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Autore: wanderingheath    29/11/2018    0 recensioni
Norwall, Connecticut.
Melanie Prescott, nata e cresciuta tra le grandi vie di scorrimento in periferia, diventa l'obiettivo preferito di Cindy Butler e delle sue sottoposte. Abbandonata a se stessa nella scuola più prestigiosa della città, osserva con dolore legami ormai strappati e l'instabile equilibrio raggiunto dalla madre.
Dall'altro lato del vetro c'è Daphne Barnett, con gli storici amici Logan e James, che non riesce a trovare la propria voce e si aggrappa ad ideali di amori fittizi. E mentre lei si consuma per Ethan Sallinger, ragazzo travolto dalla corrente di eventi drammatici, Isaac Barnett finisce nella rete di criminali che opera nel "Black Market"; rete che coinvolge anche gli abitanti della società dabbene, baluardo di una finta integrità.
In questo labirinto sporco ed intricato si snodano le vite di comuni adolescenti, equilibristi in bilico tra prime esperienze amorose, relazioni interpersonali danneggiate, un passato ombroso e un futuro sbiadito. Soli in balìa di forze esterne, i ragazzi si ritroveranno annodati alle vicende di Norwall e alla migliore detective da poco tornata in città: Ellen Ward.
Otto drammi diversi ma non distanti, otto vite parallele che troveranno un punto di incontro per conoscersi e riconoscersi negli altri.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash, FemSlash
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo 5.

Lights Out
 

 
«Come on baby, we can hit the lights
make the wrongs turn right
we can smash the club, make the pop go raw
With a  love this deep, we don’t need no sleep
and it feels like we could do this all night.»

 
 
