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Autore: yonoi    18/11/2018    15 recensioni
Vietnam, 1973. Un antico tempio buddhista nel cuore della foresta. Una compagnia di uomini in ricognizione, alla ricerca di un nemico invisibile e onnipresente. Un rogo sulla piazza principale di un’antica città. Un mosaico disegnato con sabbia colorata che rappresenta il mondo e le sue sofferenze. E nell’ultima notte che precede la smobilitazione, quando ormai solo poche ore lo separano dalla partenza, un uomo che s’inoltra, da solo, nella foresta in cerca di risposte.
Terza classificata al contest “Sosta verso casa” indetto da Not_only_fairytales e valutato da Mystery Koopa.
Quarta classificata al contest "La magia delle parole, II edizione indetto da Nirvana_04 sul Forum di EFP, e vincitrice del premio "Le meraviglie dell’Universo".
Genere: Drammatico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Il Novecento, Dopoguerra
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Il tempo delle alte fiamme

           
“Promettimi,
promettimi oggi,
promettimi ora,
quando il sole è a perpendicolo esattamente allo zenith,
promettimi:
anche se
ti scagliassero contro
una montagna d’odio e di violenza,
anche se ti camminassero addosso calpestandoti
come un verme,
anche se ti smembrassero e ti sventrassero,
ricorda, fratello, ricorda:
l’uomo non è il nostro nemico”
 
(Thich Nhat Hanh, in
“L’arma del vero amore” di sister Chan Khong)
 
 
           Vietnam del Sud, da qualche parte nella foresta, febbraio 1973

          L’ordine di smobilitazione era stato formalizzato ormai da dieci giorni, ma il nostro distaccamento aveva impiegato più di tre settimane a orientarsi nell’intreccio di radici e rampicanti, scricchiolii e sussurri di una foresta che, man mano che ci si addentrava in quel luogo separato dal mondo, si chiudeva alle nostre spalle come se non fossimo mai esistiti.
            Un labirinto inestricabile di arbusti, salamandre nere e gialle, strida di scimmie che non si vedevano mai. Quella natura rigogliosa e indifferente pareva crescere in tempo reale cancellando le voci e le orme, e rinviandone l’eco sempre più in là: si avanzava in silenzio, ma quando capitava di scambiarsi qualche parola, spesso si aveva il dubbio se a parlare eravamo stati noi o qualcuno degli altri, onnipresenti dietro ai cespugli di felci, ai tronchi poderosi come colonne di pietra, sempre pronti a saltare fuori quando meno te l’aspettavi.   
            In quel mondo irreale, una cupola verde su un cielo sempre uguale, avevamo camminato fuori dal tempo, anche noi ridotti ad ombre: senza riuscire più a intercettare le comunicazioni radio e smarrendo persino le ultime ragioni del perché ci trovavamo lì, tra colonie di farfalle grandi come elicotteri, moscerini appiccicati al sudore e lucciole che di notte disegnavano strani segnali in codice, e di nuovo il timore che a piombarci addosso fossero ancora gli altri.
            Quando fu possibile riattivare i collegamenti, apprendemmo che l’ordine di smobilitazione - che da tempo era nell’aria - era stato ufficialmente diramato: tutte le unità stavano raggiungendo le basi operative per prepararsi al rientro.
            L’idea di ritornare non suscitò, lì per lì, neppure un’ombra di entusiasmo: a un tratto il nostro mondo, quello in cui esistevano città e volti noti, pareva così distante, come se non fosse mai esistito per davvero.
            Accovacciati attorno alla ricetrasmittente come una compagnia di fantasmi senza memoria - le facce grigie e gli occhi lucidi per la febbre - cercavamo di riprendere il filo dei ricordi, dei nostri luoghi d’origine, da cui eravamo partiti soltanto un anno prima: un tempo che si era dilatato a dismisura, chiudendosi su di noi come quella foresta che cancellava le tracce, l’esatta direzione, la meta da raggiungere.
            Eppure, proprio in quel momento mi ritrovai a pensare a un luogo in cui mi sarebbe piaciuto ritornare, che non era in America ma proprio in quel Paese di foreste pluviali e risaie senza fine, di fiumi acquattati come serpenti sotto al sole e tramonti di fiamme: si trattava di un tempio, a prima vista un cumulo di rovine nel cuore della foresta.
            Ci eravamo addentrati, circospetti, tra quelle mura proprio all’inizio della nostra missione di pattuglia in quella regione: alla ricerca degli altri, che secondo le informazioni ricevute avevano stabilito una base segreta tra i grandi Buddha di pietra.
            Quando vi giungemmo la prima volta, sopra di noi la notte precipitava in un crepuscolo sanguinoso. Sbucammo da un sentiero che era un viluppo di orchidee lentigginose, gigli di carne che a tagliarli buttavano un umore denso, come ferite senza rimedio.
            La prima impressione fu di un luogo abbandonato all’incuria e agli assalti della vegetazione:
indubbiamente il posto più adatto dove nascondersi, con la complicità di quella natura subdola e prodigiosa, che proliferava indisturbata e assorbiva ogni voce. 
            Le radici degli alberi s’ingrossavano fino a spezzare le scalinate di pietra, che salivano da un pianerottolo all’altro, fino a un cortile ugualmente sconnesso.
            Una fila di statue in posizione seduta, con le gambe incrociate e sui volti un sorriso appena accennato, tenevano la mano destra levata, come a volerci fermare. Non mi avvidi, a quel tempo, che la mano sinistra era aperta nel grembo e rivolta verso di noi, in un gesto di accoglienza.  
            Tutto induceva a credere che quell’ammasso di ruderi fosse disabitato: e questa sensazione, unita alle informazioni in nostro possesso, non faceva che accrescere in noi il nervosismo, l’idea che ci stavamo cacciando dentro a una trappola che presto o tardi sarebbe scattata senza scampo, chiudendoci ogni via di fuga nella notte.
            Mi voltai appena a fissare i ragazzi, le labbra serrate e i volti che dal grigio scolorivano in un bianco dissanguato: sopra di noi la luna s’era levata subito, cominciando il suo corso e rischiarando quell’angolo di mondo, per noi luogo d’insidie, come se fosse giorno.
            Un chiarore lattiginoso si posava su ogni cosa, ridestando la pietra con sfumature d’argento, le lunghe dita dei Buddha e il fruscio fitto degli alberi che si levavano tra gli edifici come pilastri.
            Tutto ciò che era intorno a noi pareva guardarci con la medesima indifferenza. Chissà perché, proprio in quel momento mi tornarono in mente i versi di una vecchia poesia:
Stanotte
la luna è piena
e raddoppia
la mia solitudine”.

