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Autore: Tenar80    21/11/2018    2 recensioni
Devono metterlo in conto questi ragazzetti che giocano con i pattini. Il ghiaccio è duro e freddo. Ed è spietato, come tutte le cose dure e fredde.
Di chi prova a diventare un campione.
Di chi diventerà Victor Nikiforov e di chi non ci riuscirà.
Della fatica di crescere dei campioni, o almeno di farli diventare adulti.
Genere: Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Victor Nikiforov, Yakov Feltsman
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Stagioni'
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Rieccomi qui.

Rispetto a "Negli occhi degli amanti" vi porto indietro nel tempo, a tutto ciò che Victor non ha raccontato a Yuuri.
Per me è una storia un po' particolare, imprevista, nata dalla voglia di Yakov di raccontare il proprio punto di vista e da una frase sfuggita a Victor in tutt'altro contesto: "la mia non è, in nessun caso, una storia di speranza". Pronunciata da uno che ha vinto tutto partendo dal niente, necessitava quanto meno di una spiegazione...

Vi sono delle avvertenze, che forse è il caso di scrivere. Anche se inizia quasi come una favola, in questa storia ci sono dei ragazzini che fanno quasi ogni genere di sciocchezza. E le pagano tutte. Ci sono adulti che provano a metterci una pezza come possono, a volte sbagliando. Ci saranno delle parti, nei prossimi capitoli, che non sono state facili da scrivere, potrebbero non essere piacevoli da leggere, anche se non c'è nulla di descritto in modo esplicito.

Ci sono almeno tre dediche per questa storia.
A tutti coloro che, in qualsiasi disciplina, non ce l'hanno fatta.
A tutti i ragazzi che usano il sorriso come protezione contro il mondo.
Mentre la scrivevo, sono stata avvisata della morte di Denis Ten, pattinatore kazako ucciso da una coltellata. Una morte così assurda e triste, il cui ricordo, per me, sarà per sempre legato a questa storia.

Infine, grazie a tutti coloro che vorranno leggere.




Mosca – Dicembre 2000

 

    Yakov si sedette sbuffando sul sedile scomodo del palaghiaccio. Possibile che fossero tutti così scomodi i sedili dei palaghiacci? Il pattinaggio doveva proprio essere una sofferenza, per tutti, in modo democratico, atleti e spettatori… E poi non gliene importava niente della gara giovanile che si stava svolgendo sulla pista. O forse non voleva che gliene importasse niente. Se si fossero rivelati tutti mediocri non avrebbe dovuto farsi carico di nessuno di loro. Ognuno di quei ragazzini che volteggiavano sul ghiaccio era un groviglio di ansia, rabbia, paura, problemi di salute, paturnie sentimentali, comportamenti da correggere, studi da portare avanti… Forse doveva darsi all’addestramento dei cani. Esercizio giusto, croccantino, esercizio sbagliato, bastonata e finiva lì. Molto più facile. O forse era lui che non riusciva. Sua moglie più o meno si comportava così con le sue ballerine e la cosa, maledizione, funzionava. Mai una volta che l’avesse vista preoccupata per una di loro. Se una falliva c’erano subito altre candidate per il posto vacante. Lui, però, era un cacciatore di fuoriclasse e i fuoriclasse sono fragili e preziosi. Per niente facili né da addestrare né da lasciar andare…

    – Sei già qui? – gli chiese Dimitri.

    L’uomo più giovane si sedette al suo fianco, facendo ondeggiare i capelli lunghi.

    – Fuori nevica – grugnì Yakov, salutando con un cenno il suo aiutante.

    – Così li terrorizzi tutti.

    – Quelli che non sanno chi sono mi ignorano. Quelli che lo sanno… Beh, io voglio vedere appunto come se la cavano sotto tensione. Se basto io per spaventarli hanno sbagliato mestiere. Ecco, sono questi i nostri osservati speciali.

    Yakov passò due fogli a Dimitri.

    Su ciascuno c’era la foto di un ragazzetto sui dodici anni, un tipino magrolino e tutto naso, Georgi, e un ragazzetto biondo dallo sguardo impertinente, Kirill.

