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Autore: Voglioungufo    20/11/2018    2 recensioni
Venezia è una città magica, secondo Thomas Mann metà fiaba e metà trappola, patria delle maschere. Ma è a Venezia che Leo deve cercare una risposta, trovare la ragione dietro la propria maschera e conoscere finalmente se stesso. Anche se ha lo stesso gusto di un salto nel vuoto.
Genere: Generale, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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Ogni riferimento a persone esistenti o fatti realmente accaduti è puramente casuale.
Proibisco la riproduzione, parziale o completa, della storia su qualsiasi sito esterno a EFP da parte di terzi.
 
 
 
 
I
L’inizio di un anno grandioso.

 
Una storia accaduta tanto tempo fa' altrove
forse non ci riguarda neanche...”
(Anonimo) 1

 

 
15 Settembre 2018.
Venezia, Ponte degli Scalzi.
 
L’acqua scura del Canal Grande riverberava la luce dei ristoranti lungo la sua riva, i palazzi si stagliavano scuri ai suoi lati, parzialmente inglobati dall’oscurità notturna.
A Simon, appoggiato con i gomiti al parapetto del Ponte degli Scalzi, sembrava di guardare direttamente su una cartolina. Avrebbe dovuto essere abituato ormai a quegli scorci, ma ogni volta Venezia aveva il potere di mozzargli il fiato. L’aria era tiepida, ancora estiva nonostante fosse settembre inoltrato, vista l’ora tarda i turisti che attraversavano il ponte erano davvero pochi e lui poteva godersi quel momento di tranquillità in uno dei punti più trafficati di Venezia.
 “Brutto… Proprio in cima al ponte più ripido dovevamo trovarci?!”
La tranquillità fu spazzata via nella frazione di un secondo. Un poco riluttante, Simon distolse lo sguardo dalla curva sinuosa del canale e si girò a fronteggiare il suo migliore amico.  
Leonardo era piegato in avanti, una mano appoggiata sul fianco e il volto chiazzato di rosso, sudato come se avesse appena corso la maratona; invece aveva solo trascinato le due pesanti valigie e il borsone che gli pendeva da una spalla su per il ponte.
“Preferivi il Calatrava?” domandò divertito. Si era ripromesso di non sorridere, di mostrarsi distaccato al suo ritorno, ma era impossibile mantenere una promessa del genere, erano mesi che non si vedevano.
A quella domanda Leo sbiancò. “Preferivo nessun ponte” bofonchiò.
“Richiesta difficile da accontentare a Venezia” gli fece notare, si appoggiò al parapetto con la schiena “Com’è andato il viaggio?”
“Bene, bene, il solito” rispose distratto, anche il suo sguardo venne calamitato dal luccichio di Canal Grande.
Simon approfittò di quel secondo per studiarlo e annotare tutti i cambiamenti di quei mesi di lontananza. I capelli mossi si erano fatti più lunghi, ora gli arrivavano alle spalle e avevano le punte bruciate dal sole; così anche la sua pelle era più scura, sembrava portare ancora i segni di una brutta scottatura. La maglia sportiva che indossava era sbiadita per i troppi lavaggi e aveva degli aloni scuri sotto le ascelle, gli stava leggermente tirata sul petto, ma nel complesso non sembrava essere affatto cresciuto. C’erano dei particolari differenti, ma non era cambiato poi molto, era sempre lo stesso Leo di tre mesi prima.
Leonardo lo beccò mentre era ancora assorto in quella minuziosa osservazione, spostò semplicemente gli occhi sul suo viso e Simon entrò in panico, convinto che gli si leggesse tutto dentro. Invece gli rivolse un semplice sorriso giocherellone. 
“Allora?”
“Allora cosa?”
“Non mi dici qualcosa? Tipo, che so, che ti sono mancato, o bentornato o…”
“Sembri una principessa Disney con quei capelli” lo interruppe soffocando una risata. “Da quanto non li tagli?”
Aggrottò la fronte. “Be’, da un po’. E comunque, sarei una principessa più bella di te”.
“Non lo metto in dubbio” garantì scuotendo la testa, si staccò dal parapetto in marmo e si accucciò a prendere una delle due valigie. “Dai, andiamo. Ti ho aspettato per un’ora”.
“Esagerato, era un ritardo di dieci minuti”.
“Venti” precisò. “E tu ce ne hai messi altri venti a uscire dalla stazione e fare quattro metri”.
Leo emise un verso esasperato e alzò gli occhi al cielo, era tornato da appena cinque minuti e già aveva voglia di strangolarlo.
“Sei senza cuore” gli sbottò contro risentito. “Non ci vediamo da mesi e le uniche cose che fai è insultare i miei capelli e arrabbiarti per un piccolo ritardo”.
“Adesso non fare il permaloso” sollevò una valigia. “Che cosa ti aspettavi?”
Domanda sbagliata, quasi fece cadere la valigia giù per i gradini. Leonardo gli si era gettato addosso come un cucciolo di grizzly in carenza di affetto, stritolandolo in un abbraccio spaccaossa, il genere di contatto che Simon meno gradiva.
“Questo, scemo, mi aspettavo questo” precisò quando lo lasciò andare, gli diede una pacca sulla spalla. Prese l’altra valigia e cominciò a scendere i gradini con un sorriso soddisfatto.
“Ma dimenticavo che sei uno sociopatico”.
Lo fulminò con lo sguardo. “Sono riservato” corresse.
“Sì, sì, è uguale. Allora, scendi o resti lì con la mia valigia?” 
Sospirò rassegnato, ormai la pace delle vacanze estive era ufficialmente finita e lo aspettava un nuovo anno pieno di esasperazione, ansia, stress e istinti omicidi verso i suoi coinquilini.
Aveva fatto il conto alla rovescia in attesa di quel momento per tutta l’estate.
 
