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Autore: walls    22/11/2018    2 recensioni
«So I wrote her a poem, but she didn’t like it.»
«Why? Was it that bad?»
«Well, it was like:
“Dear Katy,
I’m so tall,
I’ll fuck you hard
against the wall”».
«Wow, I wonder why she didn’t like it.»

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Cosa resta della nostra età se togli la rivolta, la rabbia, la musica, la fame, la voglia di scrivere da capo una storia irrisolta?
Genere: Introspettivo, Sentimentale, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Capitolo Due – Bound To You




 

Quando si erano conosciuti, molti anni prima, Aaron ricordava di aver pensato che Daz Miller dovesse essere il bambino più malinconico della Terra. La sua casa, gli aveva detto dopo appena qualche minuto di conversazione, sorgeva ai piedi delle colline che si ergevano morbide intorno al perimetro della città, in una ricca zona periferica dove tutti i prati venivano periodicamente tagliati con cura, le villette erano sempre impeccabili nella loro statuaria eleganza e nell'aria aleggiava un allegro profumo di fiori d'arancio. Eppure qualcosa, nelle frasi e nello sguardo di quel bambino, gli aveva lasciato pensare che tutto quel discorso accorato non fosse che il riflesso di un pensiero che non gli apparteneva fino in fondo e questo, in qualche modo, lo aveva turbato.
«Mamma e papà sono imprenditori, hanno un'azienda di vini davvero famosa» lo aveva sentito continuare, apparentemente fiero di raccontare al suo nuovo compagno di giochi quale fosse la storia della sua gloriosa famiglia, «e ho un fratello più grande che si chiama Drew ed è super intelligente!», gli aveva detto in conclusione, posizionando il modellino della sua macchina sportiva alla partenza di un'immaginaria pista da corsa.
Aaron lo aveva studiato per un po', la propria piccola Ferrari ancora fra le mani paffute, con un' evidente curiosità scolpita nei grandi occhi verdi: avevano cominciato a parlare da molto ormai, circa un'ora, eppure non aveva ancora imparato davvero qualcosa che riguardasse Daz in prima persona. Avevano parlato della scuola, dei giocattoli che lui era riuscito conquistare dopo una marea di suppliche ai suoi genitori, gli aveva raccontato delle torte buonissime che sua nonna Theresa era in grado di preparare e di quella volta in cui si era nascosto dentro al forno per farle uno scherzo; presa un po' di confidenza, poi, si erano divertiti molto e avevano riso, spensierati, ad alcune sciocche battute sulle loro piccole coetanee,  sugli studi disperatissimi del fratello di Daz e l'ossessione per il fitness di Catherine, sua madre, eppure Aaron non aveva colto una sola informazione che avesse potuto rivelargli un dettaglio in più di quel suo nuovo amico. Gli sembrava così... solo. E tuttavia non una persona banale. Fu proprio questo, forse, a spingerlo nel tentare un nuovo approccio per soddisfare il suo profondo interesse.
«Non mi hai detto quasi nulla di te» gli fece notare allora, concentrato e avvilito allo stesso tempo, nel pieno di una gara che entrambi si stavano sforzando di vincere: nella loro fantasia, ormai, mancavano soltanto pochi giri del percorso prima che uno dei due potesse tagliare il traguardo e diventare il campione della corsa automobilistica di quel pomeriggio, per cui quello gli era parso il momento più adatto per intervenire. «Parli tanto dei tuoi, ma di quello che fai o ti piace non so nulla. Come sono i tuoi amici? Simpatici, cattivi? Giochi a calcio? Qual è il tuo colore preferito?».
Daz di colpo sussultò, come se una scossa di carica elettrica avesse appena trapassato il suo corpicino, e la sua Jaguar andò involontariamente fuori pista, decretandone l'esclusione dalla competizione. «No, che palle!» esclamò, tradito dalle sue improvvise emozioni. Aaron gli sorrise, benevolo. «Tranquillo, è stata colpa mia» ammise, e lentamente arrestò la corsa del proprio veicolo in modo da dare all'altro il tempo e il modo di rimettersi in carreggiata.
Daz ci mise un po', assorto com'era nei pensieri che quella sfilza di domande aveva generato nella sua mente, ma riposizionò l'auto nel punto esatto in cui ricordava fosse avvenuto lo sbando, poi guardò il ragazzino che gli stava di fronte con un'aria stralunata. Si rese conto di non avere la minima idea di cosa rispondere.
«Non ho molto da dire» soffiò infatti poco dopo, abbassando la testa sebbene non si sentisse affatto a disagio. «Faccio parte della mia famiglia, sono in terza elementare come te e un giorno sarò direttore della nostra impresa». Poche, essenziali, notizie.
Aaron, pregno di quella curiosità che da sempre caratterizzava la sua natura, restò terribilmente deluso da quello sterile annuncio. «E basta? Questo è tutto?» insistette.
Daz alzò le spalle, senza una particolare espressione sul viso. Del resto, cosa avrebbe potuto rispondere? Non aveva nonne di cui raccontare, non praticava alcuno sport, e a scuola non aveva troppi amici con cui condividere giochi o passare il tempo.
«Sì, è tutto» disse, anche lui un po' triste nel realizzare quella verità. L'altro ragazzino tacque, sinceramente dispiaciuto.
Qualche minuto dopo, comunque, quando i genitori di entrambi li raggiunsero dalle loro panchine per fare ritorno a casa dal parco, Aaron si sentì in dovere di chiarire una questione, stringendo Daz in un abbraccio genuino che sapeva di promesse.
«Ci vediamo domani, stessa ora» pronunciò, solenne. «E porta la tua bicicletta. Ci sai andare, in bici, vero?». L'altro annuì, confuso da quell'affetto inaspettato e quei modi di fare così spontanei.
«Bene,  uno a zero per me! Ora so qualcosa! Voglio scoprire quanto più posso di te, e non mi va che tu stia sempre da solo. A partire da oggi, io sarò il tuo migliore amico».
Daz lo guardò interrogativo, quasi spaventato da una pretesa tanto inopportuna, ma non disse niente: in fondo, quello strambo ragazzino si stava dimostrando molto gentile nei suoi confronti. E così si salutarono; lui titubante, e l'altro felicissimo, determinato a perseguire il proprio folle, presuntuoso intento.
Da quel momento in poi Aaron, pur sapendo che per realizzare quella sua pazza idea non sarebbe bastata una vita intera, aveva continuato a mantenere il suo giuramento e la loro amicizia era sorprendentemente cresciuta di anno in anno, fortificandosi non senza difficoltà e litigi che spesso li avevano tenuti lontani per qualche tempo.
Eppure, a distanza di quasi dieci anni, alla luce dei fatti recenti e mentre nella penombra della sua camera guardava nostalgico alcune foto di gruppo dove Daz compariva accanto a lui, quasi sempre con un mezzo sorriso malinconico, si chiese se davvero fosse riuscito nella sua impresa di renderlo una persona felice, senza riuscire a darsi una risposta.






