere i suoi
pensieri più cupi oltre quel freno che si imponeva. Non
riusciva a
dirle che erano mesi che evitava di guardarsi allo specchio,
né che
le uniche volte in cui ci riusciva era nei suoi sogni, che si
tramutavano ben presto in incubi. Non riusciva a dirle che a volte,
nella solitudine del suo laboratorio, si toglieva entrambe le protesi
per ricordarsi quale fosse il suo vero corpo e scacciare la
sensazione di essere stato fagocitato dalle sue stesse macchine
– e
allora lo sguardo gli cadeva inevitabilmente sul reattore, l'unico
vincolo artificiale che lo ancorava alla vita e che era ormai sul punto
di recidersi.
Non
riusciva neanche a rispondere in modo del tutto veritiero alla banale
domanda "come stai?"
"Come
sempre", "meglio del solito", "peggio del
solito”. Ma mai "male".
Si
svegliava la mattina con la sensazione che qualcosa gli stritolasse
il petto e i polmoni, coi moncherini in fiamme e la testa che
sembrava essere passata per un frullatore tanto gli doleva e girava,
ma nessuno di quei sintomi raggiungeva la consapevolezza di Pepper
tramite la sua voce. Lei forse – sicuramente – li
intuiva dal suo
respiro sempre più affaticato, dai suoi movimenti un po'
instabili e
traballanti, dai momenti in cui serrava brevemente l'occhio a una
fitta più acuta, dal suo sforzarsi di mangiare
più di qualche
boccone dal suo piatto quando la nausea gli chiudeva lo stomaco o dal
numero di volte in cui si chiudeva in bagno subito dopo, assalito dai
conati.
Fermò
il pollice al centro del palmo metallico, rievocando il calore
illusorio di
quando Pepper lo aveva stretto molto tempo prima, conscio che non
avrebbe mai potuto sentirlo davvero. Sentì il suo abbraccio
cingerlo
come in quella stessa sera di gennaio, e allora era stato
così
facile ricambiarlo e lasciarsi cadere a pezzi, nella sicurezza che
lei li avrebbe raccolti. E poi era stato facile pronunciare parole
vuote che strattonavano inutilmente le catene che lo inchiodavano a
terra, a ricordargli che poteva decollare tutte le volte che voleva,
ma il suo corpo sarebbe sempre rimasto laggiù, stritolato
dal
metallo e
troppo pesante per spiccare il volo.
Di
nuovo l'inaugurazione, l'aereo, Pepper.
Avrebbe
voluto strapparsi quel brandello di memoria che mandava in tilt ogni
suo senso, con lo stomaco che galleggiava in una piacevole bolla
d'estasi mentre il reticolo sul suo petto si stringeva e stringeva
ancora, acuendo ogni stilettata di dolore. E allo stesso tempo
avrebbe voluto perdercisi, fingere che quel singolo istante potesse
annullare tutto il resto, dimenticandosi che quella non era una
fiaba, ma la vita reale – e nella vita reale stava morendo in
un
corpo non suo.
Sollevò
lo sguardo verso Ian.
«Pepper
si starà preoccupando,» replicò, con
voce fioca.
Il
medico trattenne un lieve sospiro, ma annuì senza
commentare. Non
sembrava risentito, forse solo un po' deluso.
«Allora
sarà meglio rassicurarla,» concluse con un'alzata
di spalle.
L'inaugurazione,
l'aereo, Pepper. Le sue labbra, il calore delle sue mani bloccato dal
metallo.
Un
flipper impazzito che rimbalzava nella sua testa.
Tilt.
Game over.
«In
settimana ha un paio d'ore libere?» proruppe, prima che Ian
potesse
raggiungere la porta.
Il
medico si voltò a guardarlo, sorpreso e momentaneamente
senza
parole.
«Insomma,
certo che potrebbe avere un paio d'ore libere; mi
chiedevo
solo se volesse averle per...»
rettificò Tony, già
pentendosi di aver parlato, ma si interruppe nel vedere il sorriso
rassicurante che si dipinse sul volto di Ian.