Simon Lunardi e Leonardo Triestini erano quelli che noi potremmo definire senza problemi amici d’infanzia, dal momento che il loro incontro era avvenuto il primo giorno di asilo e aveva coinvolto un pennarello colorato e la disputa su chi dovesse usarlo per primo. Nessuno dei due ricordava come fosse finita, certo era che da quel momento erano diventati inseparabili, l’uno l’ombra dell’altro manco fossero stati attaccati con la colla. In comune accordo, senza dire nemmeno una parola, avevano deciso di diventare migliori amici e lo erano stati fino al termine delle medie, quando la famiglia di Simon aveva avuto la brillante – leggesi con sarcasmo – idea di trasferirsi a Padova. Da lì la vita di Simon era stata molto solitaria: non era un tipo socievole; nonostante il suo bel faccino attirasse più di qualcuno deciso a legare con lui, la sua lingua era talmente tagliente da riuscire a tenere lontano qualunque scocciatore e le sue occhiate torve gli aveva fatto guadagnare la nomea di snob. Così Leonardo era stato il suo primo e ultimo amico, e i cinque anni del liceo erano passati tra la noia più totale e l’insofferenza familiare. Non era divertente avere fratelli geniali, una futura promessa della medicina mondiale e un’avvocatessa in grado di scagionare anche il diavolo, con i quali confrontarsi, con i quali venire costantemente paragonato. Forse era per quello che, spinto da un desiderio di distinguersi, aveva delineato il suo percorso universitario nel campo umanistico-filosofico ed era andato a Venezia.
Più chilometri stanno tra me e Padova più sono contento. 
Non aveva ancora ben chiara la seria di coincidenze che lo aveva portato a ritrovarsi con Leonardo. E non doveva avercela chiara nemmeno lui, considerato il modo spaesato con cui girovagava per la sede centrale di Ca’ Foscari il giorno dell’Open Day, come se non avesse la più pallida idea di come ci fosse finito lì. Si erano incontrati – più propriamente scontrati – e fissati in silenzio qualche secondo prima di riconoscersi e abbracciarsi. Cioè: Simon aveva formalmente alzato la mano per stringere la sua, Leonardo invece gli si era scaraventato addosso come un golden retriever abbastanza pesante ed esuberante.
Il loro incontro aveva schiarito le idee a Leonardo sul proprio futuro, fino a quel momento rimasto indeciso tra lo frequentare fisica o filosofia. Scoprendo che quest’ultima era l’opzione ventilata da Simon gli era stato fin troppo semplice decidere di abbandonare ogni pretesa sulla fisica e gettarsi a capofitto sulla filosofia. Si erano scambiati i numeri e per il resto dell’anno Leonardo lo aveva importunato con continui messaggi per capire come funzionassero le iscrizioni online, per la casa da affittare o anche semplici stupidaggini. Entrambi erano felici ed esterrefatti di aver ritrovato l’altro, quasi non lo avessero mai ritenuto possibile.
Quel fatto non aveva fatto altro che triplicare l’entusiasmo di Simon di iniziare l’università, a maggior ragione non vedeva l’ora di lasciare Padova.
A volte si chiedeva se l’Università gli sarebbe apparsa comunque così piacevole, quasi divertente, senza Leo; o se al contrario l’avrebbe odiata, finendo per chiudersi anche lì una grigia monotonia con il solo pensiero degli esami.
Ma era inutile pensarci, si erano ritrovati e contava solo questo.
 
