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Autore: _Rosaliss_    01/12/2018    2 recensioni
Un paesino solitario lontano nel tempo, una comunità affiatata ma chiusa e una ragazza che decide di rompere lo status quo. E le buffe vicende che seguono.
Genere: Comico, Generale, Satirico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Lo scandalo di Camilla




   A San Silvestre, il periodo più importante era senza dubbio quello di Pasqua. Per tutto l’anno gli abitanti si preparavano per la celebrazione della Settimana Santa, e non importava il grado di fede: si poteva saltare qualsiasi Messa, ma non quella di Pasqua.
   A ogni bambino del catechismo veniva dato un ruolo da interpretare durate le varie celebrazioni: alcuni recitavano la parte degli abitanti di Gerusalemme per la Domenica delle Palme, altri gli apostoli durante la rappresentazione dell’Ultima Cena di Gesù, altri ancora venivano incaricati della preparazione delle varie stazioni della Via Crucis. I ragazzi della Cresima, i più grandi, ricoprivano i ruoli più importanti, come l’Angelo annunciatore e lo stesso Gesù Cristo. I bambini di quarta elementare, che presto avrebbero fatto la Prima Comunione, non stavano più nella pelle nell’attesa della lavanda dei piedi del Giovedì Santo, che li avrebbe ufficialmente riconosciuti come grandi agli occhi dei compagni più giovani. Vi era, poi, una profusione di angeli, di tutti i colori e le età. Il ruolo di angelo era dato ai bimbi più piccoli, che non erano in grado di imparare alcuna parte, ma anche ai giovani già cresimati e a qualche adulto. A San Silvestre gli angeli erano inseriti in ogni festività, dalla Pasqua al Natale, passando per le Comunioni e il Giorno dell’Immacolata.
   Di angeli, insomma, non si era mai a corto, e proprio da angioletta era vestita Camilla Sartori in quella particolare Domenica di Pasqua.
   Camilla era figlia del medico di San Silvestro, la maggiore di tre sorelle. Brillante ed educata, Camilla era amata da tutti gli abitanti del paese, che ne decantavano chi la bellezza chi la testa sulle spalle. A diciannove anni compiuti da poco, la ragazza era una giovane promessa: il padre sognava di assumerla nel suo studio come infermiera e tutti le si rivolgevano con l’appellativo affettuoso di dottoressa Sartori.
   Camilla era, in poche parole, la pupilla dell’intero paese, destinata a grandi cose con la sua serietà e il suo impegno. Per questo ai paesani per poco non venne un infarto collettivo quando, tra le esclamazioni: «È risorto, è risorto!» di fine Messa, l’angelo Camilla gridò: «Mi sposo!»

 

 