«Sono
sicuro che saprò convincere il mio datore di lavoro a
concedermele.»
Tony
sfoderò un debole ghigno in risposta.
«Credo
proprio di sì. Ultimamente, ha imparato a non fare troppe
stronzate.»
***
24
Aprile, Manhattan, 23:00
«Ma
chi ha inventato questi aggeggi infernali?»
«Vuole
una forchetta?»
«Neanche
per sogno,» ribatté Tony, continuando ad
armeggiare vivacemente con
le bacchette e i noodles cinesi, neanche fosse nel pieno di una
partita di shangai.
Pepper
si limitò a lanciargli un'occhiata a metà tra
l'esasperato e il
rassegnato, con un pizzico di divertimento un po' colpevole nel
vedere la sua biotecnologia sconfitta da un paio di bastoncini di
legno.
«Può
ridere, sa? Non mi offendo,» mentì platealmente
lui intercettando
il suo sguardo, con la faccia di chi è già pronto
a immusonirsi al
primo commento fuori luogo.
«La
prossima volta scelgo io il menù,»
replicò lei, evitando la
trappola in scioltezza.
«Così
mi fa sperare in una prossima volta,» ammiccò lui,
riuscendo infine
ad acciuffare un boccone di noodles e a mangiarlo senza troppi danni,
per poi rinunciare ad usare la protesi e passare alla mancina.
Lei
non commentò, fingendosi intenta a spiluccare le sue verdure
come se ciò richiedesse la sua
più totale
concentrazione. Tony sembrava a sua volta piuttosto preso dalla cena,
e non riusciva a ricordare l'ultima volta che l'aveva visto mangiare
con così tanto gusto. Il dilitio sembrava aver fatto
miracoli sul
suo appetito e sul suo umore; a colpo d'occhio era ancora provato, ma
aveva un colorito decisamente più sano. Le vene scure a cui
aveva
ormai fatto l'abitudine si erano ritirate appena sotto il colletto,
nascondendole il costante memento dell'intossicazione.
Non
volle soffermarsi su quando l'aveva visto subito dopo la Expo, e su
come avesse pensato di averlo perso davvero per una bravata a cui lei
stessa aveva acconsentito. Di rimando, si soffermò su
ciò che era
successo prima.
Non che fosse davvero in grado di ignorarlo
completamente, quando si sentiva avvitare e contrarre lo stomaco ogni
volta che gli posava gli occhi addosso, con un misto di senso di
colpa, confusione e paura che non riusciva a soffocare, neanche
rifugiandosi discretamente nella stoffa della sua felpa che ancora
– stupidamente –
indossava e che conservava il suo profumo. L'impressione
delle sue labbra era ancora vivida sulle proprie, così come
il suo
sguardo smarrito subito dopo.
Aveva
l'impressione di muoversi in una bolla di tempo distorto, in cui ogni
secondo che passava sembrava prolungarsi all'infinito, moltiplicando
il suo disagio e i suoi pensieri alla deriva.
«Vogliamo
ignorarlo ancora per molto?» proruppe infine, posando la sua
scatoletta di take-away quasi intatta.
«Cosa?»
bofonchiò lui, senza alzare lo sguardo dal cibo, ma con una
nota
d'allarme nella voce.
«L'elefante
nella stanza.»
«È
una metafora riferita alla mia mancanza di grazia?»
Tony le
rivolse
un sorrisetto sghembo che non raggiunse il suo sguardo. Pepper
si mise a braccia conserte, prendendo tempo. Arrivò
rapidamente alla
conclusione che quella fosse l'ultima occasione per lasciar cadere
l'argomento, ma si trovò a ignorare le direttive del suo
cervello,
esattamente come poche ore prima sull'aereo.
«Mi
riferivo all'inaugurazione.»
Lo
sguardo di Tony stavolta scattò in alto, verso di lei, poi
fu
dirottato all'istante verso la parete di vetro affacciata sulla
città
in un movimento affatto naturale. Si pulì con calma la bocca
col
tovagliolo, e Pepper notò distintamente le sue mani fremere
appena,
inquiete. Tamburellò brevemente con le dita sul tavolo con
un
ticchettio, prima di scuotere quasi tra sé la testa.