9:25 – Galaxy Hotel
 
Le avevano detto che stava divinamente, quella sera.
A sostenerlo, sua madre, che l’aveva ricoperta di complimenti,  rivoltandola sul posto davanti alla specchiera come una bambola di pezza. Non le credeva, ovviamente, ma apprezzava il tentativo di tirarle un po’ su il morale. Dopotutto, quello era l’incoraggiamento che le serviva per convincersi ad uscire di casa e partecipare alla festa.
Si era pentita della decisione non appena la maestosa facciata in stile neoclassico del Galaxy Hotel le si era delineata davanti agli occhi. Sette piani di marmo bianco, sfavillii dalle imponenti finestre a bovindo, diversi chauffeur impalati come sentinelle accanto all’ingresso, porte girevoli e lampadari a gocce: questo era ciò che prospettava la serata.
Fin dal momento in cui era scesa dal taxi, Melanie si era sentita inadeguata, sensazione acuitasi una volta tra la folla di invitati; strano, allucinante, vedere i suoi compagni di classe e semisconosciuti agghindati in smoking o in lungo. Il paragone tra il suo vestito a malapena stirato e i pomposi modelli realizzati con tessuti pregiati, sfavillanti di pailettes o dai colori intensi fu inevitabile.
Nonostante le proteste di zia Lydia, preoccupata dell’orlo troppo corto che le copriva appena le ginocchia, alla fine aveva dato ascolto a sua madre, accettando un vecchio tubino nero che indossava in gioventù; per completare il look avevano attinto al guardaroba del fratello e Melanie era sconvolta dal fatto che la giacca extralarge fosse l’unico capo in cui si sentisse a proprio agio.
Adesso vi si stringeva in modo ossessivo, osservando da un angolo i suoi coetanei che occupavano la maestosa pista da ballo, tra cascate di Champagne e tartine che non saziavano affatto, chiedendosi cosa diamine ci facesse lì in mezzo.
Al suo ingresso, Cindy l’aveva accolta con il solito corteo, sfilandole all’istante dalle mani il pacchetto regalo, per poi volatilizzarsi per il resto dei festeggiamenti. Un problema in meno: non avrebbe dovuto fingere di essere socievole.
I signori Butler avevano affittato soltanto un’ala dell’edificio, ma assicuravano drink gratuiti al bar dell’hotel e disponibilità massima del personale, che sfrecciava di continuo da una parte all’altra.
Un urletto tagliò all’improvviso la stanza, raggiungendo perfino lei, nel suo angolino di isolamento.
Alyssa Russmith stava ridendo sguaiatamente, in compagnia di una nutrita cerchia di giovani. Qualcuno le sfiorava con ammirazione gli orecchini a goccia, qualcun altro complimentava la borsetta dorata. Tra di loro Melanie scorse anche Daphne, la fronte corrucciata, un broncio inesplicabile ad incresparle le labbra. La notò, la riconobbe, ma come un altro migliaio di volte - come il lunedì precedente in biblioteca - spostò lo sguardo altrove, quasi fosse rimasta scottata.
Mel sentì di aver raggiunto l’apice della sopportazione. Agguantato l’ennesimo calice di spumante, si diresse sul balcone, lontana dal frastuono di luci, bicchieri e risate.
La visuale sui giardini dell’hotel era spettacolare. Lampioncini in stile francese rompevano il buio, lunghe scalinate di un bianco marmoreo si snodavano tra le aiuole e i tavolini, fino alla piscina, creando un labirinto raffinato.
L’aria fredda la investì, restituendole libertà.
Sollevò il mento, lasciandosi cullare. Finalmente le pareva di tornare a respirare.
Sulla balconata semideserta, un’altra presenza catturò la sua attenzione.
I capelli chiari raccolti in un’acconciatura elaborata, il vestito di un rosa cipria a sagomarle il corpo esile, la pelle quasi diafana…avrebbe saputo riconoscerla ovunque.
Mentre le si avvicinava, il suo sguardo sostò un istante di troppo su qualche boccolo, sfuggito al pettine, che le scivolava lungo il collo, insinuandosi nel decolleté non generoso. Spense repentinamente il desiderio di scostargliene uno dalla spalla nuda, sentendo le viscere ribollire d’impazienza.
La sigaretta accesa entrò nel suo campo visivo solo in un secondo momento, quando ormai si trovava ad un passo da lei. Il modo in cui la maneggiava, scrollando via la cenere, stringendo il filtro fra le unghie fresche di manicure, semplicemente la incantava.
Pensò che non aveva mai visto un essere più aggraziato compiere un atto così devastante. 
