Storie originali > Introspettivo
Ricorda la storia  |      
Autore: Black Swallowtail    26/11/2018    1 recensioni
“C'è un'oasi, ad est. Sorge tra quattro grandi dune, come se fosse abbracciata dalla sabbia. In quel luogo, si estende una pozza d'acqua limpida e lì, dove il sole si infrange, è concesso all'Uomo di osservare per un momento lo scopo della propria esistenza.”
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

Il sole è scarlatto e morente, un disco di braci che arde rabbiosamente nel cielo terso. Impietoso, vomita i raggi uno ad uno, come pioggia invisibile, ad irradiare con i suoi ultimi spasmi la distesa di sabbia che, a perdita d'occhio, si modella in dune infinite; ovunque l'occhio si muova, ovunque si volti disperatamente la testa, non vi è altro che un infinito ondulare di sabbia nera ed immobile, scura come ossidiana.

Se si guarda più intensamente, socchiudendo gli occhi, è come se, nel mezzo dell'oscurità interminabile, sia possibile intravedere tanti, minuscoli puntini luminosi, come una miriade di stelle conficcate nel manto notturno; per qualche strana, incomprensibile beffa divina, per un capriccio della natura, il cielo della notte è sempre sotto ai piedi della figura solitaria che si trascina sfinita attraverso questo inferno di rosso, in alto, di nero, in basso, in un paesaggio surreale che gli si è lentamente infilato dentro, corrodendo il suo spirito, ardendo la sua pelle, divorando la sua coscienza.

L'uomo è nulla più che una figura tremante che trascina gli stivali nella sabbia, le suole che affondano nelle stelle, in una faticosa lotta per continuare a muovere, uno dopo l'altro, i piedi in avanti, per trascinare il proprio stesso, insopportabile peso. I vestiti logori nascondono la sagoma avviluppandosi attorno al suo corpo, lasciando intravedere solo un viso pallido e smunto, ma bruciato dal sole che ha inevitabilmente impresso il proprio marchio, grosse chiazze rossastre scivolano fin sotto alla carne e si conficcano nelle vene e nel sangue, arrivano alla mente.

Esausto, si lascia cadere sulle ginocchia per un istante, mentre osserva l'ultimo bagliore rosso morire al confine del mondo di sabbia sempre uguale, ed osserva la notte unire terra e cielo. Crollando su se stesso, sdraiato sul suolo ancora ardente, si trova per il tempo di un respiro, a fluttuare tra stelle sopra di lui, attorno a lui, al punto che le sue dita possono stringerne una incastrata tra la sabbia. I polpastrelli tremano appena, nel sentirne l'essenza, la forma, la consistenza incredibilmente ruvida, un minerale grezzo ma con un bagliore proprio, latteo.

Più di una volta si è chiesto se le stelle non siano precipitate da lassù fino in questo luogo. Quante volte ha afferrato uno di questi cristalli e, con movimenti lenti e spossati, lo ha portato fino al viso, solo per godere della sua luminescenza per un istante. Ore passate ad osservare come, nelle sue miriadi di sfaccettature, la luce naturale pulsasse quasi come viva.

Ma questi pensieri confusi spariscono insieme al dolore del corpo.

Non sa quanto è rimasto sdraiato, né da quanto stia camminando nel nulla assoluto, nella solitudine più assordante; rimettendosi in piedi, con le ginocchia che tremano, torna nuovamente a muoversi verso quella vaga sagoma comparsa sulle dune in lontananza, poco più che una massa indefinita e squadrata, irregolare, ombre che fanno irrigidire le dita, le braccia, la schiena e scuotere la testa. Camminare meccanicamente, poco più che strisciare, affondando ogni volta un po' di più nella sabbia oscura, nella notte sotto di lui, è un riflesso automatico del suo fisico sfinito.

La cognizione del tempo è svanita, corrosa dal vento che di quando in quando spira da est, sospingendo granelli di polvere in mulinelli lucenti, l'unico sono che rimbalza nella nullità, solo un soffio asmatico che vibra per una frazione di secondo nei timpani, prima di sparire senza lasciare traccia.

Non ha contato le dune che ha scalato, né quante volte è caracollato all'indietro, sfinito, rotolando lungo i crinali taglienti, prima di impantanarsi, esausto, né è consapevole di quanto provati siano i suoi muscoli. In qualche istante, si chiede se il suo corpo sia ancora lì a fargli compagnia, se si stia muovendo, o se siano rimaste solo allucinazioni tanto vivide da soffocarlo.