«Mi
sembra che non sia successo nulla.»
Quella
constatazione parve impattare tra di loro come un blocco di
granito.
Pepper impietrì. Non poté che fissarlo per lunghi
secondi, la bocca
semiaperta, gli occhi sgranati e increduli che non riuscivano a
distogliersi dal suo viso apparentemente tranquillo. Si
rese conto che avrebbe forse dovuto provare qualcosa. Magari rabbia,
o delusione, o dolore, o un misto variopinto delle loro diverse
sfumature, ma il collegamento tra cuore, bocca e cervello sembrava
essere stato reciso di netto, lasciandola muta e inerte.
Tony
continuò a guardare da tutt'altra parte, con aria distante.
«E
questo cosa dovrebbe significare?» riuscì ad
articolare infine lei,
suscitando un brillio colpevole nell'iride sfuggente dell'uomo.
«Che
non è la sola a poter decidere quando
è
successo qualcosa o
meno,»
replicò serafico, rievocando
l'eco di parole che avevano voluto dimenticare entrambi.
«Peccato
che stavolta sia successo qualcosa,»
insistette lei, mentre la rabbia prendeva a poco a poco il
sopravvento sul suo raziocinio, inframmezzata da punture di spillo
dolorose che s'impegnò ad ignorare.
Tony
non rispose e prese a rigirarsi una delle bacchette tra le dita,
seguendone i movimenti con la massima concentrazione pur di non
alzare lo sguardo verso di lei.
«Ti
stavo offrendo una via d'uscita,» borbottò infine,
e un lieve,
inaspettato sorriso sfiorò le sue labbra. «Ma
tu non ti tiri mai indietro,» completò con quella
che sembrava tristezza, lasciandosi sfuggire la bacchetta con un toc
sordo.
Pepper
si passò una mano sul volto teso e affondò le
dita sulle palpebre,
rifugiandosi per un attimo dietro quella cortina. La voce di Tony era
rimasta piatta, apatica, come se tutta la vitalità che
l'aveva
pervaso fino a poco prima dell'inaugurazione fosse stata risucchiata
da un gorgo invisibile.
«Mi
spieghi che ti prende?» chiese, in un tono parzialmente
aggressivo
che non riuscì a stemperare e che doveva servire a
mascherare la sua paura per quelle parole così gelide.
Era
sempre schermata dalla propria mano e temeva di soffermare troppo lo
sguardo sull'uomo che le stava di fronte per timore di annebbiare la
poca lucidità che le era rimasta. Perché doveva
sempre ritorcersi
tutto contro uno dei due?
Sapeva
di aver compiuto un gesto impulsivo, forse affrettato, ma la reazione
di Tony le sembrava completamente sconclusionata, e le faceva temere
di aver ferito delle corde più sensibili di quanto avesse
creduto.
Sentiva
il proprio cuore arrancare a singhiozzo, mentre l'attesa per una
risposta si prolungava, con lui ancora determinato a non offrire
alcun appiglio su cosa stesse realmente provando o pensando. L'unico
segno che non fosse così imperturbabile come voleva dare a
vedere
era il fatto che continuasse a tenere la mano meccanica celata sotto
al tavolo, e che quella sana si assicurasse con insistenza che la
benda sul volto fosse ben aderente alla cicatrice.
«Ti
sembra così strano che voglia fare finta di
nulla?» proferì
infine, e non riuscì a cogliere alcun intento sarcastico in
quella
domanda.
A
spiazzarla fu ancora la volta la sua voce, ancora spenta e
più bassa
del solito, come se parlare gli costasse più fatica di
quanto
potesse permettersi.
«Non
riesco a capirne il perché.»
Pepper
riuscì a far calare la propria
voce di qualche decibel, ma sentiva l'inderogabile urgenza di
lasciarla esplodere, così da liberarsi almeno parte di
quella
insostenibile pressione interna che le stava rendendo il corpo di
gelatina.