 

«Hai finito?»
Noah non rispose. Sotto la doccia si massaggiò il viso, poi passò le mani fra i capelli pieni di shampoo, cercando di portarne via quanto più possibile sotto un getto rilassante di acqua calda. Di sottecchi, cercò di guardarsi nello specchio affisso proprio sulla parete di fronte alla cabina, sopra il lavandino, spiando ciò che poteva attraverso la nube di vapore che aveva riempito la stanza: il bagnoschiuma scivolava lento lungo le linee del suo corpo snello ma ancora acerbo, dai pettorali appena accennati, passando per i fianchi stretti, fino a delineare le caviglie sottili, sperdendosi ai suoi piedi. Con i polpastrelli tracciò il contorno dei propri zigomi pronunciati, delle labbra impreziosite su un lato da quel piccolo piercing circolare, del naso dritto spruzzato di lentiggini chiare. Non sapeva dire di piacersi davvero. Alla sua età, nel pieno dello sviluppo che caratterizza i ragazzi di diciotto anni, molti dei suoi coetanei erano già praticamente uomini: muscolosi, fieri, duri; sui volti di alcuni, addirittura, baffi fitti e tracce di una barba che si sarebbe infoltita sempre di più. Persino i suoi amici dimostravano qualche anno in più.  Lui, invece, constatò deluso, era ancora soltanto un ragazzino. Sebbene fosse diventato più alto rispetto alla maggior parte dei suoi compagni e ne fosse intimamente fiero, Noah non aveva notato nessun segno di un cambiamento tangibile nel proprio fisico: era ancora lo stesso, banale biondino ch'era sempre stato, con i suoi grandi occhi chiari e la corporatura esile.
Sbirciando meglio, notò poi l'espressione corrucciata che il suo viso aveva assunto a quel pensiero. L'età non aveva sortito alcun effetto  nemmeno dal punto di vista caratteriale, a quanto pareva; restava lo stesso ragazzo insoddisfatto e intrattabile di sempre.
«Allora? Ci vuole molto?»
Noah inspirò ad occhi chiusi, cercando di trovare la pace in un sana boccata d'aria prima di esplodere in un istintivo «Non rompermi i coglioni!» all'ennesimo urlo della sorella, che altro non fece se non confermare le teorie sulla propria, complicata adolescenza.
«Sei lì dentro da più di mezz'ora, deficiente!» lo aggredì Paige dall'esterno, sinceramente stanca di quell'attesa: dopotutto, nel pomeriggio, ancora prima che lui avesse potuto prendere qualsiasi decisione su come passare la sua serata, lei era stata chiarissima per quanto riguardava i propri impegni. «Devo uscire con Peter Taylor, cazzo, lo sapevi, e adesso per colpa tua farò sicuramente ritardo!».
Suo fratello restò ancora una volta in silenzio, completamente sordo alle sue proteste; tuttavia, dopo qualche istante, a giudicare dai rumori che poteva udire, lui ruotò la manopola rossa in modo che l'acqua non fluisse più, e successivamente infilò un accappatoio, prima di scendere dal piatto doccia nella più totale tranquillità con uno sciabordio lieve: dalla lentezza disumana con cui si muoveva, era chiaro che non avesse alcuna intenzione di favorire quell'appuntamento per lei così importante. Paige batté due volte i pugni sulla porta. Era ingiusto che quell'idiota si comportasse in quel modo, in particolar modo pur sapendo quanto lei ci tenesse.
«Ti odio!» urlò più forte che potè, sull'orlo delle lacrime.
Fu solo allora che Noah si degnò di uscire dalla stanza  tenendole aperto il passaggio con il palmo aperto contro la porta massiccia: «Addirittura piangi?» sorrise, soddisfatto della reazione che aveva innescato. Paige alzò verso di lui gli occhi color nocciola, ora lucidi e pieni di collera. Possibile che si divertisse così tanto nel darle il tormento?
«Sei veramente uno stronzo,» disse, tremante, e nell'entrare finalmente nel bagno lo urtò violentemente con la spalla destra. «Uno stronzo dispettoso» aggiunse, a denti stretti.
Il fratello la osservò a lungo, stretto nella sua vestaglia di spugna azzurra, ad un tratto turbato, senza scostare neanche un secondo lo sguardo dai gesti sapienti che le mani di quella ragazzina avevano iniziato a compiere sui propri capelli: arrotolavano, esperte, piccole ciocche color grano attorno alla ceramica di una piastra, poi le tiravano in giù creando un effetto morbido e naturale che, osservò lui, le donava molto. Il trucco che lei doveva aver applicato sul viso in precedenza, notò poi, era tenue, sfumato con toni caldi che scolpivano perfettamente la pelle chiara, e gli occhi erano stati allungati con una sottile riga di eyeliner nero, ora leggermente sbavata per colpa sua. Noah pensò che, anche con quella piccola imperfezione, quella sera Paige fosse davvero bella. Più del solito, insomma.
E fin troppo.
«Dove credi di andare conciata così?» chiese allora, guardandola quasi con disgusto in un moto di gelosia malcelata.
La ragazzina controllò allo specchio che tutto, sul suo volto, fosse in ordine; poi, non riscontrando grandi particolarità nel suo operato, passò ad analizzare il proprio outfit, timorosa di aver sbagliato qualcosa nell’accostamentamento dei vestiti: indossava un semplice maglioncino color panna a maniche lunghe leggermente accollato, infilato dentro una gonna di jeans a vita alta, sfilacciata lungo tutto l'orlo. Al di sotto, un paio di collant neri sufficientemente velato avvolgeva le gambe snelle mentre, ai piedi, le sneakers firmate Puma che Ollie le aveva regalato per il suo ultimo compleanno, ancora nuove, venivano esibite in tutta la loro novità. Paige davvero non capiva a cosa diavolo si stesse riferendo suo fratello.