 
Santa Croce, San Giacomo dell’Orio.
 
Leonardo parlò per tutta la strada fino al loro appartamento, cianciando sull’estate passata. Metà delle cose che gli stava dicendo gliele aveva già raccontate per messaggio, ma non si lamentò più concentrato, piuttosto, a portare la valigia attraverso i ponti. Nonostante l’ora tarda c’erano ancora dei ristorantini aperti con turisti a cenare; il caldo fuori stagione dava l’idea che fosse ancora estate. A Simon non andava molto a genio, tendeva a sudare molto, e in quel momento la fatica lo aveva reso fradicio sotto la maglietta. 
Erano fortunati di non dover fare troppa strada, visto che l’appartamento che avevano affittato si trovava a dieci minuti – e due ponti – dalla stazione. Era in una delle corti adiacenti al campo di San Giacomo dell’Orio, nel sestiere di Santa Croce, una grane piazza con ristorantini eleganti, panchine, alberi, una coop e la vecchia chiesa del nono secolo, una delle più antiche di tutta Venezia. Di giorno era abitata da bambini che giocavano a calcio e attentavano alla vita dei passanti con le loro pallonate, era un posto abbastanza vivace e una bella zona dalla quale era possibile raggiungere i punti più importanti di Venezia in poco tempo.
Era stato il padre di Leonardo a trovare l’annuncio in un sito internet: una mansarda doppia, con bagno privato annesso, a un prezzo abbordabile e spese incluse. Leo aveva girato subito la notizia a Simon, che senza perdere tempo aveva contattato l’affittuaria. La donna, però, gli aveva dato a sua volta il numero di un’altra ragazza con la quale accordarsi. Era una delle coinquiline di quella casa, colei che si occupava della scelta dei nuovi coinquilini al posto della legittima padrona. Simon ricordava di aver parlato con il ricevitore staccato dall’orecchio senza il vivavoce, da quanto era squillante la voce della ragazza. Erano stati al telefono una mezzoretta, in cui gli aveva chiesto chi fosse lui e il suo amico, per quanto tempo avevano intenzione di affittare, che facoltà frequentassero e qualche altra nozione in generale. Aveva poi dato loro un appuntamento per un incontro di persona.
Quello era stato il suo primo approccio con Arianna. 
Simon ringraziava di essere stato lui a contattarla, perché con il suo tono formale ed educato le aveva fatto una buona impressione e all’incontro era partita molto favorevole nei loro confronti, nonostante di solito tendesse a depennare istantaneamente le matricole. La simpatia di Leo e il suo modo affabile di comportarsi avevano fatto il resto e alla fine dell’appuntamento li aveva portati a vedere la mansarda e il resto della casa. Era molto grande, anche se una parte non era accessibile agli affittuari. C’erano altre due camere, una doppia e una singola, entrambe occupate; una cucina comune provvista di lavastoviglie, microonde e lavatrice; un bagno comune e un salotto con una grandissima libreria. Dalla cucina partivano delle scale ripidissime che portavano alla soffitta e alla mansarda, un ambiente spazioso, con le pareti azzurre e un paravento orientale che lo divideva dal bagno adiacente. L’unico problema: Simon aveva rischiato di sbattere la testa appena entrato nella tolette dall’alto del suo metro e ottanta. Leo, che invece aveva giusto dieci centimetri in meno, dalla sua bassezza lo aveva preso in giro ridendo a crepapelle.
Problemi di altezza a parte, la stanza era funzionale, semplice e accogliente: esattamente quello che i due neo-studenti cercavano. Il prezzo era più che equo e nemmeno una settimana dopo avevano firmato entrambi il contratto e fatto la conoscenza con gli altri coinquilini. La mansarda era diventata il posto dove tornare dopo le lunghe lezioni, da chiamare ‘casa’ e per Simon lo era molto di più di quella a Padova, dove tornava solo quando costretto.
Anche se all’inizio abituarsi agli altri coinquilini era stato decisamente traumatico.
 