    Dimitri annuì.

    – Abbiamo già parlato con il padre di questo, vero? – disse, prendendo il foglio con la foto di Georgi. – Un tipo a posto, che si è già informato per le scuole e il pensionato… E questo invece è l’aquilotto Vladivostok… Certo che sarebbe un bel salto da lì a San Pietroburgo…

    – Sì.

    I trasferimenti erano sempre un problema. Erano ancora bambinetti, abituati ad avere la mamma sempre alle calcagna. Metà degli spettatori, del resto, erano madri ansiose.

    – Pare sia il migliore del suo anno e se vuole avere speranze negli juniores…

    Da due anni Yakov dirigeva il centro federale di San Pietroburgo. La Russia da lì a cinque anni doveva tornare ai vertici mondiale nel pattinaggio, in tutte le categorie. E singoli, a quanto pareva, erano diventati un suo problema. E lui, ovviamente, era diventato il problema con cui doveva scontrarsi chiunque volesse fare del pattinaggio qualcosa di più di un passatempo pomeridiano.

    – Ho parlato con quel mio amico – disse Dimitri, cambiando discorso. – Ha un posto da operaio. Certo, la paga è quella che è…

    Yakov fu tentato di accartocciare i fogli che aveva in mano e scagliarli verso la pista.

    – Ha sedici anni, zoppica e non ha un titolo di studio decente, non è che si possa aspettare molto di meglio – provò Dimitri, ma con dolcezza.

    – Una volta ci si prendeva più cura degli atleti.

    – Non mi diventare nostalgico proprio tu. Erano altri tempi.

    Sì. Tempi in cui si combatteva con lo sport per la grandezza dell’Unione Sovietica. In cui dovevi ubbidire e tacere. Magari morire a trent’anni per un infarto per chissà quali schifezze che ti avevano obbligato a prendere. Però se non altro ci si prendeva cura dei feriti che rimanevano sul campo.

    – Ivan… – iniziò.

    – Era il migliore, lo so – sospirò Dimitri. Ostentava noncuranza, ma anche lui era affezionato al ragazzo. – E viveva a casa tua. Ma si è distrutto un ginocchio. Sono cose che succedono. Devono metterlo in conto, questi ragazzetti che giocano con i pattini. Il ghiaccio è duro e freddo. Ed è spietato come tutte le cose dure e fredde.

    Sì. 

    Non gliene importava niente al ghiaccio del padre di Ivan, che aveva perso il lavoro, della madre, che entrava e usciva dall’ospedale. Della rabbia ostinata che covava negli occhi scuri di un adolescente che voleva in ogni modo cambiare il destino di chi gli era caro. Il loro destino, però, lo decideva il ghiaccio. Non la volontà e neppure il talento, per quanto fossero indispensabili. Riuscivi a spostare appena una gamba mentre cadevi e te la cavavi con due lividi e vincevi magari le olimpiadi. Non ci riuscivi e rimanevi zoppo per sempre.

    Yakov sospirò, guardando la pista per cercare di non pensare a quel ragazzo. Nella camera degli ospiti, a casa sua, c’erano ancora delle cose che aveva dimenticato. Un quaderno, un vecchio portachiavi a forma di dinosauro…

    Lo sguardo dell’allenatore fu attratto, quasi suo malgrado, da uno degli atleti in pista. 

    Erano tutti ragazzini tra gli undici e i quindici anni, anche se quelli sopra i quattordici che ancora non avevano cambiato categoria erano proprio scarsi. Questo poteva averne una dozzina. Era magrolino, con i capelli così chiari da sembrare bianchi. Non aveva un costume, neppure di quelli artigianali prodotti da madri o zie volenterose, solo una tuta bianca, per altro con delle tracce di macchie non del tutto cancellate. Indossava dei pattini vecchissimi, di seconda o terza mano, eppure si muoveva nei minuti di riscaldamento come se fosse il padrone assoluto della pista.

    – Quello chi è? – chiese Yakov.

    – Mah, siamo a metà, questi sono mediocri senza sper…

    Anche Dimitri si era fermato a guardarlo.

