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Autore: ghostmaker    22/11/2018    5 recensioni
[Terzo classificato al “Contest… fastidioso” indetto da Emanuela.Emy79]
“Signor postino, cosa ci racconta?”
“Quando la sera andai a dormire non potevo immaginare che il giorno seguente avrei affrontato tutte le cose che più mi infastidiscono. Per mia fortuna non è sempre così, ma quel giorno…”
Genere: Comico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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IO, POSTINO





Sono le quattro di mattina, la sveglia sta suonando, rivolgo lo sguardo verso Giada e lei si è addirittura messa il cuscino sulla testa per non sentirla e, soprattutto, per non spegnerla. Potrebbe cambiarle la giornata questo fastidio inopportuno. Io invece ho ancora gli occhi iniettati di sangue per l’ennesima notte tormentata però, penso, ha ragione lei; sono io quello che si deve alzare così presto. La luce è spenta; allungo il braccio verso il comodino e mi accorgo subito di non aver schiacciato il tasto del timer, ma di averle dato una manata con il solo risultato di averla fatta cadere. Se la mia intenzione era di rubare qualche altro minuto di sonno posso dire di avere fallito miseramente. Senza fare troppo rumore spengo quella bella sveglia regalataci dai miei suoceri; quell’attrezzo di tortura che non ha un suono normale, ma ha, al suo posto, un’orchestra che esegue la “Cavalcata delle Valchirie”, quindi, raggiungo la cucina e metto sul fornello la caffettiera da due tazze perché senza l’aiuto quotidiano del caffè rischio di addormentarmi sull’ascensore.

Mi gusto il sapore e l’aroma della mia gioia mattutina e, come sempre, pochi istanti dopo la degustazione, devo correre in bagno. Mi siedo come se fossi il Re; mi rilasso accendendo una sigaretta, sfoglio una rivista e quello per cui sono corso fino a qui sta procedendo nel miglior modo possibile nonostante abbia mangiato cibi pesanti negli ultimi giorni. Per forza, mi dico, i miei suoceri portano qui pietanze della loro terra e mi osservano se mangio tutto o se faccio lo schizzinoso. In pratica mi riempio come una botte e, a volte, mi pare di portare come Obelix un menhir, però sulla pancia. Finita la sigaretta, appoggio la rivista sul ripiano con la mano sinistra e con la destra cerco il dispenser della carta igienica. Afferro il lembo di carta e lo tiro ma l’azione dura una frazione di secondo e, mentre sento il rotolo di cartone volteggiare allegramente, osservo con irritazione crescente il lembo di carta, di circa due centimetri, che ho in mano. Lei, sempre lei, immancabilmente lei. Inizio a pensare che lei odia profondamente il ricambio di oggetti finiti; dopotutto fa lo stesso quando c’è qualche batteria da sostituire. Vorrei urlare il suo nome ma so che farebbe finta di non sentire quindi, conscio che come sempre dovrò sbrigarmela da solo, mi guardo attorno. Gli occhi, ormai abituati, squadrano subito il cestino della biancheria sporca sul quale è appoggiata, e ancora chiusa, la nuova confezione da sei rotoli che, ovviamente, si trova dall’altra parte del bagno. Mi vergogno ma non posso stare qui in eterno; mi alzo e, camminando lentamente per colpa delle mutande e dei pantaloni abbassati, raggiungo finalmente l’oro.

Superato brillantemente l’esame, tolgo i vestiti e mi butto nella doccia; il vero momento in cui posso svegliarmi. Sistemo l’accappatoio, preparo il bagno schiuma, metto il viso sotto l’erogatore dell’acqua e con la mano destra apro l’acqua calda e in un nano secondo urlo perché ho utilizzato ancora una volta quella fredda. Il mio corpo diventa subito un iceberg; sono completamente pelato così sento sulla testa crescere una stalagmite e, prima che possa reagire, ho la visione di me stesso che fa da pupazzo di neve per Natale. Con caparbietà riesco a saltare fuori dalla doccia e a infilarmi l’accappatoio e, poco prima che il mio viso torni roseo, sento la sua voce.
«Ivan, tutto bene? Tesoro, ti ho sentito gridare, cosa succede?»
«Tranquilla, ho risolto», le rispondo battendo ancora i denti dal freddo.
«Allora io torno a dormire.»
Le bastano tre secondi, come i bambini, per addormentarsi di colpo e mentre lei bofonchia qualche parola in una lingua antica, io continuo a pensare che la colpa non può essere mia. Io, quando faccio la doccia, metto la manopola nel punto neutro e se la muovo verso destra, deve essere per forza l’acqua calda a scendere e non viceversa. Ora, con fare da ladro, allungo la mano verso la manopola e la ritraggo immediatamente per non rischiare nuovamente di sentirmi al polo sud.