Con la musica ovattata a pulsare contro le vetrate, Melanie si pose di fianco alla ragazza. Realizzò di non conoscere ancora il suo nome.
Quando la sconosciuta si accorse di non essere più sola, un velo di stupore le schiuse le labbra: «Sei venuta anche tu, alla fine».
Una sottile nota di ironia e sorpresa trapelò dalla voce.
«Obblighi sociali», replicò Mel.
Si appoggiò a propria volta alla balconata, combattuta su cosa fare, cosa dire per non apparire l’ennesima volta quella strana. In genere non le importava nulla dei giudizi che gli altri formulavano nelle loro piccole menti, ma questa volta sì: sembrava diventato della massima importanza il modo in cui portava il soprabito – aperto o abbottonato? – e i minimi dettagli la mandavano in crisi.
«Ti invidio», osservò l’altra ragazza in una boccata di fumo. «Almeno tu, dopo questa serata, sarai libera.»
«Se ci arrivo, a fine serata», ironizzò Melanie.
La sconosciuta si unì alla risata smorzata, scuotendo appena il capo. «Intendo dire,» riprese con serietà, «che tu non hai vincoli di alcun tipo.»
«Perché, tu cos’hai fatto di tanto orribile? Sottoscritto qualche patto con il diavolo?»
Melanie trovò il coraggio di guardarla in volto. «Sei libera anche tu di andartene.»
L’altra, però, stava di nuovo scuotendo la testa, assorta in riflessioni che serpeggiavano nei giardini rigogliosi.
«Non funziona esattamente così.»
Inspirò a fondo un’altra boccata di fumo, prima di rilasciare un soffio grigio nel vento.
«Cindy è mia cugina.»
A Melanie per poco non sfuggì il calice dalle mani. Lo adagiò sulla balaustra, per sicurezza.
«Tua—tua cugina?»
La giovane annuì, senza riuscire a trattenere un sorriso. «Lo so, non ci assomigliamo molto.»
«Su questo non ci piove.»
Le strappò un’altra risatina. Non pensava di risultare divertente. Forse la sua interlocutrice stava solo fingendo di essere gentile, mascherando il disagio che provava– lo stesso che provocava in tutti coloro che conoscessero Melanie Prescott. Si mordicchiò un labbro, sempre più tesa.
Le vetrate vennero spalancate e richiuse in un istante, mentre un cameriere si accostava loro con un vassoio carico di antipasti. Entrambe declinarono l’offerta.
Rimaste di nuovo sole, la ragazza le si avvicinò con aria confidenziale, abbassando la voce: «Odio questo spreco di cibo; puro esibizionismo. Nessuno è davvero in grado di finire tutte quelle tartine, che poi sono anche nauseanti».
«Hai provato il caviale?», replicò Mel.
«Disgustoso», decretò l’altra arricciando il naso.
La prima sollevò entrambe le braccia in uno slancio di entusiasmo, approvando il verdetto.
«Oh, finalmente! Vogliamo smetterla di fingere che il caviale sia buono?»
«Mai sopportato. Ha un sapore troppo intenso.»
Mel bevve un sorso di spumante, senza distogliere lo sguardo da quello della sconosciuta. D’altra parte, le pareva impossibile: come durante il loro primo incontro, trovava quegli occhi ipnotici e ricchi di talmente tante sfaccettature da far sembrare sprecato ogni secondo non passato a studiarli.
«Comunque, io sono Lisa.»
«Melanie.»
Iniziò a ripeterselo mentalmente nel tentativo di memorizzarlo il prima possibile. Quell’informazione che a lungo aveva cercato di carpire, magari in una conversazione distratta per i corridoi, infine era giunta con estrema facilità a lei.
«Sei dell’ultimo anno?»
Melanie ingollò un’altra sorsata di Champagne, rabbrividendo nel sentire esplodere le bollicine nell’esofago.
«No,» tossicchiò, «no, sono al penultimo. Anche tu, giusto?»
Lisa le rivolse un cenno di assenso, prima di inspirare altra nicotina, mente rivolta altrove. Mel non poteva fare altro che restare ad osservarla in un misto di adorazione e perplessità. «Sai, non avrei mai detto che fumassi», le sfuggì infine. 
Si meritò un’occhiata risentita. «Come mai?»
«Non sembri esattamente il tipo.»
«Ah,» Lisa allacciò le braccia al petto, analizzandola attentamente, «e che tipo sembro?»
Nella mente di Melanie sfrecciarono una serie di immagini, di quei pochi, fugaci incontri all’Arcadian, in cui l’aveva sempre vista tutta presa dai propri quaderni, ad aggiustarsi la coda alta davanti all’armadietto oppure a strisciare dietro Cindy Butler.
Alzò un sopracciglio. «Una che tiene molto al proprio aspetto e alla buona reputazione che si è forgiata.»
«Fumare è di moda.»
