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Autore: channy_the_loner    01/12/2018    1 recensioni
Dal testo:
"E poi si era allontanato, senza ringraziare, senza salutare; non ti piaceva chi non rispettava l’educazione, ma tu, ancora smarrita, non eri in collera con lui. In quel momento non eri cattiva, ma non eri neanche buona; eri solo una fragile creatura colta da un fiume in piena a cui non sapevi dare un nome – un fiume in cui scorreva il nulla, ma un fiume in cui scorreva il tutto."
Il regalo di compleanno ad una persona molto importante per me, che sostituisce la banale dedica di mezzanotte. Io inserisco l'HTML a mezzanotte, babe!
Buona lettura!
Genere: Fluff, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Near, Nuovo personaggio
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno
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Amica importante,

questo scritto è per te. Non so come definire ciò che segue – una dedica? Un tributo? Semplicemente una storia? – ma spero ti piaccia. L’ho scritto pensandoti, tutto d’un fiato, e forse è per questo che non ha tanto senso. Per una volta, però, voglio lasciar perdere le centinaia di revisioni, di altre versioni, e pubblicare queste righe così come le ho scritte, al naturale, con i miei sentimenti scoperti. Spero che questi ti arrivino dritti al cuore, e che la lettura sia piacevole.

Buon compleanno. Ti voglio bene.


P.S.: e sì, il titolo è "Un Fiume in Piena" perché dovevo fare il giochino di parole con River (eeee ho rovinato l'atmosfera).



Ti era sempre piaciuto il Natale. Aspettavi quel periodo dell’anno con una strana ansia intrisa di sorrisi, colma fino all’orlo, a volte straripante; attendevi quei giorni dai precedenti mesi primaverili, sotto il sole più caldo dei dodici mesi desideravi rinfrescarti con un venticello fresco, ad ottobre già pensavi a come decorare il piccolo appartamento che ospitava te e la tua famiglia. Odiavi il freddo che ti penetrava nelle ossa delle braccia e delle gambe, e l’idea di dover andare a scuola ti faceva sbuffare rumorosamente, seppur tu fossi una studentessa modello, con il diario riempito di compiti per casa, ottimi voti, scarabocchi annoiati e dediche scritte con affetto; ma tu, tu riuscivi a chiudere un occhio su tutto. Eri buona, tu, e il Natale era la festa dei Buoni.

Buona com’eri, non avevi saputo declinare l’offerta che ti era stata fatta, e così eccoti lì, vestita con abiti strambi e colorati principalmente di verde e rosso, a distribuire regali pagati in anticipo ai bambini che si presentavano davanti a te; ti avevano chiesto di diventare un piccolo e carino elfo di Babbo Natale per una giornata di sana beneficenza, e nonostante sapessi che sorridere a tutti e parlare per molte ore senza fermarti mai sarebbe stato difficile, avevi detto di sì, perché a te andava bene distruggerti i piedi e le gambe e il viso per donare un po’ d’amore a chi lo chiedeva. Ti piacevano i bambini; oltre ad essere belli e splendenti, loro erano il futuro, e tu non facevi altro che pensare al domani, a sognare, a vivere la vita con il potere della speranza che ti scaldava il cuore – era un focolare acceso, vivo, scoppiettante, che sapeva resistere al freddo e al vento e alle tempeste.

Auguravi a tutti di passare un Natale gioioso e con le persone amate, e lo auguravi anche a te stessa, proprio nell’istante che alternava il vuoto davanti a te con una presenza, un bambino dal viso nuovo e il naso rosso. Avevi già visto tanti visi giovani e privi di ogni ruga nelle ore precedenti, e ad ogni volto ti sorprendevi dell’infinità di sfumature calde che contenevano le iridi di ogni infante; perché tu li guardavi negli occhi, quei fanciulli di statura bassa, e loro rispondevano ai tuoi sguardi senza paura, poiché sapevano che di te avrebbero potuto fidarsi. Di te si fidava chiunque, perché anche tu nelle iridi avevi quei sentimenti scoperti, quella voglia di vivere, quella forza che avrebbe potuto smuovere un’intera montagna tutta in una volta – e tu lo facevi; tu eri in grado di compiere miracoli per le persone che risiedevano con immensa fortuna nel tuo cuore, tu le curavi, le ascoltavi, davi loro consigli su come superare i numerosi momenti di tristezza, perché tu odiavi la tristezza sui volti delle persone a te più care. Era così tanta la gente che riservava del tuo affetto, eppure tu non ti stancavi mai di donare un pezzetto del tuo grande cuore a chi faceva parte della tua quotidianità; era buffo come un angelo come te fosse circondato da un’infinità di diavoli, due di essi più imponenti rispetto agli altri, e più taglienti di lame affilate, e più velenosi dei serpenti, e più fragili del cristallo. Amavi i diavoli, seppur la tua anima appartenesse a Dio; era la contraddizione più grande che ti affliggeva, ma loro erano i tuoi diavoli, e nonostante fossi stata costretta a spaccarti in due perfette metà per far sorridere entrambi, non avresti rinunciato a nessuna delle due tentazioni. Era un circolo vizioso, il dolore, con quei due diavoli, ma ti aveva fatto capire la quantità reale di bene che il tuo corpo snello era in grado di contenere, e questa era infinitamente superiore alle tue aspettative.