«Emh... a fare un giro?» azzardò allora, retorica, ma soprattutto sicura che non ci fosse nulla di sbagliato nel modo in cui si era preparata per la propria uscita.
Noah storse le labbra, innervosito dalla sua indisponenza: «Vai a cambiarti» le ordinò con voce alta ma ferma. «Sembri una vecchia».
Paige, contro ogni previsione, decise di ignorarlo, pur sentendo bruciare tra le viscere il fuoco di un'offesa così schiva: dentro di sé, stabilì che non aveva voglia di sprecare altro tempo prezioso per questioni inutili come quella. Dopotutto, non era certo la prima volta che veniva ingiustamente rimproverata da suo fratello per il suo modo di vestire e comportarsi.
«Avete finito di beccarvi, voi due?» Sua madre comparve proprio in quel momento affacciandosi dalle scale, attirata dai toni gravi che aveva sentito dal piano inferiore, mentre Noah si scostava indignato dalla porta in modo da lasciare a sua sorella lo spazio necessario per passare nel corridoio: con la mamma ad assistere, pensò, non valeva la pena di continuare a discutere. Paige, dal canto suo, non si lasciò sfuggire l'occasione per approfittare di quel secondo di distrazione e sfilare a tradimento la cinta che teneva chiuso l'accappatoio del fratello, ora libero di svolazzare e scoprire ogni parte del suo corpo. Con quel colpo di cannone, la guerra che era stata implicitamente annunciata trovò la propria effettiva dichiarazione.
Noah scattò quasi all'istante, imbarazzatissimo, imprecando a pieni polmoni mentre sua sorella tentava la via della fuga.
Mace, triste spettatrice, guardò i suoi figli rincorrersi fra le stanze della zona notte, entrambi ancora molto giovani e incredibilmente immaturi, con rabbia e un pizzico di apprensione: nonostante quello che stava vedendo non le piacesse affatto, aveva timore che un suo intervento fisico non avrebbe fatto altro che peggiorare le cose, rischiando di travolgere o farsi travolgere da qualcuno e farsi male nella foga del momento. Uno dei due, osservò con orrore, durante l'inseguimento aveva fatto quasi cadere una cornice dalla consolle addossata al muro: Paige era riuscita appena ad afferrare il chiodo di pelle nera appeso alla maniglia della sua stanza che Noah le era subito saltato addosso, slargandole il maglioncino chiaro con uno strattone che l'aveva fatta barcollare.
«Dio Santo, basta!» urlò Mace a quel punto, severa e frustrata. «Siete insopportabili!»
Noah strinse i denti, completamente fermo nell'accappatoio ormai ridotto ad uno straccio: sua sorella, sebbene si fosse di colpo immobilizzata sul posto, stava continuando a tirarne il tessuto dalla manica per ritrovare l'equilibrio perduto. «Piantala, stupida» ringhiò, a bassa voce.
Mace era disperata. Con grandi falcate si avvicinò ai suoi figli e, imperiosa, li divise, ordinando al primogenito di rimettere in ordine sia il bagno che il corridoio, e alla più piccola di cambiarsi immediatamente. «E' ovvio» aggiunse poi, per non dar modo che si fraintendessero quelle sue richieste «che nessuno dei due uscirà, questa sera. E nemmeno quelle a venire. Mettetevi pure comodi nelle vostre camere».
I due fratelli si guardarono, allibiti, sollevando proteste all'unisono, e Mace trovò davvero fastidioso il fatto che si trovassero ad essere sempre stranamente concordi, in contesti del genere.
«Quando imparerete a comportarvi da persone civili, allora ne riparleremo» concluse, stroncando sul nascere ogni eventuale supplica: anche se soffriva nel dar loro quella punizione, sebbene entrambi fossero ormai decisamente grandi per riceverne, sentiva di non avere altra scelta se non quella di forzarli a restare in casa a riflettere sulle proprie azioni. Paige s'imbronciò, le braccia stese lungo i fianchi e le mani chiuse in due pugni stretti. Sembrava essere sull'orlo di una crisi isterica, e questo intristì sua madre nel profondo.
«Aspetto questo giorno da settimane, mamma, e adesso vuoi dirmi che devo rimanere chiusa in questo posto con lui?» le domandò, lugubre, indicando il fratello che, a sua insaputa, si stava chiedendo esattamente la stessa cosa.
La madre annuì decisa, incrociando lo sguardo irato di Noah prima che lui girasse i tacchi per tornare nella sua camera da letto con uno schianto sonoro della porta: se anche la reazione dei suoi figli a quell’ aspro rimprovero avesse fatto tremare il suo cuore colmo d'amore, non lo diede a vedere. Si congedò con una seria ammonizione nei confronti di entrambi, poi tornò di sotto a passi lenti.
Mezz'ora più tardi, però, piegata su una pila di vestiti appena stirati da riporre nei vari armadi della casa, Mace pianse silenziose lacrime amare, chiedendosi come si sarebbero evolute le dinamiche all'interno della sua  famiglia ormai spaccata se solo Dio avesse concesso qualche anno di tempo in più a Luke, suo marito, prima di strapparglielo via con una malattia che tutti loro, neppure lottando insieme, erano stati in grado di sconfiggere.