    – Adesso si ammazza – mormorò Dimitri.

    Il ragazzo stava provando un salto, un Loop, con una partenza del tutto sbagliata. 

    Riuscì comunque a portare a termine due rotazioni e ad atterrare in modo quasi discreto.

    – Non ha la più pallida idea di come si salti – disse Yakov.

    E neppure di come si impostava una trottola, constatò un attimo dopo. Eppure c’era quella sicurezza istintiva, ai limiti dell’arroganza, di chi sa di essere nel proprio elemento.

    Chi lo allenava?

    A bordo pista c’erano alcune facce note, tecnici di società giovanili con cui Yakov aveva già avuto a che fare e un uomo che non aveva mai visto, accompagnato da una giovane donna di forse venticinque anni. A quanto pareva il ragazzo era con loro. L’allenatore e… la sorella? La zia? Cicciottella com’era non poteva avere molto a che fare con il pattinaggio.

    – Fammi un favore, Dimitri, vai a capire chi è.

    – A quest’età, se non hai le basi ci vuole un miracolo – sbuffò Dimitri, ma si stava già alzando.

    Ci voleva un miracolo, certo. Eppure Yakov si rese conto di attendere con trepidazione l’esibizione del ragazzo.

    Eccolo.

    La tuta bianca era proprio il costume con cui si esibiva… Quindi? Non aveva un allenatore in grado di spiegargli i fondamentali, non aveva nessuno che gli preparasse un costume decente, ma aveva un coreografo, a quanto pareva. Perché la cosa che stava mettendo in scena aveva senso. Era un fiocco di neve, sospinto da vento, destinato a sciogliersi. Non c’era un singolo elemento tecnico che non andasse rifatto da capo eppure riusciva a dare una coerenza al tutto. Aveva un modo di pattinare che catalizzava l’attenzione, quel qualcosa che non può essere insegnato ed era perfettamente a tempo con la musica. Il resto… Yakov cercò di essere oggettivo. In uno sport in cui si dà il massimo entro i venticinque anni a dodici alcune qualità le devi già avere o è inutile buttare via il proprio tempo. La corporatura del ragazzo andava bene. Aveva l’ossatura esile, ma una buona muscolatura, poteva in effetti sviluppare il fisico del pattinatore. L’impostazione tecnica era un disastro, ma qualcuno gli aveva cucito addosso una coreografia amatoriale, certo, ma calibrata sui suoi mezzi e che il ragazzo aveva saputo eseguire in sintonia con la musica. Se non poteva avere il ragazzo voleva quanto meno parlare con il coreografo.

    Anche i giudici avevano apprezzato la performance, regalandogli un primo posto temporaneo che lo avrebbe fatto rimanere nei primi quindici al termine della giornata. Il giudizio gli regalò anche il nome del ragazzo, Victor Nikiforov. Mai sentito. Ma a quanto pareva veniva da un posto sperduto sul circolo polare, una di quelle città minerarie ai limiti della depressione.

    – Non ha un coreografo – disse Dimitri, tornando a sedersi al suo fianco.

    – Come sarebbe a dire che non ha un coreografo?

    – Non ce l’ha. L’ha fatta il ragazzo la coreografia, sulla musica che ha scelto.

    – Stai scherzando?

    – No, ma non farti illusioni, lui non lo possiamo prendere.

    – Genitori che ti hanno morso?

    – Padre in galera. La donna è l’assistente sociale. Un incubo burocratico solo portarlo qui.

 

    Yakov si era ripromesso, non più tardi di due mesi prima, di non prendere in considerazione atleti che non avessero alle spalle famiglie in grado di riprenderseli, nel caso qualcosa fosse andato storto. Non che potessero essere tutti ricchi come Ekaterina, certo, ma con le storie lacrimose di gente disastrata aveva chiuso. Chiuso. E con questo pensiero si trovò, senza ben sapere come, davanti al ragazzo, che si stava togliendo i pattini.

    Aveva i calzini macchiati di sangue, ma se li tolse senza smorfie.

    – Non sono della tua misura – grugnì Yakov.

