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Autore: _EverAfter_    26/11/2018    1 recensioni
Otto anni prima.
Iwatobi Swimming Club.
Haruka e Makoto frequentano le elementari. Nagisa è il solito demente. Rin è ancora incastrato alla Sano.
Nel club c'è una bizzarra bambina che nuota a stile libero.
E' distratta. Imbranata. Ha due occhi diversi l'uno dall'altro. Insomma, sembra uscita da uno di quei racconti sugli yokai.
Haruka, tra tutti, non la sopporta; è chiassosa, invadente e priva di tatto. Così diversa da lui.
Ma la vita cambia sempre, e quando la sua antitesi si trasferisce, tutto sembra tornare alla normalità.
Tutto, tranne lui.
Otto anni dopo.
Rin, di ritorno dall'Australia, non è più lo stesso.
Haruka e Makoto frequentano le superiori. Nagisa anche, ma rimane comunque il solito demente.
Un nuovo sogno. Una nuova avventura. Un nuovo club. Un componente che invece di fare atletica si da al nuoto senza sapere come rimanere sul pel d'acqua...
... E due occhi dai differenti pigmenti che si posano sull'insegna dell'Iwatobi High School.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Haruka Nanase, Makoto Tachibana, Nuovo personaggio, Rin Matsuoka
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Lo sclero di ver

Ciao a tutte/i! Appena postato questo primo capitolo, dopo tanto rimuginare se continuare o meno la storia - ne ho almeno tre all'attivo e stare appresso a tutte è diventato piuttosto complicato.
Alla fine ha avuto la meglio la voglia di continuare a scriverla, spero che vi piaccia! :D


_EverAfter_










CAPITOLO I
Ricordi il suo nome?





    Se ne sta tranquilla sulla balaustra della vasta terrazza della casa sul mare. È una cosa stupida, anche perché con quel freddo avrebbe potuto fare tante cose, decisamente più sensate di quella – ammesso che potesse avere il buonsenso di pensarci.
    Il vento agita le pagine di una lettera che sembra inghiottire ogni sua convinzione. Guardandola, si sente sempre mancare un po’ il respiro. Magari avrebbe potuto nasconderla sotto il letto e lamentarsi con la professoressa d’averla smarrita per la quarta volta. In fondo, non ci era mica tagliata per una cosa del genere.
    «Dovrai pur fare qualcosa, Hoshino.» Ricorda di averle sentito dire qualcosa del genere.
    Ed in effetti lei qualcosa la vuole fare davvero.

    «Voglio nuotare.»
    «E allora accetta quella proposta e partecipa.»
    «Ma lì si fa agonismo.»
    «E allora?»
    «Non voglio competere.»
    «E cosa vuoi fare?»
    «Voglio nuotare!»
    «Ma come fai a nuotare se non fai agonismo?»