«Neanch'io
riesco a capire perché tu l'abbia fatto
proprio
in quel momento,»
ribatté pronto lui, ancora con quella pacatezza fuori luogo.
«Cos'è,
volevi farmi un regalo d'addio?» stavolta una traccia di
pungente
risentimento adombrò le sue parole taglienti e il suo
sopracciglio
scattò appena vero l'alto.
Una
scintilla di comprensione scaturì nei pensieri di Pepper,
riuscendo
finalmente a illuminarli in modo coerente.
«Non
l'ho fatto per pietà,»
scandì, adesso tenendo a malapena sotto controllo
l'indignazione per
quell'accusa indiretta. «Se avessi davvero provato solo
pietà e compassione per te, saresti rimasto da solo un mese
dopo
l'incidente,» aggiunse, senza frenarsi.
Tony
scosse la testa, come a scacciare quelle parole, per poi arricciare
le dita che stringevano con troppa forza i bicipiti e reclinare il
capo all'indietro, incontrando il muro di mattoni a vista. Lo vede
deglutire con difficoltà prima di aprire di nuovo bocca:
«Non
volevo mettere in dubbio niente di... di quanto ci siamo
detti,»
proferì infine, facendo un notevole sforzo nel selezionare
le parole
giuste e appaiandole poi con uno sguardo diretto ed eloquente.
«Quello che hai fatto tu è quello
che vorrei fare anch'io, se non avessi uno
stramaledetto
reattore che mi sta uccidendo ficcato nel petto,»
sbottò poi tra i denti, serrando improvvisamente il pugno e
perdendo
la patina di compostezza che era riuscito a mantenere fino ad allora.
«O
se non fossi un robot per
metà o se non fossi sfigurato,»
aggiunse più piano, con quello che assomigliava molto a
disgusto e
che causò una rapida, pungente stretta al cuore a Pepper.
Stava
cercando di seguire i suoi ragionamenti, più intricati e
contraddittori che mai, ma riusciva a malapena a tenere il passo coi
propri e non faceva che ritrovarsi in apparenti vicoli ciechi. Tony
nel parlare si era scostato dal tavolo ed era evidente che si stesse
sforzando di respirare normalmente, ma non sembrava sul punto
di un attacco di panico. La guardava a scatti, senza riuscire a
sostenere il suo sguardo e continuando a rivolgerle la parte sana del
viso e a nascondere la protesi sotto il tavolo. Sembrava che tutto il
suo corpo fosse sul punto di accartocciarsi su se stesso per
scomparire alla sua vista mentre cercava di mantenere la sua solita
posa spavalda.
«Tony,»
fece il gesto di alzarsi, ma a quel movimento inaspettato lui si
ritrasse ancor di più, stavolta con un lampo di
riconoscibile panico
nello
sguardo, al che lei si fermò spiazzata, rimanendo seduta. «Pensi
davvero che il tuo aspetto o il tuo corpo siano un problema per me?»
si arrischiò a chiedere con più calma, scegliendo
di ignorare quel
che le aveva detto subito prima.
Non
voleva pensare al reattore, né a quello che stava
infliggendo a
Tony, né all'orologio invisibile che continuava a
ticchettare in
sottofondo. E allo stesso tempo, temeva di affacciarsi su quella nuova
porta che Tony aveva appena schiuso.
Lui
la fissò per la prima volta direttamente e
tentennò, le
sopracciglia corrugate in un'espressione combattuta. Era ancora seduto
in modo da offrire la minor superficie possibile ai suoi occhi, quasi
si trovasse in un duello in cui poteva essere ferito da un momento
all'altro.
«Tu
mi guardi e vedi questo,» asserì poi, puntando il
pollice sul
reattore. «L'hai detto tu,» aggiunse, con un'alzata
di spalle
noncurante, ma rigida.
«Non
c'entra nulla, adesso,» lo rimbeccò, accigliandosi
a sua volta
spaesata, ma sentendosi mancare nel sentirsi ritorcere contro le sue
stesse parole.