 


 

 

Bastarono pochi minuti perché il suo battito cardiaco e il respiro tornassero ad essere regolari. Il rossore sulle guance era quasi del tutto svanito, affievolendosi pian piano, e come unica testimonianza di quel piccolo momento di debolezza appena vissuto, non le restava che qualche lacrima intrappolata fra le ciglia curve di mascara.
Paige strinse un altro po' le ginocchia al petto, ancora tremante, e chiuse gli occhi: una volta gettati all'aria i vestiti che aveva scrupolosamente scelto per quella serata così speciale, furiosa e sconvolta, aveva trovato conforto soltanto in quell'angolo specifico della sua camera, accovacciandosi fra i cuscini morbidi della panca incassata sotto la finestra, e solo lì si era sentita libera di prorompere in un pianto senza freni, mantenendo quella posizione fetale fino a quando non era riuscita a calmarsi completamente. Nascosto sotto il palmo della mano sinistra, aperto contro il tessuto vellutato della seduta azzurra, riposava il cellulare con il quale in precedenza aveva tentato di farsi strada nel buio della stanza, ora rischiarato a malapena  dai raggi lunari che s'insinuavano dai vetri: durante il suo sfogo, completamente inopportuno, lo smartphone non aveva fatto altro che illuminarsi fastidiosamente a intermittenza, segnalando la presenza di chiamate e messaggi ai quali lei non aveva avuto intenzione di rispondere. Se per timore o per rabbia, non sapeva dirlo.
Si guardò intorno, sconfortata come poche altre volte nella sua breve, seppur intensa vita, e stringendo i denti nello sforzo di confinare dentro di sé le proprie irruente emozioni, trovò tutta quella situazione terribilmente crudele e ingiusta: a conti fatti, chi ci aveva rimesso davvero, quella sera, era proprio lei. Lei, che ora se ne stava rintanata fra le mura sicure della sua stanza, mentre Noah, pur condannato alla stessa pena, rideva allegro al piano di sotto, felice che i suoi amici avessero comunque trovato un modo per passare il sabato sera insieme senza che lui fosse escluso: solo una decina di minuti prima, l'intera comitiva aveva fatto irruzione con nonchalance in casa loro, trascinandosi dietro birre e svariate confezioni di cibo cinese ben imballato, accompagnati da un'intensa puzza di fumo, pungente testimone di quella cattiva abitudine a tutti loro comune, all'insegna del relax più totale.
Paige si morse le labbra, traendo dall'invidia di quel pensiero la forza per sbloccare lo schermo del telefono, pronta a  leggere rapidamente i nomi dei mittenti di alcuni dei messaggi che aveva ricevuto nella speranza di non dover sopportare l'ennesima delusione anche da parte di quell'unica persona da cui lei si aspettava delle conferme e, specialmente in quello specifico momento, comprensione. Con sollievo, cercando tra i messaggi più recenti, scoprì che le sue aspettative non erano state deluse: quelle frasi di conforto tanto desiderate e sofferte erano proprio lì, vivide, tangibili, digitate con tutta la dolcezza di cui solo lui era capace.

 

Messaggio ricevuto
Ore: 8.20 p.m. - Da: Pete  

“Tesoro, ci vuole ancora molto?
Sono sul vialetto."



Messaggio ricevuto
Ore: 8.34 p.m. - Da: Pete  
“Ci sei? Sto provando a chiamarti..."



Messaggio ricevuto
Ore: 8.44 p.m. - Da: Pete  
“Dalla finestra ho intravisto te e tua madre,
e dalle vostre espressioni
immagino che tiri una brutta aria in casa.
Non so se aspettarti ancora oppure andare via... a malincuore.
Per favore, dimmi qualcosa”



Messaggio ricevuto
Ore: 9.13 p.m. - Da: Pete  
“Mi dispiace molto che il nostro primo appuntamento ufficiale sia andato in questo modo. Qualsiasi cosa sia successa,
spero che non abbia nulla a che vedere con me, perché mai
vorrei essere la causa della tua sofferenza, anche se in realtà penso di sapere qual è il reale motivo e,
in ogni caso, so per certo che non é colpa tua..
Appena puoi, ti prego, scrivimi."


Messaggio ricevuto
Ore: 9.57. p.m. - Da: Pete  
“... Sappi che sono molto legato a te, Paige. 
Di qualunque cosa tu abbia bisogno, io sono qui.♥️
"



 


Paige sorrise a labbra chiuse, sognante, soffermandosi per qualche secondo su quell'unica emoji e, più in generale, sulla delicata confessione che fino a quel momento le era stata in qualche modo preclusa, forse a causa del velo di imbarazzo e insicurezza che entrambi avevano tessuto in quel primo mese di frequentazione: tutt'e due, infatti, sebbene sicuri del sentimento che li univa in maniera totalizzante, erano così dolcemente coinvolti l'uno dall'altra che il pensiero di azzardare una qualsiasi mossa che potesse anche solo per sbaglio rischiare di incrinare il loro rapporto rappresentava una minaccia tale da spingerli, il più delle volte, a non agire e non confrontarsi, nemmeno se questo avesse comportato una dichiarazione genuina o una carezza in più. Fu, dunque, grata che in questo senso a  fare il primo passo fosse stato lui, sollevandola da una sorta di responsabilità che spesso, negli ultimi tempi, aveva sentito gravare sulle spalle esili e a suo avviso troppo inesperte per sopportarne il peso.
Uno strano tepore le colorò le guance di un rosa pallido.
 


Messaggio inviato
Ore: 10.01 p.m. - A: Pete  
“Grazie per aver capito e, soprattutto, scusami, ma ero davvero troppo arrabbiata per badare al cellulare. Come penso tu abbia capito, di mezzo  c'è la mia famiglia...Ancora.
Ad ogni modo spero davvero che potremo rifarci al più presto e che non mi odi per essermi comportata in modo così infantile.
Oltre a questo, voglio dirti che sono felice che questa situazione ci abbia portati ad una 'svolta’, se così si può chiamare...
anche io sento di essere legata a te.
♥️”


 