    Mentre rimembra la conversazione disastrosa avvenuta con la docente, decide di fare una passeggiata lungo la spiaggia.
    Come se gliene fregasse ancora delle medaglie, dei trofei. Tuttora ce li ha tutti, e l’unica cosa che fanno è quella di accumulare polvere. Eppure sua madre non vuole buttarli, fiera dell’unica cosa decente che sa fare sua figlia.
    Il vento si fa più insistente e la sabbia le si rifrange contro ogni parte del corpo, appiccicosa a causa delle gocce d’acqua salmastra che le impiastricciano i piedi nudi e la stoffa di jeans che le ricopre le caviglie. I capelli corti le si scompigliano, alcune ciocche ribelli si sfilano dalla piccola coda che ha fatto frettolosamente. Ben le sta, la prossima volta almeno ci penserà due volte prima di andare lì.
    Rimane a fissare un punto impreciso d’innanzi a quell’orizzonte troppo vasto ed il suo occhio non riesce a tenere il passo con il magnifico blu che ha di fronte: l’aria è tersa, e limpida le risulta quella linea che divide beffardamente l’oceano dal cielo – supponendo che entrambi, da qualche parte, abbiano una fine.
    Pensa a tante cose, in quel momento. Così tante da non riuscire a porre un filo che interconnetta tutti i suoi impulsi nervosi. Anche questo giorno sta volgendo al termine; si sente consumare dal Sole calante e dalla mestizia che crogiola il suo animo perplesso e spaesato, mentre ciò che rimane della sua attenzione viene rapito dalla macchinosa danza di un gabbiano dal piumaggio spento, vittima dell’ennesima petroliera di passaggio.
    Lo afferra tra le piccole mani, richiudendo accuratamente le ali dapprima spiegate. Per qualche motivo, ha paura che quelli siano gli ultimi istanti di vita del volatile, ormai caduto sotto la morsa del veleno nero. La scena le incute un certo timore, mentre lo osserva divincolarsi in malo modo da una stretta che aveva creduto essere confortevole; il venerando pennuto s’accascia a terra, fissa il cielo con le belle iridi scure e più non si muove.
    «Avresti voluto tornare al cielo, immagino.» L’eco delle sue parole si perde nell’atmosfera tetra del primo crepuscolo, celando una malaugurata premonizione. Forse anche lei non sarebbe più riuscita a tornare all’acqua come avrebbe voluto fare.
    Forse qualcuno avrebbe davvero deciso per lei, per la sua vita. Forse non sarebbe più stata destinata al suo elemento.
    Allora sì, sarebbe stato meglio fare la fine di quel gabbiano.
    Ripensa alla lettera che ancora scotta sul tavolo della veranda. L’ha lasciata lì perché non debba sentirsi ancora osservata da quella risma, che imprime sulla cellulosa a basso costo la decisione più difficile, quella più detestabile. È come se le bruciasse via quel po’ di ossigeno che le serve per riprendere fiato: condannata ad un’infausta apnea, si sente come quando l’avversaria della corsia accanto le sta davanti e non può permettersi di sprecare neanche una bracciata, perché significherebbe che ha perso.
    La verità è che lei avrebbe potuto nuotare veloce quanto le pareva, ma tanto il tempo l’avrebbe sempre raggiunta.
    Avverte di nuovo quel senso di vuoto colmarle la cassa toracica. L’ironia della sorte è che non si può riempire il nulla con altro nulla, o almeno è quello che si era sempre detta. Eppure, in quel momento, sommersa dall’attacco di panico che ha preso possesso di lei, si chiede se non sia stato il suo destino a portarla lì, a vedere il mare, ad osservare lo spegnersi del gabbiano, a pensare di partecipare davvero a qualcosa che avrebbe cambiato la sua vita per sempre.
    Socchiude gli occhi, mentre l’oscurità si porta via la nitidezza delle cose intorno a sé: forse se si concentra riesce ancora a vedere le belle lampade a sospensione della balconata di casa. Il buio la fa da padrone ben presto, ma il suo sguardo è ormai abituato alle ombre – poco importa che siano quelle del cuore o del mondo.
    Otto anni.
    La vecchia sé stessa avrebbe cercato d’intravedere, in quello scorrere inesorabile delle lancette, qualche positività. Dopotutto, era sempre stata brava a sorridere mentre nascondeva le lacrime. Dopo il nuoto, era decisamente la sua specialità.
    Inizia a sentire freddo; si stringe nelle spalle, sfregandosi gli avambracci con le mani e appressando il viso nella calda sciarpa di lana grezza che le punge il naso arrossato. Mentre ritorna verso la luce della calda dimora, ripensa che ormai quegli anni passati lì siano stati sufficienti e che forse la sua sensei ha ragione. Forse deve davvero tornare a casa, quella vera.
    Qui, in fondo, cosa mi è rimasto? Ci riflette su.
    Mette un piede davanti all’altro per inerzia, senza neanche pensare d’accelerare il passo stanco: se avesse potuto nuotare nell’aria forse sarebbe stata più veloce, ma non è questo il mondo in cui poterlo fare. Si maledice per essere nata nell’universo sbagliato; la sé stessa che può notare nell’aria sarebbe decisamente più felice: dannata ragazza dell’universo giusto.
    Alza lo sguardo verso la balconata ormai prossima. La sagoma longilinea dell’ormai adulto fratello si staglia lottando contro le luci che le offrono una visione sfocata del corpo atletico del suo consanguineo, ma nonostante questo riesce a distinguere chiaramente le salde mani di lui stringere la missiva incriminata. La alza verso di lei, facendo il gesto di consegnargliela.
    «Cos’hai deciso?» Il tono della sua voce è calmo, ma fitto di quell’impazienza che la sorella ha ormai imparato a distinguere.
    Sarebbe stato meglio chiederle “Hai deciso?”, ma si rende conto che non vi è spazio per un’ironia che lui non riuscirebbe a cogliere. È serio. Anche lei dovrebbe esserlo, ma le è stato insegnato che il metodo più semplice per defilarsi dalle scelte è quello di riderci su, per cui non riesce davvero ad essere onesta con il giovane uomo che le sta di fronte. Un po’ si sente in colpa.
    «Cosa vuoi sentirti dire?» gli chiede senza mezze misure. «Tanto anche se decidessi di non andarmene, tu mi cacceresti a calci in culo, giusto?»
    «Non farei mai una cosa simile.»
    «Ma ci penseresti.»
    Afferra la busta color avorio, indugiando sui caratteri dai tratti energici. Ha ancora un po’ paura di leggere quello che vi è scritto, ma non può farne a meno.


Oggetto: Convocazione Nazionali Giappone
Classe: 200 metri, stile libero
Sezione: Femminile
Girone: Eliminatorie
Batteria: 5ª

    Alla Sig.rina Mizuko Hoshino.
    Analizzato il quadro agonistico e la rapida ascesa in competizioni della suddetta disciplina di nuoto a stile libero, il comitato organizzativo per il Trofeo Nazionale Annuale, valuta la candidata alla 1ª selezione come IDONEA.
    Con la presente la invitiamo a ritornare quanto prima in Giappone, previa consultazione del personale preparatorio e della scuola di appartenenza, per essere trasferita in un istituto locale per l’ufficializzazione della sua partecipazione ai nazionali di nuoto agonistico.
    Certi di un suo riscontro positivo, le inviamo cordiali saluti.
    Staff per il Trofeo Nazionale Annuale.