Riesce unicamente a pensare che, nelle rovine che si aprono appena di fronte a lui, potrebbe esserci qualcosa, una qualunque cosa. La strada principale, che si allunga verso una piccola piazza anonima sul fondo, è poco più che un tracciato di pietrisco consunto, appena visibile nella notte assoluta, tanto divorato dal tempo al punto da sparire sotto i mucchi di terriccio e di sabbia sparsi. Alza gli occhi verso le poche case che riesce a vedere, ruderi vuoti, dalle orbite nere e prive di vita, i muri ricoperti di arabeschi di crepe, una porta che cigola al vento inesistente, scricchiolando inutilmente, un drappo di stoffa che penzola su una finestra, rivelandone di quando in quando l'interno.

Si trascina fino al davanzale, il legno minaccia di sgretolarsi quando ci si poggia, getta una rapida occhiata verso l'interno, solo per ricevere una desolata risposta – completamente, assolutamente vuoto, sabbia che scivola dal tetto sfondato, macerie che si raccolgono l'una sull'altra a formare un'unica, grande pila di scarti ed abbandono. Solo i suoi passi sul pietrisco rispondono, echeggiando con un rumore quasi atroce, insopportabile.

Segue la strada, da nord a sud, che a metà del suo percorso si incrocia con una via perfettamente identica, da est ad ovest, a formare un modesto circolo lastricato, sampietrini scrostati raccolti come in silenziosa contemplazione attorno ai ruderi di un pozzo.

Al confine della piazza, tuttavia, paralizzato, mentre l'aria sembra faticare ad entrare nei polmoni, si chiede cosa ci faccia un'altra figura umana seduta sul bordo del pozzo, stretta da vesti talmente scure da sparire nella notte. Solo una chiazza di luce definisce la forma della donna del pozzo, una lanterna fioca poggiata ai suoi piedi, dove gli stracci scuri cadono, a formare un drappeggio, svanendo poi al di fuori del cerchio pallido.

Non riesce a vedere bene, in questa atmosfera vibrante, che gli fa torcere lo stomaco, ma la maschera liscia che copre completamente il suo viso, lasciando liberi unicamente due occhi biancastri, come i frammenti di luce sparsi per il deserto, manda un brivido incontrollabile che azzanna la sua schiena, fino al collo, con un leggero formicolio.

Un altro essere umano, serra i pugni, li rilassa, si morde il labbro, respira a fondo, un altro essere umano.

Si avvicina a lei. Segue ogni suo movimento, nonostante il bianco assoluto delle sue iridi, nonostante le sue pupille non si muovano. Per qualche ragione, sente su di sé qualcosa di indefinito che striscia lungo la pelle e scava la carne, le ossa, come a cercare qualcos'altro, un qualcos'altro che si agita e si torce quando si trovano uno di fronte all'altra.

La donna tamburella le dita contro il bordo del pozzo, distoglie il viso dal nuovo arrivato, per piegarsi leggermente verso il fondo, come se volesse cercare qualcosa nel nulla che gorgoglia sotto di lei.

“Da dove vieni?”

Non saprebbe dire come suoni la voce della donna, forse perché non ricorda di aver mai sentito nessuna voce. Si porta una mano alla gola, massaggia leggermente la pelle, una parte di sé di colpo si chiede se sia in grado di rispondere, di emettere un suono come lei ha appena fatto.

Apre la bocca, ma ne esce fuori solo un vago, rauco grugnire che non sembra avere alcun senso, nemmeno alle sue orecchie. Tre tentativi, tre versi gutturali incomprensibili, prima che riesca a rispondere, sorprendendosi del suono stesso della sua voce, “Non lo so.”

Abbassa lo sguardo, le spalle si incurvano. Il suo respiro diviene di colpo molto più affannoso, come se cercasse disperatamente qualcosa, mentre si stringe le tempie con le dita. La verità schiacciante emerge di colpo dal fondo della sua coscienza, talmente forte da annichilirlo, per un attimo.

“Non so da dove vengo. Non so cosa sto cercando. Non so perché sono qui.”

La donna sposta lo sguardo nuovamente sull'uomo decrepito e sfinito, allunga l'indice latteo fino alla maschera, a sfiorarne appena la superficie, poggiandovelo sopra in un gesto di assorta riflessione. C'è una lunga, infinita pausa, e la luce della lanterna sembra affievolirsi e tremolare, come se minacciasse di spegnersi, si agita, senza che alcun vento la sospinga.

