(Guy Debord)
Non tutti i
vicoli sono ciechi.
Se si
è sufficientemente disperati,
se ci si sente smarriti come se fosse impossibile ritrovare la strada
di casa,
allora ci sono buone probabilità di imbattersi nel Night dei
Sogni Infranti.
È
l’ultima
speranza, in genere. Il rifugio delle anime perdute. La sua insegna al
neon
vergata in corsivo si staglia nella bruma notturna, in fondo ad una via
cieca,
che non dovrebbe portare da nessuna parte.
Ed è
lì che
lo trova Sehun. Lui forse non si è perso, non ne
è sicuro; ma gli sembra di
aver dimenticato qualcosa e non sa se volerla ricordare o meno.
Le porte del night si aprono senza sforzo. Non c’è
un buttafuori né una fila di
avventori in paziente attesa del loro turno per entrare. Il locale
è deserto,
composto da un’unica stanza, di dimensioni tanto modeste che
Sehun riesce ad
esaminarla attentamente con una sola occhiata. Le pareti sono
tappezzate di
broccato blu pavone, venato di sfumature cangianti che tendono
all’argenteo. Il
pavimento sembra ricavato da un’unica lastra di roccia
lavica. Poche luci
soffuse sotto forma di applique. In
un angolo, un pianoforte malconcio ha tutta l’aria di stare
agonizzando.
Dal lato opposto, un bar in legno e vetro satinato fa mostra di
sé. Le
bottiglie, illuminate da tenui faretti azzurrini, hanno una
dignità misteriosa,
esoterica. Somigliano a fiale di pozioni magiche. Manca il barista,
però.
Poco male,
pensa Sehun, visto che non c’è nessuno in giro
è plausibile che sia andato in
pausa. Così si siede su uno sgabello e aspetta. Non passa
molto tempo prima che
si sentano dei passi percorrere la stanza, lontani e poi sempre
più vicini,
diretti verso di lui. Sehun si gira, obbedendo ad un impulso ferale.
L’uomo che
gli si avvicina, flessuoso come un dio e sicuro di sé,
appare troppo bello per
essere un semplice barista e insieme troppo giovane per essere il
proprietario
del night. Il completo nero che indossa, elegantissimo, ne sottolinea
la figura
perfetta ed esalta la sfumatura color miele dei capelli.
“Un
cliente,
finalmente” la sua voce è velluto, gli occhi gemme
verde veleno. “Perdona
l’attesa. Cosa ti do?” si insinua dietro al bancone
con la scioltezza d’anche
di un ballerino.
“Whisky,
grazie. Doppio” ordina Sehun, abbagliato, recuperando il
portafoglio dalla
tasca interna della giacca.
“Quant’è?”
Una mano ben
curata respinge il denaro, mentre la gemella versa con destrezza la
bevanda in
un tumbler. “Offre la casa. Sei il primo cliente della
serata. Ghiaccio?”
Sehun,
confuso, accetta. “Per essere io, a quest’ora
infame, il primo cliente… Strano.
È nuovo, il locale? Non sono pratico della zona ma non
ricordo di averlo mai
visto prima d’oggi”.
“Non
si
presta attenzione a qualcosa finché non se ne ha
bisogno” commenta saggiamente
il barista. “Apriamo solo quando c’è
necessità, diciamo”.
“Non
sarebbe
così, se lo pubblicizzaste un po’. Fareste il
tutto esaurito ogni sera. Voglio
dire, tu da solo saresti un motivo più che valido per venire
qui” Sehun avvampa
e decide di affogare nell’alcol quello sprazzo di
spavalderia.
L’altro
ride, lusingato e affatto sorpreso. “Sei molto gentile. Ma
ciò che piace a te
potrebbe non risultare gradito a tutti”.
Una breve
pausa. “Se tutti non
hanno occhi per
guardare, posso pure comprenderlo. In caso contrario, bisognerebbe
essere
completamente pazzi per non apprezzare una bellezza in grado di
rivaleggiare
con le opere d’arte del passato” Sehun, ormai persa
la faccia, non si fa
problemi a scavarsi la fossa con le sue stesse mani.
Simile ad un
nastro d’acqua, il barista si lascia fluidamente scivolare
sul bordo del
bancone, allungando una gamba slanciata in modo da sfiorare uno
scaffale pieno
di bicchieri con la punta della scarpa [1].
Dà la
schiena a Sehun, adesso, e compie una torsione del busto per guardarlo
in
tralice. “Ne deduco che il mio aspetto è di tuo
gusto?” domanda con un sorriso
malizioso e indolente.
Sehun gioca
la carta della franchezza. “Sei praticamente l’uomo
dei miei sogni” confessa
dopo aver bevuto un sorso.
“Oh,
non mi
stupisce. Conosco i tuoi gusti, Sehun. E conosco i tuoi sogni; in
particolare
quelli infranti”.
A Sehun per
poco non scivola di mano il tumbler. “Come fai a sapere il
mio nome?”
trasalisce, sussurra.
“Lo so
e
basta” alza le spalle, come rassegnato all’idea.
“So tutto di te”.
“Ma io
non
ti conosco. Non so chi tu sia”.
“Chi…
o
cosa” si rimette in piedi, un gesto liquido e talmente veloce
da non sembrare
umano. “Però neppure io ti conosco.
C’è una differenza tra sapere e
conoscere”.
Sehun,
guardingo, lo osserva allontanarsi e raggiungere il pianoforte.
“Qual è?”
chiede.
“Per
conoscere è indispensabile fare esperienza, vivere sulla
propria pelle una tale
cosa. Il sapere resta sul piano teorico. A volte si rivela istintivo,
un
richiamo ancestrale di cui ignoriamo l’origine ma che ci
indica la via migliore”
le sue dita sfiorano i tasti del pianoforte, che sorprendentemente non
è
scordato. Il suono che ne ricava è limpido.
