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Autore: melloficent    19/11/2018    1 recensioni
Albus sapeva quanto poco Gellert lo amasse. Una parte di lui sicuramente lo faceva, ma l’altra non avrebbe esitato a combatterlo per il bene superiore.
Non gli importava.
Preferiva che le sue mani gelate continuassero a ghiacciargli il corpo e, magari, anche il cuore.
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[ Albus centric | one sided? kind of | Gellert/Albus ]
Genere: Generale, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, Gellert Grindelwald | Coppie: Albus/Gellert
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dai Fondatori alla I guerra
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amor, ch’a nullo amato amar perdona.
 
Le mani di Gellert erano sempre fredde, congelavano la pelle di Albus ogni volta che lo sfiorava e facevano fiorire la pelle d’oca in ogni punto su cui le sue dita si posavano.
Ad Albus quel freddo piaceva. Era familiare e confortante, gli risvegliava i sensi e lo faceva sentire un po’ più vivo.
In realtà Gellert sembrava essere fatto interamente di ghiaccio; i capelli chiari incorniciavano la pelle diafana, su cui facevano capolino gli occhi cerulei. Certe volte aveva paura che si sciogliesse, quando era fra le sue braccia.
Eppure in lui c’era un fuoco difficile da trovare altrove, bruciava di passione per ciò che faceva e Albus non poteva fare a meno che ammirarlo risplendere come il sole. C’era stato un tempo in cui aveva genuinamente creduto in lui, nel bene superiore di cui portava il vessillo.
Gellert era anche malvagio nel profondo, ma sapeva mascherare bene la sua anima che marciva poco a poco. Albus non era riuscito a vedere il putridume che cresceva progressivamente in lui; come tutti gli altri, vedeva la facciata. Eppure credeva di saper leggere bene le persone, di riuscire a scorgere le loro vere intenzioni nel profondo.
Era annebbiato dal potere –il bisogno di controllare gli altri, di imporsi su di loro. Per il loro bene, era la sua fallimentare giustificazione, e per il bene superiore. La verità era che Albus era egoista come tutti gli altri-. E dall’amore.
Amor, che move il sole e l’altre stelle.
Che forza meravigliosa, pensava, la più potente di tutti.
Gellert era ormai la ragione di vita di Albus, la sostanza del suo respiro e la luce che illuminava i suoi occhi e le sue giornate, e l’altro era aggiogato a lui dal più profondo dei sentimenti. Non fedeltà, interesse personale, paura, necessità, ma amore, puro e semplice. E tutti gli altri messi assieme.
C’era stata da subito una certa affinità fra loro due. Due menti brillanti, accomunate dagli stessi interessi e costrette nello stesso patetico paesino inglese, che volevano il bene dell’umanità tutta non potevano che unirsi e concepire qualcosa di grandioso. Due egoisti, assetati di potere e prestigio, che si credevano –a buona ragione, per altro- superiori agli altri non potevano che allearsi e creare qualcosa di mostruoso.
Due idealisti, innamorati dei loro principi, non potevano che trovare una giustificazione a tutto questo.
Se Gellert riusciva a mascherare quanto di marcio c’era il lui agli altri, Albus riusciva a mascherarlo a sé stesso, mentre era sotto gli occhi di tutti, che non si preoccupavano di vederlo –Aberforth sì, invece. Aberforth aveva scorto la sua sete di potere prima di tutti gli altri.
Era stata questa la ricetta della loro grandiosità e allo stesso tempo della loro disfatta: due supernove destinate a collidere e ad esplodere, distruggendosi a vicenda.
Albus tutto questo non l’aveva realizzato ancora, l’amore ancora l’accecava.
In Gellert, più che l’uomo dall’anima putrefatta che era, vedeva il ragazzo dalle intenzioni pure e un po’ machiavellico di cui si era innamorato.
Incrociò gli occhi castani con quelli ghiacciati dell’altro, appena intorpiditi dal sonno e dal molle ozio in cui erano crollati, sul letto della camera semibuia che era ormai il loro quartier generale.
-Albus?- chiese piano Gellert, che tuttavia conservava un tono deciso. L’altro posò lo sguardo sul biondo, che aveva una guancia poggiata sul suo petto.
-Dimmi.- rispose posando una mano sulla sua schiena calda. Era quasi divertente il contrasto fra il suo corpo caldo e le mani gelide.
-Dobbiamo andare via da Godric’s Hollow. Questo posto è troppo piccolo per il nostro progetto, dobbiamo iniziare a pensare in grande.- disse Gellert. Gli brillavano gli occhi e quella passione per le sue idee incantava Albus ogni giorno di più.
-Decisamente, è arrivato il tempo che andiamo via. Questa città ci frena soltanto.- asserì l’altro. Per un attimo nella mente di Albus si materializzò l’immagine di Aberforth e Ariana. Due ragazzini, uno non abbastanza grande da gestire tutto quello che gli era piombato addosso e l’altra troppo instabile per essere lasciata da sola. L’unica famiglia che gli rimaneva.
Sono un peso, si disse, degli sfortunati accidenti. Albus di certo non poteva rinunciare alla sua vita per loro, se la sarebbero cavata. Magari Ariana al San Mungo avrebbe anche fatto progressi.
-Ovviamente non portare tuo fratello con te. È uno scomodo fardello, senza offesa.- aggiunse Gellert. –Tua sorella, invece, ci potrebbe tornare molto utile.- .
Era in momenti come quelli che il suo marcio veniva fuori, e allora la luce nei suoi occhi diventava fredda e cattiva e sembrava davvero un algido, spietato comandante.
Albus vedeva tutto quello e quando la luce negli occhi di Gellert si trasformava qualcosa nel profondo del suo animo gli diceva che magari stava sbagliando tutto.
Lui era tuttavia diventato particolarmente bravo a fingere di non vedere, a ignorare la sua coscienza.
-Ariana sarà felice di assolvere anche lei al bene superiore. Ce ne prenderemo cura.- rispose tamburellando appena le dita sulla schiena diafana del ragazzo sopra di lui. Le labbra piene e regolari dell’altro si distesero in un sorriso compiaciuto e gli occhi si chiusero nuovamente. Era una creatura da compiacere, Gellert.
 
