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Autore: blackswam    30/11/2018    1 recensioni
Nella tenebrosa e spaventosa città di Garður dove il terrore e la paura dimorava nelle vene di ogni singolo compaesano, nascondeva un segreto a cui nessun riusciva a credere. I vecchi cantastorie dei paesi confinanti raccontavano storie, racconti di terrore legati a quella oscura città dove la sopravvivenza era un privilegio. Si diceva che circa un millennio fa la città fu assediato da una bestia dai terrificanti occhi rossi, una lunga coda squamosa che agitava quando era spesso irritato, un corpo enorme e un lungo collo irto di scaglie. Distrusse tutto ciò che trovò nel suo cammino, tagliando con le lunghe zampe le sue prede e mangiandole con i suoi denti appuntiti. Pochi riuscirono a sopravvivere per narrare quella vicenda, ma ancora oggi i discendenti di quei compaesani vivevano nell'ombra con l'obbiettivo di sopravvivere per un semplice scopo: uccidere quei mostri che hanno occupato la loro terra e difendere così il mondo da morte certa.
Usagi Tsukino una semplice cameriera del paese di Svalbarð si troverà imbrigliata in una storia molto più grande di lei, quando un giorno nella villa dei signori per i quali lavorava trova un piccolo uovo sepolto tra i cumuli di terreno.
Genere: Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Coppie: Mamoru/Usagi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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Capitolo 3

La piccola creatura

 

 

Lasciai uscire un grido smorzato quando la minuta bestiolina mi morse il dito, e le rivolsi un sguardo duro mentre impaurita si rintanava dietro la tenda della finestra. Mi portai il dito sulle labbra, imprecando.
Con la lingua ripulii il sangue su quest’ultima e dopo questo gesto avvertii una scarica di adrenalina attraversarmi il corpo. Sospirai e con molto calma mi avvicinai verso di lei o lui che dispersamente cercava di nascondersi.
“Ti prego, non uccidermi.” sentì dire nella mia testa e a sentire quella supplica mi gelai nel posto.
Non ero certo stata io a parlare, e oltre a noi due nessuno c’era nella stanza. Ciò stava a significare che…
«Riesco a leggere i tuoi pensieri» affermai sorpresa delle mie stesse parole. Al suono della mia voce cacciò la testolina dalla tenda e rivolse i suoi occhi blu come il cielo verso di me.
Con le sue piccole zampe si avvicinò verso le mie gambe sulle quali iniziò a strofinare il muso in segno di resa. Le accarezzai la testa in modo istintivo.
Qualcosa mi spingeva a compiere quel gesto, sentivo che doveva farlo. Sentivo che lei voleva sentirsi rassicurata.
“La tua mano è calda” mi disse trasferendo i suoi pensieri nella mia testa. Di conseguenza continuai a ripetere quel movimento per almeno due minuti quando sentì qualcuno bussare alla porta.
Sobbalzai sul posto. La creatura mi rivolse uno sguardo incerto mentre le faccio segno di fare silenzio e di nascondersi sotto al letto.
Inaspettatamente fece ciò che le avevo chiesto e con un sospiro aprii la porta della camera.
Mrs. Johannssonn fece capolino nella stanza nella sua stretta camicetta nera, una maglietta bianca che le copriva l’addomome piatto e un paio di pantaloni dello stesso colore della maglietta. I capelli neri erano raccolti in uno chignon perfettamente ben fatto e due paia di occhiali rossi che le coprivano gli occhi che erano di un colore marrone chiaro.
Tra le mani aveva una sottile cartellina rossa sulla quale trascriveva ogni singolo momento della sua vita, secondo Ami dormiva anche con quella cartellina. Sembrava l’unica ragione della sua vita.
Quando mi voltai verso di lei mi rivolse uno sguardo di sufficienza, ovvero la sua solita espressione, e mi porse una serie di fogli tra le mani.
«Mi spiace svegliarla anche nel suo giorno libero» iniziò col dire, anche se non ero molto convinta del suo dispiacere «La signora mi ha chiesto di cambiare i turni di lavoro. Con l’avvento della guerra molte cose inizieranno a cambiare. Tra pochi giorni dovremmo accogliere alcuni compaesani della città di Grímsey, e in qualità di nostri alleati noi abbiamo il dovere di accoglierli nelle nostre case.»
«Accoglierli?» le chiesi non riuscendo a comprendere il nesso logico del suo discorso. Quasi impazientita la donna continuò:«Una delle più modeste città di Grímsey è stata rasa al suolo soltanto poche settimane fa e quei pochi superstiti hanno chiesto rifugio qui da noi.»
Mai scelta fu per loro più sbagliata. La città non godeva più dei viveri che un tempo poteva permettersi di avere, e a stento riuscivano a sopravvivere loro stessi, figuriamoci ospitare altri poveri sciagurati.
«Chi è stato ad attaccarli?»
Per la prima volta vidi la donna ammutolirsi a quella mia domanda e per qualche secondo pensai che mi avrebbe lasciata senza alcuna risposa. Invece..
«Un drago signorina, un drago.»
Al suono di quella parole sentii un brivido di paura fin dentro la ossa, ma non era la mia paura.
Volsi lo sguardo verso il fondo del letto e abbassai subito il capo. Afferrai poi i foglietti su cui erano scritti i nuovi turni di lavoro e mi lasciai ricadere sul letto. Il piccolo drago alla chiusura della porta uscì da sotto il lettino e si arrampicò su quest’ultimo ponendosi al mio fianco.
«E adesso cosa ne facciamo di te?» le dissi accarezzandole il capo, ma a quelle mie parole la piccola draghessa si allontanò mostrando i piccoli denti in segno di sfida.
La osservai sorpresa mentre con la mano cerco di avvicinarmi, ma quasi non mi staccò le dita a morsi. Dovevo averla spaventata.
“Non voglio farti del male” pronunciai cercando di rassicurarla, ma l’unico risultato che ottenni fu una scrollata di spalle e con l’aria infastidita si rinascose nel letto dove non uscì per tutta la giornata.