 
            D’un tratto mi resi conto che, al di là della tensione e persino della paura, non mi ero mai sentito così solo nel mondo.          
            Quando oltrepassammo il piazzale custodito dalle statue dei Buddha e arrivammo al tempio vero e proprio, i nostri dubbi ormai erano diventati certezze: quel luogo era tutt’altro che disabitato, ed anzi racchiudeva una moltitudine di presenze.
            Non avvertivamo però alcun senso di minaccia: una strana suggestione si fece lentamente strada dentro di noi, mentre le avanguardie penetravano nelle sale, tutte ugualmente deserte.
            Io stesso avevo dato l’ordine di sparare al primo fremito, fosse soltanto una foglia che si muoveva: eppure, tutti rimanemmo stupiti e sopraffatti una volta arrivati alla sala principale.
            Là, il silenzio era così assordante, e talmente presente che si poteva quasi toccarlo con la mano, come se si trattasse di un corpo vivo. Nella stanza, illuminati appena dai bagliori di piccole lampade, due file ordinate di monaci sedevano nella stessa posizione dei Buddha: come i Buddha, parevano scolpiti nella pietra.
            Illuminammo a lungo i volti con le torce, cercammo di attirare la loro attenzione come al solito con le urla, immaginando che gli altri potessero essere mimetizzati in qualche angolo, o addirittura tra quelle figure imperturbabili, del tutto indifferenti alla nostra presenza.
            Non si erano neppure accorti dell’irruzione: o più probabilmente quel baluardo di silenzio, quella forza invisibile che si avvertiva nella stanza, li proteggeva da ogni minaccia.
            Di fatto, né un moto di timore né un battito di ciglia giunsero dalle file perfettamente ordinate, la schiena dritta e l’espressione concentrata.
            Nei villaggi aperti sui campi, nelle risaie simili a cieli rovesciati, eravamo abituati a vedere fuggire i contadini e i vecchi, le donne coi bambini quando eravamo ancora un punto sull’orizzonte.
            Con il sesto senso proprio degli indifesi, riuscivano a intuire la tensione nell’aria e sparivano subito, molto prima che noi riuscissimo a sorprenderli: questo animava in noi l’istinto della caccia - la fuga della preda eccita il cacciatore.
            Ma quella sera, dinanzi a quelle figure impassibili, restammo disorientati.
            Qualcuno dei ragazzi s’inoltrò tra le file in perlustrazione, con la chiara intenzione di molestare qualcuno per spingerlo a reagire, ma io lo richiamai indietro: quel clima raccolto e senza inquietudine, che lentamente si chiudeva su di noi come un mare tranquillo, d’un tratto mi ispirava un senso di soggezione.
            I monaci sapevano della nostra presenza: anche se la maggior parte teneva gli occhi chiusi o fissi in un punto senza incontrare il nostro sguardo, io avvertivo in pieno la loro mite benevolenza, che si posava su di noi come una benedizione. Per la prima volta, da quando mi trovavo in questo Paese a mille anni da casa, dove tutti ci odiavano e non era un mistero, mi sentii accolto senza che fosse pronunciata una sola parola.
            Forse tutta la rabbia che ci portavamo addosso proprio come le zanzare appiccicate al sudore, nasceva proprio dall’odio che respiravamo ogni giorno, che penetrava nella pelle come un veleno: gli altri ci odiavano perché faceva parte della loro ideologia, i civili ci odiavano perché la distruzione ci accompagnava ovunque, facendo tabula rasa di tutto ciò che incontravamo nel nostro orizzonte - campi di riso, animali, villaggi. Persino noi ci odiavamo perché ci comportavamo da bestie, anche se nessuno l’avrebbe mai ammesso e ufficialmente la colpa era sempre degli altri.
            Uscimmo alla spicciolata dalla sala, ci radunammo in cortile come scolari in attesa paziente dei loro maestri.
            Di lì a poco, il suono di una campana segnò il termine della sessione di meditazione.
            Era una campana diversa da quelle del mio Paese, un tintinnio seguito da una lunga vibrazione che parve prolungare all’infinito il silenzio, levarlo in cerchi e onde sonore fino al cielo, che era un manto d’argento sopra a cui galleggiava una luna spropositata.
            Così grande la luna, più grande la solitudine, pensai a un tratto ricordando ancora quella poesia letta sui banchi di scuola. Eppure, in quel momento, non mi sentivo più solo e vai a capire perché. 
            In breve, il tempio si animò. Il silenzio cambiò d’aspetto e divenne fermento, mentre i monaci tornavano alle loro occupazioni. Nel cortile uscì un giovane, sulle spalle una stanga che bilanciava alcuni secchielli di sabbia: una polvere fine e cosparsa di minuti cristalli minerali, che alla luce lunare splendevano come gemme. Con cura e senza fretta, il giovane posò a terra il suo carico quando uno dei miei ragazzi si fece avanti per bloccarlo, con le quattro parole - sempre quelle - che avevamo imparato nella lingua locale: ehi tu, fermati, dimmi dove sono gli “altri”, sappiamo che sono qui, dimmelo o ti ammazzo, e poi il ritornello ricominciava dall’inizio e cambiava soltanto il volume della voce, qualche volta la sequenza delle strofe, che tanto il risultato era sempre lo stesso.
            Di solito, nessuno sapeva niente e a sentir nominare gli altri ci sgranavano gli occhi in faccia: ma noi sapevamo bene che gli altri erano ovunque, nei villaggi della pianura, nei templi e sulle montagne, mescolati ai civili proprio come le zanzare che ci assalivano a ogni ora della notte e del giorno. E allora la filastrocca continuava con un’altra strofa dello stesso tenore, se tu non sai allora noi vi ammazziamo tutti, e il resto era soltanto musica di sottofondo.     
            Quella sera richiamai indietro il soldato:
            -“Lascialo in pace, andiamocene”-  
            Il giovane monaco ci salutò con le mani giunte. Riprese il suo carico in equilibrio sulle spalle e io lo seguii con lo sguardo, mentre si dirigeva verso un altro edificio. Sollevò appena una tenda, e vidi un gruppo di anziani intenti ad eseguire un complicato disegno sopra a una tela disposta sul pavimento: un mosaico di sabbia colorata e finissima, che scendeva da una sorta di cannuccia producendo uno scricchiolio fragile, che ricordava il canto dei grilli in piena estate.
            Il mosaico era un complicato intreccio di linee, sfumature che pareva impossibile realizzare con un pugno di sabbia e che dal blu passavano all’azzurro del cielo e al verde delle foreste, al bianco dei fiori di loto che sbocciavano negli stagni, al rosa limaccioso dei grandi fiumi al tramonto: tutto ciò che in quella terra vi era di splendido trovava posto in quel disegno che evidentemente rappresentava il mondo visto dall’alto, e doveva richiedere un lungo e paziente lavoro, forse di settimane.
            Gli anziani erano chini con le loro cannucce di grani colorati, assorti come se avessero a loro disposizione tutto il tempo del mondo.
            Nei secchielli portati dal giovane novizio la polvere era bianca con sfumature d’argento: pareva caduta direttamente da quella luna immensa che galleggiava appena sopra di noi, che potevamo quasi sfiorare con la mano mentre eravamo intenti a scendere di nuovo la scalinata del tempio, per riprendere il nostro cammino nella foresta.
 