Una parte di Albus –quella ancora sana, non contaminata dal cieco amore- era consapevole che Gellert non lo amava allo stesso modo in cui lo faceva lui. Se lo faceva era in modo contorto e distante.
In ogni caso, era certo che non avrebbe esitato a toglierlo di mezzo se si fosse messo fra lui e il potere, il raggiungimento del bene superiore.
Quella parte della coscienza di Albus aveva diritto di parola solo quando sul mondo calavano le tenebre e lui poteva essere lasciato agli interrogativi protagonisti delle sue notti insonni.
Gellert ancora dormiva sul suo petto, beato come il migliore degli angeli. Certe volte Albus si chiedeva come facesse a pensare cose tanto cattive sui babbani, ma poi la sua coscienza prepotente gli ricordava che anche Lucifero era stato un angelo.
Dei due, Albus era stato sempre il più moderato. Aveva detto espressamente che avrebbe tollerato la violenza solo in casi di estrema necessità, qualora i babbani avessero fatto resistenza e si fossero opposti al loro bene e al bene superiore.
Gellert, invece, era un’altra storia. Era convinto dell’indiscussa superiorità dei maghi e del fatto che i babbani, se considerati abbastanza degni da sopravvivere, l’avrebbero fatto solo per servire la parte dell’umanità eletta e superiore per diritto naturale.
Albus aveva sempre incolpato di quell’eccesso di intransigenza e violenza Durmstrang e le sue posizioni intolleranti, ma quando la notte calava non poteva fare a meno di chiedersi se in realtà non fossero idee partorite del tutto dalla mente di Gellert.
In fondo la vedeva la luce gelida nei suoi occhi quando qualcuno osava contraddirlo, quando sua zia Bathilda gli diceva che la sua espulsione da Durmstrang era una disgrazia e quando doveva lottare per contenere la sua ira, quando Aberforth o Ariana impedivano ad Albus di seguirlo.
La parte ancora sana di Albus non poteva che vedere in Gellert un tiranno spietato che non obbediva a nessuna legge se non a quella di sé stesso.
E se avesse deciso che i suoi fratelli andassero eliminati per il bene superiore, perché impedivano ad Albus di seguirlo come lui avrebbe voluto? Se lo chiedeva spesso.
Si chiedeva altrettanto spesso cosa avrebbe fatto lui in quel caso. Non era sicuro che, se Gellert avesse minacciato Aberforth o Ariana, si sarebbe schierato dalla loro parte. Questo era quello che lo spaventava di più.
Albus chiuse gli occhi, cercando di scacciare dalla mente quei pensieri intrusivi. Gellert non avrebbe mai messo in pericolo la sua famiglia.
Anni dopo, avrebbe trovato una serie di cause alla sua negazione così cieca della natura malvagia di Gellert.
Prima di tutto la sua sete di potere, e il mezzo che l’altro gli poneva davanti agli occhi per arrivarci. Secondo, la sua naturale inclinazione a vedere il buono nelle persone, a non dividere il mondo in buoni e cattivi ma a individuare tante estese zone grigie.
Terzo, l’amore per Gellert che lo bruciava dall’interno, come una fenice. Con la sola differenza che, probabilmente, quando il fuoco l’avrebbe consumato, Albus non sarebbe risorto dalle sue ceneri.
Tuttavia, Albus sapeva quanto poco Gellert lo amasse. Una parte di lui sicuramente lo faceva, ma l’altra non avrebbe esitato a combatterlo per il bene superiore.
Non gli importava.
Preferiva che le sue mani gelate continuassero a ghiacciargli il corpo e, magari, anche il cuore.
 