   «Ti sposi?» ruggì il dottor Sartori. «E con chi?»
   Dietro a lui, l’intero paese osservava Camilla con tanto d’occhi, mentre il parroco tentava di fare aria alla povera Maria Rosa Zamboni in Sartori, moglie del dottore e madre della ragazza, con il foglietto della Messa. La chiesa era immersa in un silenzio così profondo da battere anche quello che aveva seguito l’annuncio della morte di Gesù nella celebrazione della Passione. L’unico movimento era lo sventagliare furioso del prete, che mormorava mute preghiere al Cielo.
   In questo silenzio, la risposta di Camilla si udì chiara e forte: «Con Manuel Gori.»
   La madre si lasciò andare tra le braccia del prete con un ultimo ansito. I fedeli, di pietra fino ad un attimo prima, esplosero in una cascata di voci e preghiere. La vecchia perpetua si fece veloce il segno della croce e si mise a recitare il rosario sottovoce.
   Il dito indice del dottor Sartori si alzò e puntò dritto verso il volto calmo di Camilla. Nascosti dietro quel dito feroce, i baffoni del medico tremavano per l’ira. «Tu non puoi…»
   Goccioloni di sudore iniziarono a scendere sul volto rugoso. I presenti tacquero di nuovo, troppo presi dalla tragedia familiare che si stava consumando davanti a loro per commentarla con i vicini.
   «Tu… tu…non puoi…»
   «Io posso» disse serenamente Camilla. «E lo farò.»
   L’urlo di Maria Rosa si levò alto nella chiesa, fermando i mormorii sconcertati prima ancora che nascessero.
   «Don Paolo, don Paolo» gemette la donna, afferrando con entrambe le mani il paramento bianco dell’atterrito sacerdote. «Don Paolo, dovete aiutarmi voi! Parlate con questa mia scellerata figlia! Riportatela sulla retta via! Scacciate i demoni che si sono impossessati del suo corpo e della sua mente! Don Paolo, aiutatemi!»
   Don Paolo si liberò gentilmente dalla stretta della signora Zamboni e si diresse verso Camilla. Le cinse le spalle con le braccia e tossicchiò con fare impacciato, sentendo lo sguardo dei suoi parrocchiani addosso. «Ah… Camilla, bimba mia… Parliamone.»
   La ragazza non si sottrasse dall’abbraccio del prete, ma incrociò le braccia al petto. «Non c’è niente da dire, don.»
   «Ragazza mia, capisco che sei in buona fede, ma non vedi il dolore che provochi nei tuoi poveri genitori con il tuo comportamento avventato? Su, su. Capisco che tu non ne voglia parlare qui davanti a tutti. Perché non ne discutiamo insieme in canonica?»
   «Gliel’ho già detto, padre» proseguì imperterrita Camilla. «Non abbiamo nulla da discutere. Nulla, comunque, che non possa essere detto tranquillamente davanti a tutti.» Lisciandosi serenamente un’ala del costume, la ragazza si fece avanti. Non le servì richiamare l’attenzione dei fedeli: gli occhi di tutti erano già fissi su di lei.
   «Miei cari amici» disse Camilla, scandendo bene le parole perché tutti potessero sentire. «Devo darvi un annuncio. Domenica prossima mi unirò in matrimonio con Manuel Gori. È già tutto deciso e non c’è niente che possiate fare per impedirmelo. Buona Pasqua a tutti.»
   Le preghiere della perpetua aumentarono di volume, mentre un nuovo urlo di Maria Rosa riempiva la chiesa.

 

 

   Nei giorni seguenti, l’intero paese si recò in visita a casa Sartori. Uno alla volta, i paesani si accomodavano in salotto, offrivano una torta di mele e una carezza alla padrona di casa, una pacca sulle spalle al medico e raccomandazioni alle figlie perché evitassero di seguire il comportamento della sorella maggiore. Compiuti questi rituali, il sansilvestrino di turno si ritrovava seduto sul divano ad ascoltare da una piangente Maria Rosa come la vita della figlia fosse finita prima ancora di cominciare, mentre il marito, relegato sulla poltrona, borbottava frasi sconnesse riguardanti il farsi gli affari propri.
   Le sorelle di Camilla, dal canto loro, erano interessate a tutt’altro lato della faccenda, e riempivano la maggiore di domande sul fidanzato e sui dettagli della cerimonia. Le due giovani, rispettivamente di diciassette e quindici anni, avevano in quei giorni maturato una necessità improvvisa di relazionarsi con la sorella, iniziando a seguirla ovunque ella andasse, soffocandola con dubbi riguardanti l’universo maschile e i suoi misteri.

 

 

   Essendo San Silvestre un minuscolo paesino arroccato sulla cima di un piccolo monte, immerso nella campagna e distante un paio d’ore a piedi da qualsiasi altro luogo abitato da creature diverse dalle pecore, il matrimonio precoce di Camilla fu fonte inesauribile di pettegolezzi.
   Da ogni angolo del paese salivano gli stessi bisbigli: “Camilla… Manuel… sconsiderata… teatranti…”.
   Lo scandalo più grande non lo dava il matrimonio in sé, quanto lo sposo scelto dalla ragazza. Manuel Gori era un giovane di circa ventidue anni, alto e avvenente. Il viso pallido era incorniciato da morbidi riccioli scuri e dominato da due occhi profondi, che talvolta splendevano come due lucide pietre nere e talvolta bruciavano come due tizzoni ardenti. Nessuno poteva sfuggire a quegli occhi scuri, che sembravano scandagliare le anime delle persone e catturarne i più profondi segreti. Di certo non vi era sfuggita Camilla.
   Nonostante la soggezione provocata da quegli occhi indagatori, Manuel era considerato da tutti un giovane di amabili modi e acuta intelligenza. Salutava sempre tutti con gentilezza, aiutava le vecchiette a portare la spesa a casa, giocava con i bambini in piazza e, soprattutto, teneva per sé i segreti che riusciva a carpire con lo sguardo.
   E Manuel sarebbe stato sicuramente molto amato dagli abitanti di San Silvestre, se solo non avesse avuto tre terribili difetti: era forestiero, lavorava come attore in una compagnia senza un soldo e, più imperdonabile di tutti, era ateo.