******
 
“Il Re della Medicina era un essere
dall’enorme compassione:
vedeva che intorno a lui
c’erano enorme sofferenza, povertà e crudeltà.
Come offerta si versò addosso dell’olio profumato,
si diede fuoco e si lasciò bruciare dalle fiamme.
Il suo corpo impiegò milioni di anni a bruciare:
il suo corpo che bruciava era un silenzioso memento
di cosa lui fosse disposto a sacrificare”
 
(Thich Nhath Hanh, “Il dono del silenzio”)
 
            Città di Hue, alcuni mesi prima, nei pressi della piazza del mercato
           
         Era il tempo delle alte fiamme, e io avevo l’impressione di vederle dappertutto: ardevano le foreste, le palme esplodevano come fuochi artificiali, piegavano il capo lasciando cadere i loro rami come lingue di brace. Sulle sponde del fiume si specchiavano i salici, i canneti come colonne che reggevano il cielo accendevano torrenti di fiamme. Gli arbusti del sottobosco si appiccavano il fuoco a vicenda, lanciandosi i lapilli come in una staffetta.
         L’umidità evaporava formando una cappa irrespirabile: non era ancora la fine del mondo, ma ci andava molto vicino.
      Poi un giorno, sulla piazza principale della città vecchia di Hue, mi trovai ad assistere a uno spettacolo sconvolgente: un monaco bruciava, seduto sul marciapiede senza battere ciglio, le gambe incrociate e la schiena diritta, nella consueta posizione della meditazione.
         A una prima occhiata, mi era sembrato che si trattasse di una statua: finché l’odore della carne non mi aveva raggiunto, mi ero domandato come mai gli abitanti di quello strano Paese bruciassero per le vie le statue dei loro Buddha.
          Quando da un impercettibile movimento del capo mi resi conto che ad ardere non era una di quelle statue dal mezzo sorriso, ma un essere in carne e ossa, mi sentii tutt’a un tratto prigioniero di un incubo.
          Di più, si trattava di una donna: una di quelle creature minute che sparivano sotto ai grandi cappelli a cono, chine nelle risaie, e parevano tutte bambine anche quando portavano un figlio sulle spalle e altri due o tre attaccati alle gonne. Doveva essere giovanissima, quasi un’adolescente: anche se indossava la stessa veste dei monaci e aveva come loro il capo rasato, quando una delle fiamme si scostò dal suo volto notai chiaramente i lineamenti aggraziati, le mandorle dolci degli occhi.
           Il fuoco l’avvolgeva e lei restava là, come se a muovere appena l’orlo della sua veste fosse soltanto il soffio di una brezza improvvisa.
           Attorno capannelli di gente che guardava, in perfetto silenzio: nessuno si preoccupava di intervenire per estinguere le fiamme, salvare quella creatura che ardeva come un giunco. Più oltre, il traffico proseguiva come sempre: un intreccio caotico di auto e biciclette, ovunque cappelli a cono, risciò e sacchi di riso, bufali d’acqua che caracollavano lenti sotto al peso dei carichi, le corna a mezzaluna e negli occhi le distese pacifiche delle risaie.
         Più oltre, il mercato con banchetti di frutta e verdura, piramidi di cocomeri, il giallo delle banane. L’odore delle frittelle cotte per strada si mescolava a quello della carne che bruciava.
          Avevo l’impressione di muovermi dentro a un sogno, in una dimensione fuori dalla realtà: per un attimo, mi sembrò addirittura che gli occhi della monaca si aprissero posando su di me il loro sguardo, tra ciglia di fiamme. Ero letteralmente stordito, e lo fui ancor di più quando notai in quegli occhi, umidi e dolci come quelli dei bufali, qualcosa che né allora, e forse neppure oggi, saprei definire con maggiore precisione: un fiume di tristezza e di compassione, amore per il mondo e per me che sostavo immobile all’angolo di una strada, proprio di fronte a lei, la monaca fiammeggiante.
          In quello sguardo era racchiuso tutto ciò che in quei mesi avevo sempre fatto finta di non vedere, e che ora mi veniva incontro senza rimprovero, senza nessuna accusa, mostrandosi in maniera totalmente disarmata: e per questo, forse, faceva ancora più male.
           Vidi tra quelle ciglia ormai ridotte in cenere la stessa disperazione muta dei contadini, come alberi spogli sulle aie dei loro villaggi: le braccia attorno agli occhi sgranati dei figli piccoli quando appiccavamo il fuoco alle loro capanne, per punirli di avere offerto un pugno di riso agli altri.
          Quel pianto a capo chino a cui tentavamo puntualmente di sottrarci, voltando loro le spalle e continuando a cercare gli altri in mezzo alla paglia, nei recinti degli animali, persino sotto ai giacigli degli ammalati, adesso era lì: era dinanzi a me e mi fissava dolente ma senza collera, perché sopra a ogni cosa regnava quella piena infinita di compassione, di pena e condivisione.
           La monaca bruciava esattamente come - in quel preciso momento - il suo Paese era in ginocchio in mezzo al fuoco: e fu a quel punto che mi sembrò di avvertire un profumo dolcissimo - qualcosa di molto simile a una fragranza d’incenso - uscire da quel rogo, in cui la figura della giovane lentamente svaniva, era ormai poco più di un’ombra.
            Ricevetti una spinta da un tizio armato di macchina fotografica, un reporter dei nostri: insieme a lui ce n’erano molti altri, inviati di diverse nazioni, che scattavano foto a ripetizione. In quel momento tornai a rivedere la strada, a sentire le voci e gli odori del mercato, uscendo da quello stato visionario simile a un incantesimo:
           -“Ma fate qualcosa, no?”- ricacciai indietro il fotografo, me la presi con lui proprio perché era dei nostri, e avrebbe dovuto provare lo stesso sentimento che mi stava facendo il vuoto nella testa, nello stomaco, in ogni dove: un sentimento a cui in realtà non sapevo dare un nome, se era orrore oppure tormento, ma che stava sfociando in rabbia molto rapidamente.
           -“Che c’è, non ha mai visto uno spettacolo come questo? Da quanto è qui… sergente?”- il reporter riservò un’occhiata sarcastica alle mostrine della mia uniforme -“questa gente si dà fuoco continuamente, ogni giorno e quasi a ogni angolo di strada c’è un arrosto. È il loro modo di protestare, e come vede ormai nessuno ci fa più caso”-
            Non era vero neppure questo: attorno alla monaca in fiamme si era radunata una piccola folla devota, che pregava e s’inchinava come di fronte alle statue del Buddha.
            Il reporter fece il gesto di picchiarsi la testa con la punta del dito:
            -“Da noi fanno i cortei, qui fanno i sit-in con benzina e fiammiferi. Paese che vai… però le torce fruttano sempre bene. C’è chi paga per queste foto, anche se ormai non sono più una novità. E c’è anche chi è disposto a pagare perché nessuno le veda”-
          A quel punto fu decisamente la rabbia a prendere il sopravvento: in realtà non sapevo da quale parte stavo, se stavo difendendo me stesso o la piccola monaca, e tutto ciò che di puro mi era stato consegnato dal suo ultimo sguardo. Fatto sta che scagliai la macchina fotografica del reporter in mezzo alla strada, e cominciò una rissa che altri ebbero cura di riprendere in tempo reale, e che finì anch’essa per fare il giro del mondo, sulle prime pagine dei giornali.
           L’intera faccenda a me non fruttò neanche un dollaro, bensì quindici giorni di punizione e il mandato per l’operazione nella foresta, con la prospettiva e probabilmente l’augurio di non fare mai più ritorno.
           Passai la mia consegna a vuotare latrine, strofinare latrine e poi ricominciare un’altra volta daccapo. Dentro di me, una strana calma che superava ogni cosa. In seguito fui assegnato a un’unità che si occupava del riconoscimento e del rimpatrio dei caduti. Il fetore dei morti sigillati nei loro sacchi era ancora peggiore, eppure sopra a tutte le miserie del mondo io continuavo ad avvertire il tepore dell’incenso: quella fragranza fruttata mi seguiva ovunque e non si arrendeva ai miasmi delle latrine, né alla decomposizione spaventosa dei morti. Più che perseguitarmi, riportandomi all’incubo della monaca fiammeggiante, quella fragranza persistente mi parlava.
            Ma cosa volesse dire, non ero assolutamente in grado di comprenderlo.
            Dovevo tornare all’antico tempio nella foresta per riuscire a scoprirlo.
 