Melanie si fece sfuggire una risatina carica d’amarezza: «Certo. Se vivi nel duemila e rispondi a qualche stereotipo punk».
L’altra rise di pancia, reclinando appena il busto in avanti. Quando tornò a guardarla, sembrava serena.
«Hai ragione. La nicotina è demodé , ma volevo vedere come avresti reagito.»
Le mani di Melanie sprofondarono nella giacca, mentre dissimulava in modo penoso il proprio imbarazzo. Lì per lì, aveva temuto che il commento potesse averla indispettita o offesa– a volte dimenticava che non tutti amavano essere diretti e che le conversazioni con se stessa non valevano come buon metro di paragone per testare la sensibilità altrui – ma poi le aveva strappato una risata e quella volta ogni dubbio genuinità di Lisa era stato fugato. Aveva rotto il ghiaccio.
«Comunque, devi avermi esaminata poco o male.»
Le stava sorridendo con una punta di malizia. «Sono il tipo che fa qualche tiro, anche se di nascosto.»
Melanie si strinse nelle spalle: «Errare è umano. Dovrei farti la ramanzina su come ti stai bruciando i polmoni e tutto il resto?»
Lisa scacciò quel pensiero con un gesto della mano, come se si trattasse di altro fumo.
«No, ti prego, risparmiatela. Lo so, lo so che mi distruggo la salute e tutto, ma è l’unico sfogo che mi resta, l’unico momento che ho per me stessa, per restare con i miei problemi senza nessuno che mi ronzi attorno. Ingerisco nicotina, esalo tensione. È catartico.»
Qualche minuto di silenzio, un brindisi dall’interno, una coppia straniera di passeggiatori solitari che attraversavano il giardino. Sembrava irrealistico pensare di poter incontrare persone non agghindate, al Galaxy; immaginare ospiti in pigiama, rintanati nelle loro suite, lontani anni luce dalla festa, dai bagliori e dall’opulenza del rinfresco.
«Qual è il tuo?»
Melanie fu risucchiata nel presente.
 «Mh?»
«Qual è il tuo modo per sfogare la tensione?»
Gli oggetti in frantumi, foto e pagine strappate, pezzi di carta volteggianti ovunque insieme alle piume, tavoli rovesciati, vetrine incrinate, muscoli stretti, rivoli di sangue.
«Il cane», sputò di getto. «Le passeggiate con il mio cane.»
Lisa accennò un sorriso, interessata.
Senza che se ne accorgesse o fosse in grado di fermarsi, Melanie si ritrovò a sciorinare una serie di sciocchezze sul nome del meticcio, su come l’avessero adottato, sulle spese veterinarie, su qualunque cosa le passasse per la testa – tutto purché quei pensieri rimanessero bloccati dentro, stipati in un angolo.
Poi, un rumore distinto fece scattare la sua interlocutrice.
«Oh, cazzo.»
Lisa si affrettò a far sparire nella pochette accendino e portasigarette. Il mozzicone di poco prima, ormai terminato e ridotto ad una chiazza scura sul pavimento, era stato sostituito da una Camel nuova, che la ragazza già stringeva fra i denti. Con la coda dell’occhio, Melanie captò una figura familiare in avvicinamento.
Senza riflettere troppo, sfilò la sigaretta ancora spenta dalle labbra di Lisa e la trasferì tra le proprie.
Cindy Butler si materializzò accanto a loro. Squadrò entrambe con diffidenza e, confusa, si rivolse solo alla cugina: «Lisa, che caspita stai facendo tutta sola qua fuori?»
L’altra provò a giustificarsi con un ampio gesto del braccio.
«Mi godevo…il panorama. I giardini sono stupendi.»
Cindy storse il naso: «Hai fumato?»
Quella tossicchiò, una mano chiusa a pugno davanti alla bocca. «No! Scherzi? Fumare, io?»
«Non è il tipo», intervenne Melanie. «Colpa mia, stasera ne ho proprio bisogno.»
L’ospite la osservò strabiliata per il candore con cui ammetteva quella che, ai suoi occhi, era un’imperdonabile colpa, trastullandosi con l’oggetto incriminante.
Ignorata del tutto la risposta, afferrò la cugina per un polso, trascinandola all’interno.
«Beh, vieni, Lisa. Hanno messo Rihanna. Tu la adori, no?»
Lisa fece appena in tempo a bofonchiare un “no” poco convinto, per poi impuntarsi sul posto e interpellare Melanie: «Tu non vieni?»
Quella trasecolò, sforzandosi di ignorare il sapore di lucidalabbra che si scioglieva sul palato.
Ciliegia. Lisa doveva avere gusti delicati. 
«Io…credo che farò un salto all’open bar», rispose evasiva. «Odio ballare.»
La biondina arricciò il labbro.
Tutto ciò che riuscì a dire, prima di essere risucchiata dal caos della festa, fu: «Peccato».
 