Sehun non ha
parole adatte per replicare, perciò si affida alla propria
curiosità. “Hai un
nome?”
“Puoi
chiamarmi Jongin”.
Una melodia
scaturisce da sotto le sue abili mani: è vivace, briosa,
evoca la luce. A Sehun
piace. “Che brano è?” si informa.
“Il
rondò
alla turca di Mozart [2]. Grande
compositore”.
“Lavori
da
solo?”
“Ho
dei
colleghi, ci diamo il turno”.
Esista a
porre la domanda successiva. “A seconda dei clienti che vi
capitano, immagino?”
Senza
smettere di suonare, Jongin gli rivolge un sorriso sornione.
“Sei un tipo
sveglio”.
“Pensavo
lo
sapessi già” tenta una battuta.
“Te
l’ho
spiegato. Un conto è saperlo, un conto è averne
la conferma”.
“Ha
senso”
concorda Sehun. Il suo bicchiere è vuoto. “Posso
prendere dell’altro whisky?”
“Serviti.
Sei il padrone, qui dentro. Tutto è studiato per esserti
gradito. Me compreso”
ridacchia sinistramente.
“Deve
trattarsi di un sogno, per forza” riflette lui, afferrando la
bottiglia. “Nella
vita vera, uno come te non mi degnerebbe di mezzo sguardo”.
“Sbagli,
invece. È tutto vero”.
“Anche
i
sogni lo sembrano, fintanto che durano” sbuffa.
“È
per
questo che fanno così male quando non si
realizzano” osserva Jongin, quasi
sovrappensiero.
La musica
cambia tenore. I tasti del pianoforte vengono pestati con energia
brutale, di
certo eccessiva, che pare nascondere della rabbia repressa.
Risentimento.
Sconfitta.
Le sue
parole colpiscono Sehun. Lo pungolano. “Già.
Dimenticavo che tu affermi di conoscere
tutti i miei sogni infranti” ribatte d’un tratto.
“Lo
affermo
a ragion veduta. Sono la mia specialità”.
“I
tuoi
colleghi si occupano di altro, quindi. Di altri clienti”
pondera.
“A
ciascuno
il suo. Sembri deluso, Sehun. Non capisco. Ho fatto il possibile per
venire
incontro ai tuoi desideri” intanto la sonata termina, e anche
la pazienza di
Jongin. Forse quello veramente deluso, tra i due, è lui.
“Ci
sei
riuscito. Fin troppo bene” sospira Sehun, facendo tintinnare
i rimasugli di
ghiaccio nel bicchiere. “Proprio per questo non
può che trattarsi di un sogno.
L’ennesimo”.
“Ti
ripeto
che sono reale, invece. Diresti mai che il tempo non esiste solo
perché non
puoi classificarlo? Mai sentito parlare della
relatività?” incalza, grondante
sarcasmo.
Sehun si rende
conto di essere stanco. Scuote la testa. L’alcol inizia a
fare effetto. Il
silenzio, se avesse un volume, sarebbe assordante.
“Che
vuoi da
me?” sospira, una mano sulla nuca.
Ammansito
dalla resa, Jongin perde ogni traccia di irritazione. “I tuoi
sogni infranti,
ecco cosa voglio. Per ripararli e dargli nuova vita. È
un’altra delle mie
specialità” sorride come un bambino, il tono di
voce fermo e dolcissimo.
Sehun non se
lo aspettava. Abbandona il whisky, lo sgabello del bar. Si piazza di
fronte a
Jongin, che ne ricambia lo sguardo senza paura.
“Chi-
cosa
sei davvero?”
“Tutto
ciò
che hai sempre desiderato” è la risposta. (La
verità.)
Si fissano.
Poi Sehun prende posto davanti al pianoforte. Le loro ginocchia si
toccano.
“Suoneresti ancora per me?”
Jongin non
se lo fa ripetere due volte.
Non tutti i
vicoli sono ciechi.
Se si
è
sufficientemente disperati, se ci si sente smarriti come se fosse
impossibile
ritrovare la strada di casa, allora ci sono buone
probabilità di imbattersi nel
Night dei Sogni Infranti.
È l’ultima speranza, in genere. Il rifugio delle
anime perdute. La sua insegna
al neon vergata in corsivo si staglia nella bruma notturna, in fondo ad
una via
cieca, che non dovrebbe portare da nessuna parte.
Ed è
lì che
Sehun trova la sua vera casa.
[1] Chi mi segue su
Facebook ricorderà
la foto spoiler di questa scenetta (https://www.facebook.com/IlGeniodelMaleEFP/photos/pb.152349598213950.-2207520000.1541856249./1880164545432438/?type=3&theater).
[2] Concordo con
Jongin (https://www.youtube.com/watch?v=quxTnEEETbo).
Don’t
Mess Up My Tempo è
stata una mezza delusione
-preferisco mille volte Ooh La La-
mentre
il mv mi ha regalato questa idea. Poteva andarmi peggio!
Per chi se lo stesse chiedendo, Jongin è una creatura che
potrebbe rivelarsi
sia malvagia sia benevola. Lui ed i suoi colleghi hanno il compito di
giungere
(materializzando dal nulla il loro night) in soccorso di chi, quale che
sia il
motivo, ha perso il proprio scopo nella vita. Sono sirene? Angeli
custodi?
Demoni? A voi l’ardua sentenza, e anche il toto-nome per
indovinare le identità
degli altri baristi xD.
Una
cliccatina è sempre gradita: https://www.facebook.com/IlGeniodelMaleEFP/.
Buone feste!