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            L’unico gesto degno di te è la compassione:
invincibile, illimitata, incondizionata.
L’odio non ti farà mai affrontare
La bestia nell’uomo”
(Thich Nhat Hanh, in
“L’arma del vero amore” di sister Chan Khong)
 
            Campo base americano, fine febbraio 1973
           
          Una volta rientrati dal nostro incarico di pattuglia nella foresta, ogni altra operazione era stata formalmente rinviata a data da destinarsi: di fatto sapevamo che molti contingenti avevano già iniziato le operazioni di imbarco, e che ben presto sarebbe venuto anche il nostro turno. La partenza era imminente, si attendeva soltanto il via libera ufficiale.
            Alla base c’era aria di smobilitazione: una volta superato l’incubo della foresta e recuperato l’orientamento tra i ricordi della vita di prima, le chiacchiere dei ragazzi sorvolavano l’oceano ed erano già sulla pedana del campionato di baseball, alla scrivania di casa per riprendere in mano i testi universitari, a zonzo con gli amici o a cercare lavoro.
            Ai pochi che volevano restare nell’esercito si augurava di mangiare riso e cavallette fino alla morte, e le più indicibili fantasie riguardavano le ragazze e tutto quello che sarebbe successo sui sedili reclinabili delle auto, nei prati dietro ai campus, sulle spiagge di notte e in tutti gli altri innumerevoli posti in cui sarebbe stato possibile ottenere un giusto risarcimento dopo mesi di angosce.
            Trascorsero così i nostri ultimi giorni, tra cassette di birra scovate chissà dove, porzioni extra di hamburger servire dal cuciniere che doveva a tutti i costi smaltire le scorte: finché arrivò la comunicazione ufficiale che indicava il giorno e l’ora previsti per la partenza.
            Domani alle ore cinque e trenta antimeridiane, farsi trovare pronti per l’imbarco sugli elicotteri. Rientro via mare previsto alla stessa ora del giorno successivo.            
            Anch’io avevo già preparato lo zaino, e lo lasciai ordinato ai piedi della branda in quell’ultima sera, quando mi allontanai dalla base operativa e mancavano solo poche ore alla partenza.
            In quell’ultima notte che mi accingevo a trascorrere in quel Paese che non ero mai riuscito a comprendere veramente, provavo addirittura un’ombra di nostalgia: ero deciso a dare un senso a quanto avevo vissuto, più che cercare di dimenticare e guardare avanti. Volevo ritrovare quella calma solenne che ci aveva sorpreso nel tempio della foresta, tra le file dei monaci che alla nostra irruzione avevano risposto con la pura benedizione del loro silenzio.
            Desideravo scoprire i segreti del mondo nascosti nelle trame di quel misterioso mosaico di sabbia, che i monaci componevano con la faccia china a terra e una devozione che non avevo mai visto altrove: eppure era solo polvere, e sarebbe bastato un filo di vento per cancellarlo senza lasciare alcuna traccia.
            Né avevo dimenticato quell’atto di coraggio consumato con grazia all’angolo di una strada: dentro di me intuivo che in quel gesto estremo, che la monaca fiammeggiante aveva compiuto sulla piazza del mercato, in mezzo alla confusione dei banchetti di frutta, alle gabbiette delle galline e all’odore delle frittelle, c’era un significato importante da cogliere, che andava ben al di là di una semplice protesta. La monaca aveva bruciato per un tempo incalcolabile, e in tutto quel tempo ci aveva tenuto un discorso che io, troppo impegnato a reagire con rabbia, non ero riuscito a comprendere.
            Né vi sarei riuscito, molto probabilmente, neppure con tutta la calma e la concentrazione del mondo.
            Uscii all’aperto e presi la via della foresta.
            Sopra di me la luna si scioglieva in una caligine da cui affioravano luminose le stelle, piccole luci che tremavano appese ai rami degli alberi.
Stanotte
la luna è piena
e raddoppia
la mia solitudine”.