    Tokyo, 2012-12-12


    Sbuffa, innervosita.
    «Analizzato il quadro agonistico» borbotta, facendo il verso al cerebroleso che ha inviato quella lettera. «Ma si può davvero scrivere una cosa del genere?»
    «Perché, cosa volevi che ti scrivessero? Ciao Mizuko, tutto bene in Francia?» Il fratello è più sarcastico del solito, per quanto riesca a constatare. Quando fa così vorrebbe solo prenderlo a pugni.
    Non risponde, ma rimane in silenzio a fissare l’oceano mentre viene inghiottito dall’ultimo albore crepuscolare. È subito sera.
    Prende coscienza del freddo improvviso, la cui testimonianza si cela nelle piccole nuvolette del suo respiro mozzato a contatto con l’aria frizzantina che la circonda. Sorride come un’ebete, nel ricordare l’infanzia passata fingendo che quelle nubi improvvisate uscissero da una sigaretta invisibile, stretta tra l’indice e il medio della sua mano destra.
    Un tempo le ci voleva davvero poco per essere felice. Cosa diavolo era cambiato?
    Ragiona attentamente e con dignitoso raziocinio – o almeno questo è quello che pensa. «Ne, Kaito.»
    «Che c’è?»
    Si sente fissata, ma non ha alcuna intenzione di ricambiare lo sguardo. «Il mare in Giappone è ancora lo stesso?»
    È ormai abituato alle bizzarre domande che gli pone ogni volta, per cui non si stupisce di vederla così assorta nei suoi pensieri sconnessi. Quesiti che non avrebbero mai avuto senso per qualcuno, ma per lei… quella è un’altra storia.
    «Suppongo di sì» si limita a risponderle, assecondando la vista della sorella e concedendosi anche lui di guardare l’orizzonte troppo scuro per poter essere ancora apprezzabile.
    La giovane sospira, frustrata all’idea di essere ancora vittima di un burattinaio astratto che si diletta a tirare i fili della sua vita a proprio piacimento. La verità è che non c’è mai stata una vera scelta da fare, lei questo lo sa bene.
    Deve solo chinare il capo ed accettare per l’ennesima volta d’essere quell’involucro fatto di carne che affronta il cambiamento sorridendo, come ogni bambola sa fare. E in effetti, se ci pensa, non ha mai visto una bambola triste. In fondo, cosa importa… sono vuote.
    Già. Vuote.