Aveva composto quel messaggio con impazienza ed estrema sincerità, ma soltanto quando si trattò di inviarlo davvero Paige si concesse qualche istante di riflessione, respirando profondamente: era giusto esporsi in quel modo? Davvero la loro relazione poteva definirsi "sbloccata" e pronta a maturare in vista di qualcosa di più serio sulla base di un semplice dettaglio?
Da brava adolescente innamorata, si era lasciata subito andare a mille fantasie, frenetiche e romantiche, basandosi sulla propria impulsività senza darsi né dare il tempo di metabolizzare e gestire quella nuova intesa che si era inevitabilmente creata fra loro, e immediatamente dopo era lì, pronta a smentirsi, sminuendo da sé i propri pensieri. Era giusto, allora, pensare di poter passare così presto da quel rapporto a tratti ancora acerbo e formale, ad uno più impegnato senza delle reali fondamenta?
Paige si diede della stupida, ed eliminò di fretta l'ultima parte del testo, scritto in modo davvero troppo avventato, sostituendolo con una frase di circostanza e augurandogli una buona notte con la promessa che il giorno dopo, a scuola, si sarebbero incontrati: per quanto ne fosse contenta, per quanto lo avesse desiderato a lungo, convenne con se stessa che fosse il caso di aspettare ancora, tutelarsi, prima di sbilanciarsi a sua volta e correre il rischio di farsi travolgere dalle emozioni ed essere considerata immatura oppure superficiale e frivola. Certo, avrebbe potuto concedersi una confessione meno esplicita, magari anche meno banale di quella che aveva scelto, eppure il suo buon senso le suggeriva di attendere ancora e tacere, schiavo di un pensiero radicato a fondo in lei: nonostante sapesse quali significati sottesi quella piccola ammissione racchiudesse per entrambi e che lui stesse aspettando un segnale altrettanto importante da parte sua, lei decise di tenere quella piccola soddisfazione per sé, aggrappandosi  alla consapevolezza che quando fosse arrivato il momento adatto, avrebbe saputo manifestare i propri sentimenti e la propria felicità senza timore, ma soprattutto con la sicurezza che sarebbe derivata dalla presenza fisica di lui quando questo fosse accaduto. Per quanto fosse impacciata, infatti, e tremasse all’idea di palesare la propria intima emotività di fronte a Peter, Paige non si era mai tirata indietro di fronte a dimostrazioni maggiormente concrete, preferendo di gran lunga vivere determinate situazioni in prima persona, saggiando ogni sfumatura di un’emozione reale, positiva o negativa che fosse, piuttosto che celarsi dietro lo schermo freddo e inerte di un cellulare.







Il salotto di casa Martin sembrava, in definitiva, un campo di guerra: cadaveri di scatole ancora umide per quello che era stato il loro contenuto e scheletri di bottiglie di birra giacevano sulle poche porzioni di pavimento scuro lasciato libero dai divani in pelle bordeaux, disseminato di briciole e piatti colmi di avanzi. Dalla televisione, un film d'azione di recente uscita riempiva l'aria con spari assordanti e musica incalzante, come a voler contrastare il chiacchiericcio allegro che si sollevava dal gruppo di ragazzi sparso nella stanza.
Gale si stiracchiò pigramente, sazio e soddisfatto, seduto a gambe incrociate sul tappeto morbido che copriva buona parte della stanza e la schiena appoggiata alla poltrona dov'era seduto Noah. Accanto a lui, Charlie, sdraiato a pancia in su, scorreva la timeline di Facebook discutendo nel frattempo con Leo e Daz su quanto l'ultima partita giocata dal Liverpool contro il Manchester United fosse stata insoddisfacente dal punto di vista tattico. Aaron, a quanto pareva, era l'unico a non essere presente. Chissà per quale motivo, poi.
«Che ore sono?» proruppe ad un certo punto, scompigliando i capelli mori e distendendo le gambe, senza rivolgersi a nessuno in particolare.
Noah, incastrato fra i cuscini, abbassò lo sguardo verso di lui, essendo l'unico ad aver colto quella domanda nel frastuono generale: con un deciso movimento del polso sinistro, tatuato e marcato da una piccola croce filiforme, scostò il tessuto del maglioncino nero e scoperse il quadrante del proprio orologio. «Quasi l'una» rispose subito dopo, con uno sbadiglio prolungato. 
Gale lo ringraziò con un cenno del capo, poi rivolse lo sguardo oltre la persiana alla sua destra, scrutando l’oscurità di quella notte con occhi sospettosi. Il vento, quel vento caratteristico degli inizi del mese di  ottobre, che fino ad allora si era aggirato attorno alle case senza lasciare traccia delle sue lievi folate, all'improvviso aveva cominciato a soffiare con più insistenza, aprendo violentemente i battenti delle finestre chiuse per metà e facendo ondeggiare le tende pesanti semplicemente sfiorandole: era stato proprio lui, con la sua brezza pungente, a scoraggiare qualsiasi iniziativa che prevedesse di lasciare le mura calde e accoglienti di quella villa, costringendoli a rinunciare al loro consueto giro fra i pub del centro in favore di un’allegra cena tra amici. La proposta era stata avanzata da Charlie che, appresa la notizia del castigo di Noah e informato sulle condizioni meteorologiche, aveva prontamente escogitato un modo per aggirare entrambi i problemi, trasformando l'inconveniente in vantaggioso.
Sebbene lui non potesse saperlo, Gale gli era estremamente riconoscente. 
Il ragazzo sospirò, le iridi scure ancora puntate verso qualcosa di imprecisato al di là dei vetri ampi: grazie alle brillanti risorse del suo amico, aveva trovato un modo efficace per evitare di aggirarsi in determinate zone della città, scongiurando di conseguenza qualsiasi possibilità di incontrare ancora la ragazza che da un paio di settimane aveva preso a pedinarlo a tutti gli effetti, portandolo all’esasperazione.
«Che c’è? Temi di vederla spuntare da un cespuglio?» lo prese in giro Leo dall’altro lato della stanza, notando la sua espressione amareggiata e stanca, come ad averlo letto nel pensiero. Gale accennò una risata spenta, scuotendo la testa: «Non mi sorprenderebbe» ammise, cupamente sincero.
Victoria Smith, ormai, era arrivata a rappresentare un vero e proprio incubo.