 
            Ero di nuovo solo, ma la mia era la solitudine dell’attesa: alla base, i ragazzi attendevano di ritrovare i volti e le voci della loro vita di prima. Io m’inoltravo nella foresta come in un enigma, e mi auguravo solo che anche gli altri sapessero che la guerra era finita, perché sarebbe stato proprio uno scherzo amaro trovarmeli di fronte in quest’ultima notte: soprattutto, avrei perso definitivamente l’occasione per avere le mie risposte.
            L’oscurità era piena di voci: accidentata di inciampi, radici e massi erratici che parevano sorgere tra i piedi all’improvviso, era allo stesso modo un intreccio di gridi, di richiami di uccelli e scricchiolii di insetti. Dai rami, tutt’a un tratto, il balzo di una scimmia, e di nuovo il timore degli altri in agguato.  
            Fin qui, nulla di strano: man mano che avanzavo, tuttavia, cominciai ad avvertire un cambiamento nella fisionomia dei luoghi e nella stessa consistenza dell’aria, in cui si alternavano ventate d’aria fredda - per via della mancanza di vegetazione a terra - e un sentore di fumo, di polvere e di bruciato negli strati più bassi, quelli radenti al suolo. 
            Attorno a me, la foresta iniziava man mano a diradarsi, la sua cupola verde mostrava lunghe crepe e segni di crolli: molte piante apparivano arse fino alle radici, il sentiero era intralciato dalla caduta dei tronchi, mutilati e anneriti da un incendio recente. Le palme altissime avevano perduto l’equilibrio, oltre a tutta la chioma, e si reggevano a stento appoggiandosi alle più vicine.
            In quella galleria rigogliosa di verde, dove solitamente si faticava a vedere la luce del giorno, non una sola foglia, né un ramo di palma chiudeva la vista del cielo. 
            Mi resi conto allora che stavo camminando ai margini di un’immensa ferita aperta.
            Quando arrivai al punto che la mappa indicava come sito del tempio, trovai un cumulo di macerie: al posto della lunga scalinata circondata dai tronchi come colonne, un’immensa voragine di terra e calcinacci. Gli edifici superiori, il cortile circondato dalle statue dei Buddha, la grande sala riservata alla meditazione, erano rasi al suolo: ormai relegati in una dimensione fuori dal mondo, non c’era modo di accedervi neanche arrampicandosi sulle radici divelte e voltate in aria, sulle pareti franate, sui pezzi di pavimento che ancora, qua e là, mostravano i loro antichi fregi.
            Stavolta nessuna voce di propaganda risuonava nella mia testa, per dire che quell’assoluta desolazione, quella devastazione nel cuore della foresta era colpa degli altri. Eravamo stati noi, senza ombra di dubbio: mi assalì il disgusto e, senza neppure accorgermene, continuai il mio percorso in maniera ormai del tutto casuale.
            La luna era quasi sul punto di tramontare quando arrivai a uno spiazzo, una radura immersa in quella luce lattea che illuminava a giorno le notti di questo Paese, che solo tra poche ore avrei dovuto abbandonare per sempre.
            Guardai l’orologio e il tempo a mia disposizione stava ormai per scadere: se non volevo perdere l’orario dell’imbarco e rischiare un’accusa di diserzione proprio a guerra finita, era giunto il momento di ritornare indietro. Specie considerando che non sapevo più in quale parte della foresta mi trovavo.
            Incerto sul da farsi, levai lo sguardo e mi venne incontro una statua del Buddha che teneva una mano levata, e l’altra posata in grembo in un gesto sereno. La statua non era ritta sul suo piedistallo ma conficcata nel terreno, puntellata da un lato perché restasse dritta.
            Capii che si trattava dell’unico Buddha scampato alla distruzione del tempio, tutto ciò che restava dopo il bombardamento.
            Poco più in là, un accampamento di fortuna, e nel verde dell’erba schiarita dalla luna un monaco s’inchinava verso di me con le mani giunte.
 
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“Ciò che seminai nell’ira
crebbe in una notte, rigogliosamente
ma la pioggia lo distrusse.
Ciò che seminai con amore
germinò lentamente
maturò tardi
ma in benedetta abbondanza”
(Peter Rosegger)
           