“Guardate quale pecorella smarrita è tornata all’ovile!” 
Furono le prime parole che li accolsero quando aprirono la porta fradici di sudore e mezzi morti per le valige. Stando a quello che aveva detto Leo, dentro c’erano soprattutto cibi congelati che sua madre si era premurata di preparare perché l’amato figliolo non morisse di fame.
“Se invece di stare fermo lì e basta…” fu la replica di Leo ancora a metà della scalinata del pianerottolo.
Giovanni, studente fuori corso dell’Accademia delle Belle Arti, con il suo meraviglioso grembiule sporco di pittura, alzò un sopracciglio e sospirò melodrammatico.
“Oh, per due ponti tutta questa lagna. Simon, ti vedo un po’ sudato”.
Lo incenerì con lo sguardo asciugandosi la fronte con il dorso.
Leo scavalcò Simon senza tante cerimonie per andare ad abbracciare anche Giovanni, ma si bloccò appena lo vide.
“I tuoi capelli sono… verdi?” domandò. “O è la luce?”
Si prese una ciocca lunga e fece un sorriso compiaciuto. “No, sono proprio verdi. Li ho tinti questa estate.”
Leonardo era inorridito. “Li hai anche rasati! Dove sono i tuoi lunghissimi capelli da Rapunzel?”
Giovanni era un po’ eccentrico del modo di vestire e comportarsi, l’anno prima i suoi capelli erano di un castano chiaro naturale e lunghi fino alla vita, sani e forti come quelli di una modella, invidiati da qualsiasi ragazza. Quando Simon era tornato e lo aveva visto con metà cranio rasato e l’altro metà verde aveva quasi infartuato.
“A un’associazione che fa parrucche per persone malate di cancro” disse fieramente. “Comunque, vedo che ora la principessa di casa sei tu, Merida” lo prese in giro per gli arruffati capelli troppo lunghi.
“Eh, devo andare a sistemarli” borbottò corrucciato, Simon lo superò con una smorfia di fatica trascinando la valigia.
“Restiamo in entrata per sempre o le portiamo su?” domandò seccato.
“Arrivo, arrivo!” assicurò.
Giovanni li guardò ridacchiando. “Fra un po’ tornano anche Ary e Marghe, ceniamo insieme?”
Si era dimenticato degli orari assurdi in cui cenavano, ma non aveva mangiato niente a causa del viaggio quindi annuì prima di seguire Simon verso la cucina e poi su per le ripide scale.
Finalmente a casa.
 