«Ma
non l'hai negato,» osservò lui, con mesto trionfo
e un sorriso
amaro, evitando ancora una volta l'argomento.
«Tony,
è così difficile accettare che io tenga a te,
così come sei?»
sospirò Pepper, poggiando i gomiti sul tavolo che li
separava e
inspirando poi di nuovo a fondo.
Lui
le fece eco, flebilmente, e abbassò ancora lo sguardo.
Pepper non
riuscì a leggere la sua espressione apatica: era come
tentare
di decifrare
un astratto senza conoscere l'intenzione dell'artista.
«Sì,»
mormorò soltanto, dopo un lungo silenzio.
A quel punto
sembrò
sgonfiarsi come un palloncino e il suo sguardo assunse una sfumatura
vacua. Pepper
sentì quella risposta sprofondare nel suo petto come un
ferro
rovente e si trovò a socchiudere gli occhi, come se
ciò potesse
attutire il colpo.
«Non
è quello che vorrei dire, ma è
così,» continuò Tony, ora
più
concitato. «E non so come...» fece un gesto di
scoramento con la
mano e a Pepper non sfuggì il tremito che scosse la sua voce
in quel
singolo istante. «Non so cosa fare,»
confessò, passandosi la mano
sul volto e confondendo le proprie parole.
Quella
semplice affermazione risuonò molto più densa di
quanto avrebbe
dovuto, carica di tutto ciò che Tony aveva sempre taciuto e
continuava a tacerle, simile a un minuscolo e innocuo atomo pronto a
scindersi e a liberare la sua energia.
«E
immagino che anche tu...»
«Tony.»
Pepper lo interruppe con fermezza prima che potesse completare la
frase. «Io so quello che vorrei fare dal momento in cui sei
tornato
dall'Afghanistan.»
Lo
vide trasecolare e chiudere di scatto la bocca già pronta a
ribattere.
«Capisco
che per te possa essere difficile da credere, ma è la
verità, e non
so più come dirtelo,» concluse, senza
più nascondere la tristezza
che aveva continuato ad accumularsi durante tutta la discussione.
Tony
sembrava aver dimenticato come si parlasse, perché se ne
stava
semplicemente seduto davanti a lei, fissando la mano meccanica ancora
celata oltre il bordo del tavolo mentre il suo volto continuava ad
essere una lastra piatta e inespressiva. Portò una mano al
reattore
nel suo solito gesto inquietantemente abituale.
Pepper avrebbe voluto
alzarsi e stringerlo a sé, come già aveva fatto
altre volte, ma
sapeva che in quel momento non sarebbe stata la scelta giusta, non
dopo che si era ritratto così inequivocabilmente da lei e
averle
mostrato delle ferite fino ad allora nascoste. Soppresse l'impulso,
nonostante potesse percepire i suoi piedi che scalpitavano per
seguirlo e l'orma del suo profumo che le sfiorava il naso, impressa
sulla felpa. Stava
giusto per aggiungere qualcosa e dare sfogo a uno qualsiasi dei
pensieri che si affollavano nella sua testa, ma Tony ruppe di colpo
il silenzio, con una voce roca e sforzata che le ricordò
spiacevolmente quella che aveva avuto dopo un'ora di pianto
ininterrotto:
«Non
posso chiederti di raccogliere anche i miei
pezzi,» nel dirlo
rialzò appena lo sguardo, ora fattosi di nuovo liquido e
profondo,
anche se ancora distante.
«Dovevamo
raccoglierli insieme.
Pensavo che fossimo d'accordo,» gli
fece
notare lei, sollevata per aver infine intravisto un'apertura nello
strato di apatia e scoraggiamento di Tony, ma lui scosse la testa in
risposta.
«Non
risolverebbe nulla di tutto questo,»
replicò
lapidario, con un gesto quasi stizzito verso di sé, e Pepper
riuscì
a percepire in quella breve, semplice frase tutta la rabbia e
frustrazione che Tony stava reprimendo.