            La polvere della terra e un discorso senza parole
 
            Nella tenda più grande, evidentemente adibita a sala di ritrovo per la comunità, erano solo due gli anziani chini con le cannucce a completare un mosaico ancora più grande e più bello di quello che avevo visto quella notte nel tempio.
            -“Molti nostri fratelli sono morti nell’incursione”- spiegò il monaco giovane, quello che mi aveva rivolto il saluto all’ingresso nella radura. Non potevo esserne certo - ai nostri occhi quei volti si somigliavano tutti - ma forse si trattava proprio di quel novizio che in un tempo che ormai mi pareva lontanissimo aveva portato sulle spalle i secchielli di sabbia.
            -“Le bombe sono cadute proprio durante la meditazione della sera. Non se ne sono neppure accorti”- pensai che noi, quei monaci, li avevamo risparmiati, a quanto pareva invano.
            Ma il giovane novizio era di un altro avviso:
            -“Lasciare questa vita mentre sei immerso a contemplare la Terra Pura del Buddha è certo un grande merito. Sicuramente avranno una rinascita fortunata, e magari qualcuno di loro avrà raggiunto l’illuminazione proprio in quel momento”-
            Io di quei discorsi capivo poco e niente, se non che tutto questo entusiasmo di fronte a un destino ingrato mi irritava non poco. Il mio interlocutore sembrò leggermi nella mente:
            -“Quando ero uno studente di liceo nella città vecchia di Hue, ero pieno di rabbia perché il nostro Presidente, appoggiato da voi, perseguitava i buddhisti e pretendeva che si convertissero alla vostra religione. Poi arrivarono i comunisti, e anche loro pretendevano di cancellare le tradizioni che ci hanno trasmesso i padri dei nostri padri. Ma studiando gli insegnamenti del Buddha, ho compreso che le ideologie - e tutte le idee in genere, persino quelle buone - sono come la polvere della terra, che il vento cancella nello spazio di un attimo e nessuno più le ritrova.
            Quando incontrai il mio maestro, mi disse queste parole: ricorda, fratello, qualunque cosa accada l’uomo non dovrà mai essere nostro nemico. L’odio non ti permetterà mai di vincere l’ingiustizia: produrrà solo altro odio, in una catena infinita. L’unico gesto che il Buddha insegna, l’unico che davvero porta frutto, è la compassione”-
            Capivo ancora meno, ed anzi cominciavo a sentirmi a disagio.
            Accettai un sorso di thè in una povera tazza, ricavata da un guscio di cocco. Rinfrancato da quel tepore, trovai finalmente il coraggio di confidare:
            -“Tempo fa, sulla piazza della città di Hue, vidi una donna - una monaca come voi - avvolta dalle fiamme come una torcia. La vidi bruciare in mezzo al chiasso del mercato, e mi fece una grande pena. È questa, la compassione?”-
            -“La monaca My Lai apparteneva a un tempio presso cui i nostri maestri hanno insegnato spesso. Ma credimi, non era assolutamente sua intenzione suscitare pena o disgusto con il suo gesto. Sul ciglio della strada, My Lai come molti altri prima e dopo di lei, ha pronunciato il suo insegnamento: ha tenuto un lungo discorso senza parole”-
            Ero sconcertato, eppure in fondo l’avevo sempre saputo.
            Ricordavo la luce del suo ultimo sguardo: quegli occhi così colmi del dolore del suo popolo che forse il fuoco s’era acceso spontaneamente, tanto grande era l’angoscia che s’era caricata sulle spalle ancora infantili.
            -“Potrà sembrarti strano”- continuava il giovane monaco -“eppure My Lai, la monaca fiammeggiante, parlava proprio a te, e io so che hai compreso il senso del suo discorso. Parlava a te e a tutte le potenze del mondo e raccontava una storia, quella delle nostre sofferenze, delle crudeltà in questo paese, dell’ingiustizia e della paura che nessuno voleva vedere. Ti ha costretto a fermarti, e so che le immagini del suo sacrificio hanno fatto il giro del mondo: hanno parlato a molti, e nessuno ha potuto distogliere lo sguardo e far finta di niente”-
            -“Quindi si è suicidata pubblicamente per la disperazione?”-
            Il monaco sorrise. Prese dalle mie mani il guscio di cocco ormai vuoto, e lo fece con una gentilezza così amorevole che la mia confusione aumentò ulteriormente.
            -“Non è proprio così. Nei vostri Paesi la gente si toglie la vita per mancanza di coraggio, di forza, di energia. Noi abbiamo l’esempio del Re della Medicina - una figura che voi direste leggendaria, di cui parla il Sutra del Loto, uno dei nostri testi sacri.