 

***

Passai la maggior parte della mattinata rintana nelle mie stanze con la testa china sui libri. Solitamente era in questo modo che passavo il mio tempo libero: immersa nella lettura.
I miei fratellini mi chiamavano “topolino da biblioteca” e nonostante quell’appellativo all’inizio mi arrancava non poco disturbo, ad oggi mi faceva sorridere in memoria dei buoni vecchi tempi, ben conscia che non ritorneranno più.
Scacciai i cattivi pensieri, che come di consuetudine, si insinuavano nella mia testa. Con gli occhi ormai stanchi rinchiusi il libro e lo depositai sul comodino mentre scioglievo le gambe attorcigliate.
Mi sistemai la maglia che si era stropicciata e mi abbassai di poco per vedere sotto il letto. La piccola bestiola stava riposando e senza far alcun tipo di rumore decisi di lasciarla riposare e rinchiusi quindi la porta dietro le spalle.
Decisi di dirigermi verso i giardinetti sedendomi sulla solita panchina. Socchiusi gli occhi mentre la flebile luce del sole mi accarezzava la pelle pallida.
“Come si sta bene oggi” pensai ricordando il freddo gelido di non poche settimana fa. L’aria in questo periodo si era notevolmente riscaldata.
«Disturbo?» mi sentii dire facendomi spalancare entrambi le pupille. La figura di Mamoru si presentò davanti al mio cospetto. Con il suo solito ghigno, i suoi denti perfetti, le sue mani calde e le sue labbra sottili. I suoi occhi di blu scuro come la notte.
Avrei tanto voluto rispondere si, ma mi trattenni.
«Per niente signorino Mamoru, stavo giusto per andarmene.» feci per alzarmi, ma non calcolai la sua mano pronta ad afferrarmi il polso. Stava diventato un vizio.
«Ti prego non andartene a causa mia.» mi disse e non potei non notare la sua espressione sofferente. Mi dispiaceva rifiutarlo per l’ennesima volta, ma doveva capire che questa cosa, qualunque cosa fosse, non poteva continuare.
Un serva e il suo padrone. Un amore praticamente impossibile, un amore che poteva essere raccontato soltanto nei libri, ma purtroppo la sua storia non era un romanzo romantica, ma la vita reale.
Quando però fa per andarsene fui io ad afferrare il suo braccio e gli dissi:«Puoi rimanere»
Non riuscii a capire il perché del mio gesto e sapevo che presto o tardi me ne sarei pentita, ma in quel momento non mi importava. Quando mi rivolse quel sorriso radioso sentivo di aver fatto la cosa giusta, mentre sentivo le mie povere guance andare a fuoco.
Abbassai la testa torturandomi le mani in un completo imbarazzo. Odiavo il silenzio e in qualche modo doveva colmarlo.
«Tua madre ha modificato i nostri orari di lavoro sai? Dicono che è a causa della guerra.» iniziai a dire senza nessun senso logico. Mamoru però rimase ad ascoltare probabilmente fingendosi interessata, ma senza mai perdere il sorriso.
Gli raccontai delle mie opinioni riguardante la guerra che presto o tardi si sarebbe disputata. Quando iniziai ad insultare il sindaco della città mi parve di vederlo divertito e notai con gioia che aveva la stessa visione della vita. Come me anche lui non riusciva a vedere nulla di buono da questa alleanza se non innumerevoli perdite su tutti i fronti.
«In sintesi è un vero idiota» sentenzia concludendo il mio lungo monologo. Il giovane, che era rimasto ad ascoltare per tutto il tempo, annuì con lo sguardo. Sospirai sollevata avendo trovando in lui qualche con cui confidarsi e che aveva i suoi stessi ideali.
«Concordo» confermò sorridendomi.
Ricambiai il sorriso mentre mi portavo il polso sul viso controllando l’ora. Erano le sette passate ed era il momento di ritornare in camera.
«Adesso devo andare» dissi alzandomi dalla panchina e volgendogli le spalle. Quando stavo per varcare l’angolo sentii la sua voce chiamarmi.
«Usagi!» urlò facendomi voltare. A passo veloce di avvicinò guardami negli occhi. «Posso ancora rivederti?»
Mi fermai sul posto non sapendo come rispondere.
“Digli di no” diceva la mia testa, ma il cuore quella sera non voleva proprio controllarsi.
Annuii con lo sguardo sentendo nuovamente la guance andare a fuoco e mi voltai verso la parte opposta. Non volevo vedere il suo viso perché sicuramente, come me, stava sorridendo.

 
  
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