“Marghe… Giovanni intendeva Margherita, quella nuova dal Giappone?” domandò Leo mentre svuotava la valigia.
Simon annuì, lo guardava seduto sul suo letto a gambe incrociate.
“È arrivata una settimana fa”.
“Com’è? Simpatica? Carina?” sciorinò come la peggior pettegola al bar.
Alzò gli occhi al cielo. “È un po’ timida, ma Giovanni è convinto sia una copertura. Secondo lui fa finta per poterci mettere nel sacco e conquistare il controllo della casa”.
“E questo lo pensa perché…?”
“L’ha vista mentre leggeva un hentai”.
Leo si bloccò. “Serio?”
“Così dice” fece spallucce.
Scoppiò a ridere di gusto mentre spingeva la valigia vuota sotto il letto per nasconderla. “Che idiota. Ora sono curioso di conoscerla”.
“Perché legge gli hentai? Scemo” si unì piano alla risata. “Vuoi una mano a sistemare le tue cose?” gli chiese vedendolo in difficoltà con i vestiti e le cianfrusaglie che si era portato dietro.
“Eh, magari. Quest’anno voglio essere ordinato e tenere le cose al loro posto, senza invadere la tua zona”. 
Inarcò un sopracciglio davanti a quella frase irrealizzabile.
Nonostante dividessero la stanza, la mansarda era quasi del tutto occupata dal disordine di Leo. Lui ci provava a fare ordine, sul serio, ma aveva così tanti affetti personali che inevitabilmente finiva per occupare anche lo spazio di Simon. Non che all’amico dispiacesse, lo aveva lasciato fare anche se un poco infastidito, ma la verità era che tanto quegli spazi non gli servivano.
Se Leo era un 
accumulatore seriale, che faticava perfino di liberarsi delle borse di plastica della coop, Simon ne era il suo esatto opposto: meno teneva con sé, più si sentiva soddisfatto. Era come se il suo obiettivo fosse passare del tutto inosservato, sgravarsi di ogni peso e non lasciare tracce dietro di sé. Non teneva mai niente per ricordo, si sbarazzava dei libri appena li leggeva e vendeva gli appunti universitari appena l’esame terminava; usava pochi vestiti e solo per una stagione, poi li rivendeva nei siti internet per comprarne di nuovi. 
Occupava così poco spazio che a volte si aveva l’illusione che la mansarda fosse abitata da un solo ragazzo .
Le uniche cose che aveva sempre tenuto con sé erano il quaderno da viaggio con gli appunti di sua madre, gli occhiali e la stilografica. Quest’ultima, in realtà, era un arrivo recente, dal momento che prima tendeva a usare penne che perdeva in continuazione. Era stato Leo con gli altri coinquilini a regalargliela, l’unico regalo che avrebbe accettato, e da allora non aveva più perso la penna.
Per questo motivo a Leo Simon era sempre sembrato una figura solitaria in una distesa di neve durante una nevicata: ogni suo passo veniva all’istante cancellato dai fiocchi e niente lasciava indovinare il suo passaggio.

“Questo è nuovo?”
Leo tornò a concentrarsi sul presente, Simon aveva preso la scimmietta che aveva comprato da Tiger.
“Oh, sì!” allargò il sorriso e tese una mano per farsela passare “Me l’ha regalata Teresa l’ultimo giorno ad Atene. Si chiama Hilary Putnam2” lo informò.
Lo guardò incolore. “Non ti chiederò perché ha il nome di uno dei più grandi pragmatisti del Novecento”.
“Guardala, hanno la stessa faccia!” quasi gliela spiaccicò sugli occhi.
Cercò di scostarsi e nascondere la smorfia divertita. “Perché tu conosci di persona Putnam, ovviamente”.
Leo aveva questa strana passione per i pupazzi e i peluche in generale, ma ancor di più sembrava divertirlo dar loro nomi di imminenti filosofi e scienziati. Ma Leo dava un nome a qualsiasi cosa, perfino il loro gabinetto aveva un nome, era quasi tenero il modo in cui si affezionava agli oggetti più disperati. A Simon piaceva immaginarlo come una fonte inesauribile di affetto e quando non c’erano più essere umano da caricare, allora si concentrava anche sugli oggetti inanimati.
Lo aiutò a disporre i suoi peluche e i libri sui comodini, i vestiti nei cassetti e nell’armadietto che avevano in comune, poi lo aiutò con le lenzuola a fare il letto. Nel giro di dieci minuti, la mansarda non fu più vuota come lo era stata in quella settimana di solitudine, ma finalmente sembrò essere abitata da qualche essere umano.
Per ultimo, appoggiò il leone Marco sul copriletto. Era il suo pupazzo preferito e non si vergognava ad ammettere di dormirci ancora la notte. Ho bisogno di abbracciare qualcosa, era la sua spiegazione. L’anno prima era capitato lo dimenticasse a casa, aveva avuto una mezza crisi e poi se lo era fatto portare dalla sua ragazza.
Da sotto venne un rumore di padelle e piatti seguito da qualche risata.
“Stanno cucinando?”  domandò Leo.
“Direi di sì” aprì la porta e annusò l’odore di cibo, anche lui doveva ancora cenare. “Scendiamo?”
“Scendiamo” confermò.
  