 
 
*   *   *
 
 
 
La musica iniziava a stordirla.
Tutto quel pulsare – nelle tempie, nella gabbia toracica, perfino negli occhi – le provocava dolore.
Per l’intera festa, le sale erano state riempite da musica house, che si propagava per i corridoi dell’albergo, insinuandosi nell’atrio, nelle camere degli ospiti, perfino nelle toilette.
Lei, attaccata ad una parete di uno dei tanti corridoi deserti, osservava il riflesso che il grande specchio a muro rimandava indietro. Si stava domandando in che modo apparire un po’ più piacevole.
Risucchiò l’addome, si sforzò di mantenere una postura eretta – come le aveva ripetuto chissà quante volte Alyssa – e di sorridere, mento alto e capelli avvolti nello chignon.
Cazzo, quanto le stava stretto quel vestito.
Si lisciò un paio di pieghe, tirando la stoffa verso il basso, a coprire quelle – grasse, grosse, nerborute – gambe che i tacchi non alleggerivano affatto. Lasciò andare un sospiro e insieme ad esso qualunque tentativo di tenere in dentro la pancia. Ma chi voleva prendere in giro?
L’aveva visto il buffet, soprattutto quando le avevano indicato con cupidigia la fontana di cioccolato che troneggiava nel suo centro esatto, ma se ne era tenuta a distanza. Magari dopo. Sì, magari più tardi.
Era tentata di sfilarsi le scarpe e chiudersi nel bagno, sparire fino al termine della serata, ma l’avrebbero trovata, prima o poi. Non c’era via di fuga da quella gabbia di cristallo.
Tutto ciò in cui poteva sperare erano attimi di tranquillità come quello, per riprendersi un po’.
La Lei nello specchio la analizzava con una specie di broncio.
Avrebbe voluto sfasciarlo.
Mille pezzi, mille crepe, mille frammenti di un’immagine che forse, scomposta, sarebbe apparsa meno ingombrante. Rimpiangeva amaramente di aver lasciato il soprabito nel guardaroba all’ingresso: come poteva coprire quel cazzo di bacino?
Che poi nessuno in famiglia vantava un’ossatura così spessa o dei fianchi larghi.
Tutto merito suo: nemmeno con la genetica poteva prendersela.
Vaffanculo. Vaffanculo, Daphne.
Un sonoro urlo la agguantò per le spalle: «Daffie!»
Prima ancora che potesse replicare, si ritrovò circondata dal gruppo di amiche di Alyssa. Quest’ultima aveva estratto il proprio I-Phone, un sorriso a trentadue denti sul volto spruzzato di lentiggini.
Il braccio abbandonato mollemente attorno al suo collo le sembrò all’improvviso un cappio.
«Non ci siamo fatte nemmeno una foto! Dai, venite. Selfie di gruppo davanti allo specchio.»
Le proteste di Daphne vennero tacitate nell’immediato.
«Daffie, non fare la guastafeste. Dobbiamo averla per forza, una foto della serata.»
«No, dai, Alyssa…sto malissimo.»
L’altra la spintonò appena, ridacchiando. «Sciocchezze! Stiamo tutte divinamente.»
Daphne fece per allontanarsi, ma Felicity la ripescò nel mucchio, stringendola in mezzo a corpi formosi ma mai inadeguati. «E dai, solo un paio.»
Negli infiniti minuti trascorsi con labbra tirate e denti serrati, mentre le altre cambiavano di continuo posa, cercando quella più adatta per gonfiare la loro autostima, Daphne sentì montare un’ondata di sconforto.
Le afferrò le caviglie, trascinandola sempre più giù, verso il pavimento.
Il sorriso si spense a poco a poco, fino a scoppiare del tutto terminato il servizio fotografico.
Alyssa mostrò fiera le immagini alle proprie amiche e lei colse l’occasione per scivolare altrove.
Camminava come un automa, spettrale e dissociata da tutto ciò che la circondava. Nella sua mente, martellava solo il meraviglioso corpo di Alyssa,  le lunghe gambe sinuose e il fisico slanciato. Si sentiva un fucile caricato a bile ed odio.
Non si accorse neppure di essere finita nel salone principale, fino a quando il bancone del rinfresco non si dipinse sotto al suo naso.
Qualcuno la strattonò con entusiasmo.
«Daphne, non puoi capire! Mettono Rihanna
Come accecata dai riflettori, Daphne si portò una mano davanti agli occhi, provando ad ancorarsi di nuovo al presente, focalizzarsi sul “qui ed ora”. Piano piano, la nube che l’aveva intossicata si diradò.
Qui? James.
Ora? Festa.
«Pensavo che Rihanna fosse morta da un pezzo,» commentò, «artisticamente parlando.»
Travor si avvicinò con un piattino di mini hamburger in mano: «Non insultare la regina indiscussa».
«È intramontabile», confermò Jason.
«Ma voi da dove sbucate?»
Logan si accostò al quartetto, le mani sprofondate nelle tasche del completo scuro: «Siamo sempre stati qui, Dee-Dee. Solo che tu non ci hai visti».
«È troppo presa dalle sue amichette snob. Non può permettersi di calcolarci in un’occasione del genere», rincarò Jason con un ghigno.
Daphne lo ignorò, massaggiandosi appena le tempie.
Nell’ambiente regnava un insolito silenzio, che lasciava spazio solo ad un debole accenno di acufene e alle conversazioni sguaiate fra gli ospiti, per metà obnubilati dall’alcool. La richiesta di una canzone ben precisa, da parte della festeggiata o qualcun altro per lei, sarebbe stata esaudita di lì a poco; intanto, l’attesa che si era creata fermentava di secondo in secondo.
«Hai assaggiato i mini hamburger?»
Travor le tendeva il piattino, facendole cenno con il mento di servirsi.
«Sono a posto così, grazie.»
«Almeno un goccio di Champagne?», le domandò Logan.
«Mi chiedo cosa ripescheranno dal dimenticatoio», riprese James. «La balliamo, ovviamente.»
Daphne era incredula: «Avete intenzione di ballare?»
Gli altri annuirono con un sorrisetto idiota, mentre Jason posava il proprio calice di spumante e decideva di  inseguire un cameriere di passaggio per ottenerne dell’altro.
«Dio, che imbarazzo», soffiò lei.
«Solo perché  tu sei negata, non vuol dire che lo siamo tutti», fu la lesta replica di Logan.
La ragazza rimase in silenzio, allibita. E così, lo pensavano anche loro.
Avrebbe voluto sputargli dal profondo del cuore che era uno stronzo, ma conoscevano entrambi la verità e, per quanto amaro, fu costretta ad ingoiare il rospo.