In
quel mentre lui si alzò di scatto, facendo leva sullo
schienale
della sedia quando un'evidente fitta lo colpì,
costringendolo a
fermarsi sul posto con una mano a coprirsi la bocca.
«Tony?
Stai...»
«No,
non sto “bene”,» sbottò lui a
denti stretti, facendola
ammutolire.
Le
rivolse un'occhiata colpevole.
«Sono...
sono solo sfinito e non mi sembra che stiamo risolvendo
nulla,»
continuò, con voce sforzata.
«E
chiudermi la porta in faccia come hai fatto con Rhodes ti sembra una
soluzione?» osservò lei, con freddezza.
Lui sobbalzò a quell'attacco, ma non si scompose:
«Rhodey è un caso a parte... Questa è
una decisione ponderata. E soprattutto momentanea,»
replicò lui,
senza che una sola traccia di turbamento scuotesse la sua voce.
«Non
sei tu il problema, e credo solo che sia meglio
indire un
time-out, prima che io finisca per rovinare tutto come al
solito,»
finì perentorio, avviandosi già verso la propria
camera con passi
cauti e pesanti.
Pepper
non provò a fermarlo né a contraddirlo, ma si
portò entrambe le
mani al volto accaldato, con la testa sul punto di scoppiare. Si
chiese se dovesse dire ancora qualcosa, e se avrebbe avuto alcun
senso. Si trovò solo a concordare con lui per quella
brusca
interruzione. Lo vide bloccarsi sul primo gradino della rampa che
conduceva al piano rialzato, stringendo il corrimano e con fare
esitante.
«Pepper?»
Lei
rivolse stancamente la testa verso di lui, sentendo però un
sobbalzo
al cuore nel notare il modo in cui la stava guardando – quel
modo – e l'accenno di sorriso che si era fatto
largo sul suo
volto.
«Per
quel che vale, oggi è stato davvero uno
dei giorni più belli
della mia vita,» s'interruppe brevemente. «Inclusi
i “fuori
programma”,» aggiunse in fretta e in quello che
assomigliava molto
a una via di mezzo tra uno “scusa” e un
“grazie”, prima di salire più
rapido che poteva le scale senza guardarsi indietro.
Pepper
rimase seduta compostamente finché non sentì lo
scatto della sua
porta che si chiudeva, poi si lasciò scivolare a braccia
conserte
sul tavolo, il mento sulle mani e gli occhi che vagavano irrequieti
per il loft ora vuoto e fin troppo silenzioso. Iniziava
ad essere stanca di permettere agli eventi di seguire il proprio
corso e lasciare che fosse il tempo a “risolvere”
ogni cosa,
quando era quello stesso tempo ad inghiottire ogni sguardo al futuro
e a soffocare ogni sentimento che tentava di scaturire tra
loro.
Rimase a lungo lì, sola con le sue riflessioni e con gli
occhi che
cercavano inconsciamente una porta chiusa, con quella tenue fiammella a
scaldarla appena, ostinandosi a danzarle nel petto.
***
25 Aprile, Manhattan
Erano
le tre di notte
passate, quando l'insofferenza superò la stanchezza e Tony
si alzò
di colpo dal letto, sul quale era crollato senza neanche infilarsi
sotto le coperte.
Uscì silenziosamente dalla sua camera, sostando
poi sulla soglia nel buio del ballatoio per qualche minuto.
Assorbì
la quiete che regnava nel loft sottostante e lasciò che
placasse a
poco a poco i suoi pensieri mentre fissava il salone affacciato sui
grattacieli illuminati. Sembravano semplici addobbi appesi alla
vetrata, da lì, o delle sagome fittizie e intangibili
fissate sullo
sfondo di un teatrino. Più fissava quelle luci,
più desiderava
raggiungerle e immergervisi come qualche ora prima, inebriandosi del
vento sferzante e delle vertigini.
Scese le scale e
raggiunse la vetrata senza neanche accorgersi che i suoi piedi
zoppicanti l'avessero portato fin là. Oltre il vetro, in
basso,
scorgeva la strada deserta, delimitata dalle luci calde dei lampioni
e striata dai fanalini di qualche sporadico taxi di passaggio.