In cucina c’era Arianna, mestolo in mano e caschetto corto alle orecchie, i capelli erano ancora più chiari di quanto ricordasse, ormai rasentavano il platino.
“Bentornato, Leo!” salutò senza girarsi. “Va bene se facciamo una semplice pastasciutta? Non c’è granché in frigo” rise.
La ignorò per andare ad abbracciarla di spalle.
“Mi sei mancata” ammise. “Non c’era nessuno che mi riprendeva per la mia dieta squilibrata”.
Arianna si girò stando attenta a non far gocciolare il mestolo e ricambiò l’abbraccio allacciandogli le braccia al collo.
“Ah, puzzi” considerò arricciando il naso. “Vai a farti una doccia finché l’acqua bolle” gli consigliò.
“No, dopo, dopo” ciarlò. “Prima voglio vedere questa Margherita”.
“È di là, in sala, sta facendo la tavola” gli spiegò. “C’è anche Gio’ con lei”.
“No, lui l’ho già visto”affondò la testa sulla sua spalla affranto. “I suoi capelli da principessa non ci sono più”.
“Già, una grande perdita” gli diede una pacca sulla schiena. “Ma si va avanti”.
Simon li guardò in silenzio, poi aprì uno stipetto in cerca del sugo.
“Ti stanno facendo fare tutto da sola?” domandò. “Ti aiuto”.
“Ma no, lascia stare, faccio io”.
Non l’ascoltò e svuotò il sugo su una padella per scaldarlo. La cucina era piccola, in tre era scomodo starci, perciò Leonardo svincolò subito andando in salotto per incontrare questa fantomatica nuova coinquilina.
“Va?” domandò Arianna appena fu andato.
“Ha già invaso tutta la stanza” sospirò rassegnato .“Margherita, invece? Sei riuscita a farla parlare?” 
Sbuffò. “Dio, se parla! All’inizio no, ma è bastato fare le giuste domande perché partisse come un razzo. Se Leo e Gio trovano un modo per sbloccarla come ho fatto io… be’, auguri” fece spallucce.
E così il numero di logorroici in quella casa si alzava a tre, Simon valutò se potesse affogare nel pentolino dell’acqua. A lui piaceva il silenzio, lo spazio vuoto e la solitudine. Già era stato difficile abituarsi a dormire con un’altra persona in camera, a sentire il suo respiro nel sonno, ma la parte peggiore era stato Giovanni che gli parlava alle nove di mattina tutto sveglio e pimpante. All’inizio con lui era stata guerra aperta, aveva dovuto passare del tempo perché imparasse ad apprezzarlo e ad approcciarsi senza volerlo decapitare un minuto dopo.
Se” marcò. “A me piace così zitta e silenziosa, non vedo perché cambiare la situazione”.
Ricevette uno sguardo intenerito e insieme esasperato. “Facciamola sentire a casa sua, va bene? Dobbiamo essere una famiglia”.
Bofonchiò qualcosa e assaggiò la pasta per assicurarsi della cottura.
“Può fare quella silenziosa e timida”.
“Per quella parte abbiamo già te” gli ricordò ridendo. “Non ci serve un altro musone”.
“Non…”
“Hai ragione, adesso che è tornato Leo lo sei un po’ meno” e gli rivolse un’occhiata eloquente.
Si finse troppo concentrato a scolare la pasta per rispondere, gli occhiali che portava si appannarono per il calore e imprecò, aveva dimenticato di non avere le lenti. Era una talpa, gli mancavano ben sette diottrie e anche fare l’azione più semplice gli risultava impossibile senza gli occhiali; per questo motivo preferiva portare le lenti a contatto, erano più funzionali e gli permettevano una vista perfetta a trecentosessanta gradi.
Divisero la pasta sui piatti, poi Arianna chiamò a gran voce qualcuno dal salotto perché potesse arrivare ad aiutare. Giovanni fu lì in qualche minuto, con uno sguardo perplesso e i capelli raccolti in un codino. Uno degli zigomi affilati era sporco di giallo.
“Sto assistendo alla nascita di una storia d’amore?” domandò confuso indicando il corridoio, da cui provenivano le voci di Leo e Margherita. “Dovremmo avvertire Teresa, che il suo ragazzo la sta tradendo?” 
Simon entrò subito in ansia, senza dire niente prese due piatti e andò veloce in salotto per assicurarsi che Giovanni fosse esagerato come suo solito.
Trovò Leo e la nuova ragazza seduti vicini sulle sedie, ma stavano solo parlando e Margherita sembrava anche un poco in soggezione davanti alla parlatina inarrestabile dell’altro. Si sentì piuttosto stupido per aver irrotto nella stanza così bruscamente, con in mano i piatti di pastasciutta fumanti.
“Uhm, è pronto” borbottò sotto i loro sguardi perplessi.
“Ah, che bello!” Leo prese il proprio con un sorriso enorme. “Stavo morendo di fame”.
Mentre passava il piatto a Margherita si accorse che aveva il volto un poco paonazzo e anche quando lo ringraziò bisbigliò pianissimo. Continuava a lanciare piccole occhiate di sfuggita a Leo, nonostante l’imbarazzo ne sembrava affascinata. Simon temette che Giovanni non avesse esagerato prima, del resto era davvero facile rimanere ammaliati dai modi di fare di Leo sempre così spontanei e amichevoli. L’anno prima molte ragazze si erano prese una cotta per lui, ma Leo le aveva sempre rifiutate gentilmente, del resto era già impegnato con la stessa ragazza da due anni.
“Stavo chiedendo a Marghe se poteva tradurci le scan di Attack on Titan in giapponese, senza aspettare quelle in inglese” spiegò tutto contento.
“Attack on Titan?” domandò Giovanni presentandosi anche lui alla tavola. “Mah, sono abbastanza certo che lei preferisca un altro genere di manga. Giusto?” le sorrise compiaciuto come un gatto che ha mangiato un topo.
La ragazza distolse lo sguardo e mescolò la propria pastasciutta con la forchetta senza rispondere alla domanda. Giovanni sembrava voler insistere, ma Arianna gli pestò un piede prima che potesse aprire nuovamente quella sua bocca larga.
“Buon appetito” augurò ignorando lo sguardo risentito del coinquilino, poi fece un sorriso dolce. “Ora ci siamo tutti” considerò fra sé.
 