 

 

   E mentre le malelingue si scatenavano contro il futuro sposo e la zia di Manuel si vedeva additata come colpevole per aver ospitato in casa quel suo nipote toscano senza cervello, in casa Sartori sembrava essere scoppiato il finimondo.
   Il salotto era stato prescelto come cuore della casa e svolgeva ora la funzione di pista d’atterraggio per oggetti di tutti i tipi che volavano da una parte all’altra, di camera d’ospedale per la povera madre, autoproclamatasi malata terminale, e di centro di ricevimento per gli ospiti che continuavano ad arrivare. Ormai non vi era più, nell’intera cucina, una superficie libera dalle torte che avevano preso il possesso della casa, relegando i membri della famiglia e i loro ospiti al sopraccitato salotto, in cui, per la cronaca, gli oggetti continuavano a volare.
   Come se non bastasse, gli zii di Camilla arrivarono di corsa, accompagnati da qualche altra decina di torte di mele, per convincere la nipotina a desistere dal suo proposito.
   «Pensa al tuo futuro!» Era questa la frase che, da qualche giorno, Camilla si sentiva ripetere più spesso. «Pensa al tuo futuro! Come farai a proseguire gli studi essendo sposata a quell’attoruncolo?»
   Le accuse contro Manuel erano il secondo argomento dei suoi parenti.
   «Un buono a nulla, uno straccione senza soldi! Venuto fin qui per distruggere la vita della nostra povera figliola! Portatore di zizzania, ecco cos’è! E per giunta non timorato di Dio!»
   A quest’affermazione, tutti nella stanza si facevano un rapido segno della croce.
   «Come puoi, bambina? Gettare al vento la tua vita, i nostri sforzi… così… per un teatrante
   La parola teatrante veniva sempre sputata con disgusto e riluttanza, ed era anch’essa seguita da un segno della croce, neanche fosse la più vile delle bestemmie.
   Maria Rosa accompagnava le prediche dei parenti annuendo e singhiozzando. Perché sembrava essere diventata la sua parola preferita. Perché un attore, perché un non credente, perché un toscano che certo l’avrebbe portata via da loro, un forestiero che non seguiva le leggi non scritte di San Silvestre. E poi la sua preferita: «Perché dovevi dirlo proprio a Pasqua?». Quasi come se, in un qualunque altro giorno, sarebbe andato bene.
   In tutto questo marasma, Camilla era rimasta imperturbabile. Era sorda ai rimproveri dei parenti e alle suppliche della madre. A nulla servirono le minacce del padre o l’acqua santa che don Paolo, seguito da una corte di chierichetti e suore, spargeva a ogni ora davanti a casa Sartori.
   Anche chiuderla a chiave in camera si rivelò inutile: Camilla riuscì a sgattaiolare fuori dalla finestra e trascorse il tempo che la divideva dal giorno delle nozze abbracciata a Manuel nel retro della bottega della zia, troppo presa da migliori passatempi per badare alle urla della madre, che si udivano fino a lì.

 

 