«Stiamo parlando sempre della psicopatica del molo, giusto?» s’intromise Daz a quel punto, divertito come poche altre volte, portando quello specifico ricordo all’attenzione di tutti: una volta esaurite le opinioni positive riguardo la Premier League e appurato che Creep ancora continuasse a voler imporre le proprie obiezioni senza realmente ascoltarlo, aveva spontaneamente rivolto la sua attenzione altrove, giudicando le battute su quell’ argomento così scottante molto più stuzzicanti e leggere. Noah gli lanciò uno sguardo d’intesa e annuì, mordicchiando il piercing con gli incisivi. «Non avrei saputo definirla meglio» si complimentò, approvando la sua scelta.
Gale osservò entrambi, intrattenuto da quello scambio scherzoso, poi alzò gli occhi verso il soffitto a nascondere il fastidio e l’imbarazzo, come colpito dalla memoria che aveva appena attraversato la sua mente: ricordava perfettamente l’episodio del Brighton Pier a cui i suoi amici facevano riferimento, e avrebbe davvero preferito che tutti i dettagli di quel pomeriggio estivo non fossero ancora così vividi.
Charlie, che fino a quel momento si era astenuto da qualsiasi commento, a quella sua reazione scoppiò a ridere di gusto insieme agli altri, portando una mano all’addome per tentare di placare la propria ilarità: «Dio, non ditemelo, quella che si mise ad urlare di gioia quando lo vide sulle montagne russe al molo e supplicò il giostraio di fermare la corsa per farla sedere accanto a lui?» domandò, pur sapendo benissimo quale fosse la risposta.
Gale mostrò il dito medio, sentendosi arrossire per la vergogna, ma non lo smentì né si unì all'allegria che quell'annedoto aveva prodotto riempiendo la stanza. In realtà, pur essendo stati realmente quelli gli sviluppi della vicenda, c'erano parecchi particolari che lui stesso si era premurato di omettere, quando era accaduta: anche se gli occhi degli altri Victoria era apparsa soltanto come una ragazzina apparentemente sconosciuta che aveva affossato la propria dignità dinnanzi alla città intera per ciò che sembrava un banale colpo di fulmine, lui conosceva la verità. Semplicemente, non l'aveva divulgata, preferendo negare di conoscerla quando tutti gli avevano chiesto se ci avesse mai avuto a che fare, pur sapendo che quella scelta avrebbe portato a delle conseguenze, come aveva previsto, dal risvolto decisamente negativo. 
Nel pensare a come si erano presentati la prima volta, non molto tempo prima, verso la fine del mese di agosto, Gale si ritrovò involontariamente a sorridere, nostalgico, salvo pentirsi e cambiare espressione quasi all'istante per il modo in cui comunque ed inevitabilmente continuavano a trattarsi anche a distanza di tempo, nonostante gli iniziali buoni propositi che li avevano mossi.
L'aveva incontrata al N°32, un piccolo café sulla Lane, durante una mattina assolata in cui aveva deciso di studiare  per gli esami di ammissione al college al chiuso e lontano dall'afa estiva che ancora si faceva sentire, confortato  dalle temperature decisamente più piacevoli che il locale climatizzato offriva. Lei gli si era avvicinata in punta di piedi, timorosa di disturbarlo, con i lunghi capelli rossi ad incorniciarle il volto tondo e fiero, un top nero che metteva in evidenza il seno piccolo ma sodo, e un taccuino alla mano per chiedergli se volesse qualcosa da bere o sgranocchiare: appena sollevato lo sguardo dal libro di architettura poggiato sul tavolino in legno, aveva subito notato i suoi lineamenti armoniosi, impreziositi da un paio di vivaci occhi verdi, e il suo corpo morbido, invitante, le aveva sorriso, preso alla sprovvista ma compiaciuto, poi aveva ordinato una Coca Cola senza  pretese e l'aveva vista tornare dietro al bancone con un'aria parecchio soddisfatta dopo aver sfiorato casualmente la sua mano con la scusa di dover spazzare via delle briciole.