Gellert era marcio, putrido, malvagio.
Albus ebbe la sua epifania negli infelici attimi in cui la ragione della sua vita, la sostanza del suo respiro e la luce che illuminava i suoi occhi e le sue giornate stava torturando suo fratello Aberforth senza la minima traccia di rimorso, senza emozioni che scalfissero il suo bel viso d’angelo.
Qualsiasi luce ci fosse stata in Gellert si era spenta per sempre, estinta dall’oscurità del suo marciume.
Ora qualsiasi velo ci fosse sugli occhi, sulla mente o sul cuore di Albus era caduto.
Vedeva Gellert per quello che realmente era, un despota egoista e privo di empatia –si era aggrappato alla speranza che esistesse, almeno per i maghi. Ma Aberforth era un mago e le sue urla ferivano le orecchie di Albus.
Non aveva mai creduto alla divisione del mondo in buoni e cattivi. Esistevano, per lui, buone intenzioni e cattive intenzioni, perseguite con mezzi deprecabili o lodevoli.
Per lunghissimo tempo aveva pensato che Gellert fosse una persona con buone intenzioni, che voleva tuttavia perseguire con mezzi deprecabili. La bontà delle sue intenzioni era per Albus più importante della giustizia dei mezzi, e quindi aveva lasciato correre.
Ora invece non poteva che vedere in Gellert il mostro che la sua coscienza gli sussurrava che fosse, mentre ruotava il braccio per imprimere ad Aberforth il maggior dolore possibile dalla Cruciatus che gli aveva lanciato.
Prima che potesse pensarci, un incantesimo di Albus schiantò Gellert dall’altra parte della stanza.
Mentre il ragazzo si rialzava, poté vedere il freddo e la malvagità nei suoi occhi. Per la prima volta, tuttavia, erano rivolti a lui.
In quel momento Albus ebbe la certezza che non importava quanto Gellert lo amasse, rispettasse e lo volesse al suo fianco. Se gli fosse andato contro sarebbe finito come tutti gli altri.
E infatti fu Gellert il primo a scagliargli una Maledizione senza Perdono contro. Poi lui rispose, e Aberforth rincarò la dose.
Era una scena patetica. Triste, densa di delusione e disperazione, ma più di ogni altra cosa patetica.
Due amanti che si erano giurati eterna fedeltà e amore, che progettavano di governare il mondo assieme che duellavano per ammazzarsi, un ragazzino che si schierava con il fratello che l’aveva sempre, se non odiato, disprezzato.
Il corpo di Ariana Silente tra loro, colpito da una Maledizione senza Perdono scagliata da Dio solo sa chi.
Albus avrebbe voluto scaricare tutta la colpa su Gellert, ma la verità era che era anche –e soprattutto- colpa sua.
Colpa della sua cecità, della sua sete di potere, del suo amore.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona.
Il ricordo di Gellert avrebbe continuato a tormentarlo di giorno, la visione del corpo esanime di Ariana di notte, il biasimo di Aberforth tutta la vita.
 
 
 
 
 
 
Andare a vedere Animali Fantastici al cinema è stato disastroso per me. Abbiate pietà.
E butto citazioni di Dante cuz why not?
  
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