Poggiò la fronte sul
vetro freddo, cogliendo un fugace riflesso del suo volto, ma spinse
lo sguardo oltre la superficie lucida, verso l'orizzonte rischiarato
dal riverbero arancio della città. Rimase lì per
un tempo che non
seppe quantificare, respirando appena e fissando i contorni dei palazzi
che venivano offuscati ritmicamente dalla nebbia di condensa sul
vetro.
Quasi sperò che quella parete trasparente si dissolvesse di
colpo, spinto da un anelito che non avrebbe saputo definire, ma che
aveva lo stesso sapore della frizzante aria notturna di New York.
Supernova: *inserire nuovamente musica di Super Quark* Evento che si verifica alla morte di determinati tipi di stelle, che liberano un'enorme quantità di luce ed energia prima di spegnersi, collassare completamente e, in alcuni casi, formare un buco nero.
Note Dell'Autrice:
Salve a tutti!
Spero che abbasserete torce e forconi il tempo necessario per la filippica in mia difesa, perché mi rendo conto che ptorei aver risvegliato più di un istinto omicida in voi poveri lettori con questo capitolo... *para le mani avanti; quelle sue, quelle spaiate di Tony e quelle dei malcapitati di turno*
Vi ricordate la mia insistenza sulle fisime fisiche di Tony? Ecco, puntava tutto a questo, e mi auguro di aver costruito bene le premesse, visto che ho preferito concentrarmi sulle reazioni "a caldo" dei due sciagurati piuttosto che su elucubrazioni mentali troppo elaborate. Ah, il modo "sospeso" in cui discutono è voluto, proprio per contrastare coi vari altri faccia-a-faccia che hanno avuto nel corso della storia. Spero che la scelta di gestire così la scena risulti chiara :)
Un qualcosa che mi premeva molto affrontare ormai da un po' è la questione della salute mentale di Tony, di qui la discussione con Ian. Tony, in modo più o meno esplicito, in Phoenix soffre di depressione, oltre che di disturbo d'ansia. Non sono problemi che solitamente si risolvono con la semplice forza di volontà o con metodi fai-da-te: pur volendo mantenermi IC non mi sono sentita di propagandare un "se ne esce anche da soli" incarnato da un Tony perfettamente equilibrato dopo quello che ha subito (e che si è inflitto). Non potevo farlo andare spontaneamente in terapia, né fargli accettare un aiuto esterno vista la sua sfiducia, ma Ian mi è sembrato un buon compromesso, soprattutto legato alla richiesta di cercare poi aiuto in una figura più specializzata di lui in quel campo.
Termino qui il mio papiro di chiarimenti e rovesciatemi pure addosso
Ringrazio infinitamente _Atlas_, che dopo avermi sopportato per anni su EFP ha avuto l'onore di farlo di persona ed è riuscita a non uccidermi per quanto l'ho fatta penare; T612, con la quale è sempre un piacere scambiarsi aggiornamenti e informazioni nerd; Emyclarinet, che con le sue recensioni mi istiga ad essere ancor più cattiva con Tony e spero quindi apprezzerà il capitolo. Un grazie speciale va ad Enigmista96, che ha ripreso a seguire Phoenix dopo anni di assenza e mi ha resa felicissima nel leggere la sua inaspettata e graditissima recensione <3
Grazie di cuore, sapere che seguite sempre e vedere vecchi e nuovi lettori avvicinarsi alla storia mi spinge a dare del mio meglio per concluderla :') <3
E dopo 'sta parentesi melensa, au revoir e a presto! (stavolta davvero)
-Light-
P.S. In tutto ciò, sono ovviamente ancora in shock per Stan Lee :'( Avrei potuto dedicargli il capitolo, ma poi ho avuto un'idea migliore... 'Nuff said!
P.P.S. Il design per la nuova Mark coincide con quello della Mark 33 (Silver Centurion), ovviamente in versione rosso-oro.
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