“Non sai o non ricordi?”

Deve fermarsi un secondo. La sua bocca è già aperta, ma le labbra screpolate si serrano di colpo, le corde vocali si fossilizzano. Non sai o non ricordi, chiede lei, il bianco asettico e umido degli occhi che scava incessantemente dentro di lui.

Il suo corpo congelato si stringe attorno all'interrogativo; deve gettarsi uno sguardo alle spalle, alla via da dove è giunto, per cercare una risposta, nella speranza che il buio la sussurri in qualche modo. Riesce a vedere solo la miriade di stelle nel cielo che si specchiano con quelle sulla terra, un pulsare impercettibile.

“Non lo so.”

Si sente piccolo, rinchiuso in una sfera circondato dalle tenebre e dalle luci notturne, incapace di conoscere, non importa quanto torni su se stesso. Non sa come spiegarlo. Non sa come dirlo.

È certo solo che, in lui, manchi qualcosa; e che qualsiasi cosa abbia lasciato un varco invisibile, c'è un disperato bisogno in lui di colmarlo.

Non riesce a dirlo.

Riesce solo a scuotere la testa e a ripetere, quasi come una ammissione di colpa, “Non lo so.”

La donna muove le gambe, sotto il lungo drappo nero, le accavalla l'una sull'altra, piega leggermente la testa all'indietro, quasi per cercare una sorta di risposta più in alto, nella volta luminosa e senza nuvole, mentre il silenzio di gelida sabbia crolla tra le due figure solitarie, due sagome nel nulla di un deserto senza nome.

Nell'immobile luce biancastra, che di quando in quando minaccia di spegnersi, danzando incerta dietro al sottile strato di vetro che la racchiude, la figura mascherata sospira a fondo; quando i loro sguardi si incrociano di nuovo, per un battito di ciglia, crede di aver intravisto nel biancore una movimento impercettibile, come un tremolio nella superficie perlacea.

“C'è un'oasi, ad est. Sorge tra quattro grandi dune, come se fosse abbracciata dalla sabbia. In quel luogo, si estende una pozza d'acqua limpida e lì, dove il sole si infrange, è concesso all'Uomo di osservare per un momento lo scopo della propria esistenza.”

La donna allunga la mano nel pozzo, affondando nel nulla, per poi tirarla su come se sperasse di vedere acqua scorrere, ma trova solo mucchi di sabbia oscura e lucente, che scorre lentamente nello spazio tra le sue dita, un granello alla volta, scandendo lentamente ogni sua parola.

“Ad est, è impossibile non giungervi. Attira a sé l'Uomo che la cerca. Attira a sé l'Uomo che deve abbeverarsi.”

“Quanto è distante?”

Una domanda inutile, lo capisce non appena lascia le sue labbra. Lei non risponde, ma allunga la mano verso la lanterna, portandosela al petto, la stringe tra le mani. Osserva a lungo le fiamme contorcersi, come se stesse pensando, prima di incrociare il suo sguardo con lui ancora una volta. Senza distoglierlo, le mani sfiorano il cappuccio e lo calano ad incorniciare il viso, lasciando nella sua figura solo una maschera fluttuante e due occhi penetranti, che divorano lentamente il suo animo palpitante.

Chiude gli occhi. Spegne la fiamma con un gesto della mano. Il buio la reclama, lasciando solo un uomo smarrito che apre la bocca e prova a mormorare, come a chiamarla debolmente, ma ogni parola è un raschiare sanguinoso della gola.

Stringe i denti, ripetendo sottovoce le parole della donna che ha indicato l'est. Ed ora, è come se una bussola lo sospingesse verso la strada malandata, piena di buche sabbiose, come se i suoi piedi potessero trascinarsi solo verso quel luogo.

Si chiede se la donna sia ancora al suo pozzo, mentre il sole sorge di fronte ai suoi occhi esausti, che si socchiudono alla luce violenta dell'orizzonte. Quando si guarda alle spalle per controllare, la città è ridotta a poco più di un puntino scuro in lontananza, tanto minuscola che potrebbe stringerla tra le dita.

Non sapere, è questo quindi che lentamente lo corrode. Non conoscere quale sia il motivo del suo essere. Non sapere da dove viene, si dice, conta poco, se si può sapere dove si dovrà andare. L'oasi è la meta che, inconsciamente, ha sempre cercato, disperatamente, in questo inferno.