    Le gocce gli cadono dalla chioma scura; una per volta scivolano veloci lungo i capelli lisci per precipitare nuovamente nell’acqua che riempie la vasca, creando piccoli cerchi che si disperdono tra le pareti del piccolo abitacolo.
    Non riesce ancora a sentire Makoto chiamarlo. Forse è ancora troppo presto.
    Poggia la schiena contro la parete bianca di ceramica; si sente più stanco degli altri giorni, ma non sa spiegarsi il motivo. Fissa il delfino posto sulla mensola d’innanzi allo specchio: da quando era piccolo, aveva sempre trovato una certa affinità con quel mammifero. Gli piaceva il suo modo elegante di nuotare e la fierezza dei salti, a contatto con l’aria densa delle gocce che il suo maestoso tuffo generava.
    Rivede nella sua mente lo sguardo del rosso al club di nuoto ormai abbandonato, il suo incedere pretenzioso, la voce carica di rabbia. Si chiede cosa possa essere successo per averlo fatto cambiare così repentinamente, ma prima che possa rispondersi una stilettata dritta nel petto sembra trapassarlo, mentre ripensa al suo primo anno di medie, alla loro sfida, alle lacrime del compagno troppo orgogliose per poter abbandonare le sue ciglia.
    Forse è davvero colpa sua, se Rin è in quelle condizioni. Prima di adesso non ci ha mai riflettuto troppo, per paura di trovare risposte scomode che avrebbero generato solo altri sensi di colpa.
    S’immerge sotto il pel d’acqua, lasciando le bolle che fuggono dalla bocca salire veloci a cercare la luce che penetra dalla finestra. Ha gli occhi chiusi, e nell’oscurità delle palpebre serrate si susseguono una serie di ricordi confusi, sbiaditi e senza apparente significato: l’alone nebbioso del suo passato plasma la fisionomia di un Makoto molto più giovane di adesso, un Nagisa decisamente piccolo e Rin, con ancora stampato in volto quel ghigno che aveva imparato a riconoscere come suo carattere distintivo.
    Lì, sperduto nel buio della mente, vede la vecchia felicità dell’infanzia svanire via e l’acqua voltargli le spalle. Come quella volta.
    Riemerge di colpo, non abbastanza svelto da evitare di ripensare a quegli occhi. Si sente scosso; avrebbe giurato di rivedere l’immagine distorta dell’amico mentre vince la loro recente sfida, ma ciò che gli si palesa davanti è la malinconica vista di uno sguardo dalle gemme preziose, l’una zaffiro e l’altra rubìno. Deglutisce a fatica, ingoiando parte dell’acqua della vasca, la quale scivola veloce lungo l’esofago, a strozzargli la gola che si ribella a suon di piccoli colpetti di tosse.
    «Haru?»
    Sente i passi rassicuranti di Makoto farsi strada nel bagno mentre riprende ancora fiato. Lo sente avvicinarsi al bordo della vasca, ma ancora non riesce a guardarlo. Respira col diaframma, certo di riuscire a ritrovare il contegno.
    «Tutto bene?»
    «Perché lo chiedi?» Sa di aver fatto una domanda stupida. In fondo da quando è entrato l’amico, non ha spiccicato parola e non s’azzarda neppure a guardarlo.
    Makoto si gratta la testa. Trattare con Haru, a volte, può risultare complicato. «Immaginavo che… beh, la faccenda di Rin, sai…»
    Si volta finalmente a guardarlo. Nel suo sguardo non vi è nulla che possa tradirlo, eppure in cuor suo avverte ancora il disagio per essersi concesso, anche solo per un istante, un ricordo proibito.
    «Va tutto bene.» Afferra la mano dell’amico che come sempre è il miglior sostegno al suo improvviso mal di vivere.
    Sente di essersi ripreso, ma non appena poggia il piede sul tappetino di spugna, un terribile macigno si salda attorno al suo petto come il più terrificante degli abbracci. Mantiene il controllo, nonostante tutto. Non vuole che l’amico si preoccupi inutilmente.
    Si avviano a passo svelto verso l’istituto, con le cravatte ben annodate attorno al colletto delle camicie lise. Il sole accecante s’afferma litigioso contro il freddo frizzante dell’aria di dicembre, mentre attorno ai due amici un clima sempre più natalizio prende vita attraverso lustrini e luci colorate – decisamente una cosa che non potrebbe essere più indifferente agli occhi azzurri del giovane nuotatore prodigio, che certo non ha mai apprezzato le convenzioni sociali.
    Natale può significare solo una cosa: fa troppo freddo per andare in acqua. La cosa lo urta parecchio, ma sa che esternando una simile puerilità il castano rischierebbe di scoppiargli a ridere in faccia, osservandolo con sguardo dolce e divertito al tempo stesso. Non ha decisamente voglia di rischiare d’essere preso in giro.
    Camminano silenziosi lungo la stessa strada di sempre, ma lo sguardo cobalto del meno alto non riesce a giovarsi del bel panorama terso dell’oceano alla loro sinistra, che come sfondo leggiadro diletta gli intraprendenti pescatori. Non riesce a bearsi di quell’immensità, poiché la mente intrisa di pensieri sconnessi ancora non vuol saperne di lasciar andare il nefasto ricordo sortogli di sfuggita mentre era ancora nella vasca.
    Erano anni che quello sguardo non sorgeva spontaneo ad irretirgli la mente; in cuor suo sperava di essersene disfatto.
    Dopo tanti anni passati a rimuginarci su, ancora non gli è chiaro come lo faccia sentire tutta quella storia. Non sa se provare tristezza, rabbia, delusione, felicità… è uno di quei ricordi cogitabondi e sopiti, fitti di mistero e che perciò devono essere dimenticati, o in altro modo si rischierebbe d’impazzire. Questo è ciò che si è sempre detto per giustificare la sua incapacità di porre un freno a quelle domande senza mai risposta.
    «Haru.» Non ha bisogno di fissare l’amico per capire come si sente.
    Per quanto voglia lasciarlo fuori da tutta questa faccenda, si rende conto che ormai ha compreso tutto. «Ho una domanda da farti.»
    L’aitante giovane presta subito l’orecchio. Per qualche motivo, Haru sembra imbarazzato. «Tu… ti ricordi il nome…»
    «Eh?»
    «Fammi finire» lo rimbecca il corvino, sbuffando. Non è semplice per lui parlarne, figurarsi ammettere di star pensando ancora ad una sciocchezza simile. «Ti ricordi il nome di quella bambina?»
    Makoto gli appare sempre più perplesso. Non è la prima volta che gli fa domande strane, ma questa le batte decisamente tutte. Se Nagisa o qualcun altro avessero posto a lui la stessa domanda, probabilmente si sarebbe limitato a voltar loro le spalle e a fare finta che fossero pazzi. La trova tuttora la soluzione più logica.
    «Haru…» Lo sguardo intenso dell’amico si oscura di una certa preoccupazione. «Non è che…»
    Vuole chiedergli se ci sta ancora pensando. In effetti, si dice il moro, è una domanda del tutto lecita. Si stupirebbe se non gliela facesse. «Voglio solo ricordarmi il suo nome.»
    «In realtà te lo ricordi perfettamente, non è vero?» sbotta Makoto, grattandosi nervosamente la nuca. «Non ne avevamo già parlato?»
    No, vorrebbe rispondergli, non l’abbiamo mai fatto. Se l’avessero fatto, probabilmente lui non starebbe lì a cercare disperatamente di dimenticarsi del peggiore tra i fantasmi del suo passato. Distoglie la mente dal dolce ricordo del sorriso sdentato che si allontana, soffermandosi sul volto incupito dell’amico. Vorrebbe dirgli ancora che va tutto bene, come la sua presunzione gli ha imposto quella mattina, quando Makoto era giunto a casa sua con la speranza che anche quella fosse una giornata normale.
    Beh, non lo è. Non lo è affatto.
    Il castano si schiarisce la gola, riacquistando la sua solita lucidità. Sa bene che turbare Haru risultandogli seccato non è un buon metodo per lasciare che si confidi, per cui decide di deporre l’ascia da guerra, inseguendo il deflusso rapido dei pensieri in piena del bruno.
    «È passato tanto tempo, però…» Cerca di pensare con tutte le sue forze a quel nome incastrato nella sua memoria, quel nome addormentato e che ricorda molto bene. Quel nome che deve avere il coraggio di pronunciare, se questo può liberare l’amico dai propri incubi. Lo vuole, lo desidera con tutto il cuore.
    Che Haru torni ad essere libero.
    «Si chiamava…»