   La settimana passò e arrivò domenica. Per impedire ai due fidanzati di lasciare San Silvestre, il dottor Sartori aveva chiesto a chiunque possedesse un’automobile di non lasciarla incustodita, a disposizione di Manuel, e aveva posto degli amici a fare la ronda per le vie del paese.
   Inutile dire che gli accorgimenti del medico si rivelarono vani. Camilla scivolò fuori di casa a notte fonda, raggiunse il fidanzato alla bottega della zia e, in compagnia di quest’ultima, si mise in cammino verso la città.
   Vi giunsero che ormai era mattina inoltrata. La zia dello sposo portò Camilla a casa di un’amica che viveva lì e la preparò per la cerimonia, mentre il ragazzo aspettava in comune, già pronto.
   I tre non si erano però accorti che qualcuno li aveva seguiti. Le sorelle di Camilla, che non avevano chiuso occhio per tutta la notte, perse nei loro sogni di abiti bianchi e amori proibiti, avevano visto la ragazza fuggire dalla finestra e avevano deciso di andare con lei. Fu così che il medico di San Silvestre, attento a non perdere la figlia maggiore, ne aveva lasciate scappare altre due.
   Il matrimonio venne celebrato quella stessa mattina dal sindaco della città e vi assistettero la zia di Manuel, la sua amica, le sorelle di Camilla e un paio di passanti incuriositi, più alcuni dipendenti comunali assunti sul momento come testimoni.
   Chi vi assistette dichiarò che quella fu una bellissima giornata, con un’unione sentita, un’atmosfera intima e un delizioso rinfresco dopo la cerimonia. Dissero che il vestito della sposa era semplice e stupendo, che Manuel non era mai stato così carino in nessuno dei suoi numerosi abiti di scena, che i presenti erano tutti commossi. Questo si disse, ma a San Silvestre la notizia fu accolta come il peggiore bollettino di guerra, con pianti e striscioni neri fuori dalle case.
   Il lutto generale durò per parecchie settimane, e per molti mesi non si parlò d’altro. I pazienti del dottor Sartori presero l’abitudine di portare sempre un piccolo pensiero quando andavano nello studio, chi dei cioccolatini, chi un fiore, chi l’indirizzo di qualche apprendista infermiera, visto che Camilla non era più a disposizione. Le amiche di Maria Rosa si rivolgevano a lei con la delicatezza che si riserva a chi ha subito una grande perdita, tocchi gentili e occhi pieni di lacrime. Il nome di Camilla veniva sussurrato solo dopo il calare del sole, e mai nei giorni di sacri al Signore, ma le occhiate che i paesani si scambiavano quando passavano davanti a casa Sartori erano più che eloquenti.
   Quanto alla casa in questione, dal giorno della partenza di Camilla l’atmosfera al suo interno si era fatta pesante e fredda, quasi insostenibile. Il dottor Sartori, che agiva sempre secondo la logica “con me o contro di me”, aveva preso la partecipazione delle figlie minori al matrimonio della maggiore come una dichiarazione di guerra. Le due giovani venivano trattate dal padre come delle traditrici e delle criminali, ed era raro che l’uomo si rivolgesse a loro, se non per impartire qualche ordine brusco o rimproverarle per sgarri immaginari.
   D’altro canto, egli non voleva nemmeno che le ragazze finissero sulla stessa strada di Camilla. Per assicurarsi che questo non avvenisse, aveva deciso di tenerle rinchiuse in casa, lasciandole uscire solo accompagnate dalla madre e sistemando delle sbarre alle loro finestre.
   Per il resto, l’intera famiglia si comportava come se Camilla non fosse mai esistita. Tutti gli oggetti che le erano appartenuti e che erano rimasti a casa Sartori erano stati messi nella sua stanza e la porta chiusa a chiave. Nessuno si azzardava a pronunciare il suo nome o parlare di lei o di quel mascalzone di suo marito. La sua presenza era comunque nell’aria, e la si poteva avvertire la sera, quando tutti si chiudevano nelle proprie stanze, le ragazze a parlare di Camilla e scriverle lettere segrete, Maria Rosa a piangere sui suoi guai e il dottor Sartori a fumarsi una sigaretta alla finestra, inspirando profondamente e con una certa tristezza il fumo biancastro.
   Passarono i giorni, le settimane e i mesi. Dopo un anno, di Camilla non si erano più avute notizie, eccezion fatta per le lettere che le sue sorelle ricevevano regolarmente all’insaputa dei genitori e che tenevano nascoste nelle federe dei cuscini.
   Gli abitanti di San Silvestre, che nei primi tempi si erano nutriti con avidità dello scandalo, ne avevano accennato sempre meno, fino a smettere completamente di parlarne. Camilla continuava a vivere nell’immaginario comune come una figura leggendaria, come uno dei loro numerosi e amati santi, di cui tutti conoscevano la storia ma che ricordavano solo una volta all’anno, nel giorno della loro festa.