    Il ragazzo alzò lo sguardo e sorrise.

    – Fanno il loro lavoro – disse.

    Aveva un bel visetto pulito e occhi chiarissimi, color dell’acqua.

    – Ho pattinato bene? – chiese.

    Yakov sbuffò.

    – La coreografia non era male, ma gli elementi tecnici erano un disastro.

    Il ragazzo si passò una mano nei capelli, senza smettere di sorridere, ma con un certo imbarazzo.

    – Qual è il tuo salto preferito? – chiese Yakov, addolcendo appena il tono.

    – Il Loop.

    – Il Loop? La partenza è del tutto sbagliata!

    – Fammi vedere come si fa!

    Non era una domanda, neppure un’implorazione. Era quasi un ordine, impartito da quel bimbetto che adesso aveva un’espressione ostinata.

    – Qui? – chiese Yakov.

    C’era un bel caratterino sotto quella faccia d’angelo, questo era sicuro.

    – Qui – confermò, infatti, stringendosi nelle spalle.

    L’allenatore sospirò. 

    Aveva con sé la propria valigetta, chissà poi perché, poi. Ne estrasse il portatile e proiettò sullo schermo una sequenza di foto.

    – Questa è la partenza del Loop – disse.

    Il ragazzo annuì, concentrato.

    – Lei chi è? – chiese, indicando la ragazza che era ritratta nelle fotografie.

    – Ekaterina, vice campionessa europea juniores.

    – La alleni tu?

    – Naturalmente.

    – Vitya! – esclamò una voce femminile. – Non crederai mai a chi è venuto a complimentarsi per la tua coreografia!

    Il ragazzo e l’allenatore si voltarono all’unisono.

    – Yakov Felstman, che ha vinto tre medaglie olimpiche e tre titoli del mondo – disse Victor, come se fosse la cosa più normale del mondo discutere con lui.

    – Quattro titoli del mondo – ringhiò sottovoce Yakov.

    – Ah… – la donna si bloccò, interdetta.

    – Era una bella coreografia – disse Yakov, richiudendo il computer. – Domani me ne farai vedere un’altra?

    – Certo! – replicò il ragazzo. – Domani sarò una goccia d’acqua.

    L’umiltà non sembrava proprio il suo forte.

    – Lasciami indovinare, tuta blu? 

    – Eh… Sì.

    – Allora ci si vede domani, Vitya.

    – Ehm… A domani, allora.

 

 

    – Dov’eri finito? – chiese Dimitri – I migliori stanno per iniziare.

    – Uff…

    – Dal ragazzo? Lascialo perdere, sarà già un mezzo delinquente.

    Vero, quasi sicuramente.

    – Vediamo come pattina domani, oggi può aver avuto fortuna – concesse Yakov.

    Si sforzò di concentrarsi sul gruppo che iniziava in quel momento il riscaldamento.

    Pattinavano bene, alcuni molto bene. Avevano tutti pattini della giusta misura, costumi di discreto gusto, allenatori che avevano dietro uno staff tecnico almeno elementare. Non che fosse colpa loro, certo, ma il suo compito, constatò Yakov, era valutare le potenzialità di quei ragazzi, non il valore assoluto in quel momento. Nessuno di loro avrebbe partecipato a un’olimpiade il giorno seguente. E nessuno di loro, ne era certo, si era preparato la coreografia da solo.

    Però pattinavano bene. Sopratutto Georgi e Kirill. 

    Georgi era diligente e preciso. Ascoltò con attenzione il proprio allenatore prima dell’esibizione e poi eseguì il proprio programma senza sbavature. Anche senza guizzi, certo, ma per un dodicenne non era male. Anche passando agli juniores se la sarebbe cavata bene, tra i primi dieci nel campionato nazionale.

    Kirill era ancora meglio. Si muoveva con grazia e si intuiva uno sforzo interpretativo, oltre a una tecnica impeccabile. Avrebbe vinto lui, a meno di crolli clamorosi nel libero. Non era Ekaterina, però, o Ivan. Era un giovane campione, questo era sicuro. Ed era consapevole di esserlo. A quanto pareva, il suo attuale allenatore continuava a ripeterglielo. Fin dove si poteva spingerlo? Beh, si sarebbe visto.