    «Mizuko Hoshino. Yoroshiku onegai shimasu[1]
    Percepisce i mormorii dei suoi compagni di classe. È abituata a tutto questo: probabilmente si staranno già chiedendo chi sia, cosa ci fa nella loro scuola, perché si è trasferita a dicembre e soprattutto da dove sono sbucati i suoi occhi diversi ed intimidatori.
    Il sorriso perlaceo che rivolge ai compagni è lo stesso di sempre, bello e sfavillante come quello di tanti anni prima. Si sente spaesata, come se quel luogo non gli appartenesse più come un tempo, ma è certa di celare il suo disagio: lì, dopotutto, non la conosce nessuno.
    I mormorii si levano sempre più crescenti, mentre un ragazzo alza la mano, scambiando una gomitata di assenso con il suo vicino di banco.
    «Sei fidanzata?» Delle risatine si levano dal fondo dell’aula. Ha già capito che l’ultima fila è da evitare come la peste.
    «No» risponde senza scomporsi. «È morto.»
    Capisce subito che il suo scherzo non è stato considerato tale dal resto dei presenti, poiché un silenzio glaciale scende a rendere l’aula improvvisamente fredda. Non è mai stata molto brava, con quel tipo di goliardie.
    «Scherzavo.»
    Sente levarsi dei sospiri di sollievo e qualche risatina nervosa, ma il clima rimane teso fino a quando il sensei non le chiede di sedersi da qualche parte. Con sua insolita sorpresa, vede le mani di molti alzarsi per cederle i propri posti. Rimane impalata come uno stoccafisso, senza pronunciare parola.
    Non è più abituata a socializzare, si dice. Forse avrebbe dovuto ricominciare. China rispettosamente il capo, scegliendo uno dei posti accanto alla finestra: almeno, da lì, avrebbe potuto guardare il cielo, se proprio la vista le impediva di vedere l’azzurro dell’oceano.
    Sposta distrattamente lo sguardo alla sua destra, osservando le fattezze del suo vicino di banco. Sembra diverso rispetto al resto dell’omogeneità maschile. Capisce subito che deve praticare qualche tipo di sport che gli permetta di avere un fisico decisamente più allenato e asciutto del resto dei ragazzi presenti: forse basket, magari judo.
    Risalendo su a fissargli l’ampio petto nascosto dall’uniforme scolastica, si sofferma sui corti capelli blu e su uno sguardo che non riesce subito a focalizzare a causa degli spessi occhiali rossi che gli circondano le cavità oculari.
    Il ragazzo si volta nella sua direzione e arrossisce, distogliendo lo sguardo immediatamente, nonostante tenti ancora di studiare i suoi movimenti con la coda dell’occhio; le sembra quasi tenero, mentre è intenta ancora a comprendere il pigmento che gli caratterizza l’iride. Non si preoccupa affatto di apparire sfrontata, d’altronde prima o poi dovrà comunque fare la sua conoscenza.
    «Ohi» biascica d’un tratto, facendola sobbalzare. «Ho qualcosa in faccia?»
    La ragazza sbarra gli occhi, trattenendo a stento una risata. Se qualcuno vedesse lei in quel modo, probabilmente penserebbe che è pazzo, no di certo darebbe la colpa alla sua faccia.
    «No.»
    «E allora che hai da guardare?» È infastidito e, a giudicare dal rossore delle goti, piuttosto imbarazzato.
    «Ah.» Deve trovare qualcosa di sensato da dire, ma sa perfettamente che le sue sinapsi si divertono da morire a vederla in difficoltà. «Beh. È che non riesco a vedere il colore dei tuoi occhi.»
    Rimane a fissarla imbambolato, incerto se credere di aver capito male o pensare che sia davvero fuori di testa. Eppure, nonostante il suo penetrante sguardo, si rende conto che non ne è affatto spaventato, al contrario: perché diavolo un tappo del genere avrebbe dovuto incutergli timore?
    Con l’indice si porta gli occhiali più vicini all’attaccatura del naso, sbuffando. «Tecnicamente sono color malva
    Lo fissa. Teme di scoppiargli a ridere in faccia da un momento all’altro, ma si contiene; non ha voglia di apparire maleducata. «Sono viola.»
    «No, malva» la rimbecca nuovamente il ragazzo. «Viola è un altro colore.»
    «Che diavolo di differenza vuoi che ci sia tra malva e viola?!»
    Ecco. Niente, non riesce proprio ad avere un bel carattere; tuttavia, il suo interlocutore non sembra scomporsi minimamente. Si lascia sfuggire una risata supponente e decisamente isterica, mentre la guarda con fare superiore. «La malva possiede delle note purpuree che la rendono decisamente differente da un comunissimo viola.»
    La ragazza si sporge di colpo verso di lui, suscitandogli un improvviso rossore.