Il tuo respiro era calmo e regolare, nonostante il cuore battesse velocemente nel tuo petto perché in preda all’emozione della felicità; dalle tue labbra uscivano delle vivaci nuvolette dovute all’aria fredda di dicembre, anche se agli occhi dei meno attenti e più giudicanti sembrava stessi fumando – ma i tuoi polmoni erano puliti e sempre lo sarebbero stati. Avevi freddo, perché il cappotto rosso non era abbastanza caldo per compensare il vestitino verde che ti eri vista costretta ad indossare; avresti voluto coprirti la testa con il berretto di lana che conservavi con gelosia nell’armadio, seppur non rispettasse i canoni di moda che erano stati urlati dalla società – e invece ti era stato dato un cappellino rosso con le lucine natalizie, vagamente somigliante al copricapo di Babbo Natale, un omaccione che stava seduto su una poltrona nera da troppe ore, e che ormai iniziavano a pesare per tutti. Tu e gli altri volontari vi trovavate nella piazza di un grosso centro commerciale, quel giorno preso d’assalto da centinaia di famiglie impegnate ad acquistare regali per i rispettivi parenti e vari addobbi per le proprie abitazioni, e tu ti perdevi ad osservare quell’invisibile amore, pensando che entro pochi giorni anche tu avresti fatto parte di quella massa di gente, con i tuoi genitori, i tuoi fratelli e il tuo cane; avresti speso un capitale, lo sapevi già, perché tu adoravi fare shopping per te stessa, e ancora di più ti piaceva comprare un oggetto per la persona che ti era venuta in mente osservando quell’acquisto. Era bello, il Natale, bello come eri bella tu, che sorridevi come un’ebete ad ogni bambino che ti diceva che da grande sarebbe stato un grande calciatore, e ad ogni bambina che arrossiva sussurrando di voler ballare nei teatri per il resto della sua lunga vita. E chi altri era bello?

Non eri riuscita a fare a meno di pensarlo. Sì, era bello il ragazzo che si era presentato davanti a te all’improvviso, senza avvertire, senza far rumore; che ci faceva lì, quel giovane d’età maggiore rispetto agli altri ospiti? Si perse senza essere andata da nessuna parte, se non nei suoi occhi, nei suoi capelli, nei suoi vestiti; non aveva mai incontrato una persona affetta da albinismo, prima d’allora, e immaginava che fosse per motivi medici – con tutte quelle luci, quel ragazzo non rischiava di diventare cieco? Era completamente vestito di bianco, tanto da sembrare un pupazzo di neve, ed era alto quanto lei; i suoi occhi erano grandi e neri e spalancati e l’iride e la pupilla non si distinguevano quasi per nulla, se non per una sottile sfumatura grigiastra che donava loro un po’ di vita. Era il tassello monocromatico di quella piazza piena di colori, ma non per quello era d’importanza sminuita – piuttosto, era il soggetto più interessante che avevi avuto il piacere d’osservare quella sera, e le altre sere, e mai prima d’allora.

Sapevi di dover essere la prima a parlare – il contratto inesistente che ti incatenava al volontariato te lo ribadiva sempre – ma, oltre ad essere impedita dalla gola improvvisamente secca, non sapevi cosa dire, come iniziare la breve conversazione che avresti dovuto sostenere; che fare, che fare? Salutare, prima di tutto – l’educazione era importantissima.