Eseguita la seconda missione di sopravvivenza torno in camera, mi vesto, ed è il momento di uscire e andare a lavorare. Sono un postino su scooter e questo impiego mi da infinite soddisfazioni anche se a volte le persone che incontro sono tutt’altro che gentili e cortesi. Di certo non mi lamento; mi piace lavorare all’aria aperta e non mi disturba neppure la pioggia.


***


Oggi c’è un bel sole, sono in divisa estiva e mi appresto a fare le ultime consegne prima della pausa. Ho trascorso la mattinata macinando molti chilometri insieme al mio vecchio scooter; amico di mille battaglie sulle strade della grande città dove devi prestare molta attenzione a tutte le cose che si muovono e che ti circondano perché basta una svista per finire a terra. Mi sto divertendo anche questa mattina nonostante lo scooter abbia deciso di non reggere il “minimo” da fermo; la cosa non mi disturba e, quando succede, ne approfitto per fare una passeggiata mentre consegno le lettere nelle piccole strade senza uscita. In una di queste vie mi fermo e inizio a cercare nella mia borsa le prime buste da consegnare.
«Buongiorno capo, anche oggi ci si vede», esclama il portinaio del civico numero uno.
«Tutti i giorni ho posta per voi», rispondo mentre con una mano scannerizzo le buste e con l’altra faccio gli scongiuri.
Consegno velocemente al civico tre mi dirigo verso il civico cinque e inizio ad avvertire la presenza di qualcuno alle mie spalle anche se so benissimo che non c’è nessuno vicino a me. Volgo lo sguardo indietro e lei è lì; la signora Pina del civico sei, il palazzo posto dall’altra parte della piccola strada che sto percorrendo. Una delle poche cose che non sopporto è che qualcuno mi stia fissando mentre sto lavorando e, lei, per me, è quasi diventata una presenza demoniaca perché sento la presenza dei suoi occhi anche a distanza.
«Signor postino, da me viene dopo?» mi chiede come tutti i giorni, ed io le rispondo con gentilezza, come tutti i giorni, «No signora, prima i dispari e poi i pari.»
«Ah, ho capito; allora la aspetto, tanto non ho fretta.»
Signora lei non ha mai fretta perché mi deve dare la caccia fino all’ultimo; mi dico da solo senza mostrare il mio sorriso deformato in una smorfia di dolore. Procedo spedito perché per alcuni palazzi non ho nulla e ritorno indietro iniziando dal civico numero otto. Prendo le buste dalla mia sacca e mi dirigo verso il portone, dove due persone anziane stanno parlando tra loro.
«Ieri sera hai visto il telegiornale? Quello là ci vuole tagliare ancora le pensioni!»
«No, ieri mi sono addormentato presto perché la mattina sono stato al lavoro.»
«E com’è andata?»
«Non sono capaci. Glielo detto al capo cantiere che il tubo andava messo da sinistra, ma niente, hanno fatto quello che volevano.»
Sorrido per i loro discorsi ricordando che mio nonno faceva e diceva le stesse cose al suo amico vicino di casa, poi, ritorno in me e mi avvicino per entrare. Devo svolgere il mio lavoro cercando di non disturbarli così alzo la mano in segno di saluto, ma accorgendomi che non mi guardano neppure, dico: «Buongiorno, io dovrei…» I due contraccambiano il saluto senza guardarmi e continuano a parlare delle loro cose come se fossi invisibile. Mi trattengo dall’uso di parole inadeguate ma mi avvicino loro in modo che capiscano che devono spostarsi e invece uno dei due, sempre senza guardarmi, esclama: «Questi giovani, non hanno rispetto per nessuno, ancora un poco e mi spinge per terra.» Ma come? Ho bisogno di passare perché sto lavorando per voi. Sto per dire quello che penso quando l’altro anziano mi guarda per la prima volta e dice: «Ecco il postino. Lo sa che oggi è in ritardo? Su, faccia in fretta a smistare la posta che dentro c’è la mia pensione». Io rimango interdetto e riesco solo a rispondere: «Scusatemi, c’era traffico», prendendomi pure la colpa senza avere fatto niente di male. Loro, non solo non mi guardano, ma salgono le scale perché si sono accorti che oggi non è giorno di pensione.

Esco da quel palazzo e in mano adesso ho le ultime lettere da recapitare proprio al palazzo della signora Pina. Mi faccio coraggio, raggiungo il portone e lei lo apre senza che io suoni al citofono perché è lì dietro alla vetrata. Entro deciso e mi pongo davanti alle cassette porta lettere e lei è al mio fianco, osserva i nomi sulle buste, non per impicciarsi ma per essere sicura che non sbaglio e in alcuni momenti in cui devo leggere i cognomi sulle caselle, la sua frase è la stessa ogni volta: «Vuole darle a me che l’aiuto?» La mia risposta è ogni volta la stessa. «Signora Pina, sono buste personali ed io solo sono autorizzato a consegnarle al destinatario.»
«Ahm,» dice lei, «tanto lo so già che a quello del primo piano gli hanno dato la multa e quella del quarto piano se non paga l’affitto la mandano via».
Io completo la consegna, mi dirigo all’uscita e mi accorgo che la signora Pina mi sta seguendo così, per cortesia, le apro il portone e lei lo attraversa senza proferire parola. Mosso da un insano fastidio, le dico con sarcasmo: «Grazie signora Pina», e lei imperturbabile, prima di allontanarsi, mi risponde: «Di cosa, non mi ha fatto fare niente».


***


La pausa pranzo per noi postini è di solito di un quarto d’ora perché durante la giornata abbiamo l’opportunità, in base al carico di buste, di fermarci a bere un caffè o di rilassarci quando si passa da una zona a un'altra della città. Io preferisco portare a termine il lavoro e mi fermo ogni tanto a bere dell’acqua dalle fontanelle disseminate in città; oggi ho raggiungo il piazzale dello stadio, dove c’è un distributore automatico e dove, spesso, incontro dei miei colleghi. Mi guardo intorno e non c’è nessuno; posteggiato lo scooter e raggiunto il distributore automatico e inizio a fissare i vari snack disponibili. Cerco la moneta del valore giusto ma non l’ho quindi ne inserisco una di taglio più grande, pigio i numeri del distributore osservando il movimento rotatorio della molla che butterà nel raccoglitore la mia merenda. Osservo e quello snack decide di impigliarsi tra la molla è il dispenser. Mi guardo intorno e non c’è anima viva così, senza temere di fare figure imbarazzanti, inizio a scuotere il distributore, prima lentamente, poi sempre più forte. Niente da fare; oggi mi tocca lasciare lì quella gustosa merendina al cioccolato poi, scatta anche a me una molla. No, non esiste; deve uscire da lì il mio dolce quindi torno faccia a faccia con quel marchingegno e, preso dalla foga crescente, inizio pure a parlargli. «Dai amico, perché tieni tutte quelle cose per te, ti ho pure pagato; forza, ti scuoto e tu mi dai da mangiare!» Applico una leggera spinta al distributore ma lui non ne vuole sapere.  Ora la mia insistenza diventa ossessiva e non risparmio brutte parole. «Brutto pezzo di beep, chi ti credi di essere? Dammi subito ciò che ho chiesto o te ne pentirai», urlo mentre lo prendo a calci e lo scuoto forsennatamente con tutta la forza che ho. Niente; ho una rabbia quasi disumana e cerco intorno a me qualche bastone da usare contro questo marchingegno diabolico per farmi dare la mia merenda. Mi strapperei i capelli, se li avessi, tanto sono furente ma poi, dopo l’ennesimo calcione, subentra nel mio animo il senso fastidioso dell’accettazione. Mi calmo perché tanto non posso fare niente e poi se per caso spacco il vetro, finisco pure per avere torto; scrollo le spalle e mi dirigo verso lo scooter quando mi torna in mente la moneta. Torno indietro, mi abbasso, metto le dita nella fessura da cui esce il resto e non c’è niente. Penso subito di tornare all’attacco quando mi accorgo che nel piazzale sta girando l’auto della polizia. Ormai è una battaglia persa, inutile perdere anche la guerra. Decido di scrivere un messaggio a Giada per dirle di preparare molta pasta per questa sera, così coprirò anche la voragine che ho ora nello stomaco. Nell’attesa di una celere risposta, perché so che l’ha appena visualizzato, mi bevo un po’ d’acqua dalla fontanella, poi mi siedo sullo scooter e prima di mettere il casco controllo cosa mi ha risposto. Succede spesso ma io, imperterrito, continuo a credere che sia solo una svista, che forse non si sia accorta, ma alla fine devo accettare anche l’inutilità dell’attesa perché tanto risponderà il più tardi possibile, se si ricorda, oppure farò prima io a dirle che cosa avevo scritto quando sarà a casa.


***


Giada, senza mai rispondere al messaggio che le avevo scritto, aveva già organizzato un’uscita con dei nostri cari amici e devo darle merito per questa sua iniziativa perché ci siamo divertiti, abbiamo mangiato bene e poi, sfruttando il fatto che domani non lavoro, siamo andati a ballare rientrando a notte fonda. Apro la porta e lei, come un gatto, entra senza accendere la luce, come se avesse memorizzato l’intera pianta del nostro appartamento al dettaglio; corre verso il bagno e accende l’acqua della doccia. Io, a quest’ora, non ricordo neppure dove si trova il tasto della luce; entro in casa, tolgo le scarpe, mi dirigo verso il divano, dove poter riposare un poco la schiena ma, il tutto, senza ricordare quel maledetto spigolo di legno massiccio che fa da piedino. Quando ci sbatto contro il piede il mio grido di dolore è come un ululato di un lupo alla luna piena; sento il mignolo del mio piede come paralizzato tanto è il dolore che si sta propagando per dall’intera gamba per raggiungere anche i centri nervosi delle mani. Mi siedo tenendomi tra le mani il piede, soffoco un secondo urlo e mentre le lacrime mi scendono copiose sul viso Giada esce dalla doccia, schiva con abile mossa il legno massiccio e mi regala un bacio dicendo: «Fai in fretta, ti aspetto a letto.»
Il mio dolore svanisce come d’incanto, salto in piedi dal divano come una molla e corro verso la doccia nonostante senta chiaramente che il mio mignolo si sta gonfiando come un canotto e, alla luce del bagno, osservo quel piccolo dito che è diventato più grosso dell’alluce. Non m’importa, mi spoglio più veloce di Superman, non bado a dettagli, metto il viso sotto l’erogatore dell’acqua e con la mano destra apro l’acqua fredda per rinfrescare il corpo e quel mignolo che ora è di colore viola ma, in un nano secondo, urlo perché ho aperto l’acqua calda. Il mio corpo diventa una brace ardente e il mignolo del piede ora appare un wurstel abbrustolito; sono completamente pelato così sento sulla testa l’effetto dell’eruzione di un vulcano e il magma che scende verso il viso mi sembrare una delle scogliere ardenti delle Hawaii. Con caparbietà riesco a saltare fuori dalla doccia per sentire l’effetto piacevole che fa l’aria fresca della sera ma, in un’estate torrida come questa, non trovo pace. A questo punto ho il dubbio che non sia colpa di Giada ma mia, così inizio a pensare che confonda la destra con la sinistra e che sono io stesso a muovere la manopola in tutti i modi errati che la mia mente può concepire. Smetto di pensare perché il messaggio chiaro che mi ha dato Giada pochi minuti fa cambia le mie priorità quindi, con fare da ladro, allungo la mano verso la manopola e la ritraggo immediatamente per non rischiare nuovamente di essere incenerito. L’effetto ormonale si fa sentire forte; mi lavo con la supervelocità di Flash, salto fuori dalla doccia pronto a prendermi il premio, corro verso la stanza da letto e sbatto anche il mignolo del piede sinistro contro quel maledetto legno massiccio ma non urlo più perché la mia attenzione è rivolta a cose ben più interessanti. Entro in stanza facendo scivolare l’accappatoio come fossi uno spogliarellista e mentre mi avvicino al nostro nido d’amore, sento lei che sta russando sonoramente. Potrei fare la parte del lamentoso ma, nonostante i difetti di entrambi, sorrido perché tra noi c’è un grande amore, così, delicatamente le accarezzo il viso e le bacio la fronte mentre lei, bofonchiando, mi dice: «Buonanotte amore mio».
M’infilo sotto le coperte e, anche se ha ricominciato a russare come un orso di Yellowstone, mi sdraio accanto a lei tenendola tra le braccia pensando a quanto sono fortunato ad averla accanto a me per tutta la vita. Certo, se russasse meno, sarebbe meglio, così non mi costringerebbe a fare tutti quei versi strani che si usano per far smettere questo rumore, simile a quello di un orso in letargo.


***


Che strano, guardo la sveglia e sono solo le sette del sabato mattina. Giada si è spostata, durante la notte, nella posizione in cui riesce a dormire meglio senza russare, quindi, per quale motivo sono già sveglio? Sento la testa bruciare, mi volto verso la finestra e il fascio di luce proveniente dal Sole quasi mi acceca. Vuoi vedere che questa notte si è svegliata per alzare la tapparella? «Noooooooo!!!»
  
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