Mentre Travor e Logan discutevano di alcune invitate, comuni conoscenti, pacchetti di dimensioni esorbitanti notati nel guardaroba, della scontrosità del concierge e di come volessero provare i drink della casa, una sagoma in smoking si unì alla conversazione.
«Ethan! Che dici, fratello?»
James gli assestò una pacca sulla spalla, prendendosi forse più confidenza del dovuto.
Era elettrico, quella sera, accordato alla bevanda che stringeva in mano.
«Tutto bene. È una festa un po’…sui generis», osservò mascherando un sorriso.
«Eh?»
Travor lo osservava confuso.
«Particolare», si corresse subito Ethan. «Però, mi sto divertendo.»
Daphne era entrata involontariamente in apnea non appena il giovane si era avvicinato. Le spalle così vicine da sfiorarsi, il completo aderente che lo fasciava, l’atteggiamento serioso che gli conferiva la cravatta troppo stretta. Il nero gli donava.
Divenuta terribilmente consapevole della propria presenza, del modo in cui stringeva le braccia al petto, nascondendo la scollatura abbondante, non poté fare a meno di arrossire.
«Non so voi, ma lo smoking mi soffoca», aggiunse il ragazzo, trovando l’approvazione immediata degli altri.
Il dj annunciò la prossima canzone: direttamente dal 2008, su suggerimento di uno spasimante di Cindy, Don’t Stop The Music iniziò a rimbombare tra le mura.
Le luci, concentrate prima su tonalità calde tra il perlaceo e il dorato, avvolgendo i presenti in un tessuto di grazia e limpidezza, adesso vennero abbassate a colori più freddi, volti a creare un’atmosfera intima ed unita: sotto le stroboscopiche, tutti i corpi apparivano identici, un’unica massa di sudore.
Dagli altoparlanti si invitava Cindy Butler ad aprire le danze con il suo spasimante, un tipo tarchiato e lentigginoso.
La voce della cantante strappò urla di assenso.  
Cindy, sorridente e catturata nella catena di flash di fotografi professionisti, si posizionò al centro della sala, in uno scrosciante applauso. Incitò anche altre coppie ad imitare lei e il suo partner, desiderio subito esaudito.
Gli invitati riempirono la pista, mentre Jason faceva ritorno con quattro o cinque bicchieri di spumante.
«Cosa mi sono perso?»
Logan si sforzò di sovrastare le pulsazioni. «Hanno davvero messo Rihanna
«Okay,» annuì l’altro, «grazie alcool, per aiutarmi a digerire tutto questo.»
E detto ciò, scambiato un brindisi con James, entrambi i ragazzi mandarono giù un paio di bicchieri a testa.
Daphne indietreggiò, decisa a mantenersi a bordopista, possibilmente distante dal buffet troppo invitante.
I piedi le bruciavano nelle scarpe, mentre un gorgoglio da parte dello stomaco le comunicò che forse doveva mettere qualcosa sotto i denti.
«Dee-Dee, tu vieni?»
Logan la stava sfidando.
In un tremendo déjà-vu, rivide la scena al parco e represse le lacrime, mandibola contratta, muscoli stretti. 
Gli spiegò che “aveva già dato al suo compleanno”.
«Come immaginavo», replicò lui asciutto, prima di buttarsi nella mischia con gli altri.
L’unico rimasto accanto a lei, a scrutarla con diffidenza, era James. Non l’aveva convinto affatto, quella facciata imperturbabile. C’era qualcosa dietro – sotto, in fondo, ma quanto in fondo? – che ribolliva e minacciava di uscire.
Le sussurrò nell’orecchio, sopra il frastuono che li circondava: «Guarda che non frega niente a nessuno, se sbagli dei passi. Devi solo divertirti.»
Lei non si spostò di una virgola, assorta e riflessiva come al solito. Scandagliava angoli di pensiero accantonati, in cerca di chissà quale risposta ad una questione semplice ed infantile.
Si ricordò di quando ballare era naturale; le veniva spontaneo, quasi le scorressero nel sangue la musica, il ritmo, l’energia che adesso non sfruttava.
«Può farlo chiunque, Daphne. Lo faccio io, che sono negato in tutto.»
Daphne abbassò lo sguardo, mortificata. Non riusciva, non era così facile lasciarsi andare, ignorare lo sguardo di conoscenti e sconosciuti, l’analisi dei suoi stessi amici, il giudizio di Ethan che tanto temeva. James era fatto in modo diverso. Lui provava, si lanciava, si rotolava anche nel peggiore dei fanghi, ma ne usciva sempre in piedi.
«Logan ha detto che sei incapace.»
«Ha ragione.»
«No!»
Lei sussultò. Strano, quasi impossibile, far arrabbiare James.
Il giovane le afferrò un polso con determinazione. «Dimostriamogli che ha torto.»
Ma prima che potesse replicare, la stava trascinando in pista, scontrandosi con i corpi madidi di sudore.
Lei tirò l’amico per un braccio, scuotendo il capo.
«Fallo per Rihanna, Daphne.»
James intercettò lo sguardo rivolto verso la vetrata, ma vide solo Ethan Sallinger che, liberatosi della giacca, ondeggiava a ritmo, abbarbicato a Logan e Jason.
Decise di afferrare Daphne per entrambe le mani, costringendola a voltarsi di spalle.
Do you know what you started? I just came here to party, but now we’re rocking on the dance floor.
Lei abbassò le palpebre, immaginando di essere altrove, ignorando con ogni sforzo quelle – orribili cazzo di gambe – stroboscopiche, ripetendosi che nessuno – tutti gli occhi addosso, mille bocche affilate, morsi profondi –si era accorto di loro.
James aveva preso anche a cantare, mentre tentava di farla sciogliere un pochino.
I wanna take you away, let’s escape into the music, dj let it play.
Con dei piccoli saltelli sul posto, allacciò le braccia attorno alle spalle dell’amica, che però stava perdendo controllo sul proprio corpo. Strattonata, rimbalzava di qua e di là, mentre copiosi rivoli di sudore le inondavano fronte e collo. Riaprire gli occhi non migliorò la situazione. Era come se stesse vivendo a scatti, - please don’t stop the, please don’t stop the, please don’t stop the music  - un momento prima si trovava lì, quello successivo blackout completo. Le girava la testa.
«James. Devo sedermi.»
«Cosa?!»
Provò a ripeterlo con un tono più alto, ma fu inutile.
Si sottrasse alla presa e annaspò verso l’uscita, trascinandosi a fatica verso il bar.
Aveva bisogno di mangiare qualcosa e subito.