«Ciao» dicesti, tentando di mostrargli il tuo sorriso migliore. Ma come poteva essere il tuo sorriso sicuro, se eri terrorizzata dall’essere inconsapevolmente stata in silenzio per troppo tempo, avendone perso la cognizione?

«Ciao» ti rispose, e la sua voce era fredda e pungente, ma non era cattiva, tu lo avvertivi, era solo un po’ troppo naturale, senza variazioni, vera come poche tra le tante che avevi ascoltato nei tuoi diciassette anni di vita. Diciassette anni erano pochi, ne eri consapevole, ma a te sembravano così tanti da sentirti una veterana nel campo delle relazioni, tu che ne avevi avute così tante, non d’amore, ma d’amicizia, e mai d’odio, perché tu sapevi di non poter giudicare gli altri, in quanto quel compito spettasse solo al Dio che veneravi sin dalla tua infanzia. Il Bene risiedeva in tutti, e quella convinzione ti permetteva di guardare senza timore tutti i visi che incontravi sul tuo longevo cammino.

«Che regalo hai chiesto a Babbo Natale?» gli domandasti, sperando di essere risultata il più naturale possibile. E invece? Invece eri stata un’infinità di ore racchiuse in un secondo a pensare a cosa dirgli, anche se lo sapevi benissimo – piuttosto, come dirgli ciò che eri in dovere di dire.

«Gli scacchi che hai in mano» fece lui, con in volto l’accenno di un sorriso divertito. E non lo biasimavi, tu, che te l’eri meritato quel piccolo momento di scherno, tu che non t’eri accorta di reggere una scatola; quando te l’avevano data? E quando l’avevi afferrata? Ed era stato un movimento fin troppo meccanico quello di afferrare la scacchiera e non sentirne il peso, seppur leggero?

«Ehm, sì, ecco a te.» Il tuo volto doveva aver assunto una vivace tonalità di rosso, anzi, ne eri sicura, perché, oltre a sentirti andare improvvisamente a fuoco, lui aveva soffocato una risata serrando le labbra sottili e coprendo queste con una mano, mentre con l’altra aveva preso la scatola di scacchi che gli avevi porto con lo sguardo basso. E poi si era allontanato, senza ringraziare, senza salutare; non ti piaceva chi non rispettava l’educazione, ma tu, ancora smarrita, non eri in collera con lui. In quel momento non eri cattiva, ma non eri neanche buona; eri solo una fragile creatura colta da un fiume in piena a cui non sapevi dare un nome – un fiume in cui scorreva il nulla, ma un fiume in cui scorreva il tutto.

E poi le ore erano passate, e con lo scorrere del tempo il sole era tramontato, forse troppo presto, e le tenebre della sera invernale lo avevano sostituito, seppur queste non facessero paura a nessuno, perché accompagnate dalle decorazioni luminose dell’imminente venticinque dicembre, che brillavano come stelle e si riflettevano nei volti sorridenti dei passanti, reggenti buste di varie grandezze e multicolori. Amavi le luci, e lo sapevano tutti, forse anche chi non ti conosceva; ti vedevano da lontano, riuscivano a scorgerti tra la confusionaria folla, piccola luce natalizia, con i tuoi capelli d’oro puro, i grandi fari ch’erano i tuoi occhi e le tue labbra coperte dall’elegante rossetto infuocato, grande mago capace di donare grazia al tuo viso fanciullesco. Chi non avrebbe potuto notare il tuo volto? Questo era la cosa più sensazionale che possedevi – perché era in grado di assumere infinite pose, di accogliere così tanti sentimenti, uno alla volta, tutti insieme, e ti stavano tutti così bene, anche quelli tristi perché i tuoi occhi diventavano ancora più grandi se possibile, e la rabbia si trasformava in tenerezza perché avevi una voce troppo delicata per un’emozione così scoppiettante, ma ti dava fastidio non essere mai presa sul serio.