    Eppure continuava a pensare al ragazzino con la tuta malamente smacchiata. Come avrebbe pattinato, con i giusti mezzi a disposizione? 

    E a Ivan, che a tredici anni si sarebbe mangiato Kirill a colazione, togliendogli in un istante il sorrisetto tronfio con cui il ragazzo prese atto del proprio primo posto. Lui non se ne sarebbe andato con quel passo sicuro, ma sarebbe corso a complimentarsi con il secondo e il terzo. Adesso, però, Ivan avrebbe dovuto imparare a caricare pezzi di metallo nelle stampatrici e sarebbe stato meglio per tutti, sopratutto per lui, se si fosse dimenticato nel più breve tempo possibile cosa significava salire sul gradino più alto di un podio.

 

 

    Tuta blu. Di seconda mano anche quella. Probabilmente, pensò Yakov, mentre osservava il ragazzo durante i minuti di riscaldamento, era partito da quello, da ciò che aveva a disposizione, per costruire i propri programmi. Un’impostazione da professionista.

    L’allenatore non sembrava dargli chissà quale valore aggiunto, anzi, non sembravano proprio avere una grande confidenza.

    – Non è l’allenatore, è il dirigente del centro sportivo – disse Dimitri, che stava osservando le stesse cose. – Lo allena una ragazza che una volta è arrivata dodicesima ai campionati nazionali juniores.

    – Ci credo che non abbia le basi, allora… Quindi ti sei informato?

    Dimitri si strinse nelle spalle.

    – È un tipetto curioso. Ieri, subito dopo la gara, ha avvicinato Kirill per chiedergli un consiglio. Il nostro aquilotto gli ha risposto che prima doveva imparare a pattinare. Io gli avrei affibbiato almeno un pugno in faccia, mentre il ragazzetto ha detto che era proprio quello che stava facendo e che un giorno sarebbero saliti sul podio insieme. Per un attimo ho pensato che sarebbe stato interessante vederli allenarsi insieme.

    Yakov grugnì.

    L’aquilotto era un po’ troppo abituato a primeggiare. Un atteggiamento pericoloso, a quell’età, ma probabilmente sarebbe bastata Ekaterina a rimetterlo in riga.

    Il ragazzo, Vitya, aveva cominciato.

    Aveva scelto una canzone che parlava di pioggia e di lacrime. E no, la coreografia del giorno prima non era stata un caso. Se solo fosse stato un po’ più preciso…

    – L’impostazione del Loop è giusta! – esclamò Dimitri.

    Un doppio Loop perfetto. Fatto guardando per due minuti delle fotografie, il giorno prima. 

    – Adesso tenta una combinazione – mormorò Yakov.

    – Troppa arroganza – commentò Dimitri.

    Sì. Cadde di sedere sul secondo salto, ma si rialzò subito, recuperando la sincronia con la musica. Questo voleva dire che aveva cambiato in corsa la coreografia. Aveva nervi salvi e consapevolezza di quel che stava facendo, anche se tendeva ad esagerare.

    – Se non fosse caduto e non avesse fatto così tante imprecisioni con questo programma si giocava il podio – commentò Dimitri, quando ebbe terminato.

    – Entrerà comunque nei primi dieci, non male per la prima gara nazionale – ragionò Yakov. – Tu come te l’eri cavata?

    – Dodicesimo. Ma avevo dieci anni, ero il più piccolo. Tu?

    – Quarto. Ci sono rimasto malissimo.

    – Quindi? – chiese Dimitri.    

    Yakov sospirò. Il ragazzo aveva enormi margini di miglioramento, questo era certo. Ma tra avere una possibilità e riuscire a realizzarla c’erano in mezzo una marea di variabili, alcune del tutto imponderabili. Era una scommessa in qualsiasi caso e se le complicazioni erano troppe forse non valeva la pena di scommettere. Se c’era una cosa che Yakov odiava era creare aspettative che poi non era in grado di soddisfare.