    «C-che stai facendo?» È perplesso, ma lei non ha alcuna intenzione di rispondergli.
    Lo fissa negli occhi, con lo sguardo di chi ha intenzione di svelare un mistero. Finita l’indagine si rimette a sedere composta sulla sua sedia, incrociando le gambe e imitando qualcuno che si sistema gli occhiali. «Non è presente alcuna nota purpurea nei tuoi occhi.»
    «Certo che sì!» Questa volta è lui a sporgersi verso di lei, alzando di scatto gli occhiali all’altezza della fronte ed indicandole l’iride con il dito. «La vedi? Eh!?»
    Lo fissa con sufficienza, preoccupata che possa accecarsi da un momento all’altro. Quel tipo è davvero strano – ma, in fondo, non sembra poi così male. Sorride sorniona, nascondendo il ghigno nella sciarpa di lana. «Ora che mi fai vedere meglio, si nota qualcosina.»
    La vena che ti sta per uscire dall’orbita, vorrebbe continuare, ma si trattiene, contenta che quella risposta sia sufficiente a risollevargli il morale. Sta per voltarsi nuovamente verso la finestra, pronta a perdersi in malinconici pensieri, quando il compagno si schiarisce la gola.
    «Ryugazaki» si limita a dire.
    Gli concede uno dei suoi migliori sorrisi, sorprendendosi di quanto sia autentico. Quel ragazzo strano e dall’aria allucinata gli sta già simpatico. Si sorprende di quanto abbia voglia di parlare con lui, nonostante la lezione stia ormai per cominciare: è la prima volta, dopo tanto tempo, che parla di qualcosa che non sia il nuoto.
    Economia domestica.
    Fantastico, pensa, maledicendosi per non essere mai stata attenta durante le lezioni della docente francese. È la materia dove va peggio, se possibile, dopo la matematica.
    Si china a prendere il quaderno dalla sua cartella, scorgendo in mezzo ai banchi un portachiavi a forma di pinguino che ricorda esserle famigliare. Aguzza lo sguardo, rimanendo rigida sotto al banco.
    Il ragazzo la studia come fosse ormai un caso clinico. «Ohi.»
    «Ai.» Nell’alzarsi velocemente, sbatte violentemente la testa contro la faccia inferiore del banco. «OUCH!»
    «Stai bene?!» La voce del giovane è troppo vicina, tanto da averle sfondato il timpano.
    Metà della classe sta sogghignando, mentre l’altra si sta ancora chiedendo cosa sia stato quel tonfo sordo. Mizuko fa un cenno timido con la mano, a tranquillizzare quei pochi che, insieme a Ryugazaki, hanno manifestato un po’ di preoccupazione.
    Bene. È lì da pochi minuti ed è riuscita a collezionare una serie di figure di merda che potrebbero bastare per anni. Si chiede come sia possibile che il contegno che era solita portare in Francia non abbia deciso di accompagnarla anche in Giappone.
    Dopotutto, la città d’Iwatobi è il luogo dove è nata, dove ha imparato a nuotare, dove per la prima volta ha nuotato in una vera gara, con vere persone che facevano il tifo e gridavano il suo nome.
    Eppure, da quando ha rimesso piede in quel luogo, non le è mai sembrato così sconosciuto come adesso: la placida città portuale di un tempo le appare priva di stimoli, un’istantanea del suo passato che non è più in grado di concederle niente. Un’insolita malinconia le piomba addosso, se ripensa a quanto abbia pianto pur di non dover lasciare quel posto.
    Alla ricreazione le si affiancano tutti, curiosi d’ascoltare la bella favola della ragazza giunta d’oltreoceano. Una favola che però lei non sa raccontare.
    «È vero che vieni dalla Francia?»
    «Sì.»
    «Com’è il tempo lì, in questa stagione?»
    «Freddo.»
    «Hai difficoltà a parlare il giapponese dopo tanti anni?»
    «No.»
    «Ohi.» Un ragazzo si sporge dalla calca, in preda ad un’isterica domanda. «È vero che sei una nuotatrice professionista?»
    Domanda sbagliata. Serra la mascella, pronta a gettare veleno contro il povero malcapitato, ma si accorge, alzando lo sguardo, che lui la sta fissando con gli occhi sbarrati.
    Immersa nelle sue grandi pozze rosate, Mizuko si vede riflessa come nel più limpido tra gli specchi. Rimane a bocca aperta, mentre l’eco del suo passato sfiora le mille sfumature dai petali di ciliegio di quegli occhi a lei tremendamente familiari.
    «Mizu-chan» lo sente sussurrare.
    Per un istante, è contenta di sentirsi chiamare con quel nomignolo. Cerca di non apparire troppo sorpresa, ma prima che possa rendersene conto è già in piedi, stritolando il giovane come fosse un pupazzo di pezza.
    «Nagisa-kun!»