Camminavi verso l’uscita del centro commerciale seppur le tue caviglie fossero gonfie e stanche – nessuno avrebbe potuto notarlo, poiché erano coperte dai tuoi stivaletti caldi, e tu sapevi nascondere la stanchezza e il dolore perché non ti piaceva quando qualcuno si preoccupava per te; guerriera, tu camminavi a testa alta, schivavi le spallate della gente e chiedevi scusa se eri tu ad urtare qualcuno, e poi ricominciavi a marciare, con la mano nella tasca del cappotto pronta ad estrarre il cellulare per avvertire tuo padre di aver finito il turno, di essere pronta per tornare a casa, di doverti sbrigare perché dovevi studiare la letteratura in lingua e le formule di fisica e gli esercizi di chimica e il progetto di storia e ti faceva male la testa, ma non ti fermavi, era tuo dovere non fermarti, dovevi correre, e tu eri brava a correre, le tue gambe snelle e toniche ti permettevano di scattare come una gazzella, ma non eri veramente una gazzella perciò ne risentivi, ma eri bella lo stesso, anzi di più, perché il respiro affannato dovuto alla troppa corsa era niente in confronto alla soddisfazione che emergeva da ogni tuo sorriso, quando ridevi perché sapevi di avercela fatta ancora una volta e che non sarebbe stata l’ultima, perché tu eri una vincente e, sciocca credente del contrario, lo saresti sempre stata.

I pensieri ti uscivano dalle orecchie perché troppo grossi per quel cranio così ridotto, eppure qualcuno aveva avuto il potere di bloccarli tutti in una volta sola, e tu conoscevi quel qualcuno; in realtà no, non lo conoscevi affatto, ma avresti tanto voluto iniziare a frequentarlo, anzi, a dirla tutta non eri neanche tu in prima persona a volerlo, bensì c’era uno spiritello pettegolo che ti gironzolava attorno da quel pomeriggio e ti sussurrava all’orecchio di immaginare scenari rosa con il ragazzo a cui avevi donato una scacchiera. E il suddetto ragazzo era proprio lì, a pochi metri da te, in compagnia di tre amici, e ti guardava senza timore, senza paura, senza nulla da nascondere; il giovane più alto del gruppo se ne stava ricurvo su se stesso a mangiare una ciambella – o meglio, a leccare via la glassa che la ricopriva –, accanto a lui un ragazzo dai capelli rosso scuro muoveva velocemente le dita sul touch del proprio cellulare e l’ultimo, dai capelli biondi e l’espressione stizzita, osservava il vostro contatto visivo, al cui poi mise fine spingendo l’albino verso di te, come a infondergli la grinta che gli mancava. Il giovane amante degli scacchi barcollò in avanti e, senza neanche accorgersene, si ritrovò sul freddo pavimento opaco della galleria commerciale; fu veloce a rimettersi in piedi, e sul suo volto padroneggiava l’espressione di chi non era a conoscenza del significato del termine vergogna – semplicemente, non era in imbarazzo, al contrario tuo, biondina immobile sul posto, con il tuo acerrimo nemico rossore spalmato sulle tue goti sbarazzine. Fece qualche altro passo verso di te e finalmente ti fronteggiò, senza volgere lo sguardo ai suoi amici neanche una volta – in proposito, dov’erano finiti i suoi compagni d’uscita? –, e ti disse semplicemente, con le dita a giocherellare tra i suoi capelli innevati: «Prima ti ho messa in imbarazzo. Ti posso offrire qualcosa per farmi perdonare?»

E, diamine, quell’occasione non te la saresti lasciata scappare; eri pronta a correre dietro alle altre mille occasioni che quel ragazzo – che poco dopo, in una caffetteria davanti a un rinsanante tè caldo, ti aveva detto di chiamarsi Nate – ti avrebbe presentato, senza lasciarti spaventare dal tremore delle gambe e dalle piacevoli fitte allo stomaco. Corritrice, il tuo cuore sarebbe stato capace di battere ogni record mondiale di atletica leggera e di fissare ben in alto nuovi importanti numeri, così stupefacenti da non poter essere sostituiti da quelli di nessun altro.

Piccolo angelo di Natale, anche tu avevi finalmente ricevuto il tuo regalo; non ti servivano permessi per andare alle feste, riconoscimenti tra le mura scolastiche, la tregua tra le faide o l’arcobaleno dopo una lunga tempesta. Eccolo davanti a te, ciò di cui avevi bisogno, ciò di cui avevi da sempre avuto bisogno – una persona nuova, un incontro casuale, una nuova emozione. L’avevi trovata, quella piccola emozione racchiusa in un tornado, e l’avevi incatenata al tuo petto caldo con dei vincoli resistenti a tutte le intemperie; lo tenevi stretto, quel sentimento senza nome, e ti graffiavi le mani e le braccia, ma a te non importava – sapevi ne sarebbe valsa la pena.

Tu, anima pura, eri tu a valerne la pena, sempre. E neanche lo sapevi.

  
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