Entrambe le finestre erano aperte, ma la brezza non era ancora sufficientemente fredda da far abbassare la temperatura nella stanza, anche quella notte Simon decise di dormire solo con i pantaloncini del pigiama. Era steso sul letto ad ascoltare la musica dal telefono, l’orologio segnava pochi minuti all’una e mezza, aveva un po’ di sonno ma voleva aspettare che Leo finisse di lavarsi per andare a letto. Non riusciva a dormire con la luce accesa e il più piccolo rumore lo faceva sempre sobbalzare. 
Dopo la cena Leonardo si era dileguato in soffitta per rispondere alla chiamata della sua ragazza, erano rimasti al telefono per un’ora. Simon aveva fatto in tempo a sparecchiare, litigare con Giovanni e sistemare la cartella per il giorno dopo. Era un poco infastidito da quella lunga chiamata, Leo aveva visto Teresa prima di partire, che mai era successo di nuovo da trattenerlo così tanto a telefono?
Quando poi era tornato nella stanza aveva dovuto farsi una doccia ed era rimasto nella vasca per un tempo infinito. Gli seccava, perché aveva sperato di guardare un film insieme, ma ormai era troppo tardi.
“Ehi, ci guardiamo qualcosa?”
Simon aprì un occhio, aveva alzato il volume così tanto che non si era nemmeno reso conto che l’altro aveva finito ed era uscito dal bagno. Indossava solo i boxer, aveva un asciugamano sulle spalle e i capelli gocciolanti. L’ultimo ricordo che aveva di lui alle medie era di un ragazzo un poco rotondetto, un orribile taglio di capelli alla Justin Bieber e un volto puntellato dall’acne. Quando lo aveva rivisto dopo cinque anni tutto quello che aveva pensato era stato: beata pubertà.  Ma forse più che pubertà era stata la palestra e il cambio di taglio, anche se aveva ancora un po’ di brufoli sulle guance era diventato decisamente molto più bello.
“Qualcosa tipo un film?” domandò togliendosi le cuffie. “È troppo tardi, potevi metterci di meno”.
Leo fece una smorfia e si sedette sul letto accanto alle sue gambe.
“Non posso andare a letto con i capelli bagnati, dopo mi viene il torcicollo”.
“Asciugali con il phon”.
“Con questo caldo? Tu sei fuori” agitò la mano vicino alla testa. “Dai, tanto domani la prima lezione è a mezzogiorno”.
“Non è una scusa per restare a letto fino alle undici. Anche perché domani mattina volevo lavarmi”.
Leo sbuffò. “Nemmeno se propongo La strada per El Dorado?”
Assottigliò gli occhi, era il loro cartone preferito quando erano bambini, sapevano ancora tutte le battute a memoria e nonostante ciò continuavano ad agitarsi davanti ai colpi di scena. 
“Ti odio. E usiamo il tuo computer”.
Un sorriso soddisfatto dipinse le labbra sottili dell’amico. Prese il computer e andò a stendersi sul letto accanto a lui, lo bagnò un poco per i capelli ancora umidi ma non si lamentò. Leo era l’unico essere umano che poteva vantarsi di invadere il suo spazio vitale e sopravvivere.
“Se domani non sei giù dal letto entro le nove e mezza ti getto un secchio d’acqua addosso” lo minacciò.
“Me lo dici ogni volta”, fece partire il film, “ma poi riesco sempre a restare a letto fino alle dieci”.
Rimasero in silenzio a guardare le scene, Leo teneva uno dei suoi peluche stretti al petto e si agitava per ogni piccola cosa.
“Sono felice di essere qui” disse Simon a metà film.
Leo ne fu sorpreso, perché raramente si lasciava andare a confessioni del genere, era solito calibrare bene ogni propria parola piuttosto che dire tutto quello che gli passava per la testa. Quindi capì che quell’ammissione era importante.
“Anche io, Sy” gli assicurò e spostò lo sguardo fuori, sullo spicchio di cielo nero che si vedeva oltre le finestre. “Sarà un anno grandioso”.
 