    «Sei cambiata tantissimo!»
    Nagisa non riesce ancora a credere che la giovane ragazza di fronte a sé sia l’ingenua e dolce Mizuko che tanti anni prima faceva parte del loro stesso circolo di nuoto.
    Ripensano con nostalgia ai bei tempi andati, seduti lì sulla terrazza della scuola, certi di non essere disturbati. È contento di potersi concedere un po’ di tempo in compagnia di una vecchia amica, una conoscenza del passato che ritorna nel suo presente come se non se ne fosse mai andata.
    Si sente in difetto a non averne ancora parlato con Makoto e Haruka, ma si convince che fare il ruolo dell’egoista, per quella volta, non possa nuocergli più di tanto.
    «Quindi era vero che ti eri trasferita in Francia.»
    «Sì, assolutamente.»
    «E com’era lì?» La sua domanda cela un innegabile senso di curiosità.
    Mizuko se ne rende conto, ma non riesce a mentirgli, per quanto sia convinta che le sue parole possano risultargli presuntuose. Poggia le mani dietro la schiena, fissando il cielo. Forse a Nizza, in quel momento, il cielo non è poi così azzurro.
    «Era davvero adorabile» dice infine, persa nell’unico blu che le è consentito vedere.
    «È vero che hai frequentato un’accademia di nuoto professionale?»
    «Già.»
    «Racconta!»
    L’entusiasmo del giovane amico l’aveva sempre colpita, ma rimane sorpresa di vederlo così interessato alla sua vita passata: non le era mai sembrato tipo da interessarsi alle vicissitudini degli altri, nonostante fosse un rinomato impiccione.
    «Cosa vuoi sapere?»
    «Ogni cosa!» Sente le dita sfiorare la pelle morbida del compagno. La sua mano è decisamente più robusta dell’ultima volta che ne ha percepito la presenza. «Non biasimarmi! Sei scomparsa da un giorno all’altro senza dire niente!»
    Vorrebbe ancora scusarsi per quel comportamento, ma si convince che con il racconto della sua vita fino a quel momento potrebbe fare ammenda per l’incresciosa fuga di tanti anni prima.
    Sospira, soffocando una risata accondiscendente. «Gomen nasai[2]. Neanch’io sapevo che sarei dovuta partire.»
    Lo sguardo che il ragazzo le rivolge non potrebbe essere più dolce di quello che le riserva proprio lì, tra un boccone del bento[3] e l’altro.
    Mizuko si sorprende di quanto sia cresciuto il piccolo bimbo che tanti anni prima si tuffava in piscina con la spensieratezza di una gioventù ancora tutta da vivere; non avrebbe mai creduto che quegli occhi così fugaci e dediti solo alla leggerezza dell’attimo, potessero risultarle or ora così affidabili e saldi pur nella loro ancora celata acerbezza.
    «Sono stata un’atleta in una scuola molto antica che ha come scopo la formazione di nuovi talenti per l’agonismo a livello nazionale.»
    «Sugoi[4], Mizu-chan! Sei davvero diventata una professionista!?»
    Non vuole affatto deludere le aspettative dell’amico, ma invece di rispondere a quella domanda con la sicurezza di cui un esperto del settore si farebbe vanto, rimane in silenzio, nascondendo ciò che le risulta essere disagio. Nagisa rimane a fissarla, confuso.
    «Mizu-chan, ho detto qualcosa di sbagliato?» La sua preoccupazione è resa tangibile dal modo in cui le stringe la mano, spaventato all’idea di averle arrecato dell’imbarazzo.
    Gli sorride mestamente, rifiutandosi d’intristire il tanto entusiasta biondino. «No, affatto.»
    «E allora cosa? Sembri così triste.»
    Ridi, è la cosa migliore. Fa ciò che la sua mente gli ha acutamente suggerito, ottenendo l’effetto sperato: Nagisa sembra tranquillizzarsi.
    «Ma che dici!» lo rassicura, grattandosi la nuca coperta dai corti capelli biondi. «È solo che tornare dopo tanto tempo… beh…»
    «Dev’essere stata dura per te, in questi anni.» Come si aspettava, l’amico è davvero cresciuto.
    «Sì, forse è così.»
    «Le aspettative che le persone si saranno fatte su di te devono metterti sotto pressione.»
    «Già.»
    Rimangono in silenzio per un po’ di tempo. Vorrebbe chiederle così tante cose, Nagisa, da non riuscire a trovare un filo conduttore per rendere il discorso sensato. Non gli capita poi spesso di poter incontrare una persona dopo così tanto tempo.
    «Ne, Mizu-chan» la chiama infine, ponendo lo sguardo rosato sulle nuvole bianche che passano veloci sopra le loro teste. «Sei molto diversa, non è vero?»
    La ragazza china lo sguardo; d’un tratto le proprie scarpe le paiono molto più interessanti di quella scomoda conversazione. Nagisa comprende che non riceverà mai una risposta alla sua domanda, ma nonostante ciò continua, certo che lei lo stia ancora ascoltando.