            Il Re della Medicina era un essere illuminato, e quando sei illuminato la tua sensibilità si accresce a dismisura: non puoi più rimanere indifferente alle miserie del mondo, le senti nella tua carne, e al tempo stesso non ti identifichi più col tuo corpo, il tuo corpo è il corpo di tutti. E lo strazio di tutti gli esseri ti appartiene: uomini, piante, animali. La nostra foresta devastata dai defolianti, dalla guerriglia, dalle bombe. I nostri animali uccisi dalle vostre rappresaglie, e da quelle degli altri. I genitori che piangono i figli, i bambini ustionati che fuggono dai villaggi dati alle fiamme. Così un giorno il Re della Medicina compì un’offerta, e in quest’offerta volle donare tutto ciò che possedeva: si cosparse di olio profumato e si lasciò avvolgere dalle fiamme.
            Si dice che il suo corpo impiegò milioni di anni a bruciare, e in tutto quel tempo il suo sacrificio parlò, parlò della sofferenza e della necessità di porvi rimedio.
            Il primo a imitarlo fu un nostro grande maestro, all’epoca delle prime persecuzioni contro i buddhisti in Vietnam: forse tu non lo sai, ma tutto ciò che rimase di lui dopo l’immolazione fu il suo cuore intatto. Il fuoco, per rispetto, si rifiutò di consumarlo[1]”-
            Accanto a noi, i vecchi monaci lavoravano chini con le loro cannucce: dosavano l’esatta misura della sabbia strofinando la cannuccia con un bastoncino, ed era quel rumore, non stridente ma dolce come una sorta di accompagnamento musicale, che tempo addietro mi aveva ricordato il canto dei grilli nelle notti di luna. Altri confratelli arrivarono alla spicciolata, per ammirare il mosaico che era appena al suo inizio.
            -“Vedi, anche quell’opera in realtà è un lungo discorso: il mandala è un’arte praticata dai nostri confratelli del Tibet”- solo in quel momento notai che gli anziani intenti al lavoro indossavano tonache di foggia differente, e anche i loro volti erano molto diversi da quelli dei vietnamiti. Soltanto la mitezza, e la malinconia che scavava rughe profonde, erano esattamente le stesse.
            -“I fratelli tibetani sono esuli nel mondo, il loro Paese è occupato, non possono praticare liberamente il buddhismo, e anche di questo parla il mandala che stanno realizzando”-
            -“Un disegno sulla sabbia che non vedrà mai nessuno? Pensate che qualcuno verrà fin qui a fotografarlo?”
            Il giovane monaco non raccolse la mia provocazione:
            “Non pensiamo nulla del genere. L’energia del mandala non ha bisogno di intermediari: essa parla da sé”-
            Ci avvicinammo all’opera, che i monaci tibetani stavano realizzando chini sulle ginocchia, sull’umile terriccio battuto del pavimento: rimasi stupefatto di fronte all’armonia delle linee, dei colori e alla complessità dell’insieme. E davvero, a guardarlo, si percepiva un senso di pace.
            -“Questo particolare disegno rappresenta il mandala della Sapienza. Simboleggia l’importanza di conseguire la saggezza e di utilizzarla per combattere l’odio, la rabbia e la violenza. Come i vari colori s’intrecciano e si fondono l’uno nell’altro, dando vita al mosaico, così anche le creature sono strettamente dipendenti l’una dall’altra, e la sofferenza di una si ripercuote su tutte. Il mandala ci rammenta che solo la saggezza può porre fine ai mali del mondo, e proprio come il sacrificio di My Lai - la monaca fiammeggiante - si tratta di un insegnamento senza parole”-
            Continuavo a fissare le linee circolari, a tratti vorticose di quel disegno. Di nuovo l’armonia mi parlava della bellezza, raccontava l’incanto della natura di questo Paese ma anche lo splendore selvaggio della mia terra: il rosso fuoco dei canyon avvolti nel tramonto come in un mare di luce; il fragore delle cascate, le acque trasparenti che levano scintille nella piena luce del giorno; la neve alta sui monti e il rombo dell’oceano sulle spiagge della mia infanzia.
            Ma c’era un’altra luce, fuori dalla capanna, che ora mi chiamava: quella tersa dell’alba.
            D’un tratto mi riscossi: la partenza degli elicotteri diretti alla base operativa centrale era prevista per le cinque e trenta precise. Nella baia, le nostre navi addette al trasporto truppe avrebbero continuato a salpare per molti mesi ancora, ma io desideravo davvero ritornare?
            Uscii dalla capanna, e la luna era poco più che una nube che si dissolveva nell’alba.
            Il canto degli uccelli riempiva la foresta, e tutti i suoi sentieri mi parevano familiari.
 