 
*   *   *
 
 
 
Libero.
Finalmente era fuori da quel circo degli orrori.
Il miglior modo per trascorrere un piacevole sabato sera doveva di certo essere imbottigliato nell’appartamento disordinato di sconosciuti, a dare ripetizioni.
Unica consolazione a cui attaccarsi: l’idea che, in fondo, non solo la sua, di famiglia, fosse complicata.
La casa dei Krimston, al quarto piano di una palazzina fatiscente, contava quanta più polvere e sudiciume sua madre potesse tollerare, ma per la signora Krimston quello costituiva l’ultimo dei problemi. La preoccupazione per una figlia svogliata, che si applicava allo studio lo stretto indispensabile, contava maggiormente. 
Le aveva ripetuto i concetti una dozzina di volte, arrivando quasi all’esasperazione. Non era un tipo paziente, lui, e di certo il meno indicato per un’occupazione del genere: spiegare nozioni elementari ad un’adolescente, come fosse una bambina, era frustrante.
E, ad aggiungere l’ennesimo mattoncino di stress, era stato costretto a fermarsi a cena presso degli estranei.  Ci aveva provato, a declinare, ma le lezioni gli avevano sottratto una fetta di tempo non indifferente e le sue ospiti si erano rifiutate di lasciarlo andare via senza aver assaggiato lo stufato.
Gli si era piazzato sullo stomaco, quello stupido stufato, e adesso per smaltirlo girovagava per il quartiere deserto alle undici di sera, rassicurando il padre che sarebbe rincasato presto.
A dire la verità, non ne aveva proprio voglia, di tornare a casa.
No, non era il massimo starsene da solo a fissare vetrine di negozi ormai chiusi, sentendosi osservato da quei pochi passanti che attraversavano la via principale, ma preferiva indugiare ancora per un po’, quel che bastava per prolungare la sensazione di totale libertà. Sciolto, slegato da tutti e tutto.
Sarebbe potuto divenire chiunque, in quella finestra di libertà.
Isaac inspirò a fondo: smog e gelo nelle narici, spazi infiniti e distese di cielo tra gli alti palazzi. Chissà cosa c’era, in quella strada lì in fondo.
Nei recessi del suo cervello, lo sapeva cosa lo teneva ancorato in quel posto, cosa gli impediva di saltare su un notturno o scendere nella metro: il richiamo dell’ignoto.
Anzi, no. Perché di cosa lo attendesse in una parallela, il famoso e proibito Black Market, ne era a conoscenza. Probabilmente a quell’ora avrebbe trovato solo uno spiazzo vuoto, magari tendoni scuciti e un paio di banchi di legno, ma desiderava ugualmente andarvi. Ne sentiva già l’odore, di spezie lontane, copertoni bruciati e ferro arrugginito.
Se si concentrava a sufficienza, gli giungeva persino qualche suono – suole di scarpe sull’asfalto, uno stridore gommoso – lontano, lontano…
Non così lontano, in realtà. Gli pareva infatti un rumore troppo reale per essere partorito dalla sua fantasia.
Riaprì gli occhi, sempre davanti al negozio di arredamento di prima. Ed eccolo, il rumore di passi in avvicinamento, così concitati da ricalcare una corsa.
Isaac si guardò attorno, perplesso. Alcuni isolati più in là, il fascio di luce di un minimarket si riverberava sul marciapiede; una coppia di anziani con delle buste da spesa, un fumatore solitario e pedoni anonimi circolavano nella zona.
Quando il calpestio si fece indubbio, Isaac si voltò verso un angolo della strada da cui apparve una figura incappucciata ed intenta a sfilarsi una felpa. Una volta liberatosene, il ragazzo in fuga la gettò dietro alcuni cassonetti e, insieme ad essa, si disfece di un oggetto circolare che ad Isaac – spettatore muto – ricordò un uovo. 
La nuova comparsa continuava a correre con il fiato corto, controllando ossessivamente la via alle proprie spalle, e non si accorse di Isaac, ancora impietrito davanti alla vetrina illuminata, finché non lo travolse in pieno.
In quell’istante, un paio di poliziotti svoltarono l’angolo, perlustrando il quartiere con sguardo affilato.
«Scusami.»
Il ragazzo, rimessosi in piedi, gli stava tendendo una mano. Isaac l’accettò titubante.
Non fece in tempo a rialzarsi, che la coppia di agenti si tuffò sullo sconosciuto, immobilizzandolo.
Quello prese a divincolarsi e a proclamarsi innocente.
«Ah, sì? Pensi di darcela a bere così facilmente?»
Isaac captò l’espressione sofferente dello sconosciuto. Qualche strano particolare nei lineamenti duri, squadrati, e nei riccioli scompigliati attaccati al collo lo fece scattare, come se qualcuno gli avesse girato un cacciavite nel centro esatto della fronte: era giovane, troppo giovane per finire dentro a causa di un piccolo furto. Valutò che doveva essere più o meno suo coetaneo. 
«È andato di là.»
Isaac si sentì parlare dall’esterno, qualcun altro aveva preso il comando delle sue proprietà cognitive.
Seguì la direzione che adesso stava indicando con il braccio, puntando un dito sul fondo della strada, oltre il minimarket, oltre la fila di lampioni, oltre l’orizzonte di cemento armato.
Gli agenti lo squadrarono con un’aria ferale.
«Ne sei sicuro, ragazzo?», gli domandò il primo.
Isaac annuì lentamente, deglutendo con difficoltà. Mantenne il contatto visivo con il fuggiasco a cui una frangia biondastra copriva metà volto.
«Com’era fatto?»
Era stato il secondo poliziotto a intervenire. Isaac si portò una mano dietro la testa, mimando un cappuccio.
«Alto, magro, un paio di jeans sdruciti…»
L’altro lo interruppe, assestando un calcio al sospettato: «Come questi, eh?»
«Molto simili», Isaac parlava a rilento, tenendo a freno la propria insicurezza, «ma portava anche una felpa extralarge, grigia, con il cappuccio. Il cappuccio gli copriva il volto.»
Si concesse una pausa, accelerando il discorso.
«Stava scappando. Aveva un oggetto in mano…circolare. Qualcosa di brillante.»
Aveva ottenuto l’attenzione del più anziano. «Ragazzo, ne sei assolutamente certo?»
Isaac annuì, accennando con il mento al giovane immobilizzato: «Lui era qui, con me».
«Vi conoscete?»
Annuì di nuovo, senza provare neanche un’ombra di rimorso.
«Sì. Stavamo rincasando, quando il tipo in fuga ci ha quasi travolti.»
«Non ci starai raccontando cazzate, eh?», intervenne il secondo agente. 
Il quindicenne si morse un labbro, scuotendo il capo. «È la verità.»
Riluttanti, allentarono la presa sulla loro preda. L’agente più giovane, però, doveva essere un osso duro – o semplicemente qualcuno che vuole far colpo sul proprio capo, pensò Isaac.
Gli rivolse uno sguardo truce: «Sarà meglio per te, ragazzino».
E detto ciò, sparirono di nuovo dietro l’angolo, comunicando ad un’altra pattuglia che il sospetto si aggirava in una zona limitrofa.
Lo stridio di ruote sull’asfalto accompagnò i pensieri di entrambi i ragazzi che, rimasti soli, non osavano rompere la pantomima o il silenzio. Poi, fu il nuovo arrivato a prendere la parola.
«Com’è che ti chiami?»
«Isaac.»
Quello assentì, riflettendoci un momento su. S’incamminò verso i cassonetti, a recuperare i propri effetti.
«Beh,» commentò dandogli le spalle, «non so cosa ti abbia spinto a coprirmi, ma ti ringrazio.»
Inginocchiato sul bordo del marciapiede, gli inviò un’occhiata eloquente. «Adesso, però, è meglio se sparisci.»
Quando il giovane fu di nuovo davanti a lui, la felpa stretta nell’avambraccio e un sorrisetto soddisfatto sulle labbra, Isaac poté distinguere chiaramente l’oggetto che stringeva in mano: un portagioie.
Osservando come ipnotizzato la corona di rubini che ne impreziosiva il coperchio, Isaac non riuscì a trattenere una semplice domanda: «A chi l’hai rubato?»
L’altro non gli fornì alcuna spiegazione. Come risposta, preferì assestare al ragazzino una gomitata sulla spalla, bisbigliando: «Torna a casa, Isaac
E si allontanò in una camminata molle, rilassata, oltre il minimarket.