    – Vediamo di fare una chiacchierata con i suoi accompagnatori, a fine gara.

 

    Vinse Kirill, Georgi arrivò terzo, con una performance un po’ sporcata dall’emozione. Il secondo aveva quasi quindici anni, uno di quelli che aveva preferito rimanere a primeggiare tra i Novice piuttosto che passare agli Juniores.

    Yakov andò a parlare con i suoi due osservati e i rispettivi genitori, entrambi i ragazzi sembravano ben consapevoli di cosa volessero e di cosa ci si aspettava da loro. 

    – Io voglio vincere le olimpiadi, come te – disse Kirill, alzando il mento, quando fu davanti a Yakov.

    Il padre del ragazzo, un ex militare, gli mise una mano sulla spalla in segno di approvazione.

    – Noi siamo gente nata per primeggiare – disse.

    – Allora devi metterti in testa di lavorare sodo – replicò il tecnico al ragazzo, ignorando il padre. – Più di quanto tu abbia mai fatto. Ti aspetta una giovinezza senza uscite con gli amici il venerdì o il sabato sera, senza vacanze. Ti alzerai molto prima degli altri ragazzi, tutti i giorni, avrai male da qualche parte tutti i giorni. Non deciderai tu cosa mangiare, figuriamoci cosa bere. Dovrai ripetere gli stessi esercizi fino allo sfinimento e trovarti dei ritagli di tempo per studiare, se non vorrai fare la figura dello zotico. Dovrai ubbidirmi ciecamente, anche quando mi odierai con tutte le tue forze. Tutti i tuoi amici avranno vite più semplici della tua e te lo ricorderanno ogni santo giorno.

    – Voglio vincere le olimpiadi – replicò il ragazzo, senza cambiare espressione.

    Yakov si augurò con tutto se stesso che fosse sincero.

    Per certi versi una volta era davvero meglio. Essere uno sportivo voleva dire essere un privilegiato, poter viaggiare, accedere a cose che gli altri non potevano neppure sognarsi. Yakov, da ragazzo, tornava dalle trasferte carico di musica occidentale, libri introvabili e cibi inesistenti. Erano tesori ben miseri, ma a quindici o sedici anni bastavano a fargli dire che ne valeva la pena. Adesso che la Russia era nel libero mercato da quasi dieci anni, perché mai un ragazzo avrebbe dovuto sacrificare la propria vita a un sogno quanto meno improbabile?

    – Vedremo – grugnì.

    Georgi gli diede una risposta che gli piacque di più.

    – Io sono abituato da sempre a dare il massimo… E voglio conoscere Ekaterina.

    – Ti piace, eh?

    Il ragazzo arrossì. 

    Se non altro eccellere per potersi pavoneggiare davanti a una bella ragazza era una motivazione che sarebbe cambiata per colpa della politica. Anche se… Ne aveva di strada da fare, Georgi, se voleva impressionare Ekaterina con il pattinaggio.

 

    

    Vitya era stato parcheggiato su un altro tavolo del bar del palaghiaccio con un’aranciata e degli esercizi di matematica mentre gli adulti discutevano del suo destino. 

    Yakov era convinto che in realtà avesse orecchie ben tese verso la conversazione, anche se forse non era così, forse era abituato al fatto che la sua vita fosse decisa da altri.

    – Il ragazzo ha talento – stava dicendo l’uomo che l’aveva accompagnato. – I nostri mezzi sono limitati, ma è arrivato comunque ottavo. Se ne potrebbe fare un campione.

    Voleva soldi. Non solo quelli dovuti per il cambio di società. A Yakov non piaceva per niente, non gli piaceva aver notato come il ragazzo, che non si faceva intimorire da niente, neppure da una leggenda vivente del pattinaggio come lui, sembrasse a disagio in sua presenza. Ma un giro di mazzette era la cosa più facile da gestire. I problemi veri erano altri.