Gli era bastato quel semplice dettaglio, per capire cosa in realtà lei desiderasse da quel contatto all'apparenza innocente, e quando lei era tornata da lui con un bicchiere colmo di ghiaccio, una lattina e un numero telefonico scarabocchiato velocemente sul tovagliolo che la accompagnava, a confermare quel suo pensiero, Gale l’aveva ringraziata senza dire niente, certo che quel gesto avesse siglato un tacito accordo per cui lui avrebbe cominciato a frequentare il bar più assiduamente e lei si sarebbe impegnata a servire sempre il suo tavolo, sfruttando quelle possibilità per  approfondire la loro
conoscenza senza impegno. Qualche settimana dopo erano finiti a letto, entrambi sicuri di aver imparato del proprio partner quel tanto che bastava perché si potesse sfociare in altro senza doversi sentire troppo in imbarazzo, poi lui aveva cominciato a farsi vedere meno, com'era giusto che fosse, ritenendo che quella piccola parentesi potesse chiudersi semplicemente così, con l'appagamento del loro reciproco desiderio: evidentemente, non aveva valutato bene le proprie mosse, né aveva messo in conto le intenzioni più profonde e serie di Victoria. Dal momento in cui lui aveva smesso di rispondere alle sue chiamate ed era sparito dalla circolazione, infatti, lei non si era data pace, approfittando di ogni momento libero per darsi alla sua ricerca tramite social, e quando lo aveva trovato, intorno alla fine di settembre, ancora arrabbiatissima ma pur sempre presa, gli aveva chiesto spiegazioni circa il suo comportamento, forse sperando in un semplice momento di smarrimento. Gale, sebbene non se ne vergognasse affatto, messo alle strette, aveva dovuto dirle la verità, assicurandole che da parte sua non ci fosse mai stato nessun sentimento vincolante. Ed era stato così che la sua estrema sincerità aveva trasformato una banale scappatella in un problema irrisolvibile: Victoria l'aveva presa malissimo, mandandolo al diavolo con la promessa che prima o poi avrebbe pagato caro lo scotto di quella che per lei era una colpa imperdonabile, e si era rivelata - suo malgrado - una persona di parola, poichè spesso e volentieri era sbucata fuori dal nulla, ad orari e in luoghi impensabili, pronta ad umiliarlo in pubblico con scherzi o situazioni che lo avevano fatto vergognare a morte. 
Gale si maledisse a voce alta, come se il fluire dei  pensieri lo avesse portato ad una percezione più profonda dei propri errori, e nel passare una mano tra i capelli distogliendo nuovamente lo sguardo dalla finestra, arrivò alla conclusione che non avrebbe sbagliato mai più, perché aveva imparato la lezione e ne aveva tratto un insegnamento prezioso per la propria sanità mentale: capì che se in futuro non si fosse lasciato andare con una persona che gli avesse mostrato anche solo un minimo di interesse sentimentale, non solo avrebbe ripreso a dormire sonni tranquilli, ma non avrebbe mai più avuto bisogno di guardarsi attorno angosciato durante la giornata e, soprattutto, avrebbe smesso di osservare con sospetto ogni arbusto che crescesse sul suolo britannico nel dubbio che fra i suoi rami si celasse il motivo dei suoi tormenti, nonché delle sue figuracce atroci.