 
*  *  *
 



«Il tuo succo e…un sandwich al formaggio. Ecco a te.»
Il barista le posò davanti il piattino, prima di tornare alle altre ordinazioni. Daphne lo seguì con la coda dell’occhio mentre abbandonava il bancone e si dirigeva ai giardini.
L’odore di formaggio grigliato la inebriò per qualche istante, con l’effetto di dilatarle ulteriormente lo stomaco. Non aveva solo fame; no, c’era un’enorme buco nero a risucchiare il ventre.
Si passò le mani sul viso, incurante del trucco su cui aveva speso ore e ore del proprio tempo.
«Mh, succo di pesca. Non sapevo fossi un’alcolista.»
Quella voce inconfondibile. Daphne si voltò di scatto, minacciando l’equilibrio raggiunto sullo sgabello.
Accanto a lei, Ethan Sallinger la squadrava con un sorriso divertito.
Decise di stare al gioco, bloccando fuori i pensieri che iniziavano a centrifugarle in testa sul perché proprio lui fosse lì in quel momento, se avesse abbandonato la festa per qualche motivo o se magari…
«Ci sono molte cose che non sai su di me, Ethan Sallinger.»
Si pentì all’istante della voce contraffatta con cui aveva storpiato il suo nome. Dio, perché finiva sempre per fare figure del genere? Doveva smetterla di rendersi ridicola.
«Ad esempio?»
Ethan si accovacciò sullo sgabello di fianco, gomiti sul bancone.
Sembrava genuinamente interessato alla conversazione.
Ecco, si era impantanata in un vicolo cieco. E adesso? Quale balla avrebbe dovuto sfoderare?
«Beh, per esempio…»
Pensa. Pensa in fretta, Daphne.
Uno sbuffo. Ma perché doveva sforzarsi di impressionarlo? A cosa sarebbe servito?
«No, in effetti sono un libro aperto», sospirò. «Non ho molti aneddoti.»
Ethan agguantò un cestino di noccioline, giocherellando con i salatini.
«Mh. Io sono convinto che chiunque abbia una bella storia da raccontare. Basta solo saper scavare a fondo.»
Un’occhiata scaltra. «Quando dai alla gente la possibilità di esprimersi, diventa perfino ossessiva. L’altro giorno, alla fermata dell’autobus, ho attaccato bottone con una signora – settantina, occhialoni spessi, sola come un cane…»
Daphne annuì, riuscendo a delineare un ritratto della signora in questione. Colse l’occasione per assaggiare il succo ordinato. Pesca e cannella si mescolarono lentamente sulla punta della lingua; un retrogusto acre le pizzicò il palato. Finalmente un po’ di zuccheri.
«…e lei ha finito per narrarmi la storia della sua vita. Vedova – prevedibile – vive da sola in una casetta a due piani che vorrebbe dare in vendita, tanto i figli la vanno a trovare di rado; avrebbe preferito affittare, ma il quartiere non è dei migliori e la città negli ultimi anni si è popolata di forestieri; mica come ai suoi tempi, quando Norwall era solo un piccolo centro abitato.»
Ethan le sorrise. «Nulla di nuovo o strabiliante, ma a lei serviva sfogarsi con qualcuno.»
«Ti è andata di lusso», commentò Daphne. «Tutto ciò che trovo, sui mezzi, sono persone fuori di testa.»
«Oh, ma quella è la creme-de-la-creme», replicò l’altro. «Non sai mai…», sgranocchiò una nocciolina soprappensiero, «cosa faranno. È l’imprevedibilità che ci riscatta.»
Daphne aveva corrucciato la fronte. Senza accorgersene, si era sorbita metà della bibita.
«Che intendi?»
Il ragazzo accavallò le gambe, improvvisamente cupo. «Intendo dire…che i folli sono quelli che si divertono di più. Niente limiti, niente divieti, nessuna porta sbarrata.»
Quella frase la fece sussultare. Qualche campanello d’allarme interiore era stato attivato. La sensazione di déjà-vu la offuscò, impedendole di concentrarsi su altro se non sulle ultime tre parole.
Nessuna porta sbarrata.
Ethan si stiracchiò appena, allontanando la coppetta di snack. Indicò il sandwich con un cenno del mento.
«E quello? Non lo mangi?»
Daphne scansò il piattino con un’innocente scrollata di spalle. Se lo teneva per dopo. Alzatasi in piedi, gli annunciò che andava un attimo alla toilette. Lo stomaco improvvisò un triplo salto mortale, stavolta non per la fame: con quella luce abbronzata, i capelli di Ethan sembravano seta pura. Sperò che il profumo di pulito che portava con sé, le restasse impresso, indosso o a mente.
«D’accordo,» disse lui con un occhiolino, «ma sbrigati o me lo finisco io.»
Sarebbe morta, se lo sentiva.
Il tempo di circumnavigare il bancone e…
Melanie. Di nuovo. Stava uscendo dal bagno delle donne, quasi irriconoscibile nel completo scuro. Non riusciva a ricordare l’ultima volta in cui l’aveva vista portare un capo così elegante.
Trafitta. Una pugnalata al cuore.
Impossibile non incrociarne lo sguardo, mentre decideva nel panico come comportarsi: ignorarla? Salutarla?
Talmente immersa in simili riflessioni, non avvertì lo scoppio secco alle proprie spalle fino a quando schegge di vetro non le sfiorarono la pelle.
Qualcuno urlò, distante, mentre Daphne cadeva a terra, dietro al bancone, senza opporre resistenza.
   
 
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