    – Il padre esce di galera tra quattro mesi – spiegò Irina, l’assistente sociale. – In teoria potrebbe riprenderselo indietro, ma non ci crede nessuno. Capirete, è stato in carcere cinque anni, quasi la metà della vita del figlio, e non è che prima fosse un padre presente. Per farlo andare a vivere a San Pietroburgo ci vorrebbe qualcuno che ne chiedesse l’affido, magari disposto a convincere il padre a cederne la patria podestà.

    Insomma, altre mazzette.

    – Noi però vogliamo un atleta, non un delinquente – disse Dimitri.

    – A Vitya piace piacere – rispose l’assistente sociale. – Certo, è un po’ selvatico, come tutti quanti, ma tra questo e il pattinaggio si è quasi sempre tenuto fuori dai guai.

    – Quasi?

    – Stiamo parlando di ragazzi che o non hanno nessuno o è meglio che non avessero nessuno. Tutto il paggio della nostra nuova Russia ha fatto parte direttamente o indirettamente della loro realtà. Il nostro obiettivo è dare a loro un lavoro onesto, ci riusciamo quasi nella metà dei casi e ci riteniamo bravi – spiegò la donna. – Vitya e i suoi amici qualche mese fa hanno cercato di rubare dei cd in un negozio. Lui faceva il palo, ma si è distratto e si è fatto beccare. Una cosetta da nulla.

    Ecco. Yakov evitò di chiedere cosa la donna riteneva non fosse “da nulla”. 

    Spiò con la coda dell’occhio il ragazzo tirare su una riga sul quaderno e sospirare sconsolato.

    – A scuola come se la cava? – chiese.

    – Quello è un problema – rispose l’assistente sociale. – I professori dicono che ha la testa tra le nuvole o che non sa concentrarsi. Le materie di studio e quelle tecniche sono un disastro.

    – Perché, rimane qualcosa? – domandò Dimitri.

    – Le lingue, la musica… Però, capite, noi dobbiamo prevedere un percorso di studi che li renda indipendenti il prima possibile. Un corso da meccanico, da elettricista, una cosa così… Voi ve lo vedete Vitya a fare il meccanico?

    Yakov guardò di sottecchi il ragazzino, con le sue mani sottili, gli abiti ordinati, il talento innato per dare vita alla musica.

    – No – ammise.

    – Il pattinaggio può davvero diventare una professione? – chiese la donna.

    – Per noi è una professione – replicò Yakov. – Nell’immediato vuol dire avere tutto spesato dalla federazione, cure mediche, supporto tecnico, istruzione, almeno di base. I ragazzi dei centri federali frequentano scuole apposite, con orari pensati ad hoc. Parliamoci chiaro, i professionisti veri sono una ventina in tutto il mondo e quelli oggi hanno sponsor, opportunità che noi neppure ci siamo sognati, ma cerchiamo comunque di dare qualcosa ai tutti i nostri atleti.

    Un posto da operaio, nel peggiore dei casi. Che coincideva comunque con il meglio a cui quel ragazzo poteva aspirare stando dove stava.

    – Yakov, pensaci bene – disse Dimitri. – Dovresti prendertelo in casa, sotto la tua responsabilità fino alla sua maggiore età, qualsiasi cosa accada. Essere responsabile di tutte le sue cazzate, i reati che potrebbe commettere. E la maggior parte dei ragazzi che viene da queste realtà non è in grado di mantenere impegni a lungo termine. Alla prima difficoltà ti svaligia casa e se ne va.

    L’assistente sociale aggrottò la fronte, ma non replicò. 

    Dimitri aveva ragione, quasi sicuramente.

    E Yakov non voleva prendersi mai più un ragazzo in casa. Poteva dirgli e dirsi tutto quello che voleva, che non cambiava niente, rimaneva un atleta come un altro, ma non era vero.

    Sbuffò.

    – Ragazzo, vieni qui – chiamò.

    Docile, Vitya si avvicinò con quel suo sorriso con cui, a quanto pareva, si rigirava tutti.

    – Perché pattini? – chiese Yakov.

    Il ragazzo ci pensò un attimo.

    – Quando pattino sento di esistere. E io voglio esistere, per il maggior numero di persone possibile, il più a lungo possibile.

 
   
 
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