«Era una lepre, quella, vero
 

 

 

Buoooongiorno! (:
Come promesso, ho cercato di essere regolare con gli aggiornamenti e (pur non essendoci riuscita del tutto) oggi torno a postare con  soli due giorni di ritardo. 
Considerando che l'attesa di questo capitolo dura da circa due anni, direi che è un record in ogni caso ahahah


Che dire? Con "Bound To You" ho voluto spiegare con maggiore chiarezza quali sono le relazioni che legano i protagonisti, e non solo: mi sono concentrata molto anche sull'aspetto introspettivo di alcuni personaggi, perché vorrei davvero che coglieste alcune sottigliezze vitali per lo sviluppo della storia. Mi rendo conto di risultare troppo prolissa, a volte, e vi chiedo perdono per questo,  ma credetemi quando dico che è necessario ;)
Per il resto, vorrei lasciare a voi le considerazioni, perché sono davvero curiosa di capire quali idee vi siete fatti su ogni singolo personaggio nel corso di questi capitoli "introduttivi".


Ringrazio ancora una volta tutti per aver letto e preferito/seguito/ricordato!
Spero che questo capitolo non vi abbia deluso e che vorrete farmi sapere cosa ne pensate con un commento (:
Vi auguro un buon proseguimento!

Un bacione,

L.

 

 


 

 
   
 
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