 
 
 
Note:
1 – Frase anonima trovato sotto un video youtube della canzone Venezia di Guccini, questo per intenderci.
 
 
 
So che queste note avrei dovuto farle all’inizio del capitolo, ma temevo che chi non mi conoscesse scappasse via nello scontrarsi con i miei… problemi di comunicazione(?).
Fin’ora ho utilizzato EFP per pubblicare le mie frociate su Naruto, è la prima volta che pubblico qui un’originale. È una storia che ci tenevo a scrivere, perché affronta un tema a cui sono molto vicina, ovvero: l’accettazione della propria sessualità. Sono bisessuale, ma mi ci sono voluti ben due anni di dubbi e interrogativi pieni di pregiudizi per giungere a questa conclusione. Può sembrare ridicolo, ora per me lo è decisamente perché è una cosa così semplice e ovvia, ma nel mentre è stato un dramma che mi ha scombussolata non poco. Questa storia nasce quindi per me, una sorta di catarsi, e per chi magari ha dovuto affrontare un percorso simile.
Tutto questo sproloquio solo per spiegare quanto questa storia sia importante per me, ma soprattutto per avvertirvi di tutta l’agitazione e l’ansia da prestazione che mi mette addosso, chi mi ha tra gli amici su facebook ne ha già avuto un assaggio (mi dispiace).
Passiamo ai fatti puramente casuali: come dire, quando scrivo pesco molto dal mio vissuto personale e nemmeno questa storia si salva. Giusto per fare un esempio: io vivo in una mansarda a San Giacomo dell’Orio – ma no, i personaggi principali non prendono spunto dalle persone che mi circondano, su questo posso rassicurarvi.
Ho altro da dire? Sicuramente c’è altro, ma non mi viene in mente, ops.
Quindi vi lascio, ho anche parlato troppo. Spero che possiate apprezzare questa storia, ci sto mettendo decisamente troppo cuore  e troppa ansia. Le recensioni sono sempre gradite, sono le migliori pillole anti-stress che conosca <3
 
Hatta
 
  
   
 
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