Anche quando la stradicciola svanisce nelle dune tutte uguali, procede spedito, caracollando e sudando, a volte crolla sulle ginocchia. Per lunghi momenti, rimane con le mani affondante nella sabbia e il fuoco che gli arde la schiena, le lacrime scivolano sul suo volto. Le asciuga con un gesto automatico, la sabbia graffia la pelle, non vuole fermarsi a riflettere, a porsi domande. Le risposte sono in uno specchio d'acqua in cui il sole mostra il destino.

Il sole cala nuovamente e sparisce, si rialza, tante volte come ha già fatto. Un tempo, si ricorda, ha tenuto il conto, un tempo forse ricordava da quanto tempo vagava. Forse lo ha sempre fatto, almeno fin dove riesce a ricordare. Il cammino verso est non è diverso da quello che ha compiuto verso nord e verso ovest, immutabile, sempre uguale a se stesso; eppure, ne è sicuro, la strada lo sta portando inevitabilmente alla sua meta.

Quattro dune spuntano fuori nel momento in cui crolla ancora una volta; quattro enormi mucchi di cielo terrestre che circondano in un abbraccio irreale l'oasi agognata.

Seduto sulla cima della montagna ardente, osserva la meta del suo viaggio con il battito del cuore tanto rabbioso che sembra dover esplodere, la gola si annoda di colpo e respirare, l'azione automatica di vivere diviene un impegno, una corsa contro se stesso.

Quattro enormi obelischi di ametista chiara, quasi trasparente, si alzano dalla sabbia a perdita d'occhio, come a voler trapassare il cielo, appuntiti, tanto che si chiede come non li abbia notati a chilometri di distanza; piegati verso la fonte d'acqua al centro, il sole li trapassa da parte a parte, li fa tremolare leggermente, come se non fossero solidi, come se fosse acqua cristallizzata che si agiti senza osare infrangersi.

Il vuoto profondo lo mangia e si ingrandisce, perché sa di poterlo colmare, e lo trattiene a terra. Si porta le mani al viso, si carezza le tempie, stringendo nelle dita tremanti il cranio scavato, pieno di pensieri indecifrabili, che solo lui, solo la sua coscienza può comprendere, la sua mente tormentata dal terrore.

L'enorme buco senza fondo, in cui i raggi del sole sembrano fatalmente gettarsi, come assorbiti, trema e lo chiama a sé, con tutte le sue risposte. L'ultimo sforzo è quello di riuscire ad alzarsi, di spostare il peso di un corpo morto e vivo che risponde ai comandi di una mente torbida. Le ginocchia scricchiolano ad ogni passo nella sabbia, ben presto la sua diviene una corsa disperata fino al limitare dei quattro obelischi, fino a quella luce che essi raccolgono, che sputano nella pozza secca e senza fondo.

L'uomo è poco più che un'ombra di un essere umano, quando si ferma, sotto al cielo ormai rosseggiante, a porsi le ultime domande. La mano stringe il centro del petto, come se volesse rendersi conto di respirare, o forse spera di sentire una voce che gli dica di procedere, o di scappare, di tornare indietro, di slanciarsi in avanti.

Un'ombra passa sul suo viso. L'unica cosa che avverte, in fondo, è solo il suo respiro affannoso, pieno di timore.

Il destino in una pozza.

Si lascia cadere sul bordo del baratro perfettamente circolare, di cui non intravede il fondo, dal quale non emerge nessun rumore, non turbato da nessun movimento. C'è solo un perfetto, totale nero, all'apparenza inconsistente, vuoto, come aria o come notte intrappolata nel mondo.

Non ha mai preso un respiro così profondo, non ha mai trattenuto il suo cuore dal battere come ora, non ha mai sentito la sua mente tremare per un gesto come nell'istante in cui si sporge in avanti, a specchiarsi nell'oscurità, a cercare lo scopo della sua minuscola esistenza, il motivo della vita di un uomo in un deserto, solo.

Rimane immobile, a lungo.

Non muove le braccia.

Non sgrana gli occhi.

Non storce la bocca.

Non batte le ciglia.

Non respira.

Cade all'indietro, senza un urlo, senza un gemito.

Rimane sotto al sole, circondato dai suoi raggi.

Ed un gelo ardente lo avvolge.

 

 

   
 
Leggi le 1 recensioni
Ricorda la storia  |       |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Introspettivo / Vai alla pagina dell'autore: Black Swallowtail