 

 

   Il secondo periodo più importante dell’anno, a San Silvestre, era quello di Natale. Come accadeva per Pasqua, l’intero paese partecipava. Il bambino e la bambina più grandi del catechismo si vestivano da Giuseppe e Maria e si sedevano sugli scalini dell’altare accanto a un bambolotto adagiato su una piccola mangiatoia, circondati da pastori e dalla solita profusione di angeli.
   Fu proprio nella notte di Natale, a un anno e mezzo dalla sua fuga, che Camilla tornò. Mentre i fedeli intonavano inni di gioia e gli angioletti più piccoli agitavano vecchi campanelli tirati a lucido per l’occasione, il pianto di un neonato si alzò dalla folla. All’inizio la gente fece finta di niente, impegnata a cantare più forte e con più stonature degli altri. Ma quando, dopo un paio di minuti, il pianto non era ancora cessato, i sanselvestrini iniziarono ad agitarsi tra le panche, guardandosi attorno alla ricerca del cattivo vicino che non faceva stare zitto il proprio pargolo durante i canti al Signore.
   La prima a vedere Camilla fu la perpetua, la stessa che, due Pasque prima, aveva reagito alla notizia del matrimonio tirando fuori il rosario e pregando che quella cara figliola recuperasse il senno.
   L’anziana donna, che si era allontanata dal suo amato posto al primo banco per trovare e zittire la fonte di disturbo, alla vista di Camilla trattenne un urlo e si aggrappò con tutte le sue forze al fedele rosario. La ragazza era ritta in piedi accanto alle porte della chiesa, vestita a festa e con un sorriso tra il divertito e il malizioso stampato in faccia. Al suo fianco, con una giacca elegante anche se vecchia e un’aria confusa, stava Manuel Gori.
   Il dettaglio più incredibile, quello che aveva fatto tirare fuori il rosario alla perpetua, era il fagottino che Camilla teneva in braccio, da cui proveniva un singhiozzare potente e tenace.
   Il secondo a vedere Camilla fu il parroco, che dal suo pulpito aveva osservato gli spostamenti della perpetua. Occhi sgranati e gola secca, don Paolo si chinò verso il pubblico e mormorò qualcosa di confuso. Nel frattempo il canto degli angeli, e insieme ad esso il pianto del bambino, si era concluso, e gli astanti guardavano in silenzio il sacerdote, in attesa che recitasse qualche preghiera. Ma quello rimaneva fermo, occhi aperti e puntati sul fondo della chiesa, a balbettare.
   «Che dice?» chiese una vecchina in prima fila alla vicina.
   «Cosa borbotta?» domandò il panettiere alla moglie.
   «Cosa dice?» si chiesero tutti.
   Il maestro elementare, che si trovava sull’altare vestito da angelo, si avvicinò a don Paolo e tese l’orecchio. Quando captò la parola che continuava a ripetere, sbiancò in volto e si voltò verso il punto che il prete stava guardando. «Camilla!»
   La chiesa si congelò un istante nel silenzio, prima di esplodere.
   «Cosa?»
   «Camilla? Quella Camilla?»
   «Impossibile.»
   «Inaudito.»
   «Non può essere. Sarà un’altra Camilla.»
   Invece non era un’altra Camilla. Era proprio lei, la figlia del dottor Sartori, la giovane pupilla del paese, che era fuggita qualche tempo prima con quell’attore toscano che abitava sopra la bottega.
   Maria Rosa si alzò dalla panca su cui era seduta, imitata dal marito e dalle figlie, ma non si mosse. Fu il dottor Sartori ad avvicinarsi a Camilla. Lei gli sorrise e gli mostrò il neonato. Il dottore esitò un attimo prima di prenderlo in braccio, ma, quando lo fece, si lasciò scappare una risata. Il piccolo gli venne rubato da Maria Rosa, comparsa all’improvviso accanto a lui, che prese a cullare e sbaciucchiare il nipotino. Il dottor Sartori fu quindi libero di abbracciare la figlia e il genero, che rispose battendogli goffamente una mano sulla spalla.
   La chiesa esplose in grida di giubilo e tutti si ammassarono all’ingresso, cercando di vedere il bambino, facendo domande sul nome, il sesso, lo stato di salute. Dal pulpito, don Paolo gridò: «Alleluia, alleluia!» e ordinò ai bambini del catechismo di portare immediatamente delle ali da angelo a Camilla. Poi scese dall’altare, prese delicatamente il neonato dalle braccia della nonna e lo alzò trionfante. «È nato!»
   «È nato!» ripeterono gli astanti.
   «È nato» sussurrò Camilla, tra le braccia del marito e della sua comunità.



Note dell'autrice: Dunque! Ho iniziato a scrivere questa storia circa due anni e mezzo fa, ma per qualche ragione l'ho lasciata incompleta proprio sul finale - che sapevo già come fare, tra l'altro - e l'ho finita solo un paio di settimane fa. E ho deciso di pubblicarla. EFP è ancora vivo?

 

   
 
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