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"Le stelle e la luna sono sempre splendide
Nelle notti serene.
L’alloro è ancora verde,
la tuia ondeggia delicata alla brezza.
Anche abbiamo perso la nostra patria,
i fiori di susino sulla collina
ci offrono ancora ospitalità”
(Thich Nhat Hanh, in
“L’arma del vero amore” di sister Chan Khong)
 
            Epilogo: un sacchetto di polvere
           
           Sei settimane dopo, grazie alle offerte provenienti dai villaggi vicini, iniziarono i lavori di ricostruzione del tempio nella foresta, e di nuovo il cortile si adornò delle statue dei Buddha di pietra, con la mano destra levata e l’altra posata in grembo. Ora sapevo che quella mano alzata non era rivolta contro i visitatori indesiderati, quasi a volere impedire l’accesso nel luogo sacro.
            In realtà si trattava di un segno di benvenuto, e anche di protezione.
            La mano aperta nel grembo significava invece apertura e accoglienza, e anche compassione.
            Di nuovo quella parola destinata a tornare così spesso nella mia vita, che non significava provar pena per gli altri, ma il semplice desiderio che tutti siano liberi: liberi dal dolore, consapevoli del fatto che ognuno di noi è profondamente legato all’altro, proprio come le radici di uno stesso albero.
            Fu in quel periodo che la comunità si riunì per la cerimonia di distruzione del mandala.
            All’inizio ero rattristato all’idea che quella meravigliosa opera, costata lunghe ore e mesi di lavoro, dovesse essere distrutta con un solo gesto della mano, come un castello di sabbia costruito in riva al mare. Ma il mio amico monaco, che adesso era anche mio compagno di noviziato, mi spiegò il significato del rituale:
            -“Distruggere il mandala non serve a rendere inutile il lavoro di mesi. Durante questo tempo, il mandala della Saggezza ha svolto la sua funzione di insegnamento. Ci ha anche aiutato ad acquistare la pazienza necessaria per realizzarlo. Ma noi sappiamo che la vita è cambiamento: ricordarci di questo ci aiuta a non attaccare il cuore alle cose che passano, ad accoglierle quando vengono e a lasciarle andare quando è giunto il momento”-  
            E che tutte le cose sono destinate a mutare in maniera continua, lo imparai quando vidi gli splendidi colori e le trame del mandala ridotti a un pugno di polvere: i monaci raccolsero la sabbia che formava un miscuglio indistinto, la chiusero in un sacchetto e l’affidarono al fiume, il cui corso incessante ricordava il fluire continuo della vita.
            Io stesso potevo testimoniare che nel corso dell’esistenza di un uomo possono accadere cose che non si sarebbero mai immaginate: e forse fu per questo - perché io stesso ero un clamoroso esempio di cambiamento - che, sulla riva del fiume, i monaci misero quel sacchetto nelle mie mani.
            Mi chinai a specchiarmi nell’acqua, e accanto a me c’era il volto sorridente dell’altro novizio: l’unica differenza tra noi stava nel fatto che io ero più alto e ben piantato, e infatti i lavori pesanti del monastero - trasportare le travi e le mattonelle del pavimento, su e giù con la carriola - toccavano sempre a me.
            In fondo era anche giusto, considerato che eravamo stati noi a distruggere tutto.
            Seguii con lo sguardo il percorso del sacchettino che si allontanava dondolando sul pelo dell’acqua, finché non diventò un punto sull’orizzonte e poi non lo vidi più.
 
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[1] Il primo monaco a immolarsi, l’11 giugno del 1963, fu il maestro Thich Quang Duc. Faceva parte di un gruppo di attivisti, monaci e laici, che si battevano in maniera non violenta per ottenere dal Presidente Diem, cattolico, la fine della persecuzione contro i buddhisti.  Quando furono celebrati i funerali di Thich Quang Duc e ne furono cremati i resti, il cuore resistette intatto ad una prima e a una seconda cremazione.
  
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