    «Prima eri solare e piena di vita, adesso sembri…» Vorrebbe continuare, ma la voce di lei risuona grave nell’aria improvvisamente pesante.
    «Le cose cambiano sempre, Nagisa.» È tutto quello che riesce a dire, prima di sentire la gola divenire insopportabilmente stretta. Sa che continuando a parlare un singhiozzo potrebbe tradirla, per cui sceglie nuovamente la via del silenzio.
    «Mizu-chan…»
    «…»
    «So che magari può sembrarti presuntuoso da parte mia, cioè… io non sono un esperto di problemi così grandi… però… sì, beh… puoi parlarne con me, se vuoi.»
    Mizuko avverte l’impellente desiderio di abbracciarlo, ma si trattiene, certa che una manifestazione d’affetto come quella avvenuta in classe sia più che sufficiente per quella giornata. Gli afferra un lembo della manica, decisa a risollevargli il morale: non ha alcuna intenzione di essere considerata come la ragazza sensibile che non riesce a sopportare l’idea di essere stata costretta a lasciare la propria casa.
    Perché, in fondo, è di questo che si tratta.
    «Va tutto bene, Nagisa.» Gli sorride, ma in quella smorfia il biondo non riesce a riconoscere nulla che appartenga alla bella immagine della bambina che ricorda con tanta affezione.
    «Allora, perché sei tornata?»
    «È complicato.»
    «Davvero?»
    «Davvero.»
    Altri monosillabi, altri groppi alla gola. Si sente davvero una frana, nonostante abbia creduto di riuscire a fingere s’accorge di non esserne in grado. È una sconfitta che le brucia più di tutte le altre.
    Quando sta per cedere, pronta per vomitare via tutto ciò che il suo piccolo corpo non riesce più a contenere, Nagisa scoppia a ridere. «Pensare a quando ti vedranno Mako-chan e Haru-chan.»
    Sbarra gli occhi, sorpresa. «C-che?»
    «Ma sì! Non puoi non ricordarteli!»
    «N-no, li ricordo! M-ma…» Si maledice per non essere in grado di nascondere il nervoso.
    D’improvviso, come un tuono che rimbalza violento contro le finestre di una casa facendole sobbalzare, il suo cuore si ritrova in preda ad un tumulto d’emozioni che non è in grado di gestire: gli occhi blu che tanto le ricordano l’oceano le sfrecciano davanti come ricordi incustoditi e la cui presenza è stata celata solo dal tempo.
    «Frequentano anche loro questa scuola!» sbotta divertito Nagisa, senza sapere cosa si celi dietro l’apparente silenzio della compagna. «Mi sorprende che siano così in ritardo per il pranzo.»
    Mizuko scatta in piedi, con gli occhi sbarrati e il sudore che comincia a formarglisi dietro la nuca.
    No. Cosa dovrebbe fare? Sa di non essere nelle condizioni ottimali per poter fronteggiare una situazione di quel tipo: potrebbe anche riuscire ad ingannare Nagisa, ma non crede di essere all’altezza degli altri due vecchi compagni di squadra.
    «Eh…» Una serie sconclusionata di parole le rimane impacciata in gola, mentre un nodo sempre più evidente le si forma all’altezza dell’ugola. Parlare non le è mai sembrato così complicato come in quel momento. «Io…»
    Voglio andarmene. È quello che vorrebbe dire al biondino dagli occhi spaesati; se prima gli aveva dato solo una mera impressione del suo malessere, ora è ovvio che le cose siano più gravi di quelle che ha cercato di fargli sembrare.
    Indietreggia di qualche passo, guardando di sbieco la porta. I battiti impazziti del cuore le rimbombano incessanti dentro la cassa toracica, rendendo inesorabile il tempo che scorre veloce ad annullare la distanza tra i due compagni: Nagisa è al suo fianco, e la scuote come fosse vittima d’un improvviso sonno ad occhi aperti.
    «Mizu-chan!» si sente chiamare e le note di quella voce sono terribilmente impaurite.
    Mentre cerca di tornare padrone del suo corpo scosso dai tremiti, sente il suono stridente del metallo della porta che sfrega contro l’uscio. Trattiene il fiato, mentre Nagisa si volta in direzione delle due figure che emergono dall’ombra delle scale interne.
    Quando la poca lucidità le impone di voltarsi, Mizuko incrocia quello sguardo che tanto le ricorda il blu di casa.




NOTE:

[1] Letteralmente: “Vi prego di considerarmi anche in futuro”. Italianizzata, è uno pseudo-formale “Piacere di conoscervi”.
[2] Lett. “Chiedo perdono”.
[3] Vassoio contenitore con coperchio, di varie forme e materiali, adibito a servire un pasto.
[4] Lett